I ministri militari fanno il loro dovere per la ricostruzione economica del paese?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/08/1919
I ministri militari fanno il loro dovere per la ricostruzione economica del paese?
«Corriere della Sera», 9 agosto 1919[1], 13 ottobre 1920, 16 ottobre 1919[2], 22 ottobre 1920[3]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 368-381
I
Troppo lenta la smobilitazione
Il conto del tesoro al 31 maggio dimostra che durante questi mesi, l’aumento del debito pubblico ha continuato in misura che non può non essere considerata preoccupante. Nei primi cinque mesi dopo l’armistizio i debiti crebbero in ragione di quasi 2.000 milioni al mese; in aprile, per liquidazioni sopravvenute l’incremento risultò di quasi 3 miliardi; in maggio, all’incirca si aggira sui 1.410 milioni composti per 701,3 milioni di buoni ordinari del tesoro e per forniture militari, 356,8 per buoni a tre e cinque anni, 60,2 per buoni collocati all’estero (Inghilterra), 243,5 per crediti aperti dal governo degli Stati uniti, 3,5 per biglietti di stato, 1,9 per buoni di cassa e 43,6 per debiti diversi. L’incremento dei debiti corrisponde all’incirca alla differenza fra le spese totali le quali furono di 2.238,4 milioni di lire e gli incassi non straordinari che ammontarono solo a 838,7 milioni. Sola circostanza confortante è il fatto che non si fece ricorso ad alcuna anticipazione in biglietti da parte degli istituti di emissione, essendo la circolazione aumentata per causa dello stato solo di 5,4 milioni tra biglietti di stato e buoni di cassa.
L’aumento del debito è da attribuirsi alla persistente altezza delle spese militari. Nel maggio il ministero della guerra erogò 1.385,1 milioni di lire, quello delle armi e munizioni 204,3 e il ministero della marina 119,8; in tutto 1.709,2 milioni di lire. La cifra corrispondente del maggio 1918 era stata di 1.331,7 milioni. Allora si era in guerra grossa, adesso in liquidazione.
Ora, sta bene che liquidare vuol dire pagare, e ciò può spiegare le spese del ministero o sottosegretariato delle armi e munizioni il quale ora ha quasi finito di liquidarsi. Ma i due ministeri della guerra e della marina liquidano o continuano a spendere? Ecco ciò che non si sa e che desta qualche preoccupazione.
Poco importerebbe che il sottosegretariato delle armi e munizioni scomparisse, quando una gran parte dei suoi servigi permanenti fosse semplicemente passata al ministero della guerra e figurasse su un altro bilancio. Pochissimo importerebbe che il comando supremo si fosse trasferito a Roma, quando ciò volesse dire soltanto che le sue falangi di ufficiali fossero alloggiati a Roma invece che a Padova. Non si tratta di cambiare stanza e sede; si tratta di smobilitare veramente, di ridurre, di far scomparire ufficiali, organismi, persone. Il ministero seguita a pubblicare dati relativi alla smobilitazione; ma il pubblico vede ancora troppi militari in giro nelle vie delle grandi città , troppa gente negli uffici, troppo ingombro costoso che pesa sul bilancio dello stato. Ogni ufficiale trattenuto in più del necessario vuol dire piantoni e scritturali i quali sono mantenuti per la parte esecutiva dei servizi. Tutta gente la quale anela di tornare in famiglia, di riprendere le sue occupazioni, di produrre invece che di consumare.
I ministri militari si debbono persuadere di questi principii essenziali:
- che non è possibile seguitare a fare debiti nella misura né di 2, né di 1,5, né di 1 miliardo al mese. Bisogna ricondurre il bilancio al pareggio. Altrimenti è il disastro finanziario, l’impossibilità di far fronte agli impegni, il disordine, il malcontento. Essi, che sono i tutori dell’ordine, i conservatori della pace e della tranquillità sociale non possono volere il disordine e l’inquietudine;
- che ogni uomo soldato o ufficiale che sia trattenuto in servizio in più dell’indispensabile necessario, è un consumatore che sottrae ricchezza al paese, mentre, licenziato, è spinto a ridiventare un produttore. Ricordino il leit-motiv, la frase d’obbligo di tutti i discorsi del ministro presidente: bisogna produrre ed esportare, frase giustissima. Ma non si produce di più col solo dirlo. Ci vogliono i capitali e gli uomini.
