Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967
Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo
Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 21-37
1. Don Chisciotte combatteva contro i mulini a vento. Chi in realtà non paga imposta grida sovra ogni altro perché egli è convinto di pagare più che ogni altro. I bilanci degli stati moderni sono aduggiati da miti, dietro ai quali c’è il vuoto.
Potentissimo fra i miti tributari contemporanei è quello dell’imposta pagata fino all’ultimo centesimo dall’impiegato pubblico. Ho riflettuto a lungo sul pro e sul contro dell’imposta sul reddito dell’impiegato; ed ho concluso che il pro è calante di peso. Giova, per la sua nitidezza, cominciare da quest’ombra feconda di rancori.
2. Nessun reddito, dice il canone dell’uguaglianza, – unico canone conosciuto in materia d’imposta, per l’assurdità propria dell’ammettere disuguaglianza deve andar esente da imposta. Quindi lo stipendio dell’impiegato, essendo reddito, deve pagare imposta al par di ogni altro reddito della medesima specie. Offenderebbe la giustizia, creerebbe una classe privilegiata chi mandasse esenti gli impiegati dall’imposta che tutti pagano. Perché il privilegio? Se ogni altro reddito simile paga l’8%, ed anche quello dell’impiegato paghi il medesimo 8%. Importa che l’impiegato non si senta estraneo alla vita dello stato, importa che, pagando tributo, egli sappia per esperienza che per lui lo stato non significa solo il vantaggio dello stipendio, non è solo una vacca da mungere, ma è l’ente collettivo al cui mantenimento bisogna provvedere con sacrificio proprio. Quand’anche l’imposta fosse per lui pura forma, importa che l’impiegato sappia ad ogni fin di mese che egli avrebbe ragion di riscuotere stipendio di 100 lire se l’imposta di 8 non glielo decurtasse a 92. Quella cifra e quella sottrazione sono, per lui e per gli altri, il simbolo della sua partecipazione alla vita collettiva. Questo è il peso che grava sulla bilancia del sì ed è peso, il cui valore morale è certo altissimo.
3. Valore puramente morale, ché il valore economico dell’imposta per l’erario pubblico è nullo, anzi, sia pure per importo trascurabile, negativo. Trattasi di mera partita di giro, il cui ufficio è esclusivamente di moltiplicare le scritturazioni sui pubblici libri contabili. Invece di scrivere e pagare gli stipendi in lire 92 nette, occorre scrivere 100, configurare una ritenuta di imposta di 8 e, dopo congrua scritturazione ripetuta per milioni di partite, pagare 92. Il rigiro di scritture non inganna nessuno. Nessun impiegato, in nessun momento della carriera, all’inizio, nel suo progresso, entrando in quiescenza, presta la minima attenzione alla cifra lorda dello stipendio; tutti occupandosi solo del netto. Il simbolo dell’imposta pagata disturba per le frazioni di lira a cui dà origine.
4. Il valore economico dell’imposta sull’impiegato è tuttavia, si afferma da taluno, effettivo per quanto tocca l’avvenire. E indifferente ricevere 100 meno 8, uguale a 92, ovvero 92; non è indifferente sapere che l’8 d’imposta può crescere a 10 o diminuire a 6. Lo stato può aver ragione di volersi riservare il diritto di far partecipare gli impiegati all’onere cresciuto od al vantaggio della diminuzione delle pubbliche spese in funzione del reddito nazionale. Quando tutti gli altri contribuenti debbono sottostare ad un sacrificio maggiore, perché non gli impiegati?
