Guerra ed economia
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1920
Guerra ed economia
«La Riforma Sociale», giugno-luglio 1915, pp. 454-482.
Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, 1916, Torino, pp. 129-159
Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 1-42
Durante la lunga e spesso acerba lotta di idee e di partiti, grazie alla quale l’Italia poté fare un suo serio esame di coscienza, e poté trovarsi pronta e ferma ed unanime nel compiere lo sforzo grave della guerra per la conquista dei suoi confini naturali, questo si notò: che mentre le classi, le quali potremmo chiamare «economiche» per eccellenza, degli industriali, dei commercianti e degli agricoltori sembravano deprecare la guerra e stringersi intorno alla formula della neutralità, da abbandonarsi solo quando il governo riconoscesse assolutamente impossibile ottenere qualcosa per via di trattative, ben scarsa eco avevano queste tendenze nel ceto degli studiosi professionali della scienza economica. Molti economisti non dissero nulla; il che è ragionevolissima cosa quando il fatto da studiare ancora non è compiuto e non si presta a ragionamenti abbastanza rigorosi. Ma quelli che parlarono diedero chiaramente a vedere come essi non si lasciassero soverchiamente impressionare dagli elenchi di perdite materiali ed economiche che sarebbero state le conseguenze, secondo taluno dei pratici, più sicure della guerra.
Quali le ragioni di un siffatto contrasto e perché tra gli economisti, che parlarono prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, apparvero subito prevalenti coloro, i quali trovarono calanti di peso le ragioni di ordine economico, che potevano essere consigliere di neutralità?
È impressione di moltissimi laici, i quali si dilettano nello scrivere di cose economiche, che ufficio degli economisti sia quello soltanto di fare conti di dare ed avere in lire, soldi e denari, giudicando calanti quei beni che non siano tangibili o materiali e spregiando i beni ideali, morali, religiosi e politici. Sicché il Carlyle definì «dismal science» quella economica: ed ogni giorno i suoi tardi ripetitori additano al pubblico disprezzo i sacerdoti di questa scienza, come quelli che hanno gelido l’animo e chiuso il cuore ad ogni sentimento nobile, sensibili solo al suono metallico dei guadagni e delle perdite «presenti» in denaro «contante».
Chi scrive o pensa in tal modo non ha mai, neppure per un istante, avuto la sensazione della essenza poetica della scienza economica. Dicono che una delle facoltà principi dei grandi matematici, astronomi e fisici sia la fantasia; e certamente noi non riusciamo ad immaginarli privi di quelle qualità di immaginazione, di sentimento, di intuizione che sono caratteristiche dei grandi poeti. Così è dei grandi economisti. Quando Ricardo concepì le sue teoriche degli scambi internazionali o della ripartizione della moneta tra i diversi mercati, egli dovette sentire un rapimento intellettuale ed una commozione intensa dell’animo simile a quello che provò Archimede quando gridò il suo famoso Eureka o Galileo quando scoprì le leggi del pendolo o Dante quando scrisse i più terribili canti dell’Inferno. Era diverso il motivo delle commozione; ma egualmente sublime ed elevato la scoperta di una verità nuova, di nessi impensati e fecondi tra fatti prima non osservati o male osservati, la rappresentazione di passioni profonde umane.
Chi rifletta che alcune delle verità scoperte dagli economisti e massimamente dal maggiore di essi, Davide Ricardo, non sono meno grandiose ed illuminatrici di quelle, meglio note all’universale, che l’anno reso celeberrimi i nomi di Copernico, Galileo, Keplero, Lagrange Newton, Volta ed altri uomini di genio, non può non sentire vivamente la assurdità, anzi la impossibilità assoluta che quelli fossero uomini chiusi ad ogni alto sentimento umano, abituati a ritenere ogni cosa oggetto di mercato e volgare mercato. Uomini adusati alle astrazioni ed alle sintesi, i quali ad ogni passo avvertono che il loro ragionamento è corretto solo data una certa ipotesi, immaginato un dato ambiente, supposta l’esistenza di un determinato ordinamento sociale o giuridico, ammessa l’esistenza di date abitudini e consuetudini e passioni, scrittori di cui tutto il discorso è un perpetuo se; i quali giungono, in questo mondo irreale e reale nel tempo stesso, a tracciare le leggi «ideali» del movimento degli uomini per il raggiungimento di dati fini, e le leggi, pure ideali, del movimento dei beni e dei servigi che gli uomini tra loro scambiano; costoro sarebbero dei materiali e goffi adoratori del denaro, gente la quale assapora e conosce solo le più basse passioni, i più vili sentimenti dei loro simili! Colui che così parla, non ha sentito la profonda poesia che sta sotto ai ragionamenti ed alle rappresentazioni degli economisti, non ha intuita la sublimità di questo sistema concatenato di leggi, con cui gli economisti hanno cercato di spiegare, in parte, le ragioni e le maniere del comportarsi degli uomini; non ha veduto come tutto il pensiero economico è condizionato alla premessa dal se e del coeteris paribus stantibus ed è quindi incomprensibile se non ci si figura dinanzi agli occhi della mente lo spettacolo del continuo, non mai riposante, concilio scientifico, dove fisici, chimici, economisti, giuristi, moralisti, politici, mistici, filosofi convengono, mossi dal desiderio di comunicare agli altri il frutto delle proprie particolari indagini e desiderosi di apprendere i risultati del pensiero e dell’immaginazione degli altri, sicché dai suggestivi conversari balzi fuori o sembri balzare la figura dell’uomo vero e compiuto.
Pretendeva, è vero, taluno di fare dei ragionamenti economici discorrendo dell’assurdità di distruggere, andando in guerra, le ricchezze che si erano accumulate in passato, e di interrompere il flusso dei guadagni che la neutralità ci procurava. Un paese, come l’Italia, a ricchezza scarsa, di appena 80 miliardi di lire, contro i 400 della Germania e dell’Inghilterra non poteva correre il rischio di perdere neppure la più piccola parte di questa scarsa ricchezza, acquistata con la fatica di molte passate e necessaria al sostentamento della presente e delle venture generazioni.
Perché ci dovremmo battere? Povero il Trentino, poverissimi il Carso, l’Istria e la Dalmazia, inferiori a molte delle peggiori terre del Regno. Unica ricchezza il porto di Trieste, il quale perderebbe però gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo ed aggregato all’Italia, la quale stenta a dare alimento al suo vecchio e non ancora risorto porto di Venezia.
Ma, se apriamo i libri degli economisti, ascoltiamo parole ben diverse. «Noi dobbiamo ricordare» leggesi in uno dei libri che meglio hanno esposto, in linguaggio moderno e coi più raffinati metodi attuali di indagine, il pensiero degli economisti classici, perfezionandolo e portandolo sino alle sue più logiche e larghe conseguenze.[1]
«Noi dobbiamo ricordare che il desiderio di guadagno non deriva necessariamente da motivi bassi, anche quando il guadagno è speso a proprio beneficio. Il denaro è un mezzo per conseguire dei fini, e se i fini sono nobili, il desiderio di avere i mezzi all’uopo necessari non è ignobile. Il giovane, il quale lavora accanitamente e risparmia la maggior parte possibile dei suoi guadagni, allo scopo di potersi in seguito mantenere agli studi dell’Università, è avido di denaro. Ma la sua avidità non è ignobile. Il denaro è una potenza generale di acquisto ed è desiderato come un mezzo per ogni specie di fini, alti e bassi, spirituali e materiali.
Sebbene sia vero che il “denaro” od il “potere generale di acquisto” o la “disponibilità di ricchezze materiali” è il centro intorno a cui è costrutta la scienza economica; non è vero però che il denaro o la ricchezza materiale debba essere considerato come il principale scopo dello sforzo umano e neppure come il più importante oggetto di studio per l’economista …».
Le parole del maggiore tra gli economisti inglesi viventi, di colui il quale ha sovratutto penetrato meglio di ogni altro economista vivente l’intima essenza del pensiero «tradizionale» economico e l’ha saputo rivestire di una eletta forma moderna, dimostrano come, secondo i più antichi ed accettati principii scientifici, l’acquisto e la conservazione della ricchezza non siano il fine della vita dell’uomo. È un errore economico distruggere la ricchezza per raggiungere un fine basso o non importante o senza raggiungere alcun fine; è un errore economico scegliere metodi sbagliati ed inutilmente costosi, non raggiungendo così il fine desiderato; ma non è errore consumare ricchezza per raggiungere un fine non economico che la nazione considera tuttavia importante e degno. La differenza fra il possedere una ricchezza di 80 miliardi od una di 75 o di 85 può essere valutata soltanto in rapporto ai fini ed agli ideali, materiali e morali, che si propongono gli uomini possessori di quelle diverse ricchezze. Un paese può, in seguito ad una guerra fortunata di conquista, vedere crescere la propria fortuna, valutata in moneta, da 80 ad 85 miliardi, senza che possa dirsi che quella guerra sia stata economicamente desiderabile. Poiché se si conquistò un paese abitato da uomini di diversa nazionalità, i quali repugnino al dominio dei conquistatori, è molto dubbio se vi sia stato un vero incremento di ricchezza di 5 miliardi per il paese conquistatore. La scienza economica, la quale deve badare sovratutto a quel che non si vede nei fatti economici, porrà, nel libro del dare e dell’avere, contro al guadagno di 5 miliardi, la perdita derivante dalle cattive tendenze psicologiche che la conquista farà nascere tra i conquistatori (risveglio dello spirito di aggressione, incremento della burocrazia militarista, subordinazione degli individui allo Stato, divenuto organo di conservazione della conquista, indebolimento delle forze, le quali promuovono il perfezionamento intimo, volontario dell’individuo) e dalle reazioni inevitabili tra i conquistati. Molti oggi sono persuasi che la annessione dell’Alsazia Lorena ha nociuto, alla Germania, mentre l’ha avvantaggiata la prudenza dimostrata verso l’Austria dopo il 1866. Può darsi che la fortuna della Germania, misurata in denaro, sia maggiore oggi di quanto non sarebbe, se l’Alsazia Lorena fosse restituita alla Francia; ma è molto dubbio se ogni singolo tedesco non sarebbe oggi più ricco se per 40 anni il governo germanico non fosse in parte stato costretto ed in parte non avesse tratto argomento dal desiderio di rivincita della Francia per aumentare oltremisura le spese militari e per fomentare nel popolo lo spirito di dominazione; o se, pur essendo in denaro più povero, non sarebbe oggi (quella minore ricchezza feconda per lui di godimenti, materiali e morali, maggiori, quando non dovesse spendere una parte dei suoi redditi per la conservazione e l’incremento di conquiste aborrite dai popoli soggetti. Anche supponendo che incremento di ricchezza e conquiste territoriali vadano di pari passo – intorno a che è lecito nutrire molti dubbi – il punto su cui verte la disputa non è se convenga guadagnare ricchezza, ma se convenga diventare oppressore. Un popolo, il quale si proponga come ideale il predominio sui più vicini e l’assoggettamento, diretto od indiretto, politico, economico od intellettuale, degli altri popoli, ragionerà correttamente risolvendosi a fare lo sforzo per aumentare a tal fine la sua ricchezza. Un altro popolo ragionerà pure correttamente, dal punto di vista economico, rinunciando alla maggiore ricchezza, quando giudichi che questa gli servirebbe solo per raggiungere un fine repugnante, come per esso è l’imposizione ad altri popoli del proprio tipo di civiltà.
Piace a questi altri uomini di collaborare con uomini di altre razze e di altre lingue, conservando ognuno di essi una propria fisonomia particolare ed una propria vivace individualità; e ritengono essi inutile di fare sforzi e consumar fatica e tempo per acquistare una ricchezza, la quale dovrebbe servire ad abbassare gli ideali di vita che a loro sono cari e ad innalzare quelli che essi ritengono inferiori e ripugnanti.
Le valutazioni della ricchezza sono «nomi» numerici che si danno ai beni desiderati dagli uomini, per opportunità e semplicità di conteggio; ma il significato di quei «nomi» è mutevole e complesso. Può ben darsi perciò che gli uomini di un paese siano persuasi, ed a ragione persuasi di guadagnare, riducendo la loro ricchezza da 80 a 75 miliardi, quando essi in tal modo riescano o sperino di riuscire a raggiungere una meta che per essi è desideratissima. Così hanno ragionato gli italiani nel momento attuale; ed hanno fatto un calcolo economicamente corretto. Il possesso del denaro è un mezzo e non un fine della vita umana; e se gli italiani sono convinti che sia necessario ricongiungere alla patria i paesi italiani finora soggetti al dominio d’Austria, bene fanno essi a spendere 5 dei loro 80 miliardi di ricchezza nazionale. Anche dal punto di vista economico, essi hanno compiuto un calcolo corretto; poiché il fine che essi hanno fiducia di raggiungere vale di più della perdita dei 5 miliardi spesi. Che se anche, per ipotesi malaugurata, il fine non dovesse essere raggiunto, gli italiani avrebbero dimostrato la volontà di non badare a sacrifici di vita e di averi, pur di soddisfare al dettame della coscienza ed all’imperativo del dovere. Il che è un vantaggio morale superiore al sacrificio dei 5 miliardi. Ed aggiungasi che quei popoli, i quali hanno la forza di compiere simili sacrifici rivelano a se stessi ed agli altri tali nascoste energie di volontà da riuscire in breve tempo a rifarsi della perdita economica subita.
Le quali verità si sono ora ripetute, non perché fossero nuove – ché anzi sono insegnate dal buon senso ed imposte dal ragionamento ordinario – ma per mettere in luce come esse direttamente e logicamente si deducano dai più elementari principii della scienza economica, quale essa in verità è sempre stata in passato ed è ora e non quale immaginano sia i seguaci del materialismo storico.
Perciò gli economisti non ritengono che il discorso della guerra sia finito coll’elenco delle tristi conseguenze che da essa deriverebbero. Questo è un lato solo del problema; né ha l’importanza che ad esso da taluno si volle dare. In una scrittura, a firma Victor, pubblicata sulla Nuova Antologia del 16 marzo 1915, fra le altre nere previsioni di avvenimenti che si sarebbero dovuti verificare allo scoppio della guerra italiana, vi fu quella che il corso della rendita 3,50% sarebbe disceso, forse, fino a 70 lire. «Chiunque abbia una qualsiasi responsabilità della cosa pubblica è in dovere di meditare e pesare le conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70, falcidiando del 30 per cento l’intero valore capitale della ricchezza nazionale, titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc. Tenendo conto dei deprezzamenti già avvenuti, si può ben dire che non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotta alla metà».
Allo scopo di apprezzare il valore di questa profezia, è opportuno precisare i dati del problema. A leggere il periodo di Victor parrebbe che la sequela degli avvenimenti dovesse essere questa:
- I. Prima della guerra, la rendita 3 ½ per cento era valutata 100;
- II. La guerra farà probabilmente ribassare il valore da 100 a 70, con una falcidia del 30%;
- III. L’identica falcidia si verificherà su tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, dei titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc;
- IV. Poiché già prima della guerra si erano verificati dei deprezzamenti, si può calcolare che, per non poca parte, il valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotto della metà;
- V. Non è detto se a questo deprezzamento antico avesse partecipato la rendita di Stato, e se essa rientri quindi in quella «non poca parte» della ricchezza nazionale, il cui valore all’inizio della guerra si ridurrebbe alla metà.
Esposto in questa più logica e chiara maniera, il ragionamento lascia vedere subito le sue falle, dovute in parte al linguaggio poco preciso ed in parte ad errori intrinseci.
È vero che, prima della guerra europea, il corso della rendita era sostenuto: senza toccare il pari, oscillava intorno a 95-97 lire. Ma era questo un prezzo «normale», quale si sarebbe verificato in assenza di una data politica finanziaria governativa, intesa appunto a sostenere i corsi della rendita? È noto, come, a partire dalla conversione, felicemente operata dalla rendita nel 1906 dal tipo 4 al tipo 3 ½ per cento, i dirigenti della politica finanziaria italiana siano stati ossessionati dall’idea fissa che convenisse allo Stato vedere il suo maggior titolo intorno a 100. Specialmente durante la guerra libica e negli anni successivi, il governo cercò con ogni mezzo di non offrire in vendita titoli che potessero muovere concorrenza alla rendita, aumentando, contro ogni buona norma finanziaria, la emissione dei buoni ordinari del tesoro e vendendo buoni quinquennali 4%, pregevoli sotto molti rispetti, ma non sotto quello della sistemazione definitiva del debito occasionato, direttamente od indirettamente, dalla guerra libica.
Non ha importanza, ai fini del presente ragionamento, il fatto, tante volte allegato dall’on. Tedesco, durante la sua permanenza al ministero del tesoro, che i buoni quinquennali erano emessi per coprire altre spese, principalmente ferroviarie, diverse da quelle di guerra. Questo è un modo contabile e legale di esprimere la verità, simile a quelli con cui si pretendeva, e formalmente con ragione, che i bilanci degli anni 1911-1914 si chiudessero in avanzo.
È sempre possibile di attribuire un debito a quella qualsivoglia spesa, la quale possa sembrare «politicamente» adatta a sopportare il merito od il demerito del debito. Nella realtà, il bilancio di uno Stato è un tutto organico; in cui il complesso delle entrate provvede al totale delle spese.
È arbitrario scegliere fra le spese una o parecchie ed affermare che per quelle si dovette ricorrere a talune nuove entrate, per es., al debito od all’imposta cresciuta. L’on. Tedesco si compiaceva di affermare che i debiti li faceva per coprire le spese delle costruzioni ferroviarie e non quelle per la guerra libica; e tale compiacimento l’on. Giolitti ordinava al Parlamento di tradurre in leggi dello Stato. Con altrettanta ragione si sarebbe potuto dire che i debiti si facevano per pagare le spese della magistratura o della pubblica sicurezza.
In realtà, se un criterio obbiettivo si volesse adottare in questa materia, si dovrebbero fare due elenchi di spese e di entrate. Nel primo elenco si dovrebbero scrivere, in ordine discendente, le spese, cominciando da quelle che normalmente sono incluse in ogni bilancio, che rispondono a funzioni essenziali dello Stato, via via passando quelle che hanno carattere di maggiore straordinarietà o novità, che rispondono ad un bisogno nuovo sentito ed affermato dalla collettività. E, per converso, nell’elenco delle entrate si dovrebbero collocare prima le entrate ordinarie, antiche, e poi in seguito le entrate eventuali, straordinarie, deliberate in tempi più recenti per far fronte ad incrementi di spese, qualunque essi fossero.
Nessun dubbio che, in un elenco così fatto, le spese di costruzioni ferroviarie debbono logicamente venir prima delle spese di una guerra; perché le prime derivano da necessità ordinarie e permanenti dello Stato, mentre le seconde sono la conseguenza di una impresa straordinaria, non ricorrente dello Stato. Le prime sono spese le quali risalgono cronologicamente all’epoca nella quale lo Stato diventò proprietario delle ferrovie e cioè a 40 o 60 anni fa; mentre le seconde sono la conseguenza di una situazione politica internazionale, maturata fra il 1910 ed il 1911. Alle prime debbono corrispondere entrate più certe ed ordinarie di quelle che possono bastare alle seconde; poiché le prime spese si dovranno ripetere ogni anno e le seconde si dovranno esaurire in un non lungo volgere di anni.
Nessun dubbio ancora che, nell’elenco delle entrate, quelle derivanti da debiti debbano susseguire quelle provenienti da imposte; poiché la finanza di uno Stato deve normalmente reggersi su queste e solo in via straordinaria ricorrere ai debiti. Ancora è certo che, nell’elenco dei debiti, debbono precedere quelli consolidati perpetui e venire in seguito quelli redimibili in un lungo periodo e poi i buoni del tesoro quinquennali, i buoni ordinari e, finalmente, le emissioni di moneta cartacea; ossia prima i debiti permanenti e poi quelli brevi, provvisori, che sono quasi spedienti consigliati dall’urgenza del momento, in attesa di una sistemazione definitiva.
Compilati i due elenchi, si confrontino tra di loro: le «prime» entrate corrisponderanno alle «prime» spese; le ulteriori a quelle spese che vengono in seguito; mentre alle «ultime» spese si vede chiaramente essersi provveduto con le «ultime» entrate iscritte nell’elenco. Resta così dimostrato che alle spese della guerra libica, che logicamente dovevano essere iscritte per ultime nell’elenco delle spese, si provvide con le emissioni dei buoni quinquennali, dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca. Né si capisce la ragione per la quale l’on. Tedesco tanto insisteva per capovolgere questo che è l’ordine naturale delle cose, se non forse la consapevolezza sua che le emissioni almeno dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca ed in parte anche dei buoni quinquennali erano evitabili mercé il ricorso ad emissioni di rendite perpetue o di prestiti a lunga scadenza.
Egli probabilmente, non voleva che il biasimo per i metodi da lui prescelti per l’accensione dei debiti si estendesse alla guerra libica, la quale, essendo guerra coloniale, era, in verità troppo piccola cosa per giustificare l’adozione di sistemi i quali sono invece spiegabili solo in occasione di guerre grandi e vitali, come quella che oggi l’Italia combatte per la sua integrazione e la sua indipendenza.
Una delle ragioni che allora consigliarono il governo a preferire i buoni del tesoro alle rendite perpetue od ai prestiti a lunga scadenza era la fisima stravagante, ficcatasi in testa ai dirigenti, che fosse un grande interesse nazionale di impedire il ribasso della rendita al disotto della pari. Avrebbero potuto collocare con grandissima facilità un miliardo e forse due di rendita 3 1/2% a prezzi assai convenienti – oggi si vede che tutti i prezzi fra il 90 ed il 100 sarebbero stati convenientissimi per l’erario, e nulla fa ritenere che i prezzi di emissione dovessero essere più vicini al 90 che ai 100 -; e preferirono di inondare il mercato dei capitalisti privati, delle banche e delle casse di risparmio con titoli, i quali costituiscono un tormento quotidiano per i ministri del tesoro quando, come i buoni ordinari, giungono a scadenza o, se si tratta di buoni quinquennali, costituiranno una preoccupazione per i ministri del 1917-19.
Ma si voleva salvare la formula né debiti né imposte assurdamente esposta dal governo di quel tempo, come se i buoni del tesoro non fossero titoli di debito ed i maggiori accertamenti per le imposte esistenti non equivalessero a nuove imposte; e si volevano sostenere i corsi della rendita alla pari.
Le quali cose furono esposte per dimostrare come Victor si esprimesse in maniera assai inesatta quando ammoniva coloro, i quali avevano il 16 marzo 1915 la responsabilità della cosa pubblica a riflettere «alle conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70: falcidiando del 30% l’intiero valore capitale della ricchezza nazionale». No: gli onorevoli Salandra, Sonnino e Carcano, quest’ultimo nella sua qualità di ministro del tesoro, non potrebbero da soli essere chiamati responsabili di un eventuale ribasso della rendita da 100 a 70 (trenta per cento), qualora esso si verificasse in conseguenza della guerra oggi dichiarata contro l’Austria.
Poiché una parte di questo ribasso esisteva in potenza prima, ed era dovuto alle spese volute dal ministero Giolitti Tedesco. Se noi ricordiamo che per tutto il 1911, il 1912, il 1913 e la prima metà del 1914, lo Stato italiano doveva pagare più del 4 per cento effettivo sui suoi prestiti, emessi col nome di buoni del tesoro, chiaro apparisce come il tasso di capitalizzazione della rendita non poteva, già prima della guerra europea, essere quello del 3 ½, ma doveva avvicinarsi al 4%; ed è chiarissimo perciò che il prezzo normale della rendita già tendeva ad essere di 87,50 – al qual prezzo un titolo 3,50 per cento frutta all’acquirente il 4% – od al più di 90 lire.
Epperciò non è corretto attribuire all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano la responsabilità di un eventuale ribasso da 100 a 70, ma tuttalpiù quella d’un ribasso da 90 a 70. La responsabilità della prima parte del ribasso – e finora della più importante, ché, al momento in cui scrivo, il corso della rendita batte sulle 81/85 lire – è tutta degli onorevoli Giolitti e Tedesco e dalla loro politica finanziaria in occasione della guerra libica. Se anche si ammette che la rendita debba ribassare a 70, il ribasso dovuto alla guerra europea italiana non è del 30 per cento, ma all’incirca del 20 per cento. Ed a bella posta ho scritto guerra europea italiana; poiché, se anche non fosse intervenuto l’atto, deprecato da Victor, della dichiarazione di guerra all’Austria, era assurdo pensare che, continuando sino alla fine la neutralità italiana, il tasso di capitalizzazione della nostra rendita potesse mantenersi al 3½ o, più correttamente, al 4%. La guerra europea, anche astrazion fatta dal nostro intervento, distrugge una così grande massa di capitali che per lunghi anni il tasso dell’interesse si troverà spostato all’insù, verso il 5 ed il 6 per cento. Come illudersi, che l’Italia sola, grazie alla sua neutralità, potesse rimanere immune da questa ondata al rialzo del prezzo dei capitali? Finita la guerra, i rapporti fra mercati esteri e mercato interno dei capitali si ristabiliranno; e nessuna forza umana avrebbe potuto impedire un livellamento, forse non compiuto, ma bastevole a provocare sensibili ribassi, dei corsi dei titoli italiani a quelli dei titoli esteri. Sicché, sul 30% di ribasso ipotizzato da Victor, forse neppure del 10% può essere attribuita la responsabilità all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano: il 30% dovendo essere ripartito in tre parti all’incirca uguali, di cui son responsabili la guerra libica, la guerra europea e la guerra italiana. Le colpe di quest’ultima appaiono così in gran lunga minori di quelle che parrebbero derivare dal discorso di Victor.
È egli vero inoltre che un ribasso del 30 o del 10% nel prezzo della rendita debba accompagnarsi ad un’uguale falcidia per tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, titoli di stato, valori industriali, case, terre, ecc.? In tesi generale, sì; poiché il mutato tasso di capitalizzazione deve necessariamente ripercotersi su tutti gli impieghi di capitale. Ma non senza notevoli riserve. Dei valori industriali e bancari sono ribassati e ribasseranno sopratutto quelli che si reggevano sulle stampelle dei diritti di sconto, dei sindacati di sostegno, degli argini artificiosi al ribasso. Alcuni buoni titoli si sono risentiti molto ed altri sono aumentati in conseguenza della guerra. Per le case e sopratutto per le terre è molto dubbio se le terrificanti profezie di Victor abbiano a verificarsi. In molte regioni rurali, specialmente a piccola proprietà, a guerra finita si verificheranno forse effetti contrari. I risparmi, impauriti e diffidenti, si getteranno, forse ancor più esclusivamente di prima, sulla terra, considerata come l’unico impiego sicuro dai pericoli di fallimenti, di bombardamenti e di danneggiamenti contemporanei e susseguenti alla guerra.
E, per concludere queste osservazioni formali, in qual modo Victor ha potuto constatare che i deprezzamenti «già avvenuti» giungono al 20%, sicché con quelli conseguenti alla guerra e valutati al 30%, si possa concludere che «non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe, in conseguenza dell’atto di dichiarazione della guerra, ridotta alla metà»? Siffatto colossale ribasso non è preveduto da Victor per la rendita, da lui fatta ribassare fino a 70; né egli spiega perché, per gli altri valori, il ribasso debba essere di tanto maggiore.
Ma, sovratutto, sia il ribasso del 10, o del 30, o del 50 per cento, ha riflettuto Victor al vero significato di questa riduzione del valore della ricchezza nazionale?
Per la ricchezza oggi esistente la riduzione, a prima vista terrorizzante, ha un valore in parte soltanto nominale. Trattasi pur sempre di una variazione dei «nomi numerici» che si appiccicano dagli uomini alle cose, nel momento in cui le fanno oggetto di transazione (compre vendite, affittanze, ipoteche, ecc.). Tizio capitalista medio, possiede un lotto di rendita 3½% da 100.000 lire nominali. A lui dispiace che il valore del suo lotto sia disceso da 100.00O a 70.000 lire; ma, se riflette bene, egli nulla ha perduto della sua capacità ordinaria di acquisto; poteva spendere prima 3500 lire all’anno e la stessa somma può spendere dopo. Se egli vende il titolo, ha il rammarico di riscuotere soltanto 70.000 lire; ma, rinvestendole in un mutuo od in una casa, egli reinveste al 5% e riceve pur sempre 3500 lire annue di frutti.
Il contadino può dolersi, nell’ipotesi non sempre probabile che l’avvenimento si verifichi, che il suo poderetto valga solo 7000 invece di 10.000 lire; ma riceve forse messe più scarsa di frumento o di granoturco, vendemmia meno abbondante o è scemato il numero dei capi di bestiame che egli può allevare nella sua stalla? Mai no.
Quando alla ricchezza «nuova» ancora da formarsi col risparmio futuro, il problema economico si riduce al seguente: è più favorevole allo spirito di risparmio un tasso di interesse del 5 o del 3,50 per cento? Questo è il vero problema. La riduzione dei valori da 100 a 70 è un effetto del mutato tasso di capitalizzazione dal al 3,50%; e di questa mutazione perciò occorre studiare le conseguenze.
In generale, per quanto ha tratto alla formazione del nuovo risparmio, non pare che gli effetti sieno cattivi. L’accresciuto tasso dell’interesse vuol dire infatti che un premio maggiore, del 5 invece che del 3,50 per cento, è offerto a coloro che rinunciano al godimento immediato dei beni presenti, adattandosi a ricevere in cambio la promessa di beni futuri; ed è quindi una spinta al risparmio. I danni di molte guerre si poterono rimarginare prima di quanto si prevedesse, grazie appunto alla vis medicatrix del cresciuto tasso dell’interesse. Nessuno può negare che esso sia un male, poiché cresce il costo dei capitali per gli industriali, i commercianti, gli agricoltori che hanno bisogno di ottenere a mutuo capitali per le loro imprese; ma non bisogna neppure dimenticare che è un male, il quale guarisce se stesso, poiché eccita gli uomini alla formazione di nuovo risparmio e quindi, in un periodo più o meno lungo di tempo, conduce ad un nuovo ribasso del tasso dell’interesse.
Se non è bene esagerare le distruzioni di ricchezze provocate dalla guerra, è doveroso non scemarne, oltre verità, il peso, in ossequio ad un ottimismo ingiustificato. Guardare in faccia alla realtà è da uomini forti, ai quali soltanto arride il successo. Ed in realtà la guerra distrugge enormi masse di capitali. Eccone un elenco, certamente incompiuto:
- a) distruzione di case private, edifici pubblici, fabbricati industriali, guasti alle culture, perdita dei raccolti agricoli e di prodotti industriali nelle zone di guerra;
- b) perdita di tempo impiegato dal capitale e dal lavoro nel produrre munizioni ed altre provviste di guerra, limitatamente però al tempo che si sarebbe potuto impiegare nella fabbricazione di macchine o nella esecuzione di impianti, edilizi, agricoli, industriali utili alla produzione futura.
Il punto merita di essere chiarito. Suppongasi che il capitale ed il lavoro di una nazione fossero indirizzati, prima della guerra, a produrre 9 miliardi annui di beni di consumo immediato dei privati, 1 miliardo di beni risparmiati, sotto forma di macchine, piantagioni, impianti, allo scopo di crescere la produzione futura e 2 miliardi di beni di consumo immediato dei soldati, ufficiali, magistrati ed impiegati dello Stato. Scoppiata la guerra, la distribuzione del capitale e del lavoro del paese viene mutata così:
Prima | Durante | |
Produzione di beni di consumo immediato dei privati | 9 | 7 |
Produzione di beni risparmiato per impiego privato | 1 | 0,2 |
Produzione di beni pubblici | 2 | 3,5 |
Totale | 12 | 11 |
Il totale della produzione annua è diminuito, dovendosi tener conto della minore quantità di braccia e di intelligenze utilizzabili; ma non di troppo, poiché il lavoro delle donne, ragazzi, vecchi ed oziosi è meglio utilizzato di prima. Crescono i prezzi delle munizioni e delle provviste di guerra e cresce la convenienza di produrli a scapito delle altre due categorie di beni. Quale sarà la perdita effettiva del paese? Molto si potrebbe discutere in proposito; ma a non volersi arrampicare sugli specchi, sembra si possa affermare che nessun sostanziale danno subisce il paese per il fatto che si produssero solo 7 miliardi invece di 9 in beni di consumo immediato dei privati. Si produssero 2 miliardi di meno; ma si consumò altrettanto di meno. Alla fine dell’anno gli uomini e le donne si accorsero di avere consumato forse una quantità minore di cibi, o di essere ritornati ad alimenti più grossolani, di aver fatto durare scarpe e vestiti di più, di non essersi divertiti come prima, di aver consumato minor copia di bevande alcooliche; ecc. ecc. E che perciò? Si trovano forse peggio gli uomini in conseguenza di questi sacrifici materiali? Io dico che essi sono migliori di prima, perché hanno appreso a vivere più parcamente, perché essi hanno compreso che molti beni, a cui essi prima erano attaccatissimi, non hanno importanza, e che invece hanno gran peso i beni ideali, per la cui consecuzione essi si sono mossi in guerra. Essi in sostanza sono più ricchi di prima, ove almeno si ammetta che la ricchezza si accompagni alla sobrietà, allo spirito di sacrificio, al desiderio di risparmiare, alla subordinazione dei godimenti materiali ai fini ideali della vita.
Certamente non tutte le guerre partoriscono questi benefici risultati: non le guerre coloniali, non le guerre di conquista su popoli riluttanti, non le guerre di difesa combattute malamente da un popolo dall’animo schiavo e desideroso del bastone di un dominatore.
Ma le guerre di difesa e di integrazione nazionale, le guerre combattute per un alto e nobile ideale non possono produrre danni economici duraturi: bensì privazioni momentanee, sopportate con letizia dagli uomini, privazioni le quali perciò è stravagante descrivere come perdite economiche.
Forse l’unica perdita reale registrata dallo schema è il ribasso da 1 a 0,2 miliardi della produzione di beni risparmiati per impiego nelle imprese private. Durante la guerra si producono meno macchine, si fanno meno lavori di impianto, si trascurano le nuove piantagioni, si costruiscono meno strade e ferrovie. Tutte le energie sono indirizzate all’opera grande della difesa nazionale. Domani, ritornata la pace, dovremo lavorare con capitali tecnici meno perfetti e meno abbondanti. Questo è un danno reale, innegabile;
- c) perdite di risparmi passati, già investiti e che dovettero essere alienati o disinvestiti per provvedere alle spese della guerra.
Questa è forse, per i paesi il cui territorio non dovette subire direttamente la irruzione nemica, la perdita più grave. Degli 80 miliardi di ricchezza nazionale, 10 erano investiti sotto forma di capitale circolante delle industrie e dei commerci. A causa della restrizione naturalmente verificatasi durante la guerra nella attività delle industrie e dei commerci intesi a provvedere al soddisfacimento di consumi secondari o di lusso, tre miliardi su 10 rimangono inutilizzati. I loro possessori, per non lasciarli inoperosi, li mutuano allo Stato, il quale li consuma per la condotta della guerra. Finita la guerra, gli industriali ed i commercianti hanno dei titoli di Stato, che non servono direttamente come capitale circolante delle imprese economiche. Per riavere questo, essi debbono vendere i titoli, il che non può accadere in sostanza se non si forma un nuovo risparmio, capace di assorbirli.
Non solo non si sono prodotti, durante la guerra, 800 sui 1000 milioni di nuovo risparmio, che si usava dedicare agli impianti nuovi economici, ma si sono distrutti 3 miliardi di vecchio risparmio, che la guerra rese momentaneamente disponibili e che dovranno in seguito essere reintegrati.
Né basta. Può darsi che, per condurre a buon termine la guerra, il paese debba trasformare in denaro contante una parte altresì dei risparmi già stabilmente investiti sotto forma di terreni, di case o di impianti industriali. Se la trasformazione, per l’ammontare, ad es., di 2 miliardi, accade vendendo od ipotecando i terreni e le case a risparmiatori «nazionali», non occorre tenerne conto, perché essa fu già calcolata quando si disse che la guerra assorbiva il risparmio nuovo e parte del vecchio disinvestito e reso disponibile; non potendo da nessun’altra fonte nazionale provenire il denaro necessario all’acquisto od ai mutui ora detti.
Ma può darsi che – non esistendo altro risparmio nazionale disponibile, nuovo o vecchio atto al disinvestimento – la vendita o l’ipoteca dei risparmi già investiti si compiano a favore di risparmiatori «stranieri», il che può avvenire assai semplicemente grazie ad un prestito contratto all’estero dal governo. In tal caso, alla fine della guerra, la ricchezza del paese sarà ridotta di 3 miliardi per risparmi vecchi disinvestiti provvisoriamente e distrutti, 2 miliardi per risparmi pure vecchi, trasformati mercé un debito coll’estero ed 800 milioni per nuovo risparmio mancato; ed in tutto si avrà una perdita di 5,8 miliardi di lire.
La perdita è certamente grave. Ma si sapeva di doverla sopportare e ci si sottomise volentieri, avendo l’animo deliberato a conseguire un fine di maggiore importanza. Né conviene del resto esagerarne il peso. L’effetto di questa perdita sarà che gli uomini dovranno, per alquanti anni, condurre una vita più dura, produrre di meno per la mancanza di strumenti tecnici bastevoli, lavorare di più e consumare di meno. Vi è una certa probabilità che, se la guerra si fece per un motivo elevato essa risvegli nell’uomo sentimenti atti a fargli sembrare meno doloroso il sacrificio della maggior fatica e dei minori godimenti immediati. Il rialzo del tasso dell’interesse dal canto suo faciliterà l’opera necessaria di rinuncia, agevolando la produzione di maggiore risparmio negli anni seguenti di pace.
Chi, nell’anno della guerra ha rinunciato a 2 miliardi di consumi immediati, pur di superare la grande prova, seguiterà a rinunciare ad 1 miliardo negli anni seguenti, pur di ricostruire i risparmi vecchi distrutti e di riparare al tempo perduto nella formazione dei risparmi nuovi destinati ad imprese private; sicché al regresso ed alla momentanea sosta in non lungo volger d’anni si sarà posto rimedio;
- d) perdite derivanti dagli attriti di transizione dal periodo di basso saggio al periodo di alto saggio d’interesse. È irrilevante che un podere valga 7.000 invece di 10.000 lire, quando, ritornata la pace e durata questa a lungo, il tasso di interesse siasi ridotto nuovamente al 3½ per cento.
Il mutamento dei nomi numerici del podere sarà passato sulla testa del proprietario e dei suoi eredi, senza lasciare su di essi alcuna traccia sostanziale. Ma se: 1) il proprietario era indebitato per 5.000 lire; 2) il mutuo scadde nel momento in cui i valori capitali erano bassi; 3) il creditore pretese il rimborso della somma mutuata alla scadenza; e 4) il debitore non aveva apparecchiato i mezzi per il rimborso; accadrà che il debitore dovrà vendere il fondo al prezzo di 7.000 lire e, pagato il debito in lire 5.000, rimarrà con assai meno della metà del valore del podere.
Prima della guerra egli aveva un podere del reddito netto di 350 lire e del valor capitale di 10.000 lire, gravato di un’ipoteca di 5.000 lire. Ove egli avesse venduto il fondo e pagato il debito, gli sarebbe rimasto 5.000 lire di capitale e 175 lire di reddito. Dopo la guerra egli rimase, dicemmo, con 2.000 lire di capitale che, al 5%, gli fruttano 100 lire all’anno. La perdita è effettiva non solo nel «nome» dato al suo capitale, ma nella massa di ricchezza disponibile annualmente a titolo di reddito.
Se ben si guarda, però, il danno del proprietario deve essere attribuito non alla guerra sibbene ad errori da lui commessi: 1) l’avere stipulato una scadenza certa al mutuo, la quale per accidente cadde nel punto di massimo deprezzamento. Poteva egli contrarre un mutuo ammortizzabile in un lungo periodo di tempo con gli istituti di credito fondiario; ed avrebbe evitato la scadenza in una volta sola ed in un momento per lui sfavorevole; 2) l’aver trascurato di risparmiare, durante la mora la somma occorrente al rimborso di una parte almeno del mutuo. Se egli avesse risparmiato almeno 1.500 lire, il mutuo, col vecchio mutuante o con un altro capitalista, si sarebbe ridotto a L. 3.500, ossia di nuovo alla metà del mutato valore del fondo (L. 7.000); ed il proprietario avrebbe potuto sormontare il periodo difficile, in attesa di un futuro aumento dei valori capitali. La guerra non è responsabile della scarsa previdenza degli uomini; i quali, in avvenire penseranno a premunirsi meglio contro il rischio del suo verificarsi.
In conclusione, le perdite nella ricchezza nazionale o sono reali e consistono nella effettiva distruzione di beni sul teatro della guerra e nella distruzione di risparmi vecchi o nuovi destinati alla produzione o sono di valutazione ed in gran parte sono prive di effetti reali pel benessere degli uomini e solo fanno diminuire di peso i simboli numerici che gli uomini si compiacciono di attribuire alle cose di loro proprietà.
Fuori delle distruzioni effettive di beni materiali sul teatro della battaglia e di risparmi passati e presenti, un solo grave e non immaginario danno economico produce la guerra: e sono le perturbazioni economiche derivanti dalle grosse emissioni di biglietti a corso forzoso, a cui i governi possono essere tratti per provvedere alle spese della condotta della guerra. Sono notissimi i danni cagionati dallo svilimento della carta moneta: perturbazione nei rapporti fra debitori e creditori, arricchimento delle classi imprenditrici a danno delle classi di impiegati ed operai salariati, aumento dei rischi del commercio internazionale e quindi maggior costo delle provviste alimentari e difficoltà crescenti nelle esportazioni, rialzo nel tasso dell’interesse. L’aggio e sovratutto l’aggio oscillante è un vero flagello di Dio.
Quando però si siano fatte queste osservazioni, fa d’uopo, per chiarire la soluzione da adottare e la gravità effettiva del problema nel momento attuale, aggiungere:
- 1) che i danni gravissimi dall’aggio oscillante devono essere sovratutto reputati incomportabili, quando piane ed agevoli siano le vie di provvedere altrimenti alla spesa pubblica. Un aggio del 2 o del 3 per cento all’epoca della guerra libica deve essere giudicato più severamente di un aggio del 10 od anche del 20 per cento nel momento odierno di guerra europea. Era facile allora evitare di mettere mano al torchio dei biglietti; ed erano da biasimarsi quei ministri del tesoro che nel 1911-1913 ricorrevano a piccoli espedienti di aumento della circolazione solo per raggiungere il fine «non pubblico» di evitare un prestito, il quale sarebbe riuscito splendidamente.
Se l’aggio allora aumentò di poco, quel «poco» era assai lacrimevole, essendo dovuto all’opera evitabile di uomini.
Oggi, invece, è impossibile non stampare biglietti per somme di qualche miliardo; e quindi nessun biasimo può rivolgersi agli uomini che si appigliano ad uno spediente necessario, anche se da questo spediente fosse per derivare un aggio dieci volte maggiore di quello che si vide all’epoca della guerra libica;
- 2) affinché l’azione necessaria vada immune da ogni biasimo, occorre in primo luogo che si stampino biglietti esclusivamente per fini pubblici, come sono la condotta della guerra ed il regolare funzionamento del meccanismo economico. È strano che, fra coloro i quali più inorridiscono pensando ai danni dell’aumento dell’aggio che la dichiarazione di guerra all’Austria dovrebbe produrre, vi siano taluni i quali a gran voce richiesero aumenti di circolazione nell’agosto e nel settembre scorsi per fini secondari e trascurabili. Uomini, che in Parlamento godevano fama di perizia nelle cose monetarie, si lasciarono allora trascinare dalla febbre universale sino a chiedere emissioni cospicue «per salvare la vendemmia»; ed ai loro disperati appelli altri fece eco in pubbliche grottesche lettere, divulgate sui giornali a dimostrazione dell’analfabetismo economico di certa classe politica nostrana.
La vendemmia fu egregiamente salvata dai viticultori, senza l’aiuto dei nuovi biglietti; e l’esperienza fatta persuase alcuno di quegli egregi uomini a contentarsi di quelle sole emissioni che siano imposte dalla necessità di Stato. Aumenti di circolazione per salvare ieri i vendemmiatori, l’altro ieri i siderurgici ed i cotonieri e tempo addietro gli speculatori edilizi di Roma e di Torino, no; ma aumenti per provvedere alle spese di una guerra ritenuta necessaria per la salvezza d’Italia, ma aumenti o, meglio, offerte di aumenti per evitare un panico bancario od industriale demoralizzante nel momento della dichiarazione di guerra, sì. Questa, dopo qualche momento di incertezza, è oramai dottrina pacifica anche in Italia, ed è conforme ai più antichi e tradizionali insegnamenti della scienza economica. Se i viticultori, in conseguenza della guerra, debbono vendere le uve a buon mercato, peggio per loro; non è questa una buona ragione per recare al paese il gravissimo danno di un aumento dell’aggio. Ma se, per fare una guerra necessaria, si devono stampare molti biglietti, si stampino; poiché sarebbe prudenza delittuosa rinunciare alla integrazione nazionale nostra per evitare il danno, anche gravissimo, dell’aggio. Là si paragonano due danni economici, di cui il primo (perdite dei viticultori) è indubbiamente minore del secondo (aumento, sia pur piccolo, dell’aggio); qui si mette a confronto un beneficio morale e nazionale incommensurabile (integrazione nazionale e conquista delle porte d’Italia) con un danno grave (aggio) ed è chiaro come il danno debba essere considerato calante in confronto al beneficio;
- 3) ed occorre in secondo luogo che le emissioni di moneta cartacea siano coordinate alle emissioni di prestiti all’interno, così che le prime siano un mezzo preparatorio delle seconde.
Altrove (Di alcuni aspetti economici della guerra europea, in «Riforma Sociale», novembre-dicembre del 1914) ho spiegato il meccanismo, tipo tedesco, delle emissioni di biglietti coordinate e preparatorie a prestiti futuri; qui basti avvertire come una emissione di biglietti, anche abbondante, ispirata a questi criteri, è probabile non abbia tempo ad esercitare una sensibile influenza al rialzo sull’aggio. L’ondata al rialzo dei prezzi ha cominciato appena appena a propagarsi, che già, prima che si muti in mareggiata impetuosa, essa si spegne, perché i biglietti sono riportati allo Stato in pagamento delle rate del prestito;
- 4) del reato l’aggio alto è dannoso, ma non quanto l’aggio oscillante.
Finché l’equilibrio non si sia compiutamente ristabilito, è dannoso che la moneta di carta sia svilita del 10 o del 20 per cento. Innanzi che i rapporti di dare e di avere tra i cittadini si siano raggiustati sulla base del nuovo tipo monetario svilito, occorre del tempo; e durante l’intervallo, molti dannosi trasferimenti e distruzioni di ricchezza si possono verificare. Ma i danni sono maggiori quando l’aggio oscilla, e capricciosamente va dall’1 al 10 e poi ritorna al 5 e poi ribalza al 20%, per ridiscendere e risalire ancora. Questo è il danno massimo, perché impedisce il raggiustamento dei rapporti, che alla lunga si farebbe in regime di aggio alto. Quando sia passato abbastanza tempi, diventa indifferente contrattare in moneta di carta svilita della metà od in oro.
I biglietti da 100 lire sono calcolati uguali a 50 lire di oro; e tutto finisce li. Non fa male a nessuno che i nomi numerici delle cose siano stabilmente diversi da quelli di prima. I guai nascono e si perpetuano quando i biglietti da 100 lire un po’ valgano 90 e poi 80 e poi 95 e poi 70 ed ancora 50, 80, 60, ecc. ecc. Nessuno può fare bene i suoi calcoli, i traffici si arrestano, il capitale si arresta impaurito ed i malanni delle crisi industriali e delle disoccupazioni operaie diventano acutissimi.
Ad evitare le oscillazioni dell’aggio, giovano, in tempo di pace, e nei paesi dove non esiste il cambio illimitato a vista in oro, molti spedienti, di cui forse i più interessanti sono il metodo indiano di vendere sterline in cambio di rupie ad un cambio non superiore ad un determinato punto, e quello greco di accettare presso gli Istituti di emissione depositi in conto corrente in oro e di accettare tratte sull’estero stilate in oro. Forse, però, non sembra opportuno iniziare proprio in tempo di guerra l’applicazione del primo metodo, sul quale dovrà, al ritorno della pace, concentrarsi l’attenzione dei competenti; né è lecito sperare molti risultati dal secondo sistema, sebbene la possibilità di aprire conti correnti in oro presso la Banca d’Italia gioverebbe immediatamente a crescere, in misura forse superiore alle aspettative, le riserve auree degli istituti di emissione ed a stabilizzare i cambi. Ma più gioverà un prestito estero, a cui il momento politico è favorevolissimo; essendo l’Italia entrata in lega con l’Inghilterra, la quale può aprirci un credito uguale all’ammontare delle spese che dovremo fare all’estero per gli approvvigionamenti militari e per quella parte delle importazioni, la quale non possa essere coperta dalle nostre esportazioni.
Il prestito estero gioverà sia perché per altrettanta cifra si potrà fare a meno di emettere biglietti, sia perché il governo avrà disponibili cospicue somme di divisa estera con le quali potrà impedire le oscillazioni dell’aggio. Suppongasi che il debito dell’Italia per acquisti fatti all’estero salga, durante la guerra, a 500 milioni al mese, e che i crediti, per esportazioni ed altre fonti di rimesse, giungano a 250 milioni di lire mensili. Basterebbe che l’Inghilterra ci aprisse un credito di 250 milioni di lire mensili, perché il governo potesse fare tutti i suoi pagamenti all’estero, spiccando tratte sulle aperture di credito esistenti a suo favore presso le banche di Londra e di New York e la Banca d’Italia potesse vendere tratte sull’estero ai privati bisognosi di fare pagamenti. La bilancia commerciale si salderebbe perfettamente, senza uopo di far passare neppure una lira d’oro dall’Inghilterra all’Italia e viceversa. E gli istituti di emissione avrebbero modo, intensificando o rallentando le vendite di divisa estera, di esercitare una influenza moderatrice sui cambi si da impedire le loro brusche oscillazioni. Siccome è probabile che dai dirigenti appunto si pensi ad una azione di questo genere, noi dobbiamo soltanto augurarci che, grazie ai loro sforzi patriottici, il cambio oscilli moderatamente.
Provveduto così, con un prestito interno, ad evitare un aumento eccessivo della circolazione, e con un prestito estero a scemare le oscillazioni dell’aggio, il residuo aumento della circolazione, col seguente rinvilio della carta moneta, sarà ancora un flagello di Dio; ma lo tollereremo pensando che esso era inevitabile. E, tornata la pace, io mi auguro che tutti siano unanimi nel proporre e difendere quegli altri prestiti interni ed esteri che bastino a ritirare i biglietti sovvrabbondanti ed a far scomparire definitivamente il corso forzoso. Anche se li contrarremo ad un interesse in apparenza elevatissimo, quei prestiti saranno sempre meno pericolosi e costosi della continuazione dell’aggio!
Non si creda però che io abbia voluto sminuire l’importanza delle svalutazioni di capitali e giustificare le emissioni abbondanti di carta-moneta allo scopo di dare un’idea ottimista e perciò erronea del costo della guerra, si da far ritenere il costo minore dei benefici che dalla guerra possono derivare. Questo non può essere l’atteggiamento degli studiosi dei fatti economici. Ad essi ripugna ingrossare, senza ragione, le perdite derivanti dalla guerra allo scopo artificioso di dipingerla con colori più lugubri del necessario; e ripugna altresì che si vogliano riprovare quei mezzi finanziarii di condotta della guerra nel solo caso in cui essi sono accettabili, perché necessari, da quelli stessi che erano disposti a consigliarli per raggiungere scopi tutt’affatto secondari, a cui si poteva arrivare per strade assai meno pericolose.
Ma nulla è più alieno della mentalità economica quanto voler considerare ottimisticamente la guerra come una operazione conveniente e consigliabile dal punto di vista economico. La ripugnanza degli economisti a questo modo di considerare le guerre è antica, radicata ed invincibile.
Mi si consenta di citare di nuovo un brano classico di Adamo Smith, che ricordai subito dopo iniziata la guerra libica[2] nel quale è scolpita con pochi tratti superbi la concezione bellica da cui gli economisti con tutte le forze dell’animo loro aborrono:
«Facendo un prestito i governi sono messi in grado, mercé un moderatissimo aumento di imposte [il bastevole per pagare gli interessi del prestito] di ottenere da un momento all’altro i fondi necessari per la condotta della guerra; e col metodo dei debiti perpetui [per cui si paga il solo interesse e non si deve pensare all’ammortamento] sono messi in grado col più piccolo possibile aumento di imposte di ottenere ogni anno la più forte somma possibile di denaro. Nei grandi imperi, la popolazione che vive nella capitale e nelle province remote dalla scena dell’azione, non risente per lo più quasi nessuno degli inconvenienti della guerra; ma gode con tutto suo comodo il divertimento di leggere sui giornali i fasti delle flotte e degli eserciti. Per essi questo divertimento compensa la piccola differenza fra le imposte che pagano per causa della guerra e quelle che sono soliti a pagare in tempo di pace. Essi sono di solito malcontenti al ritorno della pace, la quale mette fine a questi divertimenti ed a migliaia di speranze visionarie di conquiste e di gloria nazionale, derivante da una più lunga continuazione della guerra». (A. Smith, Wealth of Nations, libro V, capo III).
Questa è la guerra brutta, che gli economisti odiano: la guerra facile, la guerra illusoria. È una guerra, la quale si inizia colla descrizione delle ricchezze che si potranno largamente raccogliere nella terra promessa, dei commerci lucrosi che si potranno attivare, della facilità della impresa, del suo carattere di passeggiata militare, delle poche spese che si dovranno sopportare per il raggiungimento dello scopo. È una guerra che si conduce sotto l’egida della formula finanziaria deleteria né debiti né imposte. I frutti suoi non possono non aver sapore di tosco. Poiché è impossibile che una conquista, anche di terre fecondissime, sia nei tempi moderni d’un tratto remuneratrice per i conquistatori, poiché sempre accade che le spese di conquista siano erogate a fondo perduto e la colonizzazione economica richieda cospicui investimenti di capitali fruttiferi solo a lunga scadenza, alle promesse di subiti arricchimenti seguono fatalmente le disillusioni e lo scoramento. Le conquiste che si erano desiderate per ragioni di lucro economico, quando sono ottenute a gran costo, appaiono non più desiderabili; ed anche i volonterosi, temendo il peggio, si allontanano da quelle terre che tuttavia avrebbero potuto a lunga scadenza essere fecondi di vantaggi economici alla madrepatria.
Ad evitare questi effetti dannosi, subito scoppiata la guerra libica, mi sforzai, nell’articolo sopra citato, di dimostrare le seguenti proposizioni: 1) essere una illusione credere che la Tripolitania potesse essere feconda di guadagni, se non lontani ed indiretti, alla madrepatria; 2) essere parimenti necessario bandire ogni idea di lucro per lo Stato; 3) essere necessario inoltre di limitare e di abolire i possibili lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani; 4) essere, invece, una realtà da affrontare consapevolmente e serenamente, i sacrifici economici che la colonia avrebbe imposto all’Italia; 5) essere bene auspicanti gli sforzi fino allora fatti per la conquista commerciale della Libia, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto col tanto di più che ci rimaneva da fare.
Questi concetti che nell’ottobre-novembre 1911 contrastavano con l’opinione dominante in Italia, sebbene fossero la logica conseguenza delle esperienze del passato e delle teorie economiche in materia di colonizzazione, mi sembra siano ormai penetrati nella coscienza della parte migliore e pensante degli italiani. E sebbene ancora si notino delle deviazioni da questa maniera di concepire la colonizzazione[3] ritengo che vada crescendo in Italia il numero di coloro i quali sono persuasi della verità di quanto allora scrivevo:
«L’opera nostra di civiltà nella Libia sarà tanto più alta, nobile e feconda, quanto meno noi ci riprometteremo di trarne vantaggi immediati e diretti e quanto più saremo consapevoli di dovere sopportare dei costi senza compensi materiali. Il compenso nostro deve essere tutto morale; deve consistere nel compiere il nostro dovere di suscitatori di energie nascoste di popoli primitivi e di apparecchiatori della grandezza politica, se non della ricchezza, dei nostri nepoti. I popoli grandi sono quelli che, consapevoli, si sacrificano per le generazioni venture».
Uno degli aspetti più confortanti della nostra presente guerra nazionale è l’assenza negli scrittori, nei propagandisti, nei giornali, nel governo e nel popolo di qualsiasi illusione di guerra facile, di guerra redditizia, di guerra breve e poco costosa. Durante i dieci mesi di neutralità, gli italiani hanno avuto campo di farsi una convinzione meditata anche intorno all’aspetto economico della guerra. Essi hanno studiato assai seriamente, senza leggerezza di spirito e senza iattanza, il problema ed anno concluso:
- 1) che la guerra sarà lunga e costosa. Fra ricchezze materiali distrutte, risparmi non fatti e rinuncie a godimenti presenti, il sacrificio da sopportare sarà grave. Sarebbe arbitrario indicare qualsiasi cifra; ma tutti sappiamo che non a parecchie centinaia di milioni ma a parecchi miliardi giungerà il valore del sacrificio che noi dovremo sopportare. La previsione è nota a tutti; ed in base a quella previsione ci siamo decisi;
- 2) che, finita la guerra, le imposte dovranno essere notevolmente aumentate per far fronte alle sue conseguenze finanziarie. Anche qui è ignota la cifra; ma è ben certo che l’aumento delle imposte non si limiterà a poche decine, ma salirà a parecchie centinaia di milioni di lire all’anno. Anche questo sappiamo;
- 3) che il peso delle nuove imposte dovrà massimamente cadere sulle classi medie ed alte. Sarebbe impossibile aumentare le imposte sui consumi necessari, e difficilissimo crescere le aliquote generali delle imposte sui redditi. Dovranno escogitarsi imposte, le quali colpiscano consumi voluttuari o gravino sui redditi superiori al minimo necessario all’esistenza. Anche questa è una conclusione pacifica;
- 4) che scarso compenso diretto finanziario potremo riprometterci dall’annessione delle terre italiane soggette all’Austria. I partigiani della neutralità ci hanno descritto a troppo vivi colori la povertà del Trentino e la rovina economica incombente su Trieste a causa del distacco dal suo entroterra slavo e tedesco, perché alcun italiano abbia potuto conservare eccessive illusioni intorno alla possibilità di ricavare un provento netto fiscale alla annessione di quelle terre. Anche coloro che non sono così scettici intorno alle ricchezze di quei paesi e credono si possa conservare a Trieste il suo odierno splendore, pensano che l’Italia ingrandita dovrà risolvere tali problemi politici, militari ed economici, dovrà in tal modo intensificare la sua azione interna ed estera, che il contributo finanziario delle terre irredente sarà di gran lunga assorbito di nuovi ed allargati compiti dello Stato, senza che nulla rimanga disponibile per coprire l’onere delle imposte nuove rese necessarie dalla guerra.
Anche questa è, se non una convinzione ragionata, una impressione diffusissima nel popolo italiano.
Il quale dunque sa che la guerra nazionale nostra non è una impresa economica redditizia in senso stretto; sa che il costo sarà elevatissimo ed i proventi finanziari diretti poco rilevanti. Malgrado ciò il popolo italiano si è deciso alla guerra.
A me sembra che questa decisione – maturata dopo 10 mesi di discussioni, durante le quali si videro e si toccarono con mano, grazie all’esperienza dei paesi belligeranti stranieri, sovratutto gli orrori ed i costi della guerra e fu facile persuadersi che i vantaggi economici diretti ed immediati di essa erano da relegarsi nel regno delle favole e delle immaginazioni, – sia stata quella sola che, anche economicamente, deve essere considerata corretta e logica. È noto invero che i calcoli economici si devono fare tenendo conto non solo del dare e dell’avere nel momento presente, ma anche di quelle partite di debito e di credito, le quali sorgono nei momenti futuri e precisamente in quel più lungo periodo di tempo, a cui si possono estendere gli effetti dell’atto oggi compiuto. Ed è noto come gli elementi più importanti del calcolo economico non siano quelli direttamente ed immediatamente visibili, che tutti sanno vedere e toccare con mano: ma quegli altri i quali rimangono nascosti sotto la superficie dei fenomeni apparenti, e che è appunto compito dell’indagatore mettere in luce. Ed è finalmente, per lo strettissimo vincolo di interdipendenza che lega i fatti economici a quelli politici, morali, intellettuali, religiosi, canone principalissimo di logica economica questo: che taluni effetti economici di grande rilevanza non siano la conseguenza immediata sibbene l’ultima e più lontana ripercussione dei risultati politici o morali o religiosi degli atti umani: sicché questi, a primo aspetto contrastanti colla convenienza economica, si chiariscono in seguito convenientissimi, quando si sia lasciato un tempo sufficiente allo svolgersi della catena complessa degli avvenimenti.
Queste verità non varrebbe la pena di ricordare, essendo esse l’abicì della scienza economica, la quale nelle opere di Marshall, Bohm Bawerk, Fisher, Pareto, Pigou, per citare alla rinfusa solo i nomi di taluni moderni economisti di varii paesi, ha fornito agli studiosi analisi finissime dei concetti di «tempi brevi e tempi lunghi» di «effetti apparenti ed effetti reali», di «interdipendenza dei fatti sociali e morali», ecc. Ma ricordarle non è inutile, se si pensa alla frequenza con la quale i laici, autori di scritture che vorrebbero essere economiche, rimproverano alla nostra scienza di ignorare tutto ciò che oltrepassa il calcolo diretto di convenienza puramente economica nel momento presente. Cotesti laici si creano un fantoccio comico di una scienza economica immaginaria, alla quale attribuiscono connotati grotteschi e fantastici; e poi si pigliano il gusto di esporre il fantoccio al ludibrio delle genti. Divertimento innocuo, che si potrebbe anche tollerare, se esso non servisse ai laici a persuadere le genti a commettere spropositi, decorati col nome di «concezioni vaste e nuove e geniali», di cui il fio sarà da esse medesime pagato e non dai loro consiglieri.
Quando si tenga conto di queste avvertenze, lunga è la serie dei benefici che si possono contrapporre all’impoverimento economico diretto gravissimo, in vita e in denari, che noi subiremo in conseguenza della guerra:
- 1) il principale dei quali è il compimento dell’unità nazionale sino ai suoi confini naturali verso l’Austria. La sicurezza cresciuta del paese da aggressioni straniere non può alla lunga non esercitare un favorevole effetto sulla attività economica nostra. Chi non può sbarrare la porta di casa sua contro gli assalti dei malandrini, e corre il rischio di non godere dei frutti del proprio lavoro, non può attendere con lieto animo alla produzione. Così un paese, mal difeso da confini militarmente difficili, deve spendere energie e danari di gran lunga superiori a quelli che farebbero d’uopo qualora il confine fosse migliore. E quand’anche in avvenire la spesa non scemasse, essa sarebbe più redditizia; e la maggiore sicurezza si verbererebbe in una attività più coordinata e più salda delle altre energie, economiche e sociali, del paese;
- 2) se, come è cosa certissima, l’esercito italiano darà prova di sapere vincere le asprezze e le difficoltà della guerra, un risultato morale importantissimo sarà ottenuto. La macchia che su di noi a torto incombeva da Adua e, più in là, da Lissa in poi, di gente che non ama battersi, sarà del tutto lavata; ed i risultati della stima che noi in tal modo avremo saputo guadagnare agli occhi del mondo non saranno piccoli. Si pensi a ciò che erano i serbi prima delle guerre balcaniche e della eroica lotta odierna contro l’Austria ed a ciò che sono oggi: da poco meno di briganti essi sono assurti alla grandezza di eroi e sono reputati tra i primi soldati d’Europa. Noi, che abbiamo milioni di nostri connazionali sparsi all’estero e continueremo ad inviare emigranti fuori dei confini della patria, noi abbiamo bisogno di essere stimati e rispettati. La stima vuol dire anche salari più alti, possibilità di farsi strada più facilmente tra i concorrenti e di conquistare posizioni direttive. Ma stima e rispetto si concedono a chi ha dimostrato qualità umane elevate: insofferenza verso l’oppressione, volontà di ottenere giustizia per se stessi (confini naturali) e di farla ottenere ad altri;
- 3) non è invero un puro sentimentalismo quello che ci ha fatto impugnare le armi anche in difesa dei piccoli Stati, come la Serbia ed il Belgio, incapaci di difendersi da soli contro la strapotenza altrui. Chi irride a questi sentimentalismi, quegli non sa neppure essere un vero egoista.
Poiché l’egoismo vero non è quello che bada al tornaconto immediato e ritiene compiuta la giornata quando non si è stati direttamente danneggiati e si è ottenuto il massimo lucro presente, ma quello che bada alle conseguenze ultime del fatto odierno apparentemente innocuo. Tutti quelli che rifletterono un solo istante alle conseguenze necessarie della Serbia annessa o resa vassalla dell’Austria e del Belgio incorporato coll’Impero Germanico, videro che la nostra reale indipendenza, le nostre vere libertà erano strettamente collegate colla piena libertà ed indipendenza di quei due piccoli Stati.
Chi potrebbe ostacolare la formazione di una Unione