Il prezzo del frumento ed i due prezzi del pane
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/02/1920
Il prezzo del frumento ed i due prezzi del pane
«Corriere della Sera», 14 febbraio[1]; 20 marzo: 2[2], 11[3] e 30 aprile[4]; 8 maggio[5]; 7[6] e 9[7] giugno; 11[8] e 16[9] novembre 1920
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp.612-642
I
Prezzo basso del frumento e aumento di produzione sono inconciliabili
Dopo che un monito severo venne dal segretario al tesoro degli Stati uniti e cominciò in Europa, propagandosi fino all’Italia con movimento accelerato, il rialzo impressionante del cambio, il governo, per bocca degli on. Nitti e Schanzer, ha ricominciato ad impartire consigli molto savi ed a preannunciare provvedimenti rigidissimi. L’Europa si trova di fronte ad una vera carestia di carbone, di ferro e di alimenti. L’America non vuole più assolutamente aprirci alcun credito. Bisogna razionarci nuovamente, ridurre i consumi. Bisogna produrre in casa le derrate di cui abbiamo bisogno. Col carbone fossile, il quale viene ora a costarci 600 lire la tonnellata ossia 60 centesimi il kg, appena un terzo meno del prezzo a cui il governo vende il pane; e col pane il quale dicesi costi persino – voglio sperare si tratti solo di talune recentissime partite estere – 3 lire il kg, mentre è venduto a 90 centesimi, le prospettive sono invero poco rallegranti.
Ridurre i consumi ed aumentare la produzione: ecco il monito governativo ed ecco altresì un problema pressoché insolubile finché i prezzi sono in squilibrio. Come si può ridurre il consumo del frumento; come ridurlo anche soltanto ad un livello uguale a quello medio del periodo 1913-14 a 1917-18, quando si mantiene il prezzo del pane ad un livello uguale a meno della metà del costo e dei prezzi liberi sui mercati internazionali? Le importazioni di frumento e di farina si sono comportate così per le ultime campagne (1 agosto-31 luglio, in migliaia di quintali):
Dal 1913-14 a 1917-18
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1918-19 |
1919-20
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Frumento: | |||
Totale campagna | 16.578 | 20.319 | – |
Primi quattro mesi: 1 agosto-30 novembre | 4.081 | 6.145 | 7.140
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Farina di frumento: | |||
Totale campagna | 1.142 | 3.835 | – |
Primi quattro mesi: 1 agosto-30 novembre | 218 | 1.369 | 1.041
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Nel complesso, notasi un incremento notevolissimo, dopo l’armistizio, in confronto ai quattro anni precedenti, di cui tre erano già anni di guerra, in cui il consumo del frumento, malgrado il tesseramento, erasi notevolmente accresciuto.
Adesso si vuole, pare, nuovamente razionare e tesserare in modo severo, perché si vede l’importazione crescere in modo preoccupante ed i paesi produttori ci hanno già sospeso ogni credito sono parole testuali dell’on. Nitti al senato – a partire dal settembre scorso; e non si sa come fare a pagare l’occorrente per l’alimentazione degli italiani.
Certamente, la situazione è grave. Ma siccome in qualsiasi contingenza importa che i rimedi siano efficaci, così bisogna osservare che razionamento e tesseramento, congiunti con un prezzo che rende il pane l’alimento più a buon mercato esistente nello stato, provocano piuttosto aumenti che diminuzioni di consumo. Il razionamento e la requisizione spaventano il contadino, che nasconde il grano, denuncia raccolti bassi – le cifre ufficiali del raccolto devono essere sbagliate in meno per parecchi milioni di quintali – ; e spingono il cittadino a comprare e consumare tutta la quantità a cui ha diritto. Il prezzo basso fa sì che, a parità di peso, il pane valga, se se ne deduce l’umidità, quanto il carbone; e, altrettanto incredibile a dirsi, valga meno del fieno in parecchie regioni d’Italia; ed è perciò causa di grandissimo spreco di pane e di farina. Il consumatore, per cui il pane, come la casa, è la spesa meno importante in un bilancio in lire cresciuto del 200 o del 300%, non lo utilizza convenientemente; il contadino compra a sacchi il pane per darlo da mangiare agli animali da ingrasso; e cerca di non consegnare il frumento al governo a 7 lire per poterlo trasformare in carne, la quale gli viene pagata a prezzi assai più remunerativi. Avremo carne in copia, fra qualche tempo; ma frattanto si aggraverà sempre più la crisi dell’alimentazione-base, che è quella frumentaria. È inutile andar cercando poteri straordinari per ridurre i consumi: il prezzo di stato di 90 centesimi per il pane, il quale significa, ai corsi attuali della lira, un prezzo di 31 centesimi in oro attuale e, data la diminuita potenza d’acquisto dell’oro medesimo, equivale forse ed al massimo ad un prezzo di 20 centesimi di primi della guerra, provoca il rialzo del consumo e lo spreco. In regime d’imperio ed in una condizione di timidità dei governi a lasciar andar su il pane ad un prezzo uguale al costo, il problema della riduzione del consumo è insolubile. Ogni tentativo di risolverlo non può che aggravare la soluzione.
Lo stesso accade per l’aumento della produzione.
Qui, in apparenza, qualcosa si è fatto per aumentare il prezzo ed allettare i produttori a produrre. Ecco, nelle monete originali dei singoli paesi, i prezzi del frumento in Italia e nell’America del nord il 9 gennaio del 1914 e del 1920:
9 gennaio 1914 |
9 gennaio 1920 |
Aumento % | |
Italia: | |||
Frumento tenero nazionale a Genova, in lire per quintale | 26,37 | 77,40 | 190 |
Canadà: | |||
Northera n. 1 a Winnipeg, in cents per bushel | 81,6 | 280 | 239 |
Stati uniti: | |||
Northera n. 1 a Minneapolis, in cents per bushel | 87,2 | 305 | 249
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L’aumento in Italia fu minore che negli altri paesi; ma non di troppo. In apparenza, il governo ha offerto prezzi non dissimili da quelli offerti dal mercato libero o garantiti dai governi nei paesi produttori ed esportatori.
Ma il confronto, esposto nelle monete dei singoli paesi, non ha alcun significato. La moneta del 1914 non è la stessa cosa della moneta del 1920; essa si è rattrappita come unità di misura e per ottenere lo stesso effetto di stimolo alla produzione, ci vogliono molte più lire ed anche più cents di dollaro di prima. Per permettere i confronti, ho ridotto i prezzi dei paesi ad un’unica unità di misura: la lira-oro. Non monta chiarire il procedimento tenuto. Guardiamo per ora soltanto ai risultati (in lire-oro per quintale di frumento):
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1920 |
% | |
Italia | 25,82 | 27,16 | 5 |
Canada | 16,10 | 44,75 | 177 |
Stati uniti | 16,60 | 52,50 | 216 |
Vedasi quanto sia marcata la differenza. Nel Canada e negli Stati uniti il mercato (e per quello che si riferisce alla garanzia di un minimo, anche il governo negli Stati uniti) stimolò i produttori a coltivare frumento offrendo un prezzo in oro superiore del 177 e del 216% a quello di prima. Fu necessario offrire di più di prima, anche in moneta d’oro, se si volle salvar l’Europa dalla carestia durante e dopo la guerra; perché la moneta d’oro in questi anni andò, pur essa, notevolmente svilendosi. L’inondazione della cartamoneta in Europa fece rifluire l’oro negli Stati uniti, in modo tale che, trovandovisi in abbondanza, anch’esso vi è svilito. Fu giuocoforza però offrirne di più, nientemeno che il 177 e il 216% di più, per indurre gli agricoltori a produrne come e più di prima. Altrimenti, essi avrebbero ristretto la cultura del frumento ai terreni più fertili; ed avrebbero ampliate altre culture, non così urgenti, come quelle destinate alla produzione della carne, o del cotone, o delle frutta; od avrebbero disertato i campi per le officine.
Produrre, non è mai una operazione di carattere assoluto, ma relativo. Si produce una merce piuttosto che un’altra non perché la prima rende, ma perché essa rende più dell’altra. In Italia non ci siamo mai voluti persuadere di questa verità; ed oggi il frumento è tenuto per atto d’imperio ad un prezzo – in oro – su per giù uguale a quello dell’anteguerra. E poiché l’oro val meno di prima, la cultura del frumento in molte plaghe d’Italia è poco remunerativa. Il contadino preferisce dar tutte le sue cure alla vigna, alla canapa, al pomodoro, al prato; ovvero anche preferisce venire in città, perché guadagna di più. Finché durano invariati i prezzi d’imperio dei cereali, anche l’invito a produrre maggior copia di cereali è destinato a rimanere lettera morta. Il problema della maggior produzione, dato il punto di partenza di prezzi squilibrati, è insolubile quanto quello del minor consumo.