Finché durava la guerra, era necessario produrre minor copia di certe cose utili alla vita materiale per produrre servizi utili a difendere il paese e a conseguire la vittoria. Ora, che questa è stata ottenuta, bisogna cessare di produrre servizi militari, divenuti inutili e ritornare a produrre cose materiali, utili, necessarie, per la vita civile. Necessarie per pagare il grano, la lana, il cotone, il carbone che importiamo dall’estero e che non è conveniente né possibile seguitare a pagare con debiti. Riflettano a questa semplice verità economica i ministri militari; e pensino ogni giorno e ogni ora che il loro dovere più urgente è di contribuire alla ricostruzione economica del paese.
II
Parli il ministro della guerra
Sul conto del tesoro al 30 giugno 1920 non so veramente più che cosa dire, sebbene esso sia il più importante dell’anno, e sebbene non poca gente in Italia abbia avuto finora e forse abbia ancora la melanconica convinzione che esso possa raffigurare ciò che lo stato ha incassato ed ha speso nell’anno finanziario scaduto a quella data, l’ammontare dei debiti contratti, dei biglietti emessi per conto dello stato ecc. Non oso dire che esso si pubblica un poco troppo in ritardo, nientemeno che tre mesi e 7 giorni dopo la data di chiusura del mese a cui il conto si riferisce, perché il tesoro non a torto spiega che il ritardo è dovuto al desiderio di far figurare nel conto la ripartizione dei pagamenti di bilancio per ministero, ripartizione che pare porti via moltissimo tempo alle sezioni di tesoreria presso la Banca d’Italia, la quale deve provvedere con un personale, che dicesi ristretto, a tante altre faccende.
Ma d’altro canto non oso nemmeno rallegrarmi dei particolari così dovuti al ritardo, quando penso che ben scarso valore debbono avere le suddivisioni di una cifra totale, il cui significato è per lo meno ignoto. Parrebbe invero che nel 1919-20 siano stati pagati 21 miliardi 215 milioni 749.956 lire e 79 centesimi in conto bilancio. Così almeno narra il quadro dei «pagamenti di bilancio».
Ma no, sussurra un paziente commentatore. Non è vero che si siano pagati 21 miliardi e rotti. Quella cifra è scritta lì per modo di dire. Essa comprende pagamenti che non si sono fatti e non comprende pagamenti che pur furono fatti. Per esempio, essa comprende anche titoli «commutabili in quietanze di conto corrente e rappresentanti somme che non vengono pagate subito, ma rimangono in conto corrente a disposizione dell’amministrazione intestataria per i graduali pagamenti da eseguirsi extra bilancio». In parole forse più semplici, si fanno figurare come pagate nel 1919-20 somme che saranno pagate dopo, nel 1920-21; e viceversa non figurano più come pagate somme che realmente furono pagate nel 1919-20, ma erano state messe a disposizione dei ministeri in conto corrente in un esercizio precedente. Se fra un anno e l’altro le partite si compensassero, poco male. Il guaio è che, in tempi di trambusti come gli odierni, ogni paragone fra un esercizio e l’altro rimane viziato e non si può più sapere se le spese aumentino o scemino.
Vi è di più. Fu detto ufficialmente che le spese del 1919/20 dovevano toccare i 28 miliardi. Come mai si pagarono solo 21 miliardi e 215 milioni? Oltre alla spiegazione ora data ve ne sono due altre:
- i 21,2 miliardi comprendono i residui passivi di esercizi precedenti e lasciano fuori, naturalmente, i residui passivi dell’anno. Quindi non si sa quanta parte dei 21,2 miliardi spetti al 1919-20 e quanta agli esercizi precedenti e quanta eredità di pagamenti da fare il 1919-20 lasci agli esercizi futuri;
- i 21,2 miliardi non si sa quanta parte comprendano delle spese che furono effettuate all’estero e di cui il tesoro deve ancora rimborsare, per conto dell’amministrazione interessata, un certo personaggio, poco noto al pubblico, ma fra i più autorevoli della burocrazia italiana, il quale porta il nome di «contabile del portafoglio». Se non sbaglio nel leggere, questo personaggio era al 30 giugno 1920 creditore da diversi ministeri della non lieve somma di 9.971.741.858,48. In cifra tonda sono 10 miliardi di lire che il contabile del portafoglio ha già pagato, e che non figurano ancora tra i pagamenti di bilancio. E quel che è più interessante, quei 10 miliardi devono essere scritti al netto della spesa di cambio, ossia in lire-dollari, lire-sterline, lire-pesos. A quale cifra ammonteranno quei 10 miliardi quando si scriveranno in lire italiane e si faranno passare tra i pagamenti di bilancio? A 20, od a 30 miliardi di lire? E che sugo ci sarà di far figurare spese nel 1920-21 o nel 1921-22 somme già pagate prima del 30 giugno 1920 (quando?)?