5. Allo scopo di valutare con esattezza il peso economico dell’alea di aumento o diminuzione dell’imposta nell’avvenire, si avverta che quel peso fu spesso ritenuto calante nel caso analogo degli interessi del debito pubblico. Anche qui si presentò il quesito: 5 lordo meno 1 d’imposta, uguale a 4 interesse netto per ogni 100 lire nominali del capitale del debito statale, ovvero 4 netto da qualunque imposta presente e futura? In Italia e, nella più parte dei casi, in Francia si concluse per il 4 immune da tributo, sovratutto, si osservi, perché l’immunità garantisce il sottoscrittore dal rischio di aumento futuro di imposta. Se il sottoscrittore è disposto a pagare 100 lire un 4% perpetuo, netto da qualunque imposta, non è altrettanto propenso a pagare ugual somma per un 5% lordo di imposta. Oggi l’imposta è del 20% del reddito e diffalca 1 lira dal reddito lasciando un resto uguale a quello ottenuto nell’altro caso. Ma il risparmiatore, il quale ha il coltello per il manico, perché il suo risparmio ha tuttora forma liquida di denaro, dubita che il 20% rimanga costante. Chi dubita, non pensa che l’aliquota possa diminuire al 18%; teme, ed è persuaso a temere dall’esperienza passata, che l’imposta cresca al 22%. Chi teme, esagera il pericolo temuto. Il rischio di aumento che, secondo la probabilità storica, dovrebbe in quel paese e in quel tempo essere limitato ad un 2%, è dall’immaginazione cresciuto al 4%. Si sconta, invece del 20% attuale e del 22% possibile, un 24% immaginario; e si capitalizza, suppongasi al 4%, in 95 lire il reddito di 5 meno 1,20 imposta immaginaria, ossia 3,80 nette previste. Lo stato, il quale oggi ha la scelta fra il vendere a 100 un 4% netto od a 95 un 5 lordo che, dedotta 1 lira di imposta attuale, importa un onere effettivo di 4 lire, sceglie il 4 netto. Il maggior prezzo capitale di 5 lire riscosso subito lo indennizza largamente per la rinuncia ipotetica al diritto di aumentare l’imposta in un caso di necessità futura e incerta che forse non si verificherà mai. Del resto lo stato non assume, di fatto, impegni eterni. Scadono i debiti a tempo, si convertono, alla prima occasione favorevole e legalmente utilizzabile, i prestiti perpetui. Nel momento della novazione, lo stato, nel fissare le condizioni del prestito, tien conto del diverso, maggiore o minore, onere di imposta e fissa il saggio di interesse in modo da trarre nuovamente vantaggio dall’offerta di un titolo netto invece che di un titolo lordo. In argomento di debito pubblico, il vantaggio economico «per l’erario pubblico» è dunque il fattore dominante della decisione. Lo stato non si attarda a riflettere se da un punto di vista morale o politico giovi dare l’impressione che anche i portatori dei titoli di debito pubblico paghino l’imposta. Lo stato sa che quella è una impressione contabile, la quale non ha nessun rapporto con la realtà; e passa sopra all’impressione, preoccupato solamente di fare il «proprio» vantaggio.
Il «gran tesoriere» o ministro delle finanze non geme sotto l’incubo dei miliardi di lire di titoli di debito pubblico immuni dal tributo. Dissimile da quel granduca di Toscana, del quale si favoleggia dicesse: sì il granducato è mio, ma la terra è dei preti e frati e monache, che non pagano imposte!, il moderno tesoriere dello stato s’è fatto pagare in anticipo il prezzo dell’immunità largita; e si farà pagare opportuni nuovi acconti di prezzo ad ogni volta il contratto di mutuo, giunto a scadenza, sarà novato. Esiste forse un comandamento divino, il quale obblighi ad esigere il balzello ad ogni anno piuttostoché decupla somma ad ogni dieci anni?
6. Perché lo stesso ragionamento non deve applicarsi allo stipendio degli impiegati pubblici? La scelta non potrebbe essere fra il pagare 100 lordo meno 8 d’imposta uguale a 92 nette ed il pagare 90 nette da qualsiasi imposta presente e futura? Gli impiegati non preferirebbero forse, a gran maggioranza, un 90 assicurato contro qualsiasi variazione di imposta ad un 92 incerto? Né lo stato sarebbe legato al 90 in perpetuo. Mutando notevolmente l’onere del tributo, lo stato potrebbe, ferme rimanendo le condizioni pattuite per i vecchi impiegati, fissare per i «nuovi» lo stipendio netto in 88 od in 92 lire. Poiché il fato degli impiegati è quello di morire, ancor prima che alla vita, all’impiego, la variazione, anche se riferita soltanto ai «nuovi» finirebbe a poco a poco con l’estendersi a tutti. Perché l’immunità dall’imposta non dovrebbe essere feconda, nel caso degli impiegati, del medesimo vantaggio per il pubblico erario che è sua caratteristica per il debito pubblico? L’immunità agirebbe sull’immaginazione con potenza maggiore del suo valore reale. Non è forse risaputo quanta virtù possedesse in passato, quando essa era un raro privilegio, la prospettiva della pensione, a procacciare allo stato servitori fedeli laboriosi capaci e contenti di stipendio inferiore ai guadagni possibili nelle attività private? Oggi il miraggio della pensione opera meno, perché sta diventando universale, grazie alle leggi sociali di previdenza per la invalidità e la vecchiaia. L’immunità dell’imposta sarebbe un ottimo sostituto di quel miraggio e sarebbe feconda per lo stato di non minore risparmio di spesa.
