I nuovi monopoli fiscali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/11/1918
I nuovi monopoli fiscali
«Corriere della Sera», 25 novembre e 19 dicembre[1] 1918
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 738-744
I
I nuovi monopoli decretati dal governo si riferiscono a derrate o merci che, quasi tutte già formavano oggetto di esclusività governativa per fatto di guerra. Il decreto non fa altro che perpetuare per l’avvenire lo stato di fatto esistente: il che, se sotto un certo rispetto facilita l’assunzione dei nuovi monopoli da parte dello stato, non ne attenua menomamente l’importanza. Notisi ancora che trattasi di monopoli di vendita – esclusività dell’approvvigionamento e della vendita, dice il decreto – e non di produzione, salvoché per il mercurio e per la chinina, per cui lo stato si attribuisce altresì il monopolio «della estrazione”».
Il giudizio intorno ai nuovi congegni tributari può essere duplice dal punto di vista finanziario e da quello industriale. Io non sono ammiratore della finanza fondata sui monopoli e non posso quindi non restare dubbioso intorno alla saggezza di estendere tanto e d’un tratto il numero delle merci vendute in privativa dallo stato a scopo fiscale. In fondo, se noi facciamo astrazione dal «nome» di «monopolio» dato a questi nuovi tributi, e da quella certa vaga coloritura di socialismo con la quale si cerca di renderli simpatici, trattasi di nuove imposte sui consumi. Qui sorgono dubbi ed osservazioni critiche:
- Non è simpatico dar inizio alla finanza post-bellica tassando i consumi invece che i redditi, sia pure, come io vorrei e come esige la giustizia vera, i redditi consumabili ossia diminuiti delle quote di risparmio per la vecchiaia, gli infortuni, l’assicurazione della vedova e dei figli, ecc. ecc.
È vero che l’on. Meda ha fatto precedere a questo decreto legge un altro che istituiva un’imposta complementare progressiva sul reddito. Ma questo nuovo balzello non colpisce il reddito, tassa solo alcune categorie di redditi, scelti esclusivamente fra quelli che sono già sovraccarichi di imposte di ogni fatta, ed esenta quei redditi che imposte non pagano.
- Volendo tassare i consumi, il che si può e si deve fare, bisogna fare una scelta. Sotto questo rispetto parmi che pecchino contro l’elementare canone, il quale condanna come sperequate e tali da colpire maggiormente i poveri i nuovi monopoli del petrolio e del carbon fossile, in quanto questi due prodotti servano a scopo di illuminazione e di riscaldamento. Buono il monopolio sul tè, consumato in Italia solo da gente agiata. Discreti sono quelli sulla benzina e sulle lampadine elettriche che colpiscono, come oggetti di consumo diretto, i proprietari di vetture automobili e gli utenti di luce elettrica, già tassati sotto altra forma. A mala pena tollerabili, per ora, sono invece i monopoli del caffè e dello zucchero e diventeranno sempre più cattivi, a mano a mano che l’uso di queste derrate andrà generalizzandosi. Già fin d’ora, trattasi di tributi i quali colpiscono le persone i cui redditi sono rimasti fissi e non paiono suscettibili di aumento; zucchero e caffè essendo, col latte, diventati, durante la guerra, ancor più di prima il cibo preferito delle donne di mezzi modesti, dei vecchi, dei pensionati, dei piccoli impiegati, di tutta la minuta borghesia e dei suoi figli, la quale è la classe fra tutte più danneggiata dagli alti prezzi, per la difficoltà di rivalersene con l’aumento dei salari.
