Il diritto allo sciopero
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/02/1947
Il diritto allo sciopero
«Corriere della Sera», 19 febbraio 1947
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 514-517
Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 844-848
Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 267-270
L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.
Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù, le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.
Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quest’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.
Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro, ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.
In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero, affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare, senza limiti di tempo, l’opera propria a favore altrui.
La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – e scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù, corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due facce del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore”: colui il quale, a suo rischio e vantaggio, mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore. Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.
Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano, riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata. Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù: in quel clima nel quale un’autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale, che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori, a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.