Ecco dunque, nel modo meno oscuro che ho potuto e, spero, con il minore numero di errori, spiegate le ragioni per cui non mi inquieterò intorno a certe cifre di spesa che vedo scritte nel conto del tesoro. Ci si può inquietare dinanzi a cifre di cui si conosce il significato, e non a quelle di cui a priori il significato è incomprensibile?
Però un’osservazione è lecita. Viviamo in tempi in cui anche le apparenze contano; e possono giovare o nuocere grandemente. C’è troppa gente che in Italia ha interesse di gridare al militarismo, di opporsi alla riduzione della perdita sul pane se prima non si riducono le enormi spese militari, perché la cifra di 9 miliardi e 538 milioni di pagamenti fatti nel 1919-20 sul bilancio della guerra e quella di 1 miliardo e 222 milioni su quello della marina non debbano far senso. È vero che probabilmente quei quasi 11 miliardi (900 milioni al mese, di cui 800 per la guerra e 100 per la marina) non hanno alcun senso, per le ragioni ora dette e per altre ancora che forse potrebbero essere addotte. Ma intanto quella cifra – 900 milioni al mese, quasi il doppio della perdita sul pane – corre il paese ed è ottima arma in mano ai frenetici per screditare governo, stato, società, fra moltitudini, le quali non conoscono i misteri della contabilità di stato.
Qui è dovere dei due ministri della guerra e della marina di farsi sentire. Essi non devono permettere, assolutamente non lo devono, che il conto del tesoro diventi un’arma in mano ai sovversivi contro l’esercito e contro la marina. Non devono tollerare che si dica che nel 1919-20 l’esercito e la marina sono costati 900 milioni al mese, mentre la vera spesa è infinitamente minore. Se non ricordo male, ho sentito dalla bocca dell’on. Bonomi per il solo esercito, esclusi i carabinieri e le guardie regie, che provvedono a scopi diversi dalla difesa nazionale, una cifra di forse 160 milioni al mese. L’on. Bonomi ha un modo di parlare semplice e franco, che a me dà l’impressione dell’uomo leale. Egli, ripeto, non può tollerare che i 160 diventino 800 e che gli 800 servano come arma per precipitare l’Italia nell’estimazione pubblica. Tra gli uffici di un ministro oggi c’è la propaganda. Bisogna spiegare che cosa oggi veramente l’esercito costi; perché le spese figurino superiori ed a quali cagioni estranee alla vera compagine dell’esercito il dippiù si riferisca. Non basta dar spiegazioni ogni tanto al parlamento; bisogna essere infaticabili nel fare rispettare ed amare le istituzioni a cui si presiede. Nessun mezzo migliore può l’on. Bonomi trovare a tal uopo del rendere conto frequente al pubblico – e qual miglior occasione della calunnia mensile che al suo ministero reca involontariamente la pubblicazione del conto del tesoro? – della velocità con cui procede la guerra a quelli che il generale Tassoni ha chiamato i parassiti del bilancio della guerra. Se in tutto figurano spesi 800 milioni per la guerra e se la vera spesa per l’esercito è di 160 milioni la differenza è data da spese che o dovrebbero figurare a parte (carabinieri e guardie regie) o sono liquidazioni della guerra o sono parassitismi. Da tutti questi elementi estranei l’on. Bonomi ha interesse, diritto e dovere di liberare il suo bilancio.
III
Albo signanda lapillo: l’ing. Conti ha liquidato
In una delle sue ultime adunanze il consiglio dei ministri ha soppresso il sottosegretariato alle armi e munizioni; e l’ing. Conti ha potuto così abbandonare l’ufficio a cui era stato chiamato per la fiducia nella sua competenza. Esempio singolarissimo di uomo pubblico che consacra se stesso alla soppressione del dicastero a cui era stato preposto! Nominato il 5 dicembre 1918 sottosegretario di stato per la liquidazione dei servizi delle armi e munizioni e dell’aeronautica, il sen. Conti aveva invero potuto mettere fin dal 31 luglio 1919 la firma ad una relazione, di cui le frasi più significanti sono quelle nelle quali lo scrittore, con legittimo orgoglio, afferma di aver potuto «condurre a termine l’opera che fu chiamato ad assolvere» e di sentire «di avere compiuto tutto intiero il suo dovere».
