Il caso dell’«Ilva». Industria e speculazione
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/05/1921
Il caso dell’«Ilva». Industria e speculazione
«Corriere della Sera», 8 maggio 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 157-160
L’assemblea generale dell’«Ilva» ha giustamente commosso gli azionisti, i quali non si attendevano certamente – a pochi giorni di distanza dell’assemblea ordinaria del 25 marzo, in cui si approvava il bilancio al 31 dicembre 1920 ed in cui nulla si era detto di presunte perdite del capitale sociale – a sentirsi annunciare che non solo tutto il capitale di 300 milioni poteva considerarsi perduto, ma che forse altri 125 milioni potevano considerarsi periti nel baratro delle svalutazioni. La relazione del direttore generale al consiglio, accenna, invero, alla possibilità che queste svalutazioni non siano definitive; e che i titoli posseduti, le merci, le scorte e gli impianti possono ricuperare una parte del valore perduto, quando siano trascorse le presenti condizioni di crisi industriale mondiale. Trattasi di speranze nell’avvenire: mentre la realtà amarissima dell’oggi è che le grosse perdite ci sono e devono essere constatate.
La sorte infausta degli azionisti dell’«Ilva» è tuttavia il lato meno importante dell’avvenimento. Duole che centinaia di milioni del risparmio nazionale minaccino di andare perduti; ma, dopo tutto, ognuno deve saper badare ai fatti propri e tenere gli occhi aperti sul modo in cui i consigli delle società anonime amministrano i risparmi ad essi affidati. Vi sono altre importantissime ragioni le quali inducono l’opinione pubblica ad interessarsi dell’avvenimento.
In primo luogo, l’«Ilva» è l’anima di quel gruppo siderurgico, il quale già una volta, nel 1911, fu salvato dalla rovina grazie all’intervento dello stato ed al consiglio dato dal governo agli istituti di emissione di operare il salvataggio con un mutuo a lunga scadenza di quasi un centinaio di milioni di lire. Il mutuo fu rimborsato, è vero; ma fu rimborsato grazie agli utili ottenuti durante la guerra e quindi grazie ad una causa connessa con un grande interesse nazionale. È lecito chiedere: come mai, nonostante il periodo prospero della guerra, l’industria siderurgica si ritrova oggi in distrette simili a quelle del 1911?
Le nuove difficoltà inducono gli attuali dirigenti a fare appello nuovamente all’interessamento dello stato. Né il governo pare sordo all’appello; almeno se si deve argomentare da un passo del discorso dell’on. Soleri a Cuneo, dove si legge un invito alle banche
«a dare opera, senza intenti sopraffattori dell’industria, ad aiutarla a superare l’ora difficile e ad evitare rovine, che sarebbero difficilmente riparabili, per la distruzione di ricchezze che rappresenterebbero e per la pubblica sfiducia che ingenererebbero nelle imprese industriali».
Non si sa se l’on. Soleri abbia precisamente alluso con queste parole alla industria siderurgica; ma, poiché questa è, fra tutte, quella maggiormente colpita dalla crisi, è ragionevole ammettere che essa abbia a chiedere più insistentemente delle altre quell’aiuto delle banche, di cui ha parlato l’on. Soleri a nome del governo. Ed infatti già si sente discorrere, come nel 1911, di un consorzio bancario che si starebbe costituendo per operare il salvataggio dell’«Ilva» e delle compagnie a questa associate. E sia pure. Ma il pubblico ha diritto di sapere, prima che governo e banche attuino le loro intenzioni benevole, in qual modo siano sfumati tanti milioni. Tanto più ne ha diritto, in quanto i siderurgici sono i più clamorosi nel chiedere fortissime protezioni doganali per resistere alla concorrenza straniera nel prossimo avvenire; ossia nel chiedere di essere aiutati, per ordine dello stato, con denari dei cittadini in generale. Astrazion fatta dalla questione del protezionismo e libero scambio, vien naturale di osservare: è lecito assoggettare i cittadini ad un grosso tributo a favore di un’industria privata, della quale ogni dieci anni occorre operare il salvataggio? Un sacrificio si impone ai contribuenti per ottenere risultati tangibili e benefici; non per vedersi presentato ogni dieci anni un bilancio disastroso di perdite dell’intiero capitale sociale.