II
I due prezzi del pane
La questione dei due prezzi del pane comincia ad essere seriamente discussa dal governo. Un passo verso la soluzione è già stato fatto, nel senso che prima si affermava essere impossibile fissare due prezzi per il pane ed ora ci si contenta di dire che la cosa è difficile.
Difficile lo è sicuramente. Ma la perdita di 400 o 500 milioni al mese per la vendita quasi gratuita del pane pone problemi ben altrimenti complicati. Non c’è purtroppo modo di sfuggire alle difficoltà, le quali sono riposte nelle cose.
Il duplice prezzo può essere stabilito in due maniere: o distinguendo d’autorità la classe a cui il pane dovrà continuare ad essere venduto quasi gratuitamente al prezzo di 1 lira per chilogrammo e quella a cui il pane sarà venduto al prezzo libero da 2,50 a 3 lire; ovvero lasciando che ogni consumatore si ascriva liberamente a sua scelta all’una o all’altra categoria.
Il primo metodo è impossibile ed ingiusto. Impossibile perché non esiste nessun mezzo per distinguere quelli che possono da quelli che non possono sostenere un aumento di prezzo nel pane. L’unico criterio corretto sarebbe di assegnare alla categoria di quelli che possono pagare solo 1 lira tutti coloro il cui reddito non supera un certo minimo. Ma nulla si sa in proposito; e probabilmente si finirebbe per mettere da una parte i cosidetti «proletari» e dall’altra i borghesi. Sarebbe una iniquità senza nome, perché la maggior parte dei cosidetti proletari ha redditi superiori a moltissimi appartenenti al ceto medio. Con salari da 10 a 20 lire al giorno, e con due o tre salariati per famiglia, sono numerose le cosidette famiglie proletarie il cui reddito annuo tocca le 15 e le 20 mila lire. Dovrebbero costoro pagare il pane a 1 lira; mentre tanti borghesi, vecchi, pensionati, vedove con bambini, che tirano la vita coi denti, con 2 o 3 mila lire all’anno, sarebbero costretti a pagare 3 lire? E ciò in aggiunta allo scandalo per cui i piccoli risparmiatori sono aggravatissimi di imposte schiaccianti, mentre i «proletari» con 15-20 mila lire di reddito si vantano di non pagare un soldo di imposte sul reddito?
Il solo metodo tollerabile è quello della libera scelta lasciata ai consumatori. Ognuno si ascriva alla categoria da lui prediletta, a quella dei mangiatori di pane scuro ed a forme grosse ad 1 lira od a quella delle pagnottelle bianche e soffici o del grissino a 3 lire. Assisteremo a fatti curiosi ed interessantissimi. Può darsi che i rapporti sociali appaiano rovesciati e che il pane scuro sia consumato solo dai borghesi. Non monta. L’esperienza sarà tanto più istruttiva quanto più sarà il risultato della libera scelta dei consumatori.
Certamente il metodo non può essere usato senza cautele. Non potendosi passare d’un tratto dal sistema del vincolo a quello della libertà assoluta dei prezzi, occorrerà rimettere in vigore le tessere; anzi farle osservare più rigidamente di prima. Nessuno potrà comperare pane in più del quantitativo assegnatogli. Tutti dovranno un po’ di tempo prima dichiarare quale tessera si desidera, se quella del pane ad lira o queIla del pane a prezzo libero. Sia lecito al capo di famiglia chiedere la tessera di una specie per qualche membro della famiglia e quella di un’altra specie per altri membri della famiglia; potendo invero variare le condizioni di salute da una persona ad un’altra. Ognuno debba indicare presso quale fornaio intende approvvigionarsi; ed i fornai siano distinti in due categorie, per le due qualità di pane; e ad essi sia fatta assegnazione di farina in relazione al numero degli iscritti. In tal modo i fornai da 1 lira non potranno cedere la farina ai fornai liberi; ed i clienti dei primi saranno sicuri di trovare il pane. Lo stato fornisca la farina soltanto ai fornai del pane a sotto prezzo. Per gli altri provveda il libero commercio. Il metodo non è semplice e recherà qualche fastidio. Ma è il costo necessario del tentativo, che deve essere assolutamente fatto e condotto a buon fine, di far cessare lo scandalo di far pagare 1 lira ciò che costa allo stato 3 lire e ciò che moltissimi consumatori possono pagare a 3 lire.
III
Il prezzo politico del pane e il disavanzo
L’ordine del giorno votato all’unanimità alla camera ha risoluto la questione dell’aumento del prezzo del pane in questo senso: che «dovrebbe essere mantenuto il prezzo politico del pane a favore delle classi lavoratrici già duramente colpite dalla guerra» e che evidentemente possa essere aumentato il prezzo per le classi non lavoratrici e non disagiate.
Quanto ai mezzi con cui provvedere al vuoto di bilancio di parecchie centinaia di milioni di lire al mese derivante dal mantenimento del prezzo politico, la camera ha respinto un ordine del giorno Matteotti il quale chiedeva l’effettiva decurtazione del patrimonio dei ricchi e la confisca dei sovraprofitti di guerra, e ha votato, assenziente il governo, il seguito dell’ordine del giorno del socialista Casalini, il quale, interpretato dall’on. Meda, pare significhi che gli oneri derivanti dalla vendita in perdita del grano e del pane debbano cadere esclusivamente sui ricchi e più specialmente sugli arricchiti di guerra. L’ordine del giorno è elastico, ma è sovratutto privo di senso comune perché non si colma una perdita continuativa, che è ora di 500 milioni di lire al mese e che potrà diminuire inasprendo il prezzo del pane per i non disagiati, ma potrà aumentare se crescerà ancora il cambio, con imposte sull’arricchimento di guerra, le quali, per quanto si faccia, daranno gettiti inferiori al fabbisogno.
Quante volte bisogna ripetere che le grandi fortune fanno gran baccano, ma, essendo poche, danno molto meno miliardi delle piccole e che le imposte sui sovraprofitti di guerra e sugli aumenti di patrimonio esistono già e vanno già, in complesso, quasi fino al 90% dei guadagni di guerra; e che se si aumentasse l’aliquota sino al 100% bisognerebbe, per evidenti ragioni di giustizia, concedere la sottrazione almeno di una piccola somma, a titolo di salario per gli industriali arricchiti, per tutto il periodo della guerra? E bisogna ripetere che se si fa questo, quel 10% se ne va in fumo e al di là. La questione della tassazione dei guadagni di guerra non è di legge e di aliquote che vi sono già, ma di personale tassatore che non c’è , e di collaborazione del pubblico, che grida sui giornali e alla camera e non si fa vivo nelle agenzie delle imposte.
Ritornando al punto sostanziale, il problema del pane oggi può essere impostato così: bisogna dividere i consumatori di pane in due classi: i lavoratori e i disagiati ai quali bisogna mantenere il prezzo politico o a sotto costo, e gli altri, a cui si può far pagare il prezzo di mercato.
Una classificazione di autorità non si può fare in maniera accettabile e giusta, se si mantiene una qualità unica per il pane. La classificazione coattiva si risolverebbe in una burla improduttiva se, ad esempio, si ascrivessero nelle categorie alte coloro che risultino allo stato possessori di redditi superiori al minimo. L’unico mezzo per conoscere il reddito sono le imposte. Orbene, è noto come le imposte attuali siano incapaci a fornirci notizie sul reddito complessivo delle famiglie. Soccorrerà all’uopo l’imposta sul reddito, la quale andrà bensì in vigore l’1 gennaio 1921, ma sino alla fine del 1921 non potrà fornirci i dati primi essenziali.