- Anche per i prodotti suscettibili di imposta, rimane il quesito: è il monopolio il miglior mezzo tecnico per raggiungere il fine? Perché tutto si riduce lì: se volendo ricavare da un prodotto 10 milioni di lire, sia più conveniente tassarlo addirittura con un’imposta sui produttori, lasciandone libere la produzione e la vendita, ovvero assumerne il monopolio, lucrando sulla differenza fra il costo per l’erario ed il prezzo di vendita al pubblico. In generale, pare preferibile la prima soluzione, come quella che dà un provento più sicuro, evita il crescere della burocrazia statale, risparmia allo stato rischi ed avventure di ogni genere. Ne vale opporre i milioni che lo stato può aver guadagnato con questi medesimi prodotti durante la guerra; poiché non fa d’uopo gran merito per guadagnare quando tutti i prezzi salgono e tutti pagano prezzi alti sui redditi cresciuti. Il successo sarà più problematico quando i prezzi caleranno e scemeranno perciò anche i redditi ed ai consumatori parrà assai più rincrescevole d’oggi pagare prezzi alti di cui lo stato avrà d’uopo per far fruttare i suoi nuovi monopoli. Su questo punto, vedremo i chiarimenti tecnici che il governo darà per dimostrare con ragionamenti plausibili e con dati sicuri – auguro che la relazione non sia una delle solite a frasario generico, che non dicono nulla, ma invece sostanziosa – che il metodo tecnico da esso adottato per tassare è più perfetto dei metodi soliti delle imposte sulla fabbricazione e dei dazi doganali che l’esperienza aveva chiarito efficaci e produttivi.
Il problema può essere considerato anche dal punto di vista industriale. Qui sorgono le maggiori preoccupazioni. Lavorare a costi bassi sarà il canone fondamentale della nuova vita economica nel dopo guerra. L’uomo consumatore diretto può adattarsi a pagar caro il caffè, il tè, lo zucchero, la benzina, le lampadine elettriche, ecc. ecc. Ma l’industria non potrà adattarsi a pagar care le sue materie prime ed i suoi combustibili. Ne va della sua vita e della sua capacità di concorrenza sui mercati internazionali. Il monopolio di stato darà all’industria il petrolio, la benzina, la paraffina, gli oli minerali pesanti e leggeri, l’alcool denaturato e sovratutto il carbon fossile a prezzi più bassi di quelli a cui gli industriali stranieri potranno acquistarli? Se il prezzo non sarà più basso od almeno non superiore, vedo giorni brutti per l’industria italiana. Quando i tessitori, i filatori, i meccanici, gli industriali in genere dovranno lavorare di nuovo, come fatalmente dovrà avvenire, su margini di centesimi, il maggior costo dei combustibili potrà sonare le campane a morto per la nostra industria. Per questi prodotti l’esperimento iniziato dal governo mi sembra pericolosissimo.
Pochissimi credono che sul serio lo stato abbia la capacità di vendere a prezzi più bassi del commercio privato. Perché, del resto, correre un’alea così grande, di cui la posta è l’esistenza e la prosperità dell’economia nazionale? Per questi prodotti, non si può parlare di scopi fiscali, perché lo stato, se non vuole diventare il nemico più crudele del proprio paese, dovrà lavorare al costo, senza utile. A che pro il monopolio? Voglio escludere che si tratti solo di fare del collettivismo per scopo artistico. Inoltre, lo stato, se non vuole cagionare danni privati inescusabili, dovrà pur provvedere alle migliaia di intermediari che onestamente guadagnano la vita, commerciando i prodotti ora monopolizzati. Era un’occupazione lecita; e non sarebbe corretto che lo stato lasciasse sul lastrico gente forse attempata, che dedicò la sua vita a questo lavoro di preferenza che ad altri. La ragion pubblica, se esiste, non deve essere motivo di arrecare ingiusto danno agli uni per beneficare gli altri.
In conclusione, se alcuni pochi di questi monopoli paiono accettabili, gli altri sono circondati da una così fitta nebbia di dubbi e di timori, che per il carbon fossile diventano, per chi pensi all’avvenire del paese, quasi angosciosi, da costringere a far voti che il parlamento sappia discutere a fondo il decreto legge presentato alla sua approvazione. Discutere bisogna, perché si tratta di problemi gravi. Certa cosa è che, con questo decreto, la finanza del dopo guerra non ha ancora trovato la sua via regia.