Come lo abbia adempiuto si ricava da un rapido riassunto delle notizie fornite nella relazione. Il primo compito dell’ing. Conti era la liquidazione dei servizi delle armi e munizioni. In questo campo – restituiti al ministero della guerra le direzioni generali del genio e dell’artiglieria, l’ispettorato delle costruzioni di artiglieria, l’ufficio automobilistico, l’ufficio carri di assalto e l’ufficio storiografico della mobilitazione – furono soppressi numerosi altri uffici che sarebbe lungo ricordare compiutamente: servizio tecnico commesse di guerra, ufficio tecnico materiale d’artiglieria, servizio tecnico spolette, servizio tecnico armi portatili, servizio tecnico batterie campali, servizio tecnico materiale di artiglieria di nuova formazione, servizio tecnico contro-aerei, uffici diversi della mobilitazione industriale e relativi comitati e commissioni, direzione generale dei servizi chimici di guerra, ufficio invenzioni e ricerche, servizio generale esplosivi, servizio tecnico per gli approvvigionamenti all’estero, commissioni di collaudo d’artiglieria, ecc. ecc.
Ridotte in cifre queste soppressioni, si può dire che mentre al 30 novembre 1918 il personale alle dipendenze del sottosegretario di stato saliva alla cifra imponente di 5.669 fra ufficiali, militari di truppa, impiegati civili e personale femminile, esso riducevasi al 31 luglio a 7 funzionari civili, 10 ufficiali e pochissimi scritturali, i quali dovevano essere e furono senza dubbio gradatamente ridotti fino allo scioglimento del sottosegretariato.
La riduzione è notevolissima anche quanto al secondo compito affidato al sen. Conti: la liquidazione dell’aeronautica di guerra e suo assestamento per il tempo di pace: erano 96.624 i dipendenti dal servizio al 30 novembre 1918, e sono 30.630 al 30 giugno 1919, con un alleggerimento di circa il 70%, notevole se si pensa che in aeronautica si hanno in prevalenza classi giovani non ancora inviate in congedo. Nel frattempo, con numerosi provvedimenti, si cercava di avviare l’industria privata ad un assetto normale di pace, ed una commissione in due sole sedute presentava proposte concrete, già tradotte in decreto legge, per la riorganizzazione del servizio.
Nonostante serie difficoltà, si ottenevano risultati notevoli anche rispetto al terzo compito delle derequisizioni e sistemazioni di locali. Meta propostasi: concentrare gli uffici in locali demaniali o in proprietà private occupate già prima della guerra. Ostacolo precipuo: la resistenza passiva opposta da persone che nella riduzione dei locali intravvedevano la minaccia della non desiderata loro eliminazione. Risultati ottenuti: riduzione di 800 nel numero degli ambienti occupati a Roma, e di numerosi locali altresì a Torino, a Milano ed a Genova.
Ad affrettare l’alienazione dei materiali residuati dalla guerra, riuscito vano il tentativo di costituire un unico grande consorzio di vendita, furono invece formati 11 consorzi specializzati per le diverse categorie di prodotti, ed affidata la vendita dei residui materiali agli enti militari depositari, sotto il controllo di sei commissioni superiori e 16 sottocommissioni locali. Le vendite, agevolate da una larga pubblicità, si svolgono con successo.
La smobilitazione delle industrie di guerra fu favorita con indennizzi di licenziamento alle maestranze, con commesse di materiale ferroviario, con la ripartizione di 500 milioni di lavori pubblici, con il rifornimento di carbone e di materie prime, con lo sfollamento dai porti del materiale militare accumulatovi in ingenti quantità; sicché il Conti può asserire che «i numerosi e formidabili problemi che all’indomani dell’armistizio si presentavano irti di difficoltà sono andati man mano risolvendosi senza scosse e senza gravi perturbazioni».