Possiamo attendere due anni per avere la lista di coloro che dovrebbero pagare il pane caro? Per fare in fretta ricorreremo all’imposta di famiglia, ai ruoli di ricchezza mobile, ecc. ecc. Su 3 milioni di italiani non si giungerà al milione come totale di coloro che dovranno pagare il pane a prezzo alto; e ciò nell’ipotesi più favorevole, più straordinariamente favorevole. Val la pena di tanto baccano per un così misero risultato? Per crescere la cifra oserà il governo far fare lo spoglio delle denuncie delle paghe operaie ai fini dell’assicurazione infortuni? Oserà mettere in luce che tutta la campagna contro le due qualità di pane è una montatura ipocrita sollevata da una minoranza faziosa, la quale riceve paghe alte e preferisce crescere il consumo del vino pur di non pagare il pane al costo? Chi tra i socialisti ha osato parlare alla camera contro il prefetto di Firenze, il quale ha emanato un’ordinanza per requisire il vino nella sua provincia e fornire di vino abbondante e a prezzo mite le tavole «popolari» e quelle delle osterie fiorentine? E ciò in un momento in cui sarebbe utile anzi necessario che il vino valesse 10 lire al litro e nessuno più osasse berne in Italia e tutto fosse mandato all’estero per pagare in parte il pane che non abbiamo e senza di cui rischiamo la carestia?
La classificazione coattiva non funziona se si offre un’unica qualità di pane. Bisogna far entrare in giuoco i sentimenti di vanità se si vuole risolvere il problema. Il pane dovrebbe cioè essere venduto al prezzo politico basso a tutti coloro i quali non si mettano da sè sulla lista degli agiati. Ogni capo famiglia nel fare domanda della tessera del pane a prezzo basso dovrebbe dichiarare che il suo salario o reddito di lavoro o capitale non supera le 20 lire al giorno e che nella sua famiglia non vi sono altri il cui reddito aggiunto al suo faccia superare al guadagno o reddito o salario complessivo della famiglia il quoziente di 5 lire per ogni membro della famiglia. Mi pare che chi ha più di 20 lire al giorno o più di 5 lire per membro della famiglia non possa chiamarsi disagiato. Per una famiglia di cinque persone queste somme corrispondono a un reddito di 9 mila lire nette all’anno. Le cifre sono discutibili; ma qualche criterio bisognerà pur fissarlo. Naturalmente la dichiarazione deve essere controllata; e pene gravi dovrebbero essere inflitte a coloro i quali dichiarino falsamente salari o redditi minori di 20 o 5 lire.
Chiunque non faccia la dichiarazione, da controllarsi, di condizione disagiata riceverà una tessera di altro colore, la quale darà diritto a una minore quantità di pane cosidetto fino, a prezzo superiore. Badisi che il pane a buon mercato non dovrà essere più cattivo del pane fino o caro, anzi dovrà essere migliore. La confezione di due qualità di pane non deve voler dire pane da cani per il povero e pane fino per i ricchi. Queste sono bugie che soltanto politicanti deliberati a provocare il malcontento possono dire. Il pane a buon mercato dovrebbe invece essere sostanzialmente migliore del pane caro. Dovrebbe essere in forme semplici, di colore un pò più scuro; fatto con farina un pò meno abburattata, sebbene non troppo meno, essendo necessario toglierne tutta la crusca, per avere qualcosa da dare alle bestie, a cui altrimenti i contadini darebbero la farina. Il pane caro dovrebbe distinguersi dal pane a buon mercato solo per essere un pò più bianco, un po’ meno nutritivo, e in forme di fantasia. Sostanzialmente il pane a buon mercato dovrebbe essere il pane buono e quello caro sarebbe il pane cattivo. Le persone sensate comprerebbero solo il primo. Il secondo sarebbe comprato da coloro i quali hanno il palato raffinato e schifano i cibi semplici e sostanziosi. Gli agiati, volendo, potrebbero comprare il pane puro e buono pagandolo a prezzo alto; come ai non agiati dovrebbe essere consentito di consumare il pane cattivo e fino pagandolo a caro prezzo. Si vedrà allora chi ha veramente i mezzi per comprare il pane fino ossia meno nutritivo: se i cosidetti proletari o soltanto le folle silenziose dei pensionati, dei piccoli impiegati, della media borghesia di professionisti, di ritirati dalla vita attiva, di vedove con pupilli.
Si abbia il coraggio di dirlo: sotto alla ripugnanza per le due qualità di pane c’è solo malafede demagogica e poca voglia di mettersi a fare opera di propaganda sana, risvegliatrice tra il popolo. Chi vieta di andare a gradi nella differenziazione? A Mantova, a quanto mi comunicano, i due prezzi sono in vigore da qualche tempo; ma il pane ordinario da 86 centesimi è consumato dalla borghesia, mentre il pane fino da 1,25 va quasi tutto a finire sulle tavole proletarie. Non pare sia successo il finimondo. La soluzione oramai indicata dalla camera è dunque una sola: due prezzi e due qualità. Il prezzo alto e la qualità fina (meno nutritiva) a chi non dichiara di avere meno di un certo reddito giornaliero; il prezzo basso e la qualità buona e pura agli altri. Bisognerà certo istituire di nuovo le tessere. I fornai dovranno ricevere farina delle due qualità e ai due prezzi a seconda delle tessere presentate dell’uno e dell’altro colore. Ai pasticceri si dia solo farina a prezzo alto o non se ne dia affatto. Si proceda per gradi nella differenziazione. Si cominci con una differenza non grande di prezzo: ad esempio 1 lira e 1,50; e poi gradatamente si vada a 1,10 e 2 lire; a 1,20 e 2,50; a 1,30 e 3 lire. Chi si lamenterà di una distinzione per cui il pane effettivamente buono sarà venduto a prezzo mite e il pane effettivamente peggiore sarà venduto a prezzo alto e per cui in sostanza i poveri potranno, volendo, consumare la qualità di pane a essi gradita, mentre gli altri dovranno comprare il pane caro, dovrà essere trascinato in pubblico e flagellato come sfacciato demagogo e spregevole cacciatore di voti da elettori ancor meno di lui degni di stima.
IV
Meglio seminare segale libera che frumento calmierato
Proprietario (che vede negli interfilari di una sua vigna verdeggiare qualche cosa che a lui sembra frumento): Vedo che il frumento che avete seminato vien su bene. Sono contento che almeno per parte vostra avete fatto quanto era possibile per produrre frumento ed evitare di andare a comprare il pane dal fornaio.
Contadino (che affitta quei due ettari di terreno e semina quindi quel che gli pare): Ma cosa dice, signor padrone! Questo non è frumento, ma segale, che ho seminato per dare alle bestie. La segale non me la requisiscono e, se voglio venderla, mi danno 120, 150 e più lire al quintale. Se seminavo grano, il governo pretendeva di farselo dare a 75 lire al quintale e non mi ripagava neppure le spese. Chi vuole che semini ancora grano?
Il dialogo è testualmente riprodotto dal dialetto piemontese e fotografa lo stato d’animo della massima parte degli agricoltori italiani. Le semine del 1919 sono oramai cosa fatta ed irreparabile. Avremo grano in proporzione del seminato e del tempo che ha fatto e farà prima della mietitura. Oramai non si può più agire sulla produzione dell’anno agrario in corso.
Importa però agire e d’urgenza sul consumo del raccolto prossimo e sulle semine autunnali 1920. E non si agisce altrimenti che attraverso al prezzo. Prezzo vero e proprio, pagabile per tutta la quantità del frumento prodotta e consegnata alla requisizione od ai mulini. Non premi che lasciano il tempo che trovano e non esercitano nessuna influenza sull’animo dell’agricoltore. A che giova il premio di 30 lire per quintale promesso dal governo a chi consegnerà nel 1920 una quantità di frumento maggiore di quella consegnata nel 1918? A nulla. I raccolti, bisogna sempre ricordarlo, dipendono un po’ dalla diligenza nelle culture – e chi può coltivare bene oggi senza concimi chimici? – e molto dal tempo che fa. Promettere un premio per il supero oltre il prodotto nel 1918 è promettere un terno al lotto; il quale probabilmente andrà a chi non merita e non toccherà a chi merita. Bisognerebbe per ogni campo fare una perizia per stabilire quanto, nelle condizioni di pioggia, di tempo, di venti dell’anno in corso avrebbe fruttato ogni campo ad un coltivatore ordinario; e pagare un premio a quelli che ottennero di più. Ma si andrebbe alle calende greche; e le liquidazioni sarebbero forse finite nel 1930. Durante la guerra, il governo promise una volta premi per le maggiori culture a grano. Nei luoghi che io conosco, molti fecero denuncia di maggiori culture; ma il premio lo aspettano ancora adesso. Così sarà del premio di 30 lire promesso per il 1920; si perderà tra le scartoffie dei ministeri e si otterrà l’unico risultato di lagnanze senza numero, di irritazioni e di mala disposizione verso le future semine.