7. Sarebbe feconda altresì di un vantaggio morale, non suscettibile, come ogni altro fatto morale, di misura quantitativa, di peso non però piccolo; ed è il mancato stimolo all’invidia. Dove lo stipendio dell’impiegato è tassato, il suo è il metro della giustizia tributaria. Poiché egli è tassato sull’intiero reddito e neppure un centesimo del suo reddito sfugge al tributo, ogni altro contribuente è frodatore se il suo reddito non sia tassato altresì sull’intiero reddito e questo non è misurato con i medesimi criteri con cui sono misurati gli stipendi.
Non monta osservare che una parte soltanto dei redditi nasce ed entra, al par dello stipendio dell’impiegato, nella economia dei contribuenti in cifra fissa, determinata in quantità certa legalmente dovuta, laddove la gran massa dei redditi sorge ed entra in quantità variabili ed incerte, mal note allo stesso contribuente; e quindi ragionevolmente diversi debbono essere i criteri di misurazione.
Non monta, ché gli impiegati hanno sempre pronti ragionamenti atti a dimostrare che i loro redditi sono più belli, ossia più agevolmente accertabili, di ogni altro. Se si tratta di redditi anch’essi certi, come gli interessi dei capitali dati a mutuo, eccoli osservare che gli interessi, accertati con sicurezza, dei mutui ipotecari o delle obbligazioni ecc., sono una quantità trascurabile in confronto agli interessi dei mutui chirografari o cambiari non registrati, i quali sfuggono all’accertamento. Addosso perciò a chi paga per fargli subire il fio delle colpe del frodatore! Non vale constatare che, oggi, gli impiegati privati non possono nascondere gratificazioni, mance, indennità, e che è praticamente impossibile l’accordo illecito a danno del fisco, fra datori di lavoro ed impiegati. Corre negli uffici pubblici la leggenda che l’impiegato privato non paghi ed è leggenda divenuta dogma incrollabile.
Se si tratta di redditi incerti e variabili di industriali e commercianti, oggi tassati in Italia col 14% dal solo stato e col 20% circa in complesso dallo stato, dagli enti locali e dagli altri enti aventi diritto di imposizione, o di professionisti tassati col 12% dal solo stato e col 16% almeno in complesso, l’invidia produce risultati assai più perversi. Poiché, come si disse dianzi, il solo canone universalmente ammesso e pacifico di tassazione è il canone di uguaglianza, le tre aliquote diverse di tassazione dell’8% sugli impiegati pubblici, del 16% sui professionisti e del 20% sugli industriali si conformano evidentemente a quel canone solo se si ammetta che, laddove si tassino gli industriali sull’intiero reddito, i professionisti meritino di essere tassati sui quattro quinti di esso e gli impiegati pubblici su due quinti. Un rapporto di tassabilità come fra 100 ed 80 fra redditi industriali e professionali pare approssimativamente corretto. Ambi sono incerti e variabili, ambi dipendono dalla vita e dalla capacità di lavoro del contribuente. Ma l’uno, quello dell’industriale, vive anche oltre la vita produttiva di lui, sia pure di vita ridotta e destinata a spegnersi ben presto se non lo conforti nuovo lavoro di altro contribuente. Ma il figlio, la vedova, l’erede dell’industriale può, liquidando l’impresa, trarne un capitale capace di produrre un reddito, più scarso bensì, talvolta assai più scarso, ma perpetuo. Laddove il reddito del professionista muore con lui e, salvo casi rari, la cessione dell’avviamento non ha quasi importanza. Queste son le ragioni, persuasive al buon senso ed all’opinione media, le quali dicono che, se si vogliono tassare tutte le cento lire del reddito dell’industriale, è corretto tassare solo 80 lire sulle 100 del reddito del professionista, ovvero, il che fa lo stesso, se si tassano col 20% le 100 lire del primo, fa d’uopo tassare soltanto col 16% le 100 lire del secondo.
8. Sono ugualmente persuasive le ragioni le quali dicono che, se è corretto tassare col 16% il reddito del professionista, si deve in ossequio al canone dell’eguaglianza, tassare coll’8% lo stipendio dell’impiegato pubblico? Limitiamo il confronto a queste due categorie; che avendo ammessa la correttezza del rapporto da 100 ad 80 fra industriali e professionisti, ove si ammetta per corretta la proporzione da 2 ad 1 fra la capacità di pagare dei redditi professionali e di quelli impiegatizi, risulterebbe dimostrata anche la correttezza del rapporto istituito fra impiegati ed industriali.
Dire che il guadagno del professionista merita di essere tassato col 16% e lo stipendio dell’impiegato pubblico coll’8% equivale a dire, secondo il canone dell’uguaglianza, il quale impone che due redditi uguali debbono essere tassati ugualmente, che se il reddito del professionista è tassato col 16% sull’intero suo ammontare, il reddito dell’impiegato deve essere tassato del pari col 16% sulla metà del suo ammontare.
