I candidati e il controllo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/05/1921
I candidati e il controllo
«Corriere della Sera», 11 maggio 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 161-163
Un giornale giolittiano dice che dalle risposte date dai vari candidati dei blocchi, pro o contro il controllo, si distinguerà il liberale dal conservatore, colui che vuole andare innanzi nella ordinata evoluzione dei tempi, da chi vuole tornare indietro con la reazione o con la rivoluzione. Va da sé, che liberali sarebbero i controllisti e reazionari coloro che non ne vogliono sapere.
Abbiamo gran paura che la distinzione sia un’altra, la quale non ha nulla a che fare con il liberalismo e la reazione: la distinzione tra chi sa che un problema economico o sociale qualunque non si risolve, come fecero gli on. Labriola e Soleri, elencando le buone intenzioni di coloro che vogliono il controllo, e chi sa che può risolversi unicamente in base agli effetti probabili che sperimentalmente il controllo sarà capace di produrre.
La questione di principio, così come la posero i due uomini del governo presente, non ha nessuna importanza. L’importante non è di sapere se con il controllo si abbia l’intenzione di aumentare la produzione, di far collaborare insieme capitale e lavoro, di educare gli operai alla gestione dell’industria, di ristabilire la disciplina nella fabbrica.
Di buone intenzioni è lastricato, assai più del pavimento dell’inferno, il programma di qualunque candidato alla deputazione. Ma lo sciorinarne un sacco ed una sporta, il piangere di commozione dinanzi al paradiso terrestre evocato dal suo sogno di redenzione sociale, non dà affatto il diritto al candidato di proclamarsi liberale e di tacciare come reazionari coloro i quali rimangono scettici dinanzi alle belle promesse e modestamente osservano che gli effetti probabili del controllo saranno tutti diversi da quelli immaginati dai candidati autodichiarantisi liberali. Gli scettici osservano che il controllo noi l’abbiamo in piedi, vivo ed operante, da parecchio tempo in Italia, sotto il nome di «equo trattamento» e condusse a rovina le industrie ferroviarie e tranviarie. Osservano che il controllo visse, sotto varie forme, in Russia ed in Germania e produsse discordia, indisciplina, disordine, diminuzione della produzione; sicché fu abbandonato dagli stessi fanatici bolscevichi, e fu ridotto ad una larva in Germania. Osservano che dappertutto, sotto tutti i climi storici ed economici, è quasi impossibile far funzionare bene le imprese economiche a base costituzionale e democratica; che il regime parlamentare è il meno peggio per condurre innanzi gli affari pubblici in cui tutti per forza occorre si adattino ad operare d’accordo non potendoci essere due stati in uno stesso paese; ma è il peggio assoluto per amministrare imprese alle quali nessuno è obbligato a partecipare e che vivono sovratutto bene alla grand’aria della libera concorrenza. E, badisi, non si tratta, come suggerisce l’organo giolittiano, di controversie sulle modalità tecniche della riforma. Qui non ci sono modalità tecniche che tengano. Il controllo è un principio falso in se stesso, perché pretende far ficcare il naso agli operai in cose che non li riguardano; ed è altrettanto deleterio come quello per cui alcune banche o gruppi di capitalisti vogliono amministrare essi le imprese industriali a cui hanno imprestato i loro capitali. Errore l’uno ed errore l’altro. Gli operai hanno interesse a controllare il proprio lavoro, a venderlo al più alto prezzo possibile, a circondarlo di guarentigie per l’orario, per i modi di pagamento, a stipulare contratti collettivi, ad esigere l’osservanza e l’ampliamento di una sempre più perfetta legislazione del lavoro, a concorrere all’amministrazione degli istituti di previdenza, creati a loro beneficio. Ed i banchieri hanno diritto di sapere se il loro denaro è impiegato conformemente alle convenzioni, di farselo restituire alla scadenza, di richiederne il rimborso anticipato se il mutuatario contravviene ai patti. Ma né all’operaio né al banchiere giova ficcare il naso nelle cose non loro. L’unico effetto è di spegnere iniziativa, spirito di comando e di responsabilità e di tramutare in passivi i bilanci più attivi. Precisamente come è accaduto in Italia alle imprese soggette al regime dell’equo trattamento ed in Germania ed in Russia a quelle sottoposte al controllo.
Qualunque ne siano le modalità, a meno che si tratti di un trucco elettorale e di polvere negli occhi, il controllo, se esercitato sul serio, anche in dose omeopatica, è destinato a produrre risultati disastrosi.
Perciò chiediamo anche noi ai candidati liberali: volete o non volete il controllo? Ed a quelli che ci risponderanno di no, non rimprovereremo certamente di essere i liberali, ma li loderemo per il buon senso dimostrato nel sapere ragionare ed osservare con la propria testa, senza lasciarsi intimidire dall’accusa ricattatoria di reazionarismo. Agli altri che ci risponderanno di sì, noi chiederemo, per convertirci, la dimostrazione che gli esperimenti fin qui compiuti di controllo non valgono nulla, che è ragionevole e sensato non tenerne conto e chiederemo la spiegazione del miracolo per cui diventerebbe un «titolo insigne di gloria» per il nostro paese l’avere sperimentato «il nuovo regime dell’azienda concordataria», non per il primo, come fantasiosamente osserva l’on. Labriola, ma dopoché da noi ed altrove esso aveva già dato prova di saper condurre l’industria al disastro.