Il commercio dell’Italia nel 1900
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/03/1901
Il commercio dell’Italia nel 1900
«La Stampa», 5 marzo 1901
La Direzione generale delle gabelle ci ha inviato ieri la solita importantissima statistica del commercio speciale di importazione e di esportazione dal 1.o gennaio al 31 dicembre 1900.
Eccone le risultanze principali:
La importazione crebbe da 1506 milioni nel 1899 a 1699 milioni nel 1900. L’aumento è notevolissimo, ed è tanto più degno di essere rimarcato, in quanto l’attuale è la più alta cifra che mai si sia avuta dopo la formazione del regno d’Italia. Bisogna risalire al 1887, l’anno ultimo degli antichi trattati doganali, per avere la cifra non molto minore di 1605 milioni.
Invece le esportazioni diminuirono di fronte all’anno precedente; le merci esportate, al netto dai metalli preziosi, ebbero nel 1900 un valore di 1338 milioni di lire, mentre nel 1899 il valore era giunto a 1431. Occorre notare però, come malgrado che nel 1900 si sia esportato meno dell’anno precedente, si esportò sempre più che in qualsiasi altro anno dopo l’unificazione. L’anno in cui l’esportazione era stata prima maggiore (se se ne eccettua il 1899) fu il 1876, in cui esportarono tante merci per lire 1208 milioni.
In conclusione, nell’anno scorso non si può dire che sia stata poco vivace la corrente d’esportazione dal nostro Paese; ma essendo stata ancor più viva la corrente d’importazione, si ottenne come risultato un’eccedenza (al netto dei metalli preziosi) dell’importazione sulla esportazione di 360 milioni di lire è una grossa somma certamente; ma non è la maggiore fra tutte quelle che si siano avute in Italia. Ad esempio, nel 1890 l’eccedenza fu di 423 milioni; nel 1886 fu di 430 milioni; nel 1889 fu di 440 milioni. Nel 1885 l’eccedenza giunse alla cifra di 509 milioni e fu di 600 milioni nel 1887, che pure fu uno dei più prosperi per la nostra economia nazionale. A che cosa è dovuta questa eccedenza delle importazioni sulle esportazioni? In parte al fatto che noi nell’anno scorso mentre dovemmo comprare le merci estere a più caro prezzo di prima, fummo costretti a vendere le nostre merci ad un prezzo minore, dal che si originò un duplice svantaggio per noi.
Vedemmo infatti che l’Italia comprò nel 1900 un miliardo e 699 milioni di merci estere. Orbene se noi quelle merci avessimo potuto comprare agli stessi prezzi dell’anno precedente (1899) avremmo speso soltanto 1 miliardo e 567 milioni, con un guadagno di quasi 132 milioni di lire. Le differenze di prezzo sono notevoli sopratutto per il cotone, in cui si spesero 170 milioni, mentre ai prezzi antichi si sarebbe speso soltanto 119 milioni; per le pietre, terre, ecc., (in special modo carbon fossile) per cui si spesero 241 milioni invece di 186; e per i cereali e farine, in cui la spesa salì a 210 invece di 194 milioni.
D’altro canto se noi avessimo potuto vendere nel 1900 le nostre merci all’estero al medesimo prezzo a cui le vendemmo nel 1899, invece di incassare 1338 milioni ne avremmo incassato 1346, specialmente a causa degli spiriti, dei vini e degli olii nostri che furono alquanto deprezzati. La prima cagione dello sbilancio monetario e dunque la mutazione nel livello dei prezzi effettuatasi a tutto nostro danno. A causa del rialzo dei prezzi all’estero noi dovemmo comprare le materie prime per le nostre industrie (carbone, cotone) e le derrate di alimentazione (grano o farine) ad un prezzo più elevato, e vendemmo a prezzi minori le nostre derrate agrarie. Senza di ciò, lo sbilancio che fu di 360 milioni, sarebbe stato soltanto di 221 milioni.
Lo sbilancio ad ogni modo, per quanto minore, si sarebbe egualmente verificato. E ciò ci apre la via alla determinazione della seconda causa dello sbilancio predetto.