Risponde la norma al comando del buon senso applicato all’osservazione dei fatti reali? Non pare, ove si parta dalla premessa, logicamente necessaria, che qui si confrontano unicamente redditi uguali. Si paragonano cioè tra loro due redditi di 500 o due di 1000 o due di 3000 lire al mese; non un reddito di 500 di impiegato con altro di 3000 di professionista. Paragonare 500 con 3000 significa discutere non della specie del reddito ma del suo ammontare. E di ciò si può discutere, qualunque sia la specie del reddito, ma non ha importanza per il problema qui esaminato. Se i redditi dei professionisti sono in generale più vistosi saranno colpiti con aliquota più elevata nella sede (in Italia la complementare) scelta a colpire di più i redditi grossi dei minuti. Non perciò è lecito confondere il più grosso col diverso.
9. A parità di ammontare, i due redditi come si distinguono dunque l’uno dall’altro?
Reddito di impiegato | Reddito professionale
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È legalmente dovuto fin dall’inizio. | È sperato.
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È in somma certa. | È in somma incerta.
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È in somma fissa. | È in somma variabile.
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È dovuto durante i congedi di vacanza periodici. | Non è accumulabile, se non in parte, durante i congedi contro descritti.
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Dà luogo a pagamenti totali durante le malattie brevi o parziali e durante più lunghi periodi di aspettativa per ragioni di salute.
| Non dà luogo ad alcun pagamento in tempo di malattia o di assenza per ragioni di salute.
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Dà luogo ad un trattamento di pensione.
| Non esiste diritto a pensione.
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La pensione è parzialmente riversibile alla vedova ed ai figli. | Non esistendo pensione non esiste riversibilità.
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Il reddito dell’impiegato, a parità di ammontare, vale di più di quello del professionista. Se l’impiegato può ragionevolmente spendere tutte le sue 100 lire, il professionista che facesse altrettanto, si comporterebbe imprudentemente. Le sue 100 lire sono godibili solo in parte. Quale sia questa parte è impossibile dire con certezza. Approssimativamente, si potrebbe dire che il professionista è al sicuro se si limita a spendere la metà, è imprudente se spende più dei tre quarti del suo reddito. Il resto non è reddito, è accantonamento per bisogni futuri, simile al contributo del 6% che l’impiegato pubblico versa in Italia al fondo pensioni e su cui pacificamente non cade imposta. Perciò, ancora, la logica vorrebbe che se l’impiegato è tassato su 100, il professionista debba, all’incirca, essere tassato soltanto su 60, ovvero che se l’impiegato deve una imposta dell’8% il professionista ne debba una del 5%. S’intende, dell’8 e del 5% rispettivamente «in complesso» allo stato, province, comuni ed altri enti tassatori, poiché impiegati e professionisti si giovano ugualmente, in quanto tali, dei servigi di tutti gli enti centrali, locali e di categoria. Invece del 5%, i professionisti pagano suppergiù il 16%, più del triplo.
10. Se si chiede la ragione della discrepanza fra il ragionamento e la realtà, si odono risposte vaghe incerte. Poiché non si può arguire dal fatto nudo che gli uni sono impiegati e gli altri professionisti, ché tanto varrebbe arguire dal fatto che gli uni sono simpatici e gli altri antipatici, gli uni hanno i capelli neri laddove gli altri li hanno biondi, si sussurra vagamente che il maggior peso comparativo – più del triplo – gravante sui professionisti, è la difesa dell’erario contro la frode fiscale. I professionisti occultano gran parte, si dice, del loro reddito; epperciò se basterebbe far loro pagare un 5%, ove pagassero su 100, fa d’uopo invece paghino il 16%, poiché essi si industriano a pagare solo su 30 lire ogni 100 del loro vero reddito. L’argomentazione, in verità, non è esposta in siffatta aperta maniera; ché sarebbe troppo indecente. Coloro che la sussurrano, non osano affermare che il legislatore compia un atto di giustizia (16 invece di 5) allo scopo di ovviare alle conseguenze di una frode (denuncia da parte di contribuenti professionisti di 30 invece di 100). Se frode esiste, lo stato non può abbassarsi quasi a legittimarla dicendo: «so che voi frodate; prendo atto della frode e la elimino tassandovi con peso triplo del giusto». Il legislatore, il quale usasse linguaggio tanto grossolano, inviterebbe senz’altro anche i contribuenti onesti alla frode. Né il legislatore ha mai così parlato.