Se si vogliono promuovere sul serio le semine del grano nel prossimo autunno e se si vuole frenare lo sperpero e l’imboscamento del grano del raccolto nuovo, c’è una sola cosa da fare: rendere il prezzo remunerativo.
Il fatto fondamentale è il seguente: oggi il contadino italiano realizza, sull’aia, per ogni quintale di frumento prodotto, meno di 23 lire-oro; il contadino canadese ne realizza 47 e quello degli Stati uniti 50. In queste tre cifre sta il succo della situazione. Al contadino italiano non conviene produrre frumento a meno della metà del prezzo che è ritenuto necessario per indurre gli agricoltori nordamericani a coltivare la terra a grano. E badisi che la superficie coltivata a grano negli Stati uniti è diminuita nel 1919-20 del 23,2% in confronto al 1918-19 perché gli agricoltori reputarono i prezzi, pur più che doppi dei nostri, non abbastanza convenienti. Che cosa accadrà in paragone in Italia nel prossimo autunno? Metteremo un carabiniere in ogni campo per costringere i contadini a seminare? E prima d’allora ristabiliremo le requisizioni colla forza armata per impedire ai contadini di dare alle bestie, ossia di convertire in merce pagabile a prezzi di convenienza, il grano che essi dovrebbero consegnare a prezzi di perdita?
Siccome ciò è assurdo, una sola cosa resta da fare: elevare subito per il nuovo raccolto il prezzo del frumento da 75 a 150 lire. L’erario pagherà di più all’interno; ma farà sempre un non piccolo risparmio: quello uguale alla differenza fra 150 lire e le 300 lire che, posto a Genova, oggi costa il frumento nordamericano e le 350 o 400 e più lire che costerà domani, se continua l’ascesa dei cambi.
V
Al prezzo attuale le semine si riducono
Il governo non si è ancora deciso ad aumentare il prezzo del frumento al disopra delle 75, anzi 70 lire fissate per il prossimo raccolto. Forse ritiene non urgente il provvedimento, dato che per il raccolto in corso quel che è fatto è fatto e non si può far crescere neppure una spiga di grano di più con l’allettativa di più alti prezzi, e che c’è tempo a pensare alle nuove semine autunnali.
Invece il problema urge sul serio. Il raccolto pendente può ancora, qua e là, essere aumentato con una più accurata ripulitura dalle male erbe, che si farebbe se i prezzi fossero soddisfacenti. Ma sovratutto si corre rischio che manchi la convenienza ad eseguire la mietitura. Dopo che avevo scritto il precedente articolo ho ricevuto lettere da varie parti d’Italia che segnalano il gravissimo pericolo. Un proprietario del ferrarese scrive, allegando copia di concordati e tariffe a stampa per la mano d’opera:
«Forseché è possibile coltivare grano al prezzo di 75 lire il quintale quando colle opere da 12 a 18 lire la sola curatura del frumento viene a costare 800 lire l’ettaro e forse più, ed i meccanici addetti alle trebbiatrici chiedono salari giornalieri di 50 lire (36 lire per il fuochista), oltre 15 lire per il vitto? Quest’anno avremo culture di grano che andranno perdute perché molti non possono spendere nella sola curatura-mietitura, trasporto, trebbiatura, insaccamento – quanto forse non ricaveranno dal raccolto, perché frumenti in tali condizioni non produrranno, sebbene puliti dalle male erbe, più di 18 quintali per ettaro».
Ed uno dei maggiori coltivatori di frumento d’Italia scrive dal mezzogiorno adriatico:
«Il raccolto prossimo si presenta male per la siccità: anche supposto di avere una media generale di circa 7 ad 8 quintali per ettaro – nel mezzogiorno la media e’ sempre più bassa che al nord -, si ha ai prezzi attuali un ricavo di 650 lire circa, ossia soltanto le spese fatte a tutt’oggi per l’aratura, la concimazione, la semina, l’erpicatura e la scerbatura. Mancano tuttavia le spese di raccolto, mentre l’aumento della mano d’opera, dei mezzi di trasporto, dei pezzi di ricambio delle macchine, dello spago per le mietitrici, dell’olio, del grasso, di ogni cosa insomma, porta questi ulteriori dispendi, calcolando l’affitto del terreno in 75 lire per ettaro, ad altre 700 lire, appunto per ciascun ettaro, e così in complesso a ben 1.350-1.400 lire per ettaro, ossia a 150 lire circa per quintale, pur con un discreto raccolto. Qualche agricoltore ara già i terreni che aveva quest’anno seminati; di fronte alla prospettiva di un raccolto ridotto per la siccità, non ha convenienza di affrontare le ulteriori spese necessarie per condurre a termine il raccolto stesso».
È un vero grido d’allarme, che va meditato e che deve indurre ad una azione rapida. Al prezzo attuale non solo si spinge ad imboscare il frumento nuovo, quando ci sarà, o a darlo alle bestie; si scema altresì la quantità del raccolto. Sono sempre stato contrario alla protezione frumentaria, la quale dava un premio artificioso alla cultura del frumento a danno di altre culture. Ma il prezzo d’imperio troppo basso in confronto al prezzo naturale di mercato dà un premio artificioso a favore delle altre culture e a danno del frumento. Un agricoltore del cremonese mi manda un conto da cui risulta che in un suo podere, seminato a frumento per 18,4 ettari, il ricavo netto, non tenuto conto di spese di preparazione del terreno e di concimazione uguali per ambo le culture, fu nel 1919 di lire 23.166,50. Se l’avesse coltivato a barbabietole, il ricavo netto sarebbe stato di 46.300 lire! Per la canapa il confronto è ancora più dannoso al frumento.
Il legislatore non deve favorire la cultura del frumento a danno della bietola o della canapa. Per il paese può essere conveniente coltivar canapa, venderla all’estero e col ricavo comprare maggior copia di frumento di quello che si sarebbe ottenuto coltivandolo direttamente. Così dicono il buon senso e la pratica, a non parlare della teoria dei costi comparati degli economisti. Ma al paese non conviene rendere artificiosamente dannosa la cultura del frumento con prezzi bassi; perché ben può darsi che in certi casi si coltivino bietole, canapa o segale anche in quei terreni in cui sarebbe stato più proficuo coltivar frumento.
VI
Mezze misure ed indovinelli
I provvedimenti annunciati dal governo per i prezzi dei cereali sono una delle solite mezze misure così care al cuore di tutti gli uomini politici, i quali vedono la bontà dei «ragionamenti» economici, ma non sanno indursi a riconoscerli pubblicamente per la paura di essere creduti ligi a interessi privati, sia pure grandi e diffusi interessi privati come sono quelli degli agricoltori italiani.
È certamente un bene che siano fissati fin d’ora i prezzi del raccolto dell’anno agrario 1920-21 in 125 lire per il frumento tenero e 145 lire per il frumento duro, con un sovraprezzo di 21,50 e 25 lire rispettivamente per le due qualità di frumento nel mezzogiorno e nelle terre liberate, e di 19 e 22 lire per le zone a latifondo delle provincie di Roma e Grosseto. Non so se il rialzo, specie per il frumento tenero, il quale non godrà per lo più di sovraprezzo veruno, sia sufficiente. Alcuni agricoltori cremonesi mi fanno il presente conto: la pertica cremonese, a 1,50 quintali di frumento, rende oggi 105 lire, più 70 lire di paglia e sottoprodotti. La stessa pertica rende 8 quintali di fieno, che a 50 lire fanno 400 lire. E quanto minori le spese di produzione! L’aumento di 55 lire nel prezzo del frumento non pareggia le partite.
I prezzi politici non giungono mai in tempo, e solo per miracolo cadono sul punto giusto occorrente per non turbare artificiosamente l’equilibrio delle culture. È assai probabile che prima del raccolto 1921 il nuovo prezzo di 125 lire manifesterà tali imprevisti vizi che a gran voce se ne chiederà la modifica.
