I problemi della terra. Un progetto per la piccola proprietà
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/05/1921
I problemi della terra. Un progetto per la piccola proprietà
«Corriere della Sera», 7 maggio 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 150-156
«I partiti quando parlano di lavoratori si riferiscono sovratutto agli operai della città. I partiti sono costruzioni faticose di studiosi e sovratutto di politici che vivono nei centri urbani e non conoscono i bisogni del proletariato se non attraverso le grandi attività industriali. Basta guardare alla legislazione: tutte le provvidenze sociali per i contadini sono venute quando gli operai delle città le avevano già conquistate; l’assicurazione contro gli infortuni in campagna ha incontrato anzi lunghe resistenze ed è passata da poco.
Una quantità di brava gente, impiegati, professionisti, proprietari – anche proprietari di terre – si è trovata per la prima volta a vivere con i contadini durante la guerra. La borghesia ha fraternizzato allora davvero per la prima volta con le classi povere, e se il mondo non ne ha subito grandi trasformazioni è stato perché il ceto medio è diventato improvvisamente povero e viceversa. In trincea avevamo sovratutto dei contadini; gli operai delle città facevano cannoni, proiettili, e navi; i ferrovieri conducevano ammirabilmente – allora! – i treni; gli impiegati ottenevano spesso l’esonero per le crescenti necessità di tutta una nuova burocrazia, e gli uomini della terra si battevano. Nelle lunghe vigilie, nei servizi notturni di pattuglia, gli ufficiali comprendevano la psicologia dei soldati con una pronta intuizione che derivava probabilmente dai sensi acuiti in presenza del comune pericolo: pensavamo tanto tutti la stessa cosa, che veramente le anime comunicavano.
Mentre la psicologia dell’operaio è straordinariamente varia, quella del contadino è di una semplicità primordiale. L’operaio ha gusti, tendenze, desideri, sogni diversi secondo l’industria in cui si è specializzato; anche l’unskilled labor ha fluttuazioni di coscienza in cui si imprime con particolarissimo rilievo l’abitudine della fatica in cui si è più a lungo esercitato. L’operaio sa un’infinità di cose che il contadino ignora; ha una folla di bisogni che non sfiorano il contadino. Ha, per esempio, bisogno di divertirsi. Alla festa non si può farlo lavorare. Il contadino conosce la festa se è avventizio; ma se ha il suo pezzo di terra, passa anche le ore di domenica ad accarezzarla.
Poiché nella sua anima semplice, di una perfetta bontà allo stato naturale prima che l’azione politica l’avveleni, il contadino non ha che una passione, che un’aspirazione: la terra. È innamorato della terra, diceva bene ieri, Luigi Einaudi. La terra non lo tradisce mai; gli fiorisce sotto gli occhi, lo nutre; gli dà la pace e a poco a poco la ricchezza. Tanto più dà, quanto più è amata. È un amore che si esalta, si nutre di sé. Il contadino non ama mai la sua donna quanto la sua terra, anche perché la sua donna gli si guasta col tempo sotto gli occhi; e al confronto la terra ben lavorata, dalla fatica femminile, come dai figli che guastano le membra della madre, si fa ogni giorno nuova di qualche bellezza improvvisa ed ogni giorno più pingue.
Tutti noi al fronte abbiamo sentito con evidenza immediata quest’unica passione. I nostri soldati si battevano così bene perché pensavano alla terra. Perché si battessero meglio, attraverso gli stenti ed i pericoli di ogni giorno, perché resistessero, bisognava tenere presente ai loro occhi la loro «innamorata», dir loro che l’avrebbero avuta al ritorno, con la pace …
Così è nata la formula spiccia della terra ai contadini. Semplicisti, ho detto, essi l’hanno presa alla lettera. Per speculazione politica, socialisti e popolari l’hanno ripetuta, interpretandola più o meno alla lettera secondo le necessità della loro propaganda. Gli uni garantendola attraverso la rivoluzione in comune, o come in Russia, senza riguardo a Marx, sotto la forma della piccola proprietà: gli altri, tipo Miglioli, invitando senz’altro i contadini ad occuparla e a dichiararsene comproprietari. Vi sono ancora, qui intorno a Soresina, 360 cascine di cui i contadini si sono impadroniti. Ai contadini l’on. Miglioli dice che sono i padroni, ed essi infatti vi stanno esercitando tutti i diritti del proprietario, fino a vendere il latte e le bestie e ad ammazzare i vitelli che non possono vendere. Al governo, l’on. Miglioli ha fatto girar la testa con un suo complesso disegno di “economia associativa” nel quale l’on. Giolitti, che ha molti altri fastidi, ha trovato un eccellente pretesto per non turbare la sua maggioranza parlamentare di cui i popolari sono – o per lo meno erano – grandissima parte.