Se, a differenza di quanto accade per l’industria privata in genere, esistono in questo caso serie ragioni di interessamento dell’opinione pubblica, le ragioni stesse acquistano vieppiù serietà e gravità se si dà ascolto alle voci le quali corrono e trovarono eco sui giornali, secondo cui le perdite colossali ora denunciate dall’«Ilva» non sarebbero dovute a cause inerenti all’industria medesima ed alla situazione di crisi attraversata nel mondo intiero. No; si dice. Le perdite maggiori dell’«Ilva» non sono nel reparto industriale, ma nel reparto finanziario. Essa ha perso somme notevoli perché le sue scorte ed i suoi impianti sono svalorizzati dalla crisi dei prezzi. Ma tali perdite sarebbero ben lungi dall’assumere le spaventose dimensioni annunciate nell’ultima assemblea. Le perdite più grosse si ebbero nel capitolo «portafoglio titoli». L’«Ilva», più che esercitare industrie, speculava su titoli, comprando azioni di società consorelle. Se questi titoli ribassano, centinaia di milioni possono sfumare d’un colpo.
L’accusa è vecchia. Ricordo che nel febbraio del 1911, forse per il primo in Italia, denunciai e descrissi su «La riforma sociale» il sistema della catena, per cui una società A possiede metà più una delle azioni della B e la B metà più una delle azioni della A; sicché un consiglio d’amministrazione, che riesca ad insediarsi al potere nelle due società, lo può conservare per sempre, avendo a sua disposizione la maggioranza delle azioni di ambedue le società. Ed aggiungevo che l’interessamento di una società in altre è ragionevole, quando abbia puramente scopi industriali e voglia conseguire una migliore coordinazione di lavori. Ma il sistema della catena in altri casi, aggiungevo,
«serve ai filibustieri per facilitare l’abuso del credito con lo scambio delle firme, per provocare movimenti nei corsi dei titoli federati, le cui cause sono a tutti ignote fuorché ai maneggiatori e le cui vicende paiono provocate a bella posta per facilitare lo scarico dei titoli cari e la ricompra dei titoli deprezzati da parte degli orditori delle trame speculative».
A distanza di dieci anni, oggi si sentono fare contro i dirigenti dell’«Ilva» e contro i dirigenti di altre colossali imprese industriali accuse di speculazione e di scarico nei portafogli delle società di titoli a prezzi ben superiori alla reale consistenza. I dirigenti, i quali si sarebbero così locupletati a danno delle società da essi amministrate, sarebbero quelli stessi che fondano giornali, ne comprano altri e vorrebbero far sorgere, accanto ad una catena di imprese prone ai loro disegni, una catena di giornali disposti ad ammaestrare il pubblico intorno alla convenienza di seguire una data politica doganale, fiscale, bancaria utile agli interessi dei finanziatori.
Intorno a queste voci diffuse e accreditate, specie nei circoli degli industriali e degli uomini di affari, è necessario far luce. Essendo scettico intorno ai risultati possibili di inchieste giudiziarie, parlamentari ed amministrative, dico che la luce deve venire dagli industriali e dai banchieri medesimi. Il mondo economico italiano è per nove decimi sano ed onesto. La classe dirigente dell’industria italiana ha grandi benemerenze di lavoro, di iniziativa, di costruttività. Ma non ha avuto finora un grande coraggio. In materia bancaria, si è prestata troppo spesso al salvataggio dei peggiori; in materia doganale, si è accodata a gente che chiedeva lavori per se, a spese di tutti. Abbiano il coraggio gli industriali ed i banchieri italiani di espellere da sé quelle che un grande industriale italiano in pubblica adunanza ha chiamato «le pecore rognose». E di dirne pubblicamente le ragioni. Se le pecore rognose veramente vi sono, l’opinione pubblica plaudirà unanime al coraggio di coloro che le avranno denunciate ed avranno separato la loro sorte e la loro responsabilità da quelle dei filibustieri dell’industria.