Sono già note le risultanze del lavoro di sistemazione delle commesse di guerra: sistemate al 31 luglio ben 4.460 commesse, ammontanti a lire 7.527.075.116 e di esse rescisso un importo di lire 4.585.890.090, con un minore esborso per il tesoro di lire 3.290.914.888, ossia con un’economia del 71,8% sulla somma che lo stato avrebbe dovuto pagare se le commesse rescisse si fossero lasciate andare a termine come si è fatto in Francia. Al 30 settembre il lavoro è ancora più progredito. Su un importo di 9 miliardi e 635 milioni di forniture, se ne poterono rescindere ben 5 miliardi e 637 milioni, su cui si accreditarono alle ditte solo 1 miliardo e 539 milioni, con un minore esborso per il tesoro di 4 miliardi e 98 milioni, ossia con un risparmio del 72,7% in confronto alla somma che si sarebbe dovuto spendere se i lavori fossero stati lasciati finire sull’esempio della Francia. Notisi che del miliardo e 539 milioni pagati alle ditte, ben 408 milioni si sarebbero ad ogni modo dovuti pagare, trattandosi di lavori e manufatti eseguiti e consegnati anteriormente al 10 dicembre 1918. Il resto riguarda materiali finiti per necessità delle amministrazioni militari o per evitare disoccupazioni improvvise di ingenti masse operaie. Sui contratti all’estero i risultati sono ancor più favorevoli: in Francia, risparmio di 33,3 milioni di franchi su 33,6 rescissi; in Spagna, risparmio di 2,2 milioni di pesetas su 2,2 rescissi; in Inghilterra, risparmio di 3,3 milioni di lire sterline su 3,3 rescissi; in America, risparmio di 6,5 milioni di dollari su 6,8 rescissi. Aggiungasi la transazione concordata col governo americano per cui su 18.930.000 dollari da esso richiesti per impianti industriali di uso bellico eseguiti per nostro conto si pagarono soltanto 5.200.000 dollari, appena il 27,50% della somma richiesta.
L’ing. Conti può essere orgoglioso del lavoro compiuto. Egli candidamente confessa che avendo voluto, come era suo dovere, sovratutto far presto, può aver commesso qualche errore: nessuno, a suo parere, grave o irreparabile.
Così ragiona un industriale, che sa affermare le responsabilità inerenti al suo ufficio, e fa ciò che ritiene essere in grado di fare; che rifiuta la nomina a ministro degli approvvigionamenti, giudicandosi impreparato all’opera – quando mai si era udita una tale ragione di rifiuto in bocca ad un uomo di governo dal 1860 in qua, e quale mai dichiarazione è prova migliore dell’esistenza di una vera stoffa da uomo di governo? -; che addita alla gratitudine degli italiani non se stesso, ma i suoi dipendenti ed ama presentarne nominatamente uno, l’ing. Bocciardo, «uomo veramente completo, che, lasciati i suoi affari, per puro amore di patria, dando sempre tutto se stesso senza nulla chiedere, ha portato nell’opera la sua eletta mente di grande industriale e di cittadino esemplare».
Qualche dubbio rimane nella mente del lettore: fino a che punto la liquidazione fu effettiva od invece fu un semplice passaggio ad altri ministeri? Bisognerebbe integrare la relazione, dimostrando che le tante migliaia di ufficiali, soldati ed impiegati licenziati dal Conti non trovarono o non troveranno se non in piccola parte asilo in altri ministeri. Il riassorbimento fu certamente – almeno questa è la mia impressione – parziale. Ma il sen. Conti avrebbe fatto bene a fornirci, anche con qualche fatica e con qualche noia recata ai suoi colleghi, notizie al riguardo. Certo è però che non senza orgoglio, l’ing. Conti può affermare un vero primato nel nostro paese: «in soli 7 mesi l’Italia, unica fra le nazioni in armi, è riuscita a sciogliere tutti i servizi delle armi e munizioni e dell’aeronautica di guerra, ad avviare la nuova aeronautica di pace, ad organizzar l’alienazione, in buona parte già effettuata, dei materiali divenuti disponibili dopo l’armistizio; ad appoggiare validamente le industrie nazionali nel passaggio dallo stato di guerra a quello di pace; a liquidare e sistemare l’ingente mole delle commesse belliche, rappresentate da molte e molte migliaia di contratti per un ammontare di circa 8 miliardi».
Auguriamoci che a questo primato, il quale costituisce «per la patria nostra una posizione avanzata di prim’ordine per le future conquiste industriali», altri primati si possano aggiungere. Ottenerli, è ora compito del ministro della guerra e di quello dell’industria e degli approvvigionamenti. I loro bilanci ed i loro impegni sono tuttora paurosi per l’avvenire del paese. Urge ridurli rapidamente a dimensioni tollerabili.
