Il bilancio dello stato
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/07/1961
Il bilancio dello stato
«Corriere della Sera», 28 luglio 1961
Il piano del bilancio dello stato ha una caratteristica aggravante in confronto ai piani privati.
Questi, si è già detto, possono essere variati di momento in momento per decisione del singolo: massaia, donna o padrona di casa, industriale, commerciante, agricoltore; e, con qualche ritardo, per consenso di un piccolo comitato quasi sempre pronto ad accettare le proposte del consigliere delegato della società.
Per il bilancio dello stato, le discussioni dinanzi ai due rami del parlamento durano per lo più da marzo ad ottobre; discussioni consistenti in gran parte in querele per la insufficienza delle impostazioni di spesa e in dichiarazioni dei ministri di essere persuasi della bontà delle richieste, delle quali si terrà conto compatibilmente con le esigenze dell’orco, ossia del tesoro.
Non ancora votato in ottobre, il piano o bilancio è già antiquato; non corrisponde più alle esigenze del momento. Occorre cambiare qua e là le singole cifre; mai diminuendole e sempre crescendole, con apposite «note di variazioni».
Ogni proposta di nuova spesa, in virtù di un famigerato articolo 81, dovrebbe essere bilanciata da una nuova entrata od imposta. In parte, provvedono taluni grossi capitoli di spese varie, impreviste, straordinarie che erano stati ficcati nel bilancio ordinario, appunto per provvedere alle nuove spese; in parte col sopravvenire di quelle tali eccedenze di entrate, fissate per prudenza già all’origine, in cifra minore del probabile: ed in parte con la proposta di nuovi balzelli, improvvisati, male masticati, che guastano, con aggiunte sperequate, quell’armonia che poteva esistere quando fu impiantato o riformato il nostro sistema tributario.
È improbabile che, per sopperire alle spese nuove, si riducano le cifre delle spese vecchie che l’esperienza abbia dimostrato inutili o calcolate troppo largamente. Ogni ministero, ogni direzione generale, ogni ufficio difende, quasi fosse proprietà privata intangibile, le impostazioni originarie.
Se su un capitolo si sono preventivate 2.520.000 lire di spesa e per avventura se ne sono spese solo 2.340.000, la differenza risparmiata di 180.000 lire dovrebbe essere restituita al tesoro. Ohibò! mai più si commetta delitto così orrendo, contro le sacre tradizioni tramandate dai secoli!
Al più, le 180.000 lire vanno rinviate, sotto il nome di «residui passivi» all’esercizio successivo; cosicché su di esse si possa tirare per far fronte a spese in tutto differenti, che però si riuscirà in qualche maniera a far entrare nel concetto di quel tale capitolo. L’amministrazione non può rinunciare nemmeno ad una lira di quel che, bene o male, essa è riuscita a strappare all’orco, detto tesoro.
Se le cose vanno così rispetto al piano proprio dello stato, quale può essere la sorte di un piano economico nazionale? Se il paese di cui si tratta appartiene al gruppo comunista, nulla è da mutare. Il piano – bilancio dello stato abbraccia, salvo eccezioni minime, del campicello riservato al contadino o di talune botteghe artigianali, tutta l’economia del paese. Il ministro del tesoro di quei paesi ha sulle spalle anche quella che nei nostri paesi è la quota dei privati; amministrerebbe cioè non i 6 mila miliardi oggi statali; ma tutti i 18 miliardi, in cui gli statistici pare valutino l’intiero reddito o prodotto sociale nazionale.
Da noi non è ancora così. I 12 mila miliardi, non amministrati dal tesoro, sono ancora amministrati da milioni di cittadini privati e da migliaia di enti pubblici, e semi – pubblici. Il piano economico nazionale dovrebbe comprendere tutto, per conoscere, consigliare, incitare, costringere. Un sinedrio di uomini dotti dovrebbe compilare un progetto, o piano per mezzo del quale lo stato dovrebbe qua consigliare ai privati che cosa debbono fare, là premiarli se seguono bene i consigli, altrove punirli con multe od imposte se si conducono male, ed ancora sostituirsi ad essi, quando ci si persuadesse che l’azione dei privati è inetta a raggiungere il fine prefisso dai compilatori del piano.
Che potrebbe essere quello, si disse già, di aumentare il reddito nazionale, in un congruo numero di anni, da 18 a 24 mila miliardi e distribuirlo meglio, in modo da aumentare vieppiù i redditi minori in confronto a quelli maggiori.