Ma che dire di prezzi nemmeno espressi in cifre, ma diluiti in un rigiro di parole incerte e arbitrarie? Avevo scritto che era urgente aumentare anche il prezzo per il prossimo raccolto 1920, perché oggi non pochi agricoltori mietono il grano in erba tornando loro più conto far mangiare l’erba alle bestie che consumare nelle spese di raccolto tutte le 70 lire del prezzo; e perché gli agricoltori imboscheranno il grano raccolto, per sottrarsi all’obbligo di consegnarlo a 70 lire al governo, ad un governo che non ha ancora ritirato o non ha quasi mai pagato il frumento del 1919. Per evitare questi evidentissimi e urgenti pericoli, il ministro dell’agricoltura ha deciso di «riservare al sottosegretario per gli approvvigionamenti i provvedimenti di prezzo in relazione con la requisizione, anche con speciale riguardo a quelle zone di Sicilia e Puglia che sono eccezionalmente danneggiate dalla siccità».
Che cosa significa tutto questo viluppo di parole? Sono 10, sono 20, sono 30 lire di più che il governo promette agli agricoltori per il raccolto 1920? Bravo chi riesce a penetrare l’indovinello. Lo interpreterei così: che alle commissioni di requisizione, le quali costano fior di quattrini, decine di milioni di lire, che scorrazzano il paese in automobile in lungo e in largo, che lasciano marcire o divorare dai topi il grano, che non lo ritirano e non lo pagano, sarà affidato un altro compito: di individuare i casi in cui invece di 70 sarà opportuno pagare 80, o 90, o 100 lire.
I contadini diranno che il sovraprezzo sarà pagato a chi lascerà correre mancie più grosse. Se non sarà vero, sarà pessima cosa l’averlo lasciato sospettare. Cresceranno certamente le trasferte, le indennità, le mangerie a ufo del denaro pubblico. Forse le indennità se le attribuiranno professori ambulanti e ispettori ministeriali, invece dei colonnelli delle commissioni. E sarà male doppio, perché cresceranno le cartacce e la confusione: e gli agricoltori tarderanno all’anno 2000 a riscuotere il sovraprezzo. Naturalmente si inferociranno sempre più contro il governo; e lo spreco del frumento crescerà anziché calare.
VII
Grovigli inestricabili
Gli autori del decreto-legge per l’aumento del prezzo del pane sono stati mossi certamente da una necessità impellente. La vendita del pane a sotto costo è la cagione principale del disavanzo spaventevole in cui si dibatte il tesoro italiano. Calcolando in 20 milioni di quintali il grano che si potrà requisire all’interno ed in 20 milioni quello che bisognerà importare dall’estero, ed in 100 e 250 lire al quintale i prezzi rispettivi di acquisto, l’onere dello stato risulta in 7 miliardi di lire. Siccome lo stato ricupera oggi soltanto 6 lire per quintale ossia 2 miliardi e 600 milioni, sono 4 miliardi e 400 milioni di disavanzo i quali dovevano essere fronteggiati nell’entrante anno granario e finanziario. Continuare su questa via non è possibile, senza far lavorare il torchio dei biglietti e senza aggravare a dismisura il rincaro della vita, che oggi accenna ad avere un momento di sosta, laddove sarebbe accentuato a dismisura ove riprendesse la fabbricazione della carta – moneta. V’è, è vero, un voto della camera, il quale fa obbligo allo stato di provvedere a dare il pane a sotto prezzo con la confisca dei sovraprofitti di guerra e con l’elevazione delle imposte sui redditi. Praticamente, i sovraprofitti di guerra sono stati già tassati con le aliquote massime del mondo civile; ma sarebbe un pazzo quel finanziere il quale osasse sperare di colmare con questo strumento fiscale, già spremuto ed oramai inservibile, una somma neppure lontanamente uguale a quella necessaria per fronteggiare il disavanzo del pane. A quanti scopi non dovrebbero servire contemporaneamente le imposte sui sovraprofitti? Quanto alle imposte sui redditi, la verità è che esse, tutte insieme considerate – patrimoniale, normale, complementare e sovrimposte locali – sono state spinte a tali altezze da riuscire pericolose per la produzione del reddito medesimo. Andare più in là non si può, almeno da chi non voglia produrre una crisi di lavoro sensibile. Un voto della camera può far tutto, salvo l’assurdo, e trovare 4 miliardi e 400 milioni all’anno di imposte nuove, in aggiunta a quelle vecchie e nuove e future già decretate, è un assurdo. Bisognerebbe che gli uomini fossero disposti a rischiare, a lavorare, a faticare all’esclusivo intento di pagare imposte. In nessun regime, passato, presente o futuro, individualista o collettivista, è stato o sarà possibile costringere gli uomini ad una condotta tanto stravagante.
Dunque era necessario aumentare il prezzo del pane. Coll’aumento a lire 1,50 e colla cessione del frumento da parte dello stato a 115 invece che a 65 lire al quintale, lo stato ottiene un ricavo di 4 miliardi e 600 milioni invece che di 2 miliardi e 600 milioni e la perdita si riduce da 4 miliardi a 2 miliardi e 400 milioni di lire. Non è tutto; ma sarebbe un buon passo verso il ricupero della sanità mentale finanziaria e verso una reale politica di lotta contro il disastro e contro il rincaro della vita.
Fa d’uopo dichiarare però subito che il metodo scelto dal governo per rincarare il prezzo del pane e per obbedire contemporaneamente al comando della camera di conservare il prezzo basso politico è quanto di più aggrovigliato, costoso ed impraticabile si potesse immaginare.
Non si volevano i due prezzi e le due qualità di pane, per non sentirsi rimproverare il pane da cane per i poveri? Non si voleva la qualità unica ed i due prezzi per la difficoltà di distinguere tra le due classi aventi diritto ai due prezzi? E sia. Ma non era possibile escogitare nulla di meglio del farraginoso sistema dell’ultimo decreto?
Grazie a questo bisognerà che tutti i datori di lavoro, tutti gli imprenditori, commercianti, ditte, enti pubblici e privati tengano a giorno un mastodontico censimento dei loro dipendenti per sapere:
- quanti membri della famiglia dipendono dall’impiegato o salariato;
- quanti di essi non abbiano salari indipendenti e non ricevano quindi da altri un assegno;
- quanti di essi non ricevono vitto in natura;
- se il salariato non sia per qualche sua proprietà o per qualche lavoro in partecipazione detentore di grano eccettuato dalla requisizione;
- se qualcuno dei membri della famiglia non sia indigente e come tale soccorso da altri ovvero sovvenzionato o pensionato da enti pubblici di beneficenza o di previdenza.
È evidente che i datori di lavoro non possono in nessuna maniera tenere a giorno un simile censimento; che il fluttuare costante della popolazione operaia o contadina imporrebbe spese scritturali spaventose a quel datore di lavoro che volesse sul serio applicare la legge; che la dignità dell’operaio onesto verrà offesa coll’obbligo fattogli di dichiarare ad un privato fatti e circostanze meritevoli talvolta di essere taciuti; che le frodi dei disonesti saranno invece insopprimibili; che la legge darà un premio ai doppi e tripli sussidi; che un nuovo esercito di impiegati dovrebbe essere organizzato per far funzionare il meccanismo complicato; che le false spese supereranno l’utile risultato e che gli attriti e le discordie fra imprenditori e lavoratori supereranno di gran lunga i vantaggi per l’erario.
Né più benevolo giudizio può darsi dell’imposta di 300 o 500 lire istituita a carico dei cosidetti abbienti per sopperire all’onere dei sussidi. Polvere negli occhi in primo luogo, perché il numero dei contribuenti tassati per un reddito imponibile non inferiore a 12.000 lire rispetto all’imposta di famiglia od a 10.000 lire per la complementare del 1918 è infimo. Han fatto il conto a Roma di quanti siano costoro? Sono 50 o 100 mila in tutta Italia? Amendue gli indici sono parzialissimi e lasciano fuori numerose categorie che posseggono ben più di 10 o 12.000 lire di reddito. Saranno tassati, al solito, i proprietari di case, talvolta quelli di terreni, gli impiegati di enti pubblici ed i contribuenti di ricchezza mobile. Ma la massa dei proprietari e contadini, che ha spesso redditi ben più lauti, non pagherà nulla, non pagheranno nulla le famiglie in cui entrano salari di 20 lire al giorno moltiplicati per due o per tre. Per stringere in mano un pugno di mosche di qualche decina di milioni di lire all’anno, il decreto disorganizza ancora una volta le agenzie delle imposte, le sovraccarica di un lavoro materiale asfissiante, e rende ad esse impossibile di attendere colla necessaria calma alla organizzazione delle grandi imposte produttrici: patrimoniale, normale e complementare sui redditi. Quando si vorrà capire che tutto questo diluvio di tasse e tassette molteplici non dà un reddito netto; che esse sono simili alle cavallette che tutto distruggono e nulla lasciano in vita; che lo stato non può avere tante borse speciali in cui ficca dentro il provento di questa o quella imposta; ma che tutto deve andare a finire nell’unica cassa del tesoro e che il tesoro tanto più arricchisce quanto più le imposte sono poche, chiare, moderate ed applicate rigorosamente?
