I mercati finanziari
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/11/1924
I mercati finanziari
«Corriere della Sera», 27 novembre 1924
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 888-892
Il conto del tesoro, già istruttivo prima, ogni mese si arricchisce di nuovi dati ed ha finito per diventare un vero bollettino statistico mensile della situazione delle finanze pubbliche e dell’economia privata.
In giorni di febbre speculativa giova riflettere sulle pagine del conto. In una tabella, troppo ampia per essere riportata qui, è riprodotta la storia delle società per azioni esistenti, nuove, ingrandite, sciolte, rimpicciolite. Eccola riassunta:
Società esistenti al
| Numero | Capitale in milioni di lire |
1 gennaio 1922
| 6.075
| 20.248,8
|
1 gennaio 1923
| 6.734
| 21.293,3
|
1 gennaio 1924
| 7.782
| 23.421,3
|
31 ottobre 1924
| 8.656 | 26.956,1 |
Durante il 1922 il capitale netto delle società esistenti (investimenti per società nuove od ingrandite meno disinvestimenti per società sciolte o rimpicciolite) crebbe di 1.044,5 milioni; durante il 1923 di 2.117,9 milioni; durante i primi dieci mesi del 1924 di 3.534,8 milioni. Ad ogni anno, il capitale nuovamente investito raddoppia.
Le cifre non sono in se stesse pericolose. Lo sarebbero, se lo stato facesse ancora concorrenza all’industria nel domandare capitali sul mercato interno. Ma il tesoro non solo non fa più domanda di nuovi capitali, ma restituisce parte di quelli che aveva chiesto negli anni di guerra e del dopo – guerra. Se si pensa ai miliardi chiesti allora dallo stato ai privati, non si troverà in se stessa esagerata la somma di quattro miliardi e più che nel 1924 finirà di essere chiesta al risparmio per far fronte ai bisogni crescenti di investimenti industriali e commerciali. Eravamo probabilmente rimasti indietro nei nuovi impianti e si ripara oggi al tempo perduto quando tutte le energie della nazione erano rivolte alla difesa contro il nemico. Nella cifra dei 4 miliardi non sono compresi gli investimenti compiuti da industriali, agricoltori, commercianti privati, bensì soltanto quelli compiuti dalle 8.656 società ordinarie per azioni. Non sono compresi neppure gli investimenti delle cooperative e degli altri enti non eretti a forma di società per azioni. Per valutare la richiesta dei 4 miliardi fatta al risparmio italiano durante il 1924 dalle sole società ordinarie per azioni, bisognerebbe conoscere il totale del risparmio nuovo che ogni anno si forma in Italia. Se questo totale fosse, come da talun competente si valuta, di 12 miliardi, ne avanzerebbe probabilmente ancora tanto da provvedere a tutti gli altri investimenti privati.
Potrebbe darsi tuttavia che se anche i 4 miliardi non sono troppi, considerati sia in rapporto al totale del risparmio annuo nazionale sia alle richieste fatte da altre specie di intrapresa, siano troppi in rapporto alla capacità di assorbimento del pubblico di azioni industriali. Può darsi cioè che i risparmiatori siano in grado di investire 4 miliardi all’anno nella industria societaria, ma non gradiscano di ricevere in cambio, a titolo di ricevuta dei versamenti fatti, 4 miliardi di azioni. Taluni risparmiatori, pur non avendo alcuna obiezione contro l’investimento industriale, possono non volerne correre direttamente il rischio, preferendo di depositare il loro danaro, in conto vincolato, presso qualche banca, contentandosi del 4 o del 5%, e lasciando alla banca di acquistare azioni per conto suo. Il rischio resta in questo modo della banca; mentre l’investimento in sostanza è fatto dal pubblico. Non si sa quanta parte dei 4 miliardi investiti nel 1924 in azioni di società anonime siano investimenti diretti del pubblico e quanta parte investimenti indiretti fatti attraverso le banche. L’intermediazione bancaria è necessaria, perché il pubblico per lo più non ama le intraprese nuove. Occorre che agli inizi una società nuova sia provveduta di capitale, nudrita ed allevata dalla banca, la quale, in seguito, quando l’impresa avrà fatto le ossa, e darà regolari profitti, provvederà a vendere le azioni al pubblico, naturalmente ad un prezzo superiore a quello d’acquisto. Il maggior prezzo equivale alla provvigione di rischio e di allevamento.
Esercitano le banche in modo conveniente questa loro utilissima funzione di allevamento? Presentano al pubblico solo i titoli di imprese sane e promettenti, scartando quelle male riuscite, di cui esse soltanto dovrebbero correre il rischio? Il maggior prezzo è in relazione al rischio corso ed all’utilità della funzione esercitata o non è talvolta ingrossato eccessivamente?