IV
Il ministro Ivanoe Bonomi risponde
In un recente articolo Luigi Einaudi rilevava la necessità di pubbliche spiegazioni da parte del ministro della guerra sulle enormi spese militari che figurano dai conti del tesoro. Il ministro Bonomi ci invia ora la seguente lettera di risposta:
«Onorevole direttore,
Il senatore Einaudi ha ragione. Niuna cosa nuoce più all’esercito delle cifre non vagliate e non chiarite del conto del tesoro, cifre che possono far credere a spese incompatibili con la resistenza finanziaria del paese. Per questo la prego di accogliere questi chiarimenti che è bene siano senza indugio conosciuti.
Il senatore Einaudi avverte già che i dati contenuti nel conto del tesoro, che si pubblica mensilmente, possono indurre ad erronei apprezzamenti sulla spesa che attualmente sostiene lo stato per i singoli ministeri, e segnatamente per quelli militari.
Effettivamente non è dal conto del tesoro che può ricavarsi, nemmeno approssimativamente, la spesa di un’amministrazione di stato per un determinato esercizio. In detto conto è rappresentata soltanto l’ultima fase delle spese: il pagamento effettivo che è in parecchi casi molto lontano dal momento in cui la spesa è stata veramente incontrata. Anzi, come del resto osserva lo stesso onorevole Einaudi, entrano in detto conto delle spese che in realtà sono state effettivamente pagate molto prima, ma che non si sono potute addebitare alle singole amministrazioni se non quando, in base a regolari documentazioni, è stato possibile portarle in uscita dei rispettivi bilanci. Esempio: i rimborsi al contabile del portafoglio di somme già pagate negli anni scorsi (per lo più sotto forma di acconti) a governi esteri, e che solo dopo laboriosissime liquidazioni di conti è possibile smistare tra le varie amministrazioni e farne eseguire il pagamento, oramai figurativo, sul proprio bilancio.
Per queste ragioni nel conto di un esercizio entrano spese di uno o più esercizi precedenti, come vi mancano spese il cui pagamento o la cui uscita dal bilancio è rimandata agli esercizi futuri. E in un momento come questo in cui si stanno liquidando spese di miliardi è naturale che la differenza fra le due partite possa essere pure di miliardi, risultandone una cifra completamente diversa da quella che rappresenta le spese reali.
Così, della somma, in verità impressionante, di 9 miliardi e 538 milioni pagata nel 1919-20 sul bilancio della guerra, sono intanto da togliere circa 1 miliardo e 29 milioni di rimborsi al contabile del portafoglio che rappresentano tutte, o quasi, spese del periodo di guerra. Altri 1 miliardo e 300 milioni circa rappresentano pure pagamenti figurativi per regolarizzare spese del periodo di guerra, come rimborsi effettuati al tesoro per proventi vari, pagamenti di dazi doganali, la maggior parte dei pagamenti effettuati alle ferrovie dello stato. Infine 2 miliardi e 730 milioni rappresentano i pagamenti per spese residue dei precedenti esercizi (forniture e lavori di guerra, arretrati d’assegni ecc.) o più esattamente la differenza fra tali pagamenti e le spese proprie dell’esercizio 1919-20 che sono rimaste da pagare alla fine del medesimo.
Rimane così la cifra di circa 4 miliardi e 479 milioni che rappresenta la spesa incontrata, a carico del bilancio della guerra, nell’esercizio in parola.
Da questa somma però andrebbero ancora tolte le spese che hanno gravato sul detto bilancio ma che non sono inerenti all’esercito; così le spese per i servizi civili e per i lavori nelle terre liberate e redente (670 milioni); le spese per la Libia (60 milioni); spese varie per altre amministrazioni (5 milioni); infine le spese per i carabinieri (230 milioni). La spesa totale per l’esercito, comprese le pensioni ordinarie (non quelle di guerra) resta così, per l’esercizio trascorso, di 3 miliardi e 514 milioni con una media mensile di 293 milioni circa.
Ma questa media mensile dell’esercizio 1919-20 è molto superiore a quella che si verifica attualmente. L’opera di smobilitazione, proseguita in silenzio ma con tenace perseveranza, ha prodotto risultati finanziari notevoli. Il conto approssimativo della spesa mensile attuale per l’esercito ci dà una cifra di 149 milioni, a cui aggiungendo le spese di carattere non continuativo (assegni, indennità, ecc.) si arriva a 166 milioni mensili.