Volevasi tener fede al voto della camera di non aumentare il prezzo del pane a danno delle classi lavoratrici? Potevasi decretare un aumento del salario di un tanto per cento corrispondente al maggior costo della vita per l’aumento del prezzo del pane. Il bollettino della città di Milano, egregiamente compilato dal dottor Alessandro Schiavi, calcola per una famiglia operaia tipica di 5 persone una spesa per il pane e la pasta di lire 10,16 alla settimana, ai prezzi di lire 0,83 per il kg di pane ed 1,25 per il kg di pasta.
Applicando i nuovi prezzi di 1,50 per il pane e di 2,30 per la pasta la spesa sale a lire 18,42. Sono lire 8,26 di più alla settimana da spendere. Supponendo un solo lavoratore per famiglia e un salario di 20 lire al giorno per 300 giorni dell’anno, ossia di 6.000 lire all’anno, l’aumento di spesa risulta del 7%. In realtà l’aumento di spesa avrebbe oscillato dal 3 al 10% a seconda dell’ammontare dei salari familiari. Era tanto difficile stabilire un aumento percentuale di salari, che corrispondesse suppergiù ai dati ora esposti? Avrebbero guadagnato qualcosa gli scapoli, ma era un piccolo inconveniente di fronte all’impossibilità pratica di far funzionare il sistema del decreto ed al danno di disoccupazione, da cui saranno minacciati d’ora innanzi i padri di numerosa prole o con parecchi ascendenti a loro carico.
L’aumento delle paghe è un sistema empirico; ma è pur quello che produce il minimo danno, perché si accosta di più al metodo che di fatto si sarebbe attuato senza intervento del legislatore. Questa del caro-pane è tutta una montatura dei predicatori di odio e di distruzione. Essi ben sanno che ogni aumento di prezzi produce oramai un aumento immediato dei salari; e che gli operai hanno convenienza di adattarsi all’aumento del prezzo del pane, pur di ottenere un aumento corrispondente di salari, perché c’è la speranza di serbare un po’ dell’aumento di salario, quando i prezzi del pane ribasseranno. Ma fanno baccano per diffondere odio, invidia e spirito di rivolta. Almeno il governo non desse loro armi con decreti i quali sembrano immaginati soltanto per crescere il numero degli impiegati mangiapane a tradimento!
VIII
Aumentare il prezzo del pane e i salari agli operai
Chi sono i veri affamatori del popolo, i veri rincaratori della vita: noi che vogliamo che il prezzo del pane venga aumentato così come ha proposto il governo, con tendenza a raggiungere il livello del suo costo effettivo, ovvero i socialisti dell’ «Avanti!» i quali eccitano i lavoratori ad opporsi sino all’estremo al decreto di aumento? Noi che, pur avendo pubblicato critiche recise al sistema farraginoso escogitato dal governo, vogliamo che all’aumento del prezzo del pane si accompagni un correlativo aumento dei salari, ovvero coloro che non vogliono né l’una cosa né l’altra? Noi siamo profondamente convinti che gli affamatori veri non siamo noi, ma sono i socialisti; sono coloro i quali spingono verso il baratro la finanza dello stato ed impediscono di risolvere i problemi urgenti dell’ora, quei problemi che interessano in special modo le masse lavoratrici.
Il sistema che noi invochiamo: aumento del pane ed aumento del salario è un programma di verità e di onestà . A che serve far finta di vendere il pane a basso prezzo, quando si sa che esso costa assai di più e che bisogna pure che qualcuno paghi la differenza? Noi vogliamo che il prezzo aumenti sino al suo giusto livello di costo e che i salari si elevino di quanto occorre per pagare la differenza. Gli industriali dovranno aumentare i prezzi? Se l’aumento è dovuto a questa causa: adeguarsi al rialzo effettivo dei costi l’aumento non può recar danno. Esso ristabilisce l’equilibrio che oggi è turbato, profondamente turbato, perché certe cose si producono e si possono vendere al disotto del costo. Produrre ad un costo artificiosamente basso non è un bene per il paese. Gli industriali si illudono che i loro prodotti, costando soltanto dieci, essi li vendano a prezzo corrispondente. Li vendono anche all’estero a questo falso prezzo. Ossia il paese compra dall’estero il grano caro e poi vende tessuti, filati, macchine, ecc. ecc. in cui quel grano si è incorporato, sotto forma di salari operai, a prezzi che non coprono il costo. Comperiamo caro e vendiamo a buon mercato; e quindi ci indebitiamo.
I veri alleati della classe operaia siamo noi, che vogliamo che il salario sia aumentato di quanto occorre per far fronte al rialzo del prezzo del pane. Fra qualche tempo, fra qualche anno quando il costo del pane sarà ribassato, gli operai potranno consentire un ribasso dei salari, ma non consentiranno un ribasso uguale al ribasso dei prezzi. Un margine di utile rimarrà loro, un margine vantaggioso al loro elevamento morale e materiale. Gli industriali dovranno adattarvisi inventando nuove macchine, diminuendo i costi di lavorazione. Chi non vi si adatterà andrà a fondo. Questo vogliamo noi. Che cosa vogliono invece i socialisti?
In apparenza essi vogliono sopperire al disavanzo del pane con la confisca dei sovraprofitti di guerra. Essi sanno perfettamente che questa è una fandonia per i gonzi. Sanno che il provento dell’imposta sui sovraprofitti non può essere distratto a nessuno scopo speciale, perché è necessario per colmare il disavanzo del bilancio ordinario dello stato; che, se lo stato devolve questo provento al pane, non può più pagare impiegati, pensionati, postelegrafici, ferrovieri, insegnanti, i cui aumenti di stipendio non possono certamente essere sopportati dai bilanci deficitari delle rispettive aziende, ma dal fondo generale dello stato. Essi sanno che le imposte sui sovraprofitti e sugli aumenti di patrimonio sono state già spinte al massimo possibile di resa e che un nuovo ulteriore gettito non può provenire più da aumento di aliquote, che sono già pazzesche ed inducono già i contribuenti a sprecare ed a distruggere tutti i loro guadagni finché si è in tempo; ma da una buona organizzazione degli uffici. Sanno tutto questo; e son ben persuasi che non c’è forza di uomo capace di trovare i 4-5 miliardi annui di disavanzo prodotto dal pane a sotto costo. Ma gridano per spingere alla rivolta ed alla distruzione. Non ci sarà nemmeno bisogno della rivoluzione comunista vera e propria per ridurre le masse allo stato di miseria in cui, salvo la guardia rossa, si trovano oggi le masse lavoratrici in Russia. Basta la loro predicazione e basterebbe che il governo debolmente non osasse applicare, migliorandolo, il decreto del pane.
Chi fa credito ad uno stato, il cui bilancio è votato, a causa di questa voragine crescente del pane a sotto costo, ad un disavanzo spaventoso ed irrimediabile? Il gettito dei buoni del tesoro è in diminuzione; ed una delle cause di diminuzione è la paura dei capitalisti di continuare a far prestiti ad un debitore che non tenta di mettere in ordine la sua casa.
Abbiamo un bel predicare noi di pagare giustamente le imposte, di dichiarare il vero patrimonio ed il vero reddito! Ma i contribuenti sono spaventati dalla prospettiva di versare i loro sudati risparmi e parte dei patrimoni aviti ad uno stato, del quale si teme ne faccia cattivo uso. Se il provento delle imposte ordinarie servisse solo a spese utili e necessarie, se quello dell’imposta straordinaria sul patrimonio servisse a rimborsare sul serio i debiti di guerra, la frode dei contribuenti sarebbe inescusabile. Ma quando si sa che i denari sono buttati nell’abisso senza fondo di un sussidio (pane a sotto costo) dato in gran parte a gente che non apprezza affatto il vantaggio ricevuto, che spesso vive molto meglio di coloro i quali pagano le imposte, quale meraviglia se i contribuenti recalcitrino e non siano persuasi?