II. I difensori dell’aliquota tripla di quella corretta girano perciò la posizione ed affermano che, nei riguardi del professionista, i funzionari della finanza tengono conto di fatto delle caratteristiche precarie incerte terminabili del reddito del professionista e lo valutano al di sotto della realtà. Non si tratta di frode, ma di equità. Si sa che il professionista ha reddito incerto variabile, il quale cessa durante le ferie e le malattie, scema e scompare in vecchiaia e non dà luogo a pensioni riversibili. Perciò i funzionari sono equi e abbassano il reddito imponibile al disotto di 100. Chi oserebbe tuttavia affermare che essi lo abbassino da 100 a 30 circa, quanto sarebbe necessario perché l’aliquota legale del 16% diventasse di fatto del 5%, quale dovrebbe, per il canone dell’uguaglianza, essere? Corrono esagerazioni grossolane intorno all’occultamento o, come altri dice, al benigno apprezzamento dei redditi professionali. Salvo casi eccezionali, i quali non possono erigersi a norma di giudizio, le due quantità del reddito effettivo e del reddito accertato si sono a poco a poco avvicinate singolarmente; e non sarebbe da far meraviglia che in anni di depressione nei redditi, le cifre accertate siano rimaste non di rado «al di sopra» delle cifre vere. Accanto a qualche mezza dozzina di professionisti principi nelle grandi città, rispetto ai quali una certa benignità di trattamento può darsi sia fatto reale, per la grande maggioranza vale il vecchio proverbio: denari e santità metà della metà. Salvoché nelle chiacchiere delle botteghe di caffè, dove si compilano dagli sfaccendati le liste dei pingui redditi altrui, la media dei redditi professionali accertati non sta troppo al di sotto della media dei redditi effettivi.
12. Il punto essenziale è che, sia pure ridottissima di fatto in confronto all’immaginazione, ogni benignità di fatto negli accertamenti è inammissibile. Due metodi possono essere adottati dal legislatore per tassare equamente l’impiegato ed il professionista, se egli sia persuaso che, per le caratteristiche inferiori del suo reddito, il professionista debba pagare una imposta uguale ai cinque ottavi di quella pagata dall’impiegato:
Primo metodo: imponibile uguale ed aliquota differenziata:
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Impiegato | Professionista
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Reddito effettivo | 100 | 100
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Reddito imponibile | 100 | 100 |
Aliquota % | 8 | 5 |
Imposta pagata, lire | 8 | 5 |
Secondo metodo: imponibile ridotto ed aliquota uguale:
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Reddito effettivo | 100 | 100 |
Reddito imponibile | 100 | 62,50 |
Aliquota % | 8 | 8 |
Imposta pagata, lire | 8 | 5 |
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Il primo metodo fu adottato dal legislatore italiano del 1923, il secondo da quello del 1864. Ambi sono corretti, e producono effetti uguali, purché alternativi. Scelto l’un metodo dal legislatore, esso deve essere applicato con rigidità; e non innalzare l’aliquota sui professionisti dal 5%, che sarebbe dovuta per uguaglianza di peso al 16% per il motivo o pretesto che il reddito imponibile, invece di essere 100, di fatto è 30. Su qual testo di legge si fonda una stima presunta tanto inferiore al vero? In verità, non è esatto affermare che la stima sia 30; essendo probabile che essa oscilli, a seconda dei casi e degli anni, fra un 30 ed un 120, con un centro di gravità empiricamente valutabile a forse 80; cosicché, se queste intuizioni sono vere, il professionista paga dal 12 al 14% del suo reddito effettivo invece del 5 che gli spetterebbe. Sperequazione meno grave di quella da 16 a 5, ma tuttavia fortissima.
13. Dalla sperequazione vi è una via di uscita: togliere di mezzo l’ingombrante pietra di paragone, ossia l’imposta sugli impiegati. Improduttiva anzi costosa per l’erario, l’imposta sul reddito degli impiegati pubblici eccita l’ira e l’invidia di questi, i quali seguitano a ripetere fastidiosamente noi paghiamo su tutte 100 (e non è vero, poiché pagano su 93 circa, che sono le 100 meno i contributi pensioni e sussidi) e gli altri pagano su 80, su 70, su 60 ecc. ecc. Non v’ha impiegato il quale nell’intimo foro della sua coscienza non sia convinto che gli «altri», tutti gli altri, industriali, agricoltori, professionisti, impiegati privati, operai frodino a man salva e non paghino che su una frazione irrilevante del loro reddito. Ah! se tutti pagassero, non vi sarebbe bisogno di far pagare tanto!; ah! se tutti pagassero, quante spese si potrebbero affrontare!; ah! se tutti pagassero, – come paghiamo noi, si sottintende – i ministri delle finanze non sarebbero travagliati dallo spettro del disavanzo! Il grottesco di tutto ciò è che tutti pagano, in realtà o in apparenza, assai; e, se nessuno pagasse, non si capirebbe donde vengano in Italia i più che 25 miliardi di imposte sacrosantamente ogni anno versati nelle casse statali e locali da un reddito nazionale totale che solo qualche statistico dotato di gran buon cuore estimativo osa spingere sino a 120 miliardi. Tra i fantasmi, di cui «in parte» si compongono quei 25 miliardi, e senza i quali quei 25 miliardi non potrebbero sul serio essere pagati, il più impalpabile di tutti è il fantasma dell’imposta sugli impiegati, mero giro contabile, sotto cui non sta alcuna sostanza.