Può darsi che di fatto la vicenda effettuale assecondi i desideri del piano; e di fatto nel secolo scorso dopo l’unità, dal 1861 al 1961, il reddito reale, in moneta supposta a costante potenza d’acquisto, è aumentato in modo insperato e quasi stupefacente. Mai, come oggi, il reddito reale è stato tanto alto; e mai le categorie più numerose della popolazione ne hanno goduto una percentuale cosi` grande. Nessuno sa se il miglioramento si sia verificato grazie ai piani, alle idee, ai programmi od all’opera dello stato. Sappiamo che il fatto è accaduto; e che i governi si sono sempre attribuito il merito di quel che di buono era accaduto nel paese.
Naturalmente si paga il dovuto omaggio agli «eroici» sacrifici dei contribuenti; ma il merito è sempre di chi volle attuare quei principii dai quali doveva derivare il bene.
Siccome in un articolo di giornale non si può dar fondo a tutto lo scibile umano, dirò soltanto che talune norme di azione per dare incremento all’economia sono vecchie come abacucco e sono sempre state adottate per conseguire certi scopi reputati desiderabili. Probabilmente talune di queste antichissime norme sono state decorate oggidì di nomi difficili, come di politica anticongiunturale od anticiclica. Si parlò sempre, a cagion d’esempio, della opportunità di distribuire, nel tempo, la spesa per lavori pubblici – strade, bonifiche, ferrovie, ponti, edifici pubblici – in modo da crear lavoro quando l’iniziativa privata langue; e di sospendere o rallentare quando l’industria privata è fervida e basta ad assorbire la mano d’opera esistente. Sempre accadde però che le cose andassero alla rovescia dei propositi del piano.
Quando l’iniziativa privata è languida ed i disoccupati aumentano, sono pronti i progetti di massima e quelli particolareggiati necessari per apprestare i lavori là dove essi sono utili e dove esistono i disoccupati? La coincidenza nel tempo e nel luogo fra l’utilità del lavoro e la presenza dei disoccupati è rara come quella di una mosca bianca. Nascono ritardi e disguidi. I disoccupati ci sarebbero, ma risiedono altrove. Come trasportarli e come alloggiarli e nutrirli?
I progetti degli alloggiamenti provvisori, oltre di quelli del lavoro da fare non sono pronti; e per non buttare i denari a mare, occorre il cosiddetto tempo «tecnico»; forse anni.
Frattanto il languore nell’economia privata vien meno ed i disoccupati sono stati collocati altrove. I famigerati due milioni di disoccupati che per anni – le cifre, non i disoccupati – ci hanno assordato le orecchie con le loro querele, oggi dove sono, quando nel triangolo industriale del nord non si trova un operaio disponibile, che sia capace di fare quel lavoro, che a lui specificatamente si chiede?
Per i disoccupati generici, pronti a far di tutto, occorrono anni per creare i mezzi opportuni per renderli abili al lavoro specializzato: anni per costruire le scuole, e sarebbe il meno, perché bastano all’uopo calce, cemento, mattoni e ferro, che sono cose disponibili; anni per creare gli insegnanti atti ad insegnare con passione e frutto quel tale mestiere, il che è cosa assai più difficile; anni per creare gli istituti dove si formino gli insegnanti capaci alla loro volta di fare maestri tecnicamente preparati.
I progetti di massima e particolareggiati di quel tale lavoro pubblico, che si voleva compiere sia perché esso era utile sul serio, sia perché giovava a scemare i disoccupati creati da una crisi economica sono finalmente pronti? Si può immaginare, anche se siamo passati in un’altra fase del ciclo economico ed i disoccupati più non esistono, che non si dia opera ad esso? Proteste di sindaci, di consigli comunali e provinciali, di deputati e di senatori. Ne va l’onore della regione. Il lavoro era stato promesso: quella strada, quel ponte, quella bonifica non si possono rinviare. Nove volte su dieci, il lavoro si fa anche se non è più giustificato dalla teoria della politica anticongiunturale od anticiclica, anche se si incontrano difficoltà per trovare la mano d’opera capace di compiere quello specifico lavoro.
Ho l’impressione perciò che, se tutto va bene, bisogna rassegnarsi quando si parla di piani economici nazionali ad un calo netto secco dei risultati, in confronto alle previsioni, di una grossa quota dello sforzo compiuto. Badisi che il calo esiste anche nel campo della iniziativa privata. Anche le massaie in media non sanno usare sempre bene le sostanze che acquistano per il vitto della famiglia.
Anche lì, che è il caso più semplice, una migliore educazione darebbe risultati notabili. Ma il calo nei piani pubblici, data la necessaria lentezza ed incertezza delle decisioni e la necessaria difficoltà nel mutare decisioni e nell’attuarle, pare sia grandemente più alto. Se lo scarto fra la spesa ed il risultato fosse solo del terzo, il successo mi parrebbe senz’altro grandioso.