E così lo stato è spinto di nuovo dai socialisti medesimi all’uso dell’unico mezzo rimastogli di far denari: il torchio dei biglietti. Sono essi che vogliono la ripresa di quelle emissioni cartacee, che sono state il vero ed il solo flagello economico della guerra e dell’armistizio. Sono essi che vogliono il rialzo dei prezzi, il quale è l’inevitabile conseguenza delle abbondanti emissioni cartacee.
È vero che i socialisti, sogghignando come il commissario alle finanze di Russia, rispondono: noi vogliamo appunto che i biglietti, divenuti abbondantissimi, annullino se stessi e con sé la società borghese. Siamo sicuri che gli operai italiani hanno una intelligenza troppo fina per lasciarsi persuadere da un catastrofismo così ingenuo. Il rinvilimento della carta-moneta non distrugge affatto il capitalismo. Sostituisce soltanto al comodo scambio per mezzo della moneta l’incomodissimo baratto in natura. Finché ciò non si sia avverato – e ci vuole molto tempo – i fabbricanti di biglietti e chi riesce ad averne di più a propria disposizione rubano ai lavoratori il frutto delle loro fatiche. La verità inconfutabile è che coloro i quali si oppongono al ritorno alla verità ed alla realtà, coloro che non vogliono l’equilibrio fra prezzi rialzati per il pane e salari rialzati, vogliono invece il rincaro di tutti i prezzi, il vero circolo vizioso senza termine e l’arricchimento dei furbi. Rincaro della vita e prolungamento dei profitti di guerra in tempo di pace: ecco il sinistro programma sostanziale che sta sotto alle parole demagogiche dei socialisti. In un momento in cui comincia ad intravedersi l’aurora di prezzi più miti sui grandi mercati internazionali e si prevede una discesa graduale dei profitti eccezionali dei tempi di guerra, codesti falsi difensori del popolo vogliono erigere attorno all’Italia una nuova più alta barriera di carta-moneta, allo scopo di perpetuare i profitti dei pochi a danno delle masse.
IX
Socialisti faziosi e governo remissivo
I provvedimenti che il governo propone per il pane sono impari alle più impellenti necessità. Il prezzo viene aumentato di una piccola frazione, da 1 lira fino ad 1,30 od 1,40. Questa non è una soluzione; è un buttar polvere negli occhi alla gente. Con 30 o 40 centesimi di aumento non si copre neppure una parte dell’aumento di costo dovuto al recente inasprimento dei cambi esteri. Il rialzo del dollaro da 20 a 30 lire ha provocato un aumento del costo del quintale di frumento americano di almeno 90 lire, il che corrisponde all’incirca ad un aumento di 1 lira nel costo del chilogrammo di pane. Il timido aumento di 30 o 40 centesimi equivarrebbe dunque a mala pena ad un terzo del maggior costo cagionato dal rialzo del dollaro. La perdita per lo stato rimane spaventosa come prima: se non 7 miliardi, se ne perderanno 6; ma la situazione di tesoro non è sostanzialmente mutata. Il governo, provocando, con la sua politica di tremore dinanzi alle minaccie dei socialisti e con i suoi tentativi di mezze misure, ugualmente le temute agitazioni, avrà tutti i danni e nessun vantaggio. Il tesoro rimane costretto ad indebitarsi per 500 milioni di lire al mese, ossia a provocare quel vero rialzo nel costo della vita, che i difensori del popolo a parole dicono di voler combattere.
In verità, non si sa se in questo problema sia più ipocrita e faziosa la condotta dei socialisti o più paurosa e cieca la remissività del governo. I socialisti sanno che, in gran parte per la continuazione del disavanzo del pane, il governo italiano non trova più credito all’estero ed all’interno si fanno sempre più scarse le sottoscrizioni ai buoni del tesoro. Sanno di spingere così lo stato al fallimento; sanno che, per conseguenza logica, i cambi debbono salire, ed i prezzi aumentare. Sanno che per un preteso risparmio di 2 lire per ogni chilogrammo di pane, essi tolgono il doppio, il triplo, il quadruplo ad ogni famiglia di operai o di impiegati sotto forma di aumento nel prezzo di tutte le altre cose necessarie alla vita. Eppure persistono nella loro perversa campagna e fanno il male per il male, perturbano le economie familiari dei loro seguaci, perché dal malcontento nasca la rivolta e possano conquistare il potere. Essi fanno il loro mestiere ed agiscono con la logica ferrea dei rivoluzionari e degli arrivisti. Ma che cosa si deve pensare e scrivere della politica d’un governo che si presta al tristo giuoco a danno del paese? che si trastulla con aumenti di 30 o 40 centesimi, che trema al momento di deliberare il nulla, ben sapendo che il baratro rimane aperto, che il cambio è perciò destinato a salire e che domani la situazione di tesoro sarà peggiore dell’odierna? I delegati italiani di ritorno dalla conferenza di Bruxelles debbono aver riferito al ministro del tesoro e al presidente del consiglio della meraviglia somma che le esitazioni del governo rispetto al pane suscitano in tutte le sfere responsabili di Europa. A nulla hanno giovato le eloquenti dissertazioni dei nostri delegati. Siccome questi non potevano rispondere niente di concreto intorno al quesito del pane, l’Europa finanziaria rimase persuasa che il governo italiano fosse impotente dinanzi al bolscevismo e alla rivoluzione. Né riacquisterà fiducia in noi e ci ridarà credito finché quel problema sia risolto. Se si vuoi salvare il bilancio dello stato e con esso il paese, non c’è che da fare una di due cose.
O il governo si decide a fare sul serio, ad aumentare il prezzo in modo da avvicinarsi al prezzo di costo del pane, che oggi è superiore parecchio a 3 lire al chilogrammo per il pane confezionato con frumento estero; o il governo cioè si decide a proporre al parlamento un aumento, sia pur graduale, almeno fino a due lire per il pane ordinario, salvo il temperamento di tessere speciali per i veramente bisognosi e l’imposizione di un prezzo molto più alto a favore dello stato e non dei fornai, come accade ora, per i grissini e i pani di forme speciali di lusso; ed in tal caso l’indebitamento dello stato potrà subito contenersi entro limiti più moderati e il credito pubblico potrà migliorare e con esso i cambi e moderarsi i prezzi.
Ovvero il governo non riesce ad avere ragione, per la debolezza delle altre parti, dell’ostruzionismo socialista e allora esso deve avere l’elementare coraggio di dire alla camera: «Voi non volete consentire ad un ristabilimento graduale, ma serio, della pubblica finanza. Voi seguitate a fare del pane un’arma elettorale. Ma voi non potete fare che il bianco diventi nero, che il sole tramonti a mezzogiorno; non potete darmi i mezzi che non ho. Per causa vostra non ho più credito; all’estero nessuno mi da frumento senza pagamento a pronta cassa; all’interno pochi sottoscrivono e ben presto nessuno sottoscriverà ai buoni del tesoro. Le entrate ordinarie non bastano alle spese correnti e non lasciano alcun margine. Vi annuncio che fra tre o quattro mesi, a marzo al più tardi, il governo, privo di mezzi, cesserà gli acquisti di frumento all’estero e lascerà che alla bisogna provveda il commercio privato. Farò ancora l’estremo sforzo di provvedere alla saldatura del monopolio pubblico alla libertà di importazione; ma sarà il mio sforzo ultimo. L’Italia non mancherà di frumento e di pane; ché di frumento nel mondo ce n’è , ed a pagarlo quanto vale non c’è pericolo di rimanere senza. Ma il pubblico sappia che, siccome voi mi negate un rialzo immediato a due lire, siccome voi mi togliete con questa politica suicida e folle il credito, così fra qualche mese esso dovrà pagare il pane 3 o 4 lire al chilogrammo. Di questo fatale risultato il popolo dovrà accusare non me e non i contribuenti italiani, che hanno fatto fino all’ultimo sforzi eroici e disperati per salvare la situazione. Dovrà accusare voi, che l’avete peggiorata di giorno in giorno, che colla vostra bassa speculazione elettorale avrete distrutto il credito mio, sicché sarà un miracolo se, a cambi ognora crescenti, sarà possibile vendere il pane a 3 o 4 lire. Se, finita forzatamente l’opera mia, si toccheranno limiti più alti, i veri autori del disastro sarete voi».