Taluno, forse, paventa la tracotanza dell’impiegato fatto immune dal tributo? Dicesi che in qualche paese forestiero la superbia propria dei pochi che, tardi di intelletto ed investiti di una minima particella del potere di coazione, tiranneggiano il pubblico dietro uno sportello ufficiale, sia stata cresciuta dall’immunità tributaria. A me sembra di non dover temere, per tal motivo, incremento di superbia. I più tra gli impiegati ben sanno che il loro ufficio sta nel rendere servizio e non nel recar noia al pubblico; e sui pochi tonti potrà più la preoccupazione di perdere l’immunità, la quale è privilegio, che non il desiderio di menarne vanto, che potrebbe offendere e provocare l’abolizione del privilegio.
14. Io non so se l’imposta gravi su qualcuno, impiegato o non impiegato. L’idea che l’imposta sia un qualcosa che gravi su qualcuno è un sottilissimo inganno da cui gli uomini sono presi e che li spinge ad assaltarsi l’un l’altro con gran rabbia. In attesa di analizzare (nel capitolo ottavo) le fila di cui l’inganno è tessuto per tutti, sciogliamo uno dei suoi groppi più aggrovigliati, abolendo l’imposta sugli impiegati e rendendo a questi la serenità. Ridotti gli stipendi da 100 lordi a 90 netti,[1] gli impiegati, guardandosi attorno si persuaderebbero facilmente che le loro remunerazioni sono superiori alla media delle remunerazioni private[2] per lavori di ugual pregio e non persevererebbero nell’accanimento di universali immaginarie presunzioni di frode verso i contribuenti. Chi fosse o fosse reputato in condizione di privilegio, anche se il privilegio fosse voluto dall’interesse dello stato, non oserebbe moralmente gridare contro i non privilegiati. Colui che fosse immune da imposta non avrebbe veste per accusare altrui di frode. La equità o perequazione fra i paganti potrebbe essere così meglio osservata, senza interferenze emotive perturbatrici da parte di chi, non pagando, oggi immagina stravagantemente di essere solo a pagare.
15. Il fantasma dell’imposta sugli stipendi degli impiegati interessa forse più degli altri perché intorbida l’intelletto e l’animo di uomini vivi, esagitandoli contro altri uomini vivi. In altri casi, l’evidenza del fantasma è così chiara, che gli uomini incontrandosi dovrebbero al più ammiccar tra loro come auguri, sorridendo. Eppure il fantasma, se è d’imposta, ha la virtù di esasperare sempre, sovratutto se a torto. A volta a volta, i proprietari di terre, di case, di valori mobiliari montano in furia a cagion del peso d’imposta che li grava. Può darsi che il balzello li schiacci davvero; ma non è raro il caso che esso sia un mero ricordo di cose che furono ed oggi non toccano più gli uomini viventi. Tizio ereditò un fondo rustico, quando fruttava nette 5000 lire, gravate da 1000 lire d’imposta. Nella sua testa e nell’apprezzamento del mercato, il reddito netto non fu mai diverso da 4000 lire nette ed, al saggio di interesse del 5%, il capitale corrispondente non fu mai diverso da 80000 lire. Quand’egli, da rustico fattosi cittadino, si decise a vendere la terra e riscosse il prezzo di 80000 lire, Tizio non pensò ad imposte. Egli ed intorno a lui il mercato, composto di mezzani faccendieri e di aspiranti compratori, contrattarono il prezzo capitale in 80000 lire sulla base del reddito netto di 4000 lire annue. Gli doleva che il padre gli avesse tramandato il fondo gravato di un onere da imposta di 1000 lire annue? Certamente sì; ma non più di quanto gli dolesse che il fondo, in conformità ai sapienti disegni della divina provvidenza, non avesse l’abitudine di ararsi seminarsi curarsi mietersi o vendemmiarsi da sé, sicché convenisse abbandonare al mezzadro la metà del prodotto. Il rincrescimento per queste ed altre disavventure le quali riducevano il reddito del fondo dalle 12000 lorde alle 4000 nette era alquanto attutito dal trascorrere del tempo e dalla lunga consuetudine delle generazioni