Comunque, qui nel mio Cremonese, tra i socialisti che dicono «facciamo la rivoluzione per prenderci la terra» ed i popolari che se la prendono senza complimenti, resta vero che la terra deve essere data a chi la merita, e quando lo dico sono applaudito tra gli agricoltori che vengono quasi tutti dalla vanga, ma guardato con sospetto dai contadini come agrario, e cioè come nemico del popolo. Dico, che, come i nostri padri, braccianti e poi fittabili e infine proprietari, i contadini devono conquistarsi il loro podere. Ma ad un certo punto vorrei che lo stato desse loro una mano, lo stato che da un po’ di tempo è così largo di milioni a tutte le cooperative e che attraverso l’Istituto nazionale di credito alla cooperazione ha finanziato persino il movimento migliolino.
Ed ecco come. Un piccolo fittabile, quando prende un eretto, mettiamo di 150 pertiche, anticipa un anno di affitto al padrone del fondo. Egli paga, ora sovratutto, un affitto altissimo che va dal 5 al 7% del valore capitale. Perché non si creerebbe anche in Italia un istituto di credito fondiario che mettesse senz’altro il piccolo fittabile in grado di diventare il proprietario del fondo pagandolo in una cinquantina d’anni, con una quota comprensiva d’interessi al 5% e d’ammortamento,cioè con un affitto che sarebbe in ogni caso inferiore al 6 per cento?
Prevedo le obbiezioni.
Chi dà i denari? Il risparmio. Lo stato emette, come la Cassa di risparmio di Milano, per esempio, cartelle fondiarie che estingue man mano secondo il piano di ammortamento, e che senza dubbio saranno ricercatissime per la doppia garanzia rappresentata dall’ente che crea il titolo e dall’ipoteca sui fondi.
Chi garantisce lo stato contro lo svalutamento dei terreni?
La quota capitale pagata all’inizio, uguale ad un’annata d’affitto, e previdenti riserve. Senza dubbio un rischio c’è, ma è quello inerente a tutte le leggi finanziarie a scopo sociale, e credo che sia minore di quello che si corre ora col credito così abbondante, e non sempre così provvido, alle cooperative.
Comunque, così o in un altro modo, qualche cosa bisognerà pur fare per rendere la terra accessibile ai contadini. Il sistema che io metto innanzi mi sembra il meno pericoloso di tutti, anche perché prevede un gruzzolo di risparmio già fatto, e uno sforzo non duro ma perseverante di cinquant’anni. Soltanto creando un congegno attraverso il quale, chi la merita, possa avere la terra, noi cureremo i nostri contadini di tutti i concetti storti che la formula sbrigativa trovata in trincea ha messo loro in capo, e li persuaderemo, che non si tratta di una conquista politica, ma di uno sforzo di lavoro e di rinunzia. È soltanto con l’estensione del bene di famiglia noi rieducheremo al senso ed al gusto della proprietà le grandi masse delle nostre campagne in cui la concezione del mio e del tuo è oramai quasi confusa come nella testa degli uomini che danno ancora all’on. Miglioli il concorso ed il prestigio dell’«autorità».
A parte che, dopo quello che abbiamo promesso durante la guerra, sia pure con restrizioni mentali, c’è da pagare un debito d’onore ai nostri contadini, avvicinandoli alla terra. L’on. Luzzatti, apostolo del bene di famiglia, direbbe che questa buona azione è anche un affare eccellente; fissando al suolo gli italiani, identificheremo per loro la patria con la terra.
I proprietari in Italia, compresi quelli di case, non arrivano ai due milioni. Il patriottismo della Francia, ammirabile anche nell’esasperazione, è quello di sei milioni di piccoli proprietari».
TULLIO GIORDANA
Una osservazione preliminare, all’articolo di Giordana. Egli conclude augurando che anche in Italia i proprietari di terreni e case da meno di 2 milioni giungano ai 6 milioni che fanno le glorie e la forza della Francia. L’augurio è anche il mio; ma forse è opportuno esprimerlo diversamente, augurando che i parecchi milioni di piccoli proprietari esistenti in Italia crescano ancor più, siano più equabilmente ripartiti anche in quelle parti del territorio nazionale le quali sono adatte alla piccola proprietà e sovratutto acquistino la coscienza di classe borghese, che ad essi ancora manca e che in Francia hanno. I contadini in Italia, per residui atavici di epoche passate, «credono» di essere qualcosa di diverso dai «signori»; e non si sono ancora accorti di avere in proporzione altissima spossessati gli antichi signori e di essersi messi al loro posto. I contadini proprietari in Francia, in Germania, in Svizzera – ed anche nelle nostre valli tedesche dell’Aostano, valdesi del Pinerolese, ladine del Trentino – hanno abitudini, cultura, mentalità da piccolo borghese italiano. Forse più in su.
Epperciò sono una forza politica ed economica di prim’ordine, assai maggiore di quella dei parecchi milioni di piccoli proprietari italiani. I quali non sono «meno di due», come sembra ritenere il Giordana; ma notevolmente più. Quanti realmente siano non saprei dirlo; e nessuno lo sa in Italia ed uno dei primissimi compiti della nuova legislatura dovrebbe essere quello di dare all’ufficio centrale di statistica i mezzi di dircelo. Prima di fare una qualunque legge agraria, cerchiamo almeno di sapere quanti sono i proprietari in Italia Forse i progettisti si avvedrebbero che quei milioni di proprietari che essi vogliono creare in Italia, esistono già bell’e fatti. I ruoli del 1917 dell’imposta sui terreni ci davano infatti ben 7.448.399 articoli di ruolo; e 3.261.914 erano gli articoli di ruolo dell’imposta sui fabbricati. Troppi, certamente, perché un medesimo proprietario può figurare con due o più articoli di ruolo, se è proprietario in due o più comuni differenti, o se è comproprietario separatamente con altre persone; o per altre cause. Ma abbastanza per far concludere che i proprietari sono assai più di 2 milioni. Tant’è, che nel censimento del 1911 ben 1.326.736 persone dichiararono di essere proprietari di soli terreni, 732.484 di soli fabbricati e 1.737.341 di terreni e fabbricati nel tempo stesso. In tutto i proprietari nel 1911 erano 3.796.561, di cui 2.476.833 maschi e 1.319.728 femmine. Anche questa cifra può peccare, non si sa bene se per eccesso o per difetto. Ma quel che sembra quasi certo è che i proprietari italiani di terreni e case oscillano fra 3 e 4 milioni; un bel numero, non molto inferiore a quello della Francia, tenuto conto della minore popolazione e del più ristretto territorio. Circa il 10% della popolazione; il che vuol dire anche, tenuto conto dei componenti le famiglie dei proprietari, che forse un terzo della popolazione italiana è già interessata nella proprietà terriera ed edilizia.
Aumentiamoli pure di numero questi proprietari; specie nelle zone in cui sono pochi di numero e dove la terra si presta. O, meglio, lasciamo che aumentino da se stessi; e lo stato, senza far nulla direttamente, ché farebbe guai, contribuisca a creare le condizioni di viabilità, di sicurezza, di igiene, di facile trasmissibilità, di edilizia, di istruzione agraria che sono le premesse indispensabili della trasformazione nel senso della piccola proprietà.
A queste condizioni, il Giordana vorrebbe aggiungere il credito fornito o favorito dallo stato. E sta bene. Si hanno esempi, in altri paesi e per altre circostanze, di grandiosi trapassi di proprietà avvenuti per mezzo del credito statale. L’Irlanda cattolica, ad esempio, passò durante il secolo diciannovesimo dalla proprietà dei discendenti degli antichi usurpatori inglesi protestanti alla proprietà dei contadini irlandesi discendenti dalle tribù e dalle genti espropriate al tempo di Cromwell. Qui si trattava, in verità, di un ritorno agli antichi proprietari spossessati. Lo stato intervenne per rendere gradita l’operazione ad ambe le parti. Pagò la terra ai proprietari, non espropriati a forza, ma venditori volontari, ad un prezzo più alto di quello corrente, in titoli di stato allora al disopra della pari; cosicché la gran maggioranza dei proprietari fu felice di sbarazzarsi dei proprii terreni. E caricò sui contadini acquirenti una annualità minima, inferiore a quanto il tesoro pagava ai proprietari. La differenza fu coperta dal tesoro inglese, in espiazione dei delitti commessi al tempo di Cromwell.
Nulla vieta che lo stato emetta un titolo dandolo in pagamento ai proprietari vogliosi di vendere. Vi è chi, al pari di James Aguet, propone la creazione di un titolo enfiteutico, che i proprietari riceverebbero in cambio del fondo e che sarebbe pregiato perché rappresentativo della proprietà eminente del fondo, senza i danni dell’enfiteusi. Tutti i mezzi possono essere adoperati e possono, entro modesti limiti, dare qualche buon frutto.
Ma ricordiamoci sempre che il punto principale non è quello del credito e neppure del credito statale. L’intervento statale è invocato dagli agitatori politici i quali vogliono portar via la terra agli attuali proprietari per un boccon di pane. Il ragionamento tipo Miglioli è il seguente: un fondo valeva prima della guerra 20.000? e fu denunciato dal proprietario ai fini dell’imposta patrimoniale per 10.000 lire? Diamo diritto al fittabile o al mezzadro di farsi imprestare dallo stato un titolo 5% di 10.000 lire nominali e di consegnarlo tale e quale al proprietario a saldo prezzo. Certo, il metodo sarebbe sbrigativo e comodo. Il titolo vale 8.000 lire in realtà e con 8.000 lire il fittabile diventerebbe padrone di un fondo che oggi vale 100.000 lire. Ma questa si chiama confisca violenta, operata sulla base di allegazioni false. Falso che il vero valore del fondo sia quello di 10.000 lire denunciato per l’imposta, poiché è ben noto che i proprietari non furono chiamati a denunciare niente e il valore provvisorio è stato fissato d’autorità dallo stato, senza interpellare gli interessati. Falso che il vero valore sia al massimo quello antebellico di lire 20.000, perché queste erano lire grosse, mentre oggi si vorrebbe pagare in lire piccole. Falso infine che il titolo valga lire 10.000 mentre ne vale solo 8.000.
Il solo metodo onesto sarebbe quello per cui lo stato, a chi vuol vendere, desse 100.000 lire in titoli 5% valutati non al valore nominale, ma al valore corrente effettivo di borsa. Allora soltanto saremmo sicuri che la terra andrebbe ai più degni, che sono coloro che la pagano più cara, e non agli schiamazzatori e seguaci dei politicanti. Ma se il trapasso si deve operare in maniera utile ed economica, forse l’intervento dello stato non è necessario. Denari a prestito i contadini meritevoli e desiderosi di comperar terra ne trovano a palate ed a condizioni più favorevoli di quelle che potrebbe fare lo stato. Oggi questo deve pagare il 6 od il 6,50% e pur perdendo l’1 o l’1,50% non potrebbe dare il denaro ai contadini a meno del 5%, rimettendoci in aggiunta le spese d’amministrazione.
Ora, nelle campagne, la gente che ha e merita credito, trova denaro a meno del 5 per cento. Non lo trovano dalle banche; ma dai privati sì. E se i contadini non comprano a credito tutta la terra che vedono, non è per difetto di denaro, ma perché a ragione essi temono di comprare oggi a credito. Temono, fra pochi anni, di trovarsi col debito da pagare e con i prezzi delle derrate agrarie in discesa. Epperciò comprano con denari propri, o poco più. Ed hanno ragione. Una operazione di trapasso della terra in grande stile con l’aiuto del credito statale, potrebbe essere per i contadini, oggi, un assai infausto regalo.