Se il governo non ha il coraggio di agire e di parlare così, con dirittura di coscienza, così come richiede la gravità del momento, pensi il parlamento a salvare il paese ad ogni costo. Non è più ora degli indugi e delle mezze misure. Dietro ad un governo, dietro ad un parlamento decisi a restaurare la finanza e l’autorità dello stato insieme si schiererà la parte più sana e cosciente dell’opinione pubblica ed essa avrà ragione di ogni torbida manovra rivoluzionaria.
X
Turati e Treves per l’abolizione del prezzo politico del pane
Contro le critiche di insufficienza e di timidità rivolte su queste colonne al progetto del pane si sono tornate a sentire le solite repliche: bisogna procedere per gradi, non arrecare un danno ingiusto ed insopportabile alle classi popolari, il disavanzo, oramai ridotto a 2 miliardi, potere essere coperto con altri mezzi tributari, con ulteriori inasprimenti delle imposte messe sui ricchi e sui consumi di lusso. Saremmo conservatori fuori della verità e della realtà, perché patrociniamo una soluzione compiuta del grave problema.
Siamo anche noi persuasi che il problema del pane non sia di facile soluzione; ed ammettiamo che vi possa essere dissenso sulle modalità pratiche da osservare per giungere allo scopo. Ma è ingiusto accusare noi di conservatorismo solo perché desideriamo una soluzione compiuta o che sia un avviamento ad essa piuttostoché un mezzo termine, quale quello proposto dal governo. A questa stregua dovrebbero essere ritenuti conservatori gli on. Turati e Treves i quali riconoscono che
«la soluzione attuale poté andar bene come provvedimento empirico, transitorio; ma è tempo oramai che sia sostituita da un provvedimento più razionale, che possa anche avere un carattere definitivo, o, almeno, segnare il passaggio a uno stato di cose definitivo. Un prezzo politico del pane, corrispondente a un quarto (poco più, poco meno) del suo prezzo reale, non poi durare, comunque abbiano a volgere domani gli eventi. Non soltanto un governo borghese non potrebbe mantenerlo, senza andar incontro ad una crisi in cui finirebbe per essere travolta (ed è già travolta anzi) tutta l’economia del paese; dovrebbe abolirlo, per la stessa ragione, anche un governo socialista, sia che vada al potere secondo le previsioni e le indicazioni della mozione di Reggio Emilia, sia che s’instauri in seguito ad un moto insurrezionale».
Questa citazione, tolta dalla rivista socialista, prova quanto sia diffusa la sensazione della necessità di uscire da una situazione artificiosa e dannosa. Tutti, anche i proletari, anche i socialisti, riconoscono innaturale che il pane si paghi ad un quarto o ad un terzo del suo prezzo. Domani lo si pagherà, con le proposte del governo, ai due quinti. Sarà un po’ meglio; ma saremo sempre lontanissimi da una soluzione definitiva.
Né si dica, come ripete l’on. Soleri, che gli inasprimenti tributari coprono una metà del deficit residuo, oscillante dai 4 ai 5 miliardi all’anno, a seconda delle variazioni dei cambi e dei prezzi del grano all’origine. Ogni persona in buona fede deve riconoscere che col prezzo del pane i nuovi tributi non c’entrano. Ottime o pessime che siano, o siano una mescolanza di ottimo e di pessimo, le nuove imposte servono a coprire il disavanzo ordinario di bilancio e non hanno nulla a che fare col disavanzo eccezionale del pane. A ragione anche qui la «Critica sociale» osserva, come avevamo notato noi stessi:
«Intanto l’aumento di imposte è necessario oggi per provvedere al grave disavanzo che allo stato proviene da altre cause che non siano il prezzo politico del pane; e noi sappiamo oramai per esperienza che è inutile moltiplicare le imposte, perché esse danno un gettito assai maggiore nei calcoli degli uomini di finanza che non diano poi praticamente sui registri degli esattori».
Proprio così, anche se, per strana inconseguenza, la «Critica sociale» dia poi il proprio consenso ad una nuova speciale imposta farraginosa, sperequata e di impossibile esazione. Il problema del disavanzo del pane non si risolve con le imposte; le quali, qualunque sieno oggi o si possano poi inventare in avvenire, sono tutte necessarie per pagare le spese ordinarie dello stato. E, oramai, siamo in Italia giunti, in fatto di imposte, al limite della saturazione per tutti i redditi di quella diffamata borghesia industriale, commerciante, lavoratrice, su cui finisce di cadere il peso di tutte le imposte sui redditi e sugli affari. Gira e rigira, si potranno inventare nuovi nomi di imposte, non nuova sostanza di provento. Se la finanza si indugia a dar fondo ad alcuni tributi, deve trascurarne altri: se vuole correre dietro ai guadagni di guerra ed ai patrimoni, come impone la demagogia tributaria del momento, deve rinviare, come un decreto del 9 novembre stabilisce, al gennaio 1920 l’applicazione della riforma tributaria e dell’imposta globale sul reddito. Per liquidare il passato deve trascurare l’avvenire; né v’è rimedio al malanno, poiché v’è un limite fisico alla capacità di lavoro dei finanzieri ed uno economico alla capacità di pagare dei contribuenti, che sono sempre gli stessi come le comparse dei teatri.
È conservatorismo guardare in faccia la realtà; e dire che il problema del pane non si risolve con apparenze tributarie, ma unicamente con l’aumento del prezzo del pane? È conservatorismo affermare che questa sola politica è realistica e conforme al vero interesse nazionale? No. Noi anzi sentiamo di essere i veri democratici ed i veri difensori del tenor di vita delle moltitudini. Non è ingiusto, no, che ognuno, anche il lavoratore, paghi il pane quel che costa e realmente vale. I lavoratori sono pagati oggi con salari alti, perché espressi in moneta svalutata. Con la stessa moneta ed a prezzo svalutato paghino il pane. Se i salari attuali non bastano, si accrescano. Noi non abbiamo nessuna obiezione a che si riconduca l’equilibrio tra paghe e prezzo del pane. Sarà per l’industria preferibile pagare i salari cresciuti piuttostoché vedere lo stato indebitarsi, pompare imposte enormi a vuoto, peggiorare i cambi e crescere di continuo l’irrequietudine sociale. In un regime di elemosine nessun popolo prospera. È una illusione sperare di vivere alle spalle degli altri. La scelta non è tra conservatori ed innovatori; ma tra coloro i quali temono di provocare una crisi politica con un ritorno brusco alla realtà e temporeggiano e tergiversano e noi, che diciamo che ogni giorno, ogni ora di ulteriori tergiversazioni può provocare la caduta nell’abisso. C’è pericolo nella mora. Ogni centinaio di milioni di biglietti emessi in più per coprire il disavanzo del pane scredita oggi lo stato e svilisce la moneta, più di quanto un anno fa accadesse a causa della emissione di un miliardo. Il deprezzamento e lo scredito sono fenomeni progressivi; sicché ogni aggiunta nuova in una situazione già tesa provoca conseguenze spaventose. Ogni uomo di governo deve veder chiaro quale è il pericolo. Non è questione di persone; ma di coraggio nel fronteggiare i facinorosi e gli energumeni. Lo abbia questo coraggio l’onorevole Giolitti; veda almeno l’assurdo di attirarsi contumelie senza fine dai nemici veri del popolo, e cioè dai socialisti, per 30 centesimi di aumento e per soli 10 centesimi di differenza tra il pane grosso e il pane piccolo. Poiché le contumelie debbono esserci, poiché la taccia bugiarda di affamatore non può essere evitata, si sopportino almeno le contumelie e si incorra nella taccia per qualcosa di più tangibile. L’aumento sia almeno visibile e la differenza tra i due prezzi palpabile. Sarà incamminato l’erario sulla via della salvezza e saranno, contro la volontà proterva dei socialisti, salvi i lavoratori dalla disoccupazione e da nuovi rincari della vita.
[1] Con il titolo Problemi insolubili [ndr].
[2] Con il titolo I due prezzi del pane [ndr].
[3] Con il titolo Aumentare il prezzo del frumento [ndr].
[4] Con il titolo Per il raccolto del grano. Un grido d’allarme [ndr].
[5] Con il titolo Mezze misure. (A proposito dei prezzi politici del frumento) [ndr].
[6] Con il titolo Un decreto inapplicabile [ndr].
[7] Con il titolo I veri affamatori del popolo e perpetuatori dei sopraprofitti [ndr].
[8] Con il titolo Mezza misura inaccettabile [ndr].
[9] Con il titolo Democrazia vera e realismo sono nella questione del pane [ndr].