che avevano assuefatto gli uomini a considerare la vicenda come rispondente all’ordine naturale delle cose. Forse, se, durante il tempo del suo possesso, per il crescere delle imposte da 500 a 1000 lire e l’incremento delle spese di coltivazione da 6000 a 7000 lire, il reddito netto si fosse ridotto da 5500 alle odierne 4000 lire, egli avrebbe sentito più vivace il dolore della perdita recente delle ultime 1500 lire. L’accaduto non poteva, tuttavia, essere posto nel nulla: non gli incrementi di imposta e non le «conquiste» dei coloni. A che pro indugiarsi nei rimpianti del: se non esistesse l’imposta, se i coloni non fossero montati in superbia, se non fosse giunto il flagello della peronospora o della fillossera, se quinci e se quindi, io avrei 8000 o 10000 o 20000 lire di reddito, invece di 4000!? Di fatto son 4000 annue e nulla più, uguali ad un valore capitale attuale di 80000 lire. Tizio, che dalla campagna è andato in città con le 80000 lire da investire, continua a pagare od a sentire l’effetto delle 250 lire di imposta ché pagava suo nonno, delle 250 lire in più che pagò il padre suo e delle 500 lire che si aggiunsero durante la sua vita rustica? Sì o no; ma non più di quanto egli senta e racconti ai figli suoi i ricordi delle tante altre cose belle che allietavano gli antichi in confronto delle tante brutte che angustiano gli sventurati viventi. Continua egli a pagare o a sentire il pagamento delle 20000 lire di capitale che egli avrebbe in più se sulla terra venduta non avesse gravato il sedimento stratificato delle 1000 lire annue di imposta?
16. L’erario pubblico incassa dunque le 1000 lire; ma è dubbio se qualcuno vi sia al mondo che senta il dolore del pagamento. L’imposta, per il rustico che se ne va in città, è diventata un’ombra, un fantasma, un rimpianto, l’occasione di racconti che si farebbero, se in città vi fossero ancora inverni e focolari, nelle serate d’inverno accanto alla fiamma del focolare, ai figli ansiosi di sapere come era fatto il mondo nella campagna dove vivevano gli avi. Al rustico succeduto nel possesso del fondo quelle 1000 lire di imposta che egli pagherà ogni anno recano un mero affanno di ostentazione. Egli ha pagato il fondo 80000 lire in relazione alle 4000 lire di reddito netto presunto. Se l’imposta non fosse esistita, egli avrebbe pagato 20000 lire in più, in rapporto alle 1000 lire di maggior reddito; così come avrebbe pagato altre 100000 o 200000 lire in aggiunta se, invece di acquistare il fondo in questa trista terra dove vivono mezzadri ed altre fonti di spesa, egli l’avesse fatto suo nel paese di Bengodi, dove il latte scorre nel letto dei fiumi, le fonti dan vino e dagli alberi pendono salsicce cotte. Nel qual regno di Bengodi, del resto, nessuno probabilmente ti pagherebbe nulla per aver terra. Egli non ha ragione di querelarsi delle imposte, più che degli altri flagelli di dio ai quali è abituato e di cui ha tenuto conto nel contrattare il prezzo d’acquisto. Forse col tempo, poiché il rustico è invincibilmente querulo ed a tratti perde la memoria, accadrà che egli si scordi di avere contrattato il fondo al prezzo di 80000 lire ad occhi bene aperti, dopo considerata ogni cosa, e ricominci a dolersi delle 1000 lire di imposta. Dapprima non oserà manifestare il dispiacere, poiché sa che tutti nel vicinato conoscono il prezzo da lui pagato e gli chiederebbero: «Forseché le 4000 lire non ti bastano sul capitale di 80000 lire da te spese?; col pretendere di tenere per te le 1000 lire dovute allo stato non chiedi l’altrui?» Col passar del tempo, accompagnati all’ultima dimora gli ultimi non immemori amici, le lagnanze prenderanno corpo; e, quando morirà, i figli saranno fatti persuasi, dal ricordo delle sue querele, che essi e non altri pagano le 1000 lire di imposta, le quali invece son roba dello stato, non foss’altro perché i proprietari attuali non ne hanno pagato il prezzo.