Se a queste domande è difficile dare una risposta sicura per tutti i casi, si può fare qualche riflessione intorno ad un’altra domanda: fanno le banche tutto ciò che è utile e possibile per educare il pubblico a scegliere bene i titoli industriali degni di essere messi nel portafoglio di un oculato padre di famiglia e a persuaderlo a conservare i titoli acquistati? Qualche recente pratica non buona farebbe dubitare che i dirigenti dei mercati finanziari esercitino una pressione bastevole a vietare metodi dannosi in definitiva al buon classamento dei valori azionari. Non è raro il caso che società ragguardevoli facciano approvare dalle loro assemblee aumenti di capitale con velocità inusitata, con avvisi legali quasi clandestini; in pochi giorni ottengono dai tribunali l’omologazione; e pochissimi giorni lasciano agli azionisti per sottoscrivere ciò che ad essi spetta. Tanta furia si osserva sovratutto laddove le azioni sono quotate sopra la pari; sicché se qualche azionista non arriva a tempo a sottoscrivere o non ha i danari pronti e deve vendere la cosidetta opzione, un sindacato di amministratori sottoscrive le azioni rimaste scoperte o compra le opzioni a vil prezzo. Ove tal pratica si osserva, il pubblico di risparmiatori rimane disgustato e si allontana dagli investimenti industriali, a cui invece sarebbe opportuno invitarlo. Accade altra volta che una società con 10 milioni di capitale, le cui azioni sono valutate al doppio della pari, deliberando un aumento di capitale a 20 milioni, inviti gli azionisti a sottoscrivere solo a metà dell’aumento, riservando l’altra metà ad un sindacato, composto per lo più dei soli amministratori. Che cosa ne deduce il pubblico? Che quando le sorti di una società volgono prospere, gli amministratori indebitamente, allegando i più strani e infondati pretesti, si accaparrano buona parte del valore d’avviamento, annacquando il capitale antico con nuove emissioni, forse necessarie e forse no; ed in questo secondo caso destinate a far passare nel patrimonio degli amministratori un avviamento che è di esclusiva proprietà degli azionisti.
Ancora: si emisero talvolta nuove serie di azioni, su cui fu richiesto solo il versamento di un decimo. Gli altri nove decimi da versarsi a richiesta del consiglio di amministrazione, forse fra un anno, forse fra due o tre anni. Nel frattempo queste disgraziate nuove azioni sono invendibili. Chi acquista un’azione, per cui forse si è dovuto pagare al venditore un premio di 100 lire, oltre 10 lire di primo decimo e la quale frutterà per due anni il 10%, percentuale ottima, ma pagata solo sul decimo versato? Per ricevere una lira di dividendo, si stenta a pagare 110 lire. Perciò l’azione nuova, con un solo decimo versato, si deve svendere, in confronto alla vecchia; e gli informati, i quali possono attendere il frutto annuo, acquistano.
Finalmente, per terminare questa enumerazione, si emettono azioni di tipo non introdotto nel pubblico. Il risparmiatore italiano conosce soltanto le azioni ordinarie, le quali corrono ugualmente cioè tutti i rischi, buoni e cattivi e partecipano ugualmente agli utili sociali. Sarebbe ottima cosa che le banche educassero il pubblico ad acquistare azioni di altro tipo; quelle privilegiate, ad esempio, di cui nei paesi anglosassoni si fa uso larghissimo. Le privilegiate meritano un largo mercato; perché, pur essendo azioni, hanno, in confronto alle ordinarie, un diritto di prelazione negli utili annui, fino, ad esempio, al 7%, talvolta sugli utili di parecchi anni consecutivi e talvolta ancora sul capitale, in caso di scioglimento della società. Per introdurle, bisogna però crearne il mercato; bisogna che le banche siano disposte a ricomprarle, se il prezzo ribassa troppo; così da incoraggiare i capitalisti all’acquisto. Invece recentemente, si videro emesse azioni delle postergate, dal nome insolito e che di fatto parrebbero ultra – ordinarie, nel senso che invece di avere, come le privilegiate, una prelazione sugli utili, ricevono utili solo se un certo dividendo è stato pagato prima alle azioni ordinarie. Non ci sono obiezioni di principio al nuovo tipo di azioni: le privilegiate facendo appello ai risparmiatori più prudenti, le ordinarie a quelli che vogliono correre l’intiero rischio industriale, le postergate a quelli più azzardosi, che si contentano degli utili ultimi. Ciò che occorre, per tutti i tipi, è che si crei un mercato; che le banche emittenti non si disinteressino del titolo. Perché, insomma, la cifra dei miliardi di nuove emissioni in un anno possa essere fondatamente considerata come vantaggiosa all’economia nazionale, all’espansione dei commerci, alla domanda permanente di lavoro, è necessario che le grandi banche dirigenti premano, con tutta la loro influenza, la quale spesso è grande, sugli amministratori delle società per azioni per costringerli ad abbandonare sistemi atti a disgustare gli azionisti: quindi larga pubblicità alle nuove emissioni; ragionevoli termini agli azionisti per sottoscrivere e per pagare; nessuna riserva delle nuove emissioni ad altri che non siano gli azionisti. Ed occorre che i mercati finanziari siano governati per modo da affezionare gli azionisti ai titoli acquistati. Le campagne all’aumento vertiginoso su taluni titoli preferiti – aumento su cui non si può dare alcun giudizio generale, tutto dipendendo dagli apprezzamenti singoli, i quali sfuggono allo studio scientifico – hanno questo di dannoso: che esse attirano alle borse un pubblico di non – risparmiatori: gente che si appassiona ai titoli per ottenerne subiti guadagni, non per metterli in portafoglio. Se il danno è inevitabile, i dirigenti dovrebbero ridurlo al minimo e dovrebbero curare il pubblico vero, il solo che rimane alla lunga, quello che investe sul serio i suoi danari e il quale ama i buoni consigli, la tranquillità, la sicurezza di poter rivendere. Bisogna, cioè, ripeto, creare un ampio mercato per i titoli emessi.