Per scoprire questa seconda causa è necessario eliminare l’influenza perturbatrice delle variazioni dei prezzi, di cui del resto abbiamo già tenuto conto sopra; ossia supporre che le merci importate ed esportate avessero nel 1899 e nel 1900 i medesimi prezzi, quelli del 1899. In tal modo si può vedere se si sia comprato e venduto di più o di meno quantitativamente nell’anno ultimo in confronto del precedente. Anche qui giungiamo a conclusioni simili a quelle di prima: si è comprato di più e si è venduto di meno.
Supponendo stazionari i prezzi, nel 1900 avremmo comprato 1567 milioni di lire di merci dall’estero, mentre nel 1899 ne avevamo comprate per soli 1506 milioni. Differenza in più 61 milioni. Gli aumenti maggiori negli acquisti si verificarono nei minerali, metalli e loro lavori (46 milioni); cereali, farine, paste e prodotti vegetali (20 milioni); legno e paglia (8 1/2 milioni); pietre, terre, carbone fossile, ecc. (7,7 milioni); spiriti e bevande (6 milioni); generi coloniali, droghe e tabacchi (4,6 milioni). Ci furono, è vero, delle diminuzioni in alcune categorie: per esempio nella seta (22,7 milioni); nel cotone (7 1/2 milioni); nelle lane (3 milioni); ma non giunsero a compensare le maggiori compre.
D’altro canto noi, sempre supponendo stazionari i prezzi al livello del 1899, avremmo venduto 1346 milioni di lire di merci all’estero, mentre nel 1899 ne vendemmo 1431 milioni. Differenza in meno 85 milioni. Il grosso delle perdite si ebbe negli spiriti, nei vini e negli olii, di cui vendemmo 40 milioni di lire di meno, nella seta in cui la perdita fu di 25 milioni, nelle paste e prodotti vegetali con una minor vendita di 14 milioni.
Così in parte perché comprammo di più e vendemmo di meno ed in parte perché fummo obbligati a comprare a più caro prezzo ed a vendere a più buon mercato lo sbilancio fra le importazioni e le esportazioni ascese alla non irrilevante cifra di 360 milioni di lire.
Errerebbe però chi credesse che questi 360 milioni di lire siano effettivamente usciti dall’Italia in moneta sonante, né, del resto, se il denaro fosse uscito, sarebbe questo stato un male per noi, come è risaputo da tutti coloro che conoscono un po’ della scienza economica quale si insegna dappertutto da cent’anni a questa parte.
In linea di fatto l’Italia provvide a pagare quei 360 milioni di merci da essa comprate in più di quelle vendute colle rimesse degli emigranti, con i noli della marina nazionale, con le rimesse inviate a favore degli stranieri che visitarono il nostro paese e che nel 1898 furono eccezionalmente numerosi, a causa del giubileo e di altre circostanze.
Certo sarebbe stato un bene se noi avessimo potuto comprare il carbone, il cotone, il grano a buon prezzo come prima; e vendere cari come prima i nostri prodotti. Ma che colpa ce n’abbiamo noi se i prezzi aumentarono all’estero; se il raccolto dell’olio e del vino va a male per malattie ed intemperie nel Mezzogiorno e se la politica protezionista degli altri paesi ci impedisce di vendere nella stessa misura ed allo stesso prezzo le nostre derrate agrarie?
I nostri sforzi devono tendere ora ad assicurare, con dei buoni trattati di commercio, un più largo sbocco alla nostra agricoltura; e questo non si otterrà, checché se ne dica, fino a quando ci illuderemo di proteggere l’agricoltura col dazio sul grano e non ci persuaderemo che l’unico modo efficace di proteggerla e di far liberali concessioni sui nostri diritti d’entrate industriali e cerealicoli, allo scopo di ottenere equivalenti riduzioni dalle nazioni estere sulle derrate che noi abbiamo bisogno di vendere ad esse.
La statistica ora commentata è la dimostrazione evidente di questo principio. Se noi avessimo avuto aperti più larghi sbocchi, avremmo potuto vendere meglio le nostre merci e con una minor quantità di esse avremmo potuto comprare una maggior somma di merci straniere. Ma per poter vendere bene agli altri, è d’uopo permettere agli altri di vendere a noi. Affrettiamoci quindi – e sul serio – a preparare, animati da uno spirito liberale e largo di mutue concessioni, un buon regime doganale per il venturo decennio. Questo è l’insegnamento delle odierne statistiche ufficiali.