17. A porla dal verso dell’inurbato, punge la fitta del pensiero che, se quelle tali imposte non fossero esistite ed egli avesse potuto inurbarsi con 100000 lire in tasca invece di 80000 egli avrebbe potuto acquistare un appartamento del valore di 100000 invece che di 80000 e sarebbe stato lieto di pagare 100000 lire per la stessa ragione per la quale egli avrebbe potuto vendere il fondo a 100000 lire, ossia per l’assenza dell’imposta di 1000 lire all’anno che oggi gli riduce il reddito netto dell’appartamento da 5000 a 4000 lire? Quanti e se! Dimostrano, tutti questi e e se, che le 1000 lire d’imposta sulla terra venduta o sulla casa acquistata sono lire di un genere assai singolare. L’inurbato, se avesse preferito allogarsi in casa altrui, avrebbe dovuto pagare un canone di fitto di 6000 lire all’anno, ché a tal prezzo corrono gli appartamenti del tipo da lui preferito. Se acquista, egli deve rinunciare al reddito di 4000 lire che avrebbe potuto ottenere dall’impiego della somma posseduta, pagare 1000 lire di imposta all’erario e 1000 lire in ragione delle spese di gestione del fabbricato posseduto in condominio.
Forseché il pagamento dell’imposta di 1000 lire gli arreca dolore? Non certo a causa di un minor reddito del suo capitale; ché nessun altro impiego gli avrebbe dato più di 4000 lire. Non a cagion di un costo troppo alto dell’appartamento; ché il valore corrente del canone sul mercato è 6000 lire ed egli non paga più di tanto. Egli si può lamentare dell’imposta in astratto; potendo darsi che, se imposte non esistessero al mondo, gli appartamenti di quella fatta correrebbero forse sul mercato per 5000 anziché per 6000 lire all’anno; ma correrebbero per 4000 se, in aggiunta, non esistessero spese di condominio e per 3200 se, ancora, il saggio di interesse fosse del 4 anziché del 5%. Cosicché, di nuovo, l’imposta per Tizio, rustico inurbato, si riduce ad un generico rimpianto di non essere venuto al mondo nell’epoca del paradiso terrestre. Dallo stato di umbratile rimpianto l’imposta riacquista corpo a mano a mano che, invecchiando, egli perde la memoria dello stato di piena soddisfazione in cui egli visse quando investì le 80000 in un appartamento fruttifero di un canone lordo di fitto di 6000 e di un reddito netto di 4000 lire. La perdita della memoria economica è talvolta affrettata dal sopravvenire di tempi nuovi nei quali egli avrebbe potuto investire, se li avesse avuti liberi, i suoi denari al 6 od al 7%; e, non amando gli uomini analizzare i fatti spiacevoli, il nostro uomo, per inerzia mentale, trovò comodo dar colpa alla imposta del reddito decurtato da 5000 a 4000 lire. La leggenda o confusione mentale trapassando nei figli, questi si fanno agevolmente persuasi di soffrire solo perché non hanno diritto di trattenersi le 1000 lire, che il loro autore non acquistò mai, perché non ne pagò mai il prezzo. Può dirsi imposta o peso o gravame sostanziale una persuasione fatta di immaginari ricordi e di confusioni di calcolo?
18. Prendiamo nota del fatto: esiste un vasto campo nel quale l’imposta è ombra, fantasma irritante per chi in apparenza la paga, sa che essa è da lui pagata senza danno e frattanto si irrita di non potersela appropriare mentre passa per le sue mani. Curioso dolore quello di non potersi appropriare la roba d’altri; e siffatto da mettere in una luce insospettata il dolore che gli uomini affermano di sentire quando pagano imposte venerande come quelle sui terreni e sulle case o moderne come quelle sugli interessi e dividendi dei titoli pubblici e privati. Chi paga l’imposta quando non si conosce nessun uomo vivo che ne sia danneggiato ed un calcolo edonimetrico per uomini morti appare alquanto più difficile di quelli che con tanto scarso successo si istituiscono intorno agli uomini vivi?
[1] O ad 84 od 83 per eliminare l’altro fantasma, che non interessa il nostro problema, della ritenuta del tesoro per il servizio delle pensioni e dei sussidi di quiescenza o morte. Anche questo è un fantasma contabile, il quale cresce, senza costrutto, le cifre dei nostri bilanci.
[2] Perché nessuno statistico ha tentato di fare un calcolo, anche approssimativo, del modo in cui il totale reddito nazionale (ad ipotesi, 120 miliardi di lire annue) si distribuisce fra questi italiani, i quali traggono redditi dai bilanci pubblici e gli altri che li traggono dai bilanci privati? Il calcolo sarebbe certo spaventevolmente intricato; ma anche grandemente istruttivo. Uno scandaglio compiuto, anni or sono, da Maffeo Pantaleoni (La curva dei redditi degli impiegati dello stato, in «L’Economista», Firenze, 18 gennaio 1914) conforterebbe l’impressione di chi scrive essere il quoziente medio spettante a chi vive sui bilanci pubblici superiore al quoziente spettante a chi trae i proprii redditi da fonti private. L’impressione o voce corrente è notoriamente diversa; ma non sarebbe la prima volta che la voce pubblica è difforme dalla realtà.