Naturalmente questa spesa mensile non comprende 29 milioni per i carabinieri, 50 milioni per i servizi civili e i lavori nelle terre liberate e redente, 5 milioni per la Libia, 3 milioni per altre amministrazioni e altre somme per spese arretrate. Essa rappresenta quindi la spesa attuale mensile per l’esercito vero e proprio, quale è oggi nella sua reale consistenza.
E qui è opportuno notare che la consistenza attuale dell’esercito è superiore a quella che dovrebbe essere con l’applicazione dell’ordinamento cosidetto provvisorio. Per le esigenze dell’ora, la quale comporta una maggiore densità di truppe nelle zone di armistizio e una maggiore quantità di servizi e di impieghi, attuale forza bilanciata sta a quella che sarà nel prossimo avvenire come tre a due. Quando dunque sarà raggiunto il punto a cui è indirizzata l’opera di smobilitazione, l’esercito vero e proprio, esclusi sempre i carabinieri, costerà all’incirca 114 milioni al mese.
Questa spesa può apparire sensibilmente superiore a quella del periodo anteriore alla guerra. Ma quando si considera che è andato crescendo il costo dei generi e della mano d’opera, talché il costo giornaliero di mantenimento del soldato, che prima della guerra si calcolava di lire 1,55 e ai primi del 1919 di lire 4,32 si avvicina ora alle lire 7, si deve concludere che la spesa attuale per l’esercito, non solo è effettivamente minore di quella di altri grandi servizi pubblici dello stato, ma è, comparativamente ai costi, minore di quella del periodo pre-bellico.
Ringraziando dev.mo
IVANOE BONOMI
Sono veramente lieto che il mio articolo abbia dato occasione all’on. Bonomi di chiarire le ragioni per cui le spese effettive dell’esercito sono di gran lunga inferiori alla cifra di 9 miliardi e 538 milioni denunciata come spesa dal ministero della guerra nel conto del tesoro chiuso al 30 giugno 1920. Che la spesa attuale per l’esercito giungesse soltanto a 166 milioni di lire al mese era già stato detto dal ministro della guerra al senato; ed io l’avevo ricordato nel mio articolo. Ma non era ancora stato spiegato da chi poteva autorevolmente farlo a che cosa dovesse attribuirsi l’enorme differenza fra gli 800 milioni pagati in media nel 1919-20 ed i 166 veramente spesi per l’esercito. La spiegazione è data ora dall’on. Bonomi, in maniera che a me pare chiara e convincente.
Coloro i quali vogliono il buon nome dell’esercito e nel tempo stesso amano la chiarezza dei conti, non possono non fare tuttavia alcuni auguri:
- che le spese per i servizi civili e per i lavori nelle terre liberate e redente e quelle per la Libia siano attribuite ai bilanci a cui veramente si riferiscono. Ciò non avrà per sé la virtù di far diminuire la spesa, ma gioverà a mettere in risalto lo scopo per cui la spesa è fatta. Se per le spese della Libia ciò non si può fare, sarebbe almeno utile mettere in rilievo che si tratta di spese le quali hanno carattere straordinario;
- che si dia opera affinché dette spese e tutte quelle non inerenti all’esercito vengano fatte cessare, non appena ne venga meno la necessità assoluta.
L’on. Bonomi ha ragione nell’asserire che quella di 114 milioni mensili a cui si ridurrà la spesa per l’esercito (oltre i 29 milioni per i carabinieri ecc.) è solo apparentemente superiore alla spesa antebellica, che, compresi i carabinieri, si aggirò sui 50 milioni. Tra le due cifre è intervenuta la svalutazione enorme della moneta, la quale rende le due cifre non comparabili. Ai corsi attuali della lira in confronto alla sterlina ed al dollaro, i 50 milioni d’allora corrisponderebbero ad almeno 200 milioni oggi. Se davvero la spesa mensile si ridurrà a 151 (114 per l’esercito + 29 per i carabinieri + 5 per la Libia + 3 per varie) milioni di lire, si dovrà dire che l’esercito di domani costerà meno di quello del 1914. Dovrebbe essere meta costante dell’ambizione dell’on. Bonomi di far sì che il bel presagio abbia a verificarsi prestissimo.