II
La proposta di creare nuovi monopoli fiscali mi ha procurato lettere, del cui contenuto mi sembra doveroso fare pubblico cenno. «Dall’età di vent’anni – leggo in una di queste lettere – il sottoscritto trasse nel ramo dei carboni il necessario per vivere e per crearsi una famiglia e così sino a che, chiamato alle armi, dovette troncare ogni suo lavoro. Difese la patria sul Piave nel tragico novembre del 1917 e contribuì a salvarla nel giugno di quest’anno. Ora che la fine gloriosa della nostra guerra gli lasciava prevedere colla smobilitazione la ripresa del suo lavoro e con questo la sistemazione della sua futura vita privata, giunge la notizia del monopolio sui fossili per troncargli ogni speranza e per aggravargli le non già lievi preoccupazioni per l’avvenire. Non è a trentacinque anni che così facilmente si possa passare da una professione all’altra!»
Questo caso è tipico di molti altri; e dinanzi a queste invocazioni angosciose non si può, non si deve rimanere impassibili. Il decreto del 18 novembre non si preoccupa, quasi non esistesse, di questo problema. Appena gli articoli 5 e 6 autorizzano il governo al solito allargamento di «organici» nel limite, per ora, della spesa complessiva di 350.000 lire; stabilendo che «tutto il personale potrà essere scelto, in deroga di qualunque disposizione contraria vigente, anche tra i funzionari di amministrazioni dello stato diverse da quella delle finanze, e per un terzo anche tra estranei all’amministrazione». Pare che il governo si sia preoccupato sovratutto di far posto a funzionari delle gestioni e dei commissariati governativi che dovrebbero scomparire colla fine della guerra, lasciando il minimo spiraglio possibile aperto agli estranei all’amministrazione. Né è detto che il minimo del terzo sia riservato a coloro che finora vissero del commercio dei generi ora monopolizzati e che sarebbero messi sul lastrico.
Nella calorosa difesa dei monopoli che l’on. Meda ha pronunciato al senato, egli, pur non disconoscendo il valore degli appunti mossi alla burocrazia, ha asserito soltanto che essa poteva trasformarsi e diventar migliore. Trattasi di una speranza, che potrà avverarsi a lunga distanza di tempo; ma non risolve il problema odierno, il quale è di vedere come ad un personale sperimentato, pratico per interesse e per lunga consuetudine del mestiere, si possa conservare l’ufficio suo invece di consegnarlo ad una burocrazia, che dovrebbe ancora imparare il mestiere. Il ministro afferma che gli interessati sono pochi, presumibilmente non bisognosi e capaci di trovare cento altre vie per far fruttare il proprio lavoro. Può essere. Il ministro afferma e non dimostra. E in ogni caso quale ragione v’ha per togliere il pane di bocca a coloro che hanno dimostrato di saperselo guadagnare e desiderano di continuare a guadagnarselo nel modo antico, sia pure servendo lo stato e col vantaggio per questo, che essi si contenterebbero, invece che di stipendi fissi, di provvigioni aleatorie proporzionali al lavoro fatto?
In un punto di così grande rilevanza non si può, pur serbando la maggiore moderazione di critica e di proposte, rimanere silenziosi. Per fortuna, il problema non tocca l’industria privata; né, invocando provvidenze riparatrici, si incorre nella taccia, che del resto sarebbe doveroso sopportare ed altra volta sopportai con animo sereno, di difendere gli interessi del capitale. Ancora una volta è in causa la sola giustizia; ma questa oggi tocca soltanto lavoratori, per lo più modesti lavoratori, rappresentanti, agenti di case forestiere, commessi viaggiatori, gente che si era formata, colla solerzia e coll’abilità, una clientela affezionata e viveva di questa. Orbene, io dico che bisogna almeno capovolgere le proporzioni e riservare due terzi – e sono pochi – dei posti direttivi ed ispettivi dei nuovi monopoli commerciali a chi si è fatto una posizione nei commerci che ora si monopolizzano. La avocazione allo stato di alcuni rami di commercio non deve essere un’occasione per trarre a rovina i «competenti» , coloro che conoscono la clientela, i suoi bisogni e saprebbero rendere allo stato preziosi servizi. I posti lasciati ai funzionari centrali sia delle finanze, sia di altri ministeri o commissariati dovrebbero essere limitati ad un terzo, anzi meglio, assai meglio, ad un decimo; e preferibilmente per i soli compiti di controllo e di contabilità. E non due terzi o nove decimi, ma tutto il personale esecutivo e «produttore» , quello che è a contatto colla clientela, bisognerebbe assumere dal commercio. Per evitare favoritismi e scelte di pretesi «competenti» improvvisatisi tali solo per essere assunti dallo stato, per la prima volta il ministro dovrebbe scegliere i nuovi funzionari sulla presentazione delle rispettive associazioni commerciali ed industriali. L’abilità commerciale non si dimostra in concorsi ed in disbrigo di pratiche; ma nel fatto dei successi ottenuti e di questi nessun migliore giudice degli antichi principali che hanno saggiato alla prova i loro dipendenti.
Per molte ragioni – esercizio anche di altri commerci o rappresentanze rimaste libere – lo stato non dovrà soggiacere a troppa ressa di domande; ed in ogni caso titolo di preferenza dovrebbe essere l’aver dovuto abbandonare il lavoro per accorrere sotto le bandiere e l’avere combattuto in difesa della patria. Un atroce disinganno attenderebbe costoro se, dopo avere avuto la promessa del ritorno ai posti antichi, se li vedessero, alla pace, portati via dallo stato e concessi a chi col carbone e col caffè, collo zucchero e col petrolio, coll’alcool denaturato e colle lampadine elettriche non aveva mai, negli uffici ministeriali romani, avuta alcuna familiarità, salvo come consumatore!
Se il governo, volendo istituire monopoli, non avesse soltanto pensato alla forma più «antiquata» , ossia alla amministrazione diretta di essi, con i relativi malanni degli organici, della burocrazia, degli alti costi, i quali renderanno illusoria la speranza di ottenerne proventi assai superiori a quelli sperabili con le solite imposte sui consumi; ma avesse studiato le nuove forme moderne di gestione semipubblica – proposte anche da socialisti riflessivi, come Sigismondo Balducci, su «La critica sociale» del Turati, sebbene con modalità discutibili e con estensione inaccettabile ad un’infinità di intraprese – che da tempo sono studiate ed hanno già trovato fortunate applicazioni, questo spinoso e doloroso problema del personale non sarebbe sorto. La Banca d’Italia, a dirla in breve e con un esempio nostrano, è il modello dei monopoli moderni: amministrazione privata, con direttore nominato dallo stato e controllori governativi; gestione libera, senza impacci contabili e burocratici, con profitti, tra tasse e partecipazione, per la parte più cospicua devoluti allo stato. Nessun impiego gravante sul bilancio pubblico; e tutti serbanti contatti bastevoli colla vita degli affari per non perdere il senso della economicità pur non dimenticando l’ossequio all’interesse pubblico. Certo, la costituzione di un’impresa semipubblica è compito più complesso che non lo scrivere un decreto di monopoli foggiati nell’arcaica maniera, tramandataci dai secoli XVII e XVIII. Ma non bisogna mai dimenticare che l’arte di ben governare va diventando sempre più ardua e complessa. Vera gloria si acquista nell’affrontare e non nello schivare le difficoltà.
[1] Con il titolo I nuovi monopoli e la questione del personale [ndr]