I pieni poteri per la riforma burocratica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/06/1921
I pieni poteri per la riforma burocratica
«Corriere della Sera», 29 giugno 1921[1]
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 36-41
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 227-231
La crisi del ministero Giolitti dà un rilievo specialissimo al disegno di legge sulla burocrazia. Sebbene l’on. Giolitti si sia dimesso sul voto per la politica estera, è probabilissimo che si sarebbe dovuto dimettere poco dopo, quando si fosse dovuto venire al voto sul progetto della burocrazia. La commissione parlamentare, consenzienti i popolari, chiedeva che i pieni poteri del governo fossero limitati dal voto consultivo di una commissione di senatori e di deputati; ma alla richiesta pare che l’onorevole Giolitti si fosse perentoriamente opposto.
Questo, in verità, era il punto fondamentale della questione: era bene, era utile allo scopo di ottenere la riforma burocratica, dare al governo quei pieni poteri a cui esso aspirava coll’art. 1 del disegno di legge presentato al parlamento? Da varie parti politiche si è subito osservato che quell’art. 1 dava al governo facoltà di fare tutto quello che voleva in materia di pubblica amministrazione. Con un vincolo solo, di non oltrepassare la spesa in corso al 1° luglio 1921, il governo poteva sopprimere uffici, ministeri, fonderli, fors’anco ampliarli, cambiare ordinamenti, organici. Poteri assoluti, non controllabili dal parlamento; quali forse non ebbe neppure durante la guerra. Per un governo, il quale aveva proclamato sempre il suo ossequio alla volontà delle camere legislative e la sua repugnanza ai decreti legge, la richiesta di pieni poteri aveva uno strano sapore ed è naturale perciò che nella camera molti se ne siano adombrati.
Tuttavia, bisogna riconoscere che molti deputati hanno preso ombra non per amore alle teorie sulla divisione dei poteri, ma per il timore di non riuscire così ad impedire la riforma burocratica auspicata a fior di labbra. C’è da essere scettici sulla capacità del governo a sopprimere sottoprefetture, preture, tribunali, università, intendenze, uffici inutili; ma si deve essere assai più scettici intorno alla capacità del parlamento di attuare tutte queste belle cose. Anche chi crede che il governo farà poco, è persuaso che il parlamento farebbe men che nulla. Tutti gli interessi offesi troverebbero nella camera un proprio difensore; e la coalizione dei difensori renderebbe frustranea qualsiasi azione efficace.
I pieni poteri sono senza dubbio una cosa non bella; ma purtroppo sono una dura necessità, se si vuol giungere sul serio a qualche concreto risultato.
Aveva ragione l’on. Giolitti di dire che eventuali commissioni parlamentari deliberative o consultive impedirebbero al governo di agire. Ma non ha torto la commissione della camera a volere qualche guarentigia che il governo non si gioverà dei pieni poteri per accrescere permanentemente le facoltà incontrollabili del governo. Su un pericolo di questo genere ha richiamato giustamente l’attenzione l’on. Luzzatti. Bene farà la camera se impedirà che coi pieni poteri il governo abolisca il controllo preventivo della corte dei conti. Semplificare i modi di esercitare il controllo, sta bene; ma il controllo preventivo, che a gara Inghilterra e Francia cercano ora di rafforzare ed instaurare, deve anche in Italia essere rafforzato, specie per i dicasteri militari e per le spese in conto corrente. Altrimenti la burocrazia diverrà onnipotente e seppellirà il parlamento.
L’osservazione ora fatta consente di porre in luce il vero compito che costituzionalmente può spettare ad una commissione parlamentare consultiva.
La riforma per la burocrazia deve invero passare attraverso a due stadi: il primo di fissazione di regole generali in base a cui operare la riforma. Per esempio: «si devono abolire alcuni ministeri, e quali?» «si debbono abolire le intendenze?» «si deve abolire il controllo preventivo della corte dei conti?» – sono domande generali, di principio, che involgono problemi fondamentali di amministrazione e di finanza, intorno a cui sarebbe enorme che il governo potesse far tutto e il parlamento nulla. Qui si tratta di “legiferare” che è la funzione propria del parlamento; e qui sembra abbiano ragione coloro i quali sostengono la necessità di una ingerenza parlamentare.
Ma vi à un secondo problema, che non à più sul legiferare, ma sull’agire. Dato che un ministero, ad esempio quello dell’interno, su cui non cade dubbio, debba essere conservato, in quante direzioni generali, in quante divisioni deve essere frazionato? – quanti devono essere i funzionari ad esso addetti? quale deve essere la loro gerarchia? Dato che le intendenze debbano essere abolite, che cosa si deve fare dei loro funzionari, affinché essi non abbiano a perdere, per grado e stipendio, nulla e solo corrano gli stessi precisi rischi di epurazione degli altri funzionari dello stato? Questi sono problemi concreti, di azione, in cui sarebbe male che il parlamento entrasse, nemmeno per l’interposta persona di commissioni consultive. Qui si tratta di applicare in concreto i principi posti dal parlamento, si tratta di agire, di amministrare; e questo, salvo il voto di sfiducia, è compito proprio del governo.
Non aver veduto questa essenziale linea di distinzione nocque ad ambedue le parti.
Fermiamo dunque il punto che il parlamento deve solo porre i principi da cui il governo non potrà discostarsi. L’applicazione spetta ai ministri. Ma qui sorge un dubbio veramente grave: sapranno i singoli ministri dove dovranno tagliare, quali uffici abolire, quali riforme introdurre negli ordinamenti interni delle loro amministrazioni? Non è recar offesa ai ministri affermare che essi, salvo una o due eccezioni, non hanno l’attitudine a compiere da soli, personalmente, la riforma. Vengono dalla vita politica e conoscono l’amministrazione attraverso la breve, assorbente ed ossessionante esperienza di governo. Per riformare, essi debbono fidarsi di qualche funzionario, competente, non interessato, devoto al paese, il quale dica ad essi che cosa si deve fare. Quel ministro, il quale abbia sotto mano una simile perla, si dica fortunato. L’opera sua potrà essere manchevole; ma sarà ad ogni modo utile.
Per lo più, non giova nasconderselo, il ministro non avrà la perla nel suo forziere; e dovrà necessariamente rivolgersi ai suoi capi servizio, ai direttori generali del suo ministero. Questi egli li deve conoscere. In media, ogni ministro ha sei direttori generali alle sue dipendenze; ed almeno la metà di essi sono persone capaci, venute su dai gradi inferiori dando prova di intelligenza, di capacità di organizzazione e di laboriosità. Tutto si può rimproverare ai direttori generali; non di essere pigri. Coi ministri, lavorano più intensamente ed a lungo di qualsiasi altro funzionario. Parecchi di essi, probabilmente almeno la metà, sanno come si potrebbe fare una riforma, quali sono gli impiegati fannulloni ed incapaci da mandare a spasso, quali gli uffici inutili. Essi conoscono, alla loro volta, i funzionari inferiori in grado di dare un consiglio. Volendo, potrebbero convocarli a Roma ed in privati colloqui, senza solennità di circolari e di scartoffie, concretare un piano efficace di riforme nelle amministrazioni centrali e in provincia. Volendo, essi potrebbero mettere questi funzionari locali in contatto col ministro, si da illuminarlo nella difficile impresa.
Il grande pericolo da sormontare è che i capi servizio non vogliano e non abbiano interesse a volere la riforma. Ognuno di essi desidera veder primeggiare il proprio servizio e vede a malincuore ridursi il numero dei funzionari da lui dipendenti. Ognuno dirà tra sé e sé: «Se io confesso che alla mia direzione generale basta un capodivisione invece di tre e bastano 50 impiegati invece di 100, non si dirà che per un servizio così smilzo anche un direttore generale è di troppo?». E poiché è certissimo che, degli attuali 25 direttori generali, un buon quarto e forse un terzo è inutile, derivando da recenti creazioni volte a favorire la carriera di intraprendenti funzionari, subito si vede quale opposizione vivacissima sia da temersi da parte dei capi servizio contro ogni proposta di riduzione degli organici.
Qui, altra via di uscita non c’è all’infuori di suscitare nell’animo dei capi servizio un timore più grande di quello da cui essi naturalmente sono oggi tormentati. Il ministro deve dire apertamente ai suoi capi servizio: «La riduzione degli organici e la semplificazione delle funzioni sono necessarie. Il paese le vuole, il parlamento le ha votate. Io debbo attuarle. I capi servizio ed i funzionari mi devono aiutare. Coloro i quali non sapranno escogitare i modi di aiutarmi a compiere la volontà del paese, dichiarano perciò stesso di essere immeritevoli del posto che occupano. Non si può essere saliti al posto più alto della gerarchia, senza sapere come e dove semplificare e sfrondare. Chi dichiarerà l’impossibilita di raggiungere lo scopo, ritenga di avere con ciò stesso consegnato in mie mani la sua domanda di collocamento a riposo».
Un linguaggio simile, risoluto e chiaro, tenuto dai ministri ai capi servizio dovrebbe avere un risultato salutare. Non bisogna tacere però che i capi servizio avranno facile una risposta all’invito ministeriale: «Noi sapremmo bene come semplificare e come ottenere da un numero ridotto d’impiegati un lavoro più proficuo. Ma son le leggi vigenti le quali ci costringono ad impiegare due impiegati dove basterebbe uno o forse mezzo. Sono le leggi di contabilità, le quali impongono visti, controlli, pareri senza fine. È il regime della diffidenza e della irresponsabilità, il quale fa si che si moltiplichi il lavoro e dieci persone mettano bocca in ciò che una sola persona potrebbe fare. Cambiate le leggi fondamentali, le quali regolano l’amministrazione pubblica ed il numero degli impiegati potrà diminuire».
Nella protesta vi è molto di vero; e qui si parrà il merito dell’opera di quel ministro del tesoro, a cui in questa materia spetta la somma maggiore di responsabilità. Ci sono dei corpi nell’amministrazione italiana: il consiglio di stato, la corte dei conti, la ragioneria generale, le ragionerie centrali dei ministeri e le intendenze, la cui opera a poco a poco ha finito per ritardare oltre misura e talvolta impedire il funzionamento di tutte le altre amministrazioni. Bisogna abolire senz’altro le intendenze e ridurre l’opera degli altri corpi a quella che è indispensabile ed utile. Il denaro dei contribuenti deve essere sacro. Epperciò bisogna mantenere ed estendere il principio che neppure un soldo del denaro pubblico debba essere speso senza il visto di un corpo indipendente, erede delle rigide tradizioni ultrasecolari della piemontese camera dei conti; ma l’esperienza ha insegnato molto sul modo con cui il controllo può essere semplificato e si deve impedire che i controlli in genere giungano al segno di crescere oltre il ragionevole la spesa e quindi l’onere dei contribuenti. Spetta dunque al ministro del tesoro il compito di proporre al parlamento i principi della riforma e quello più rude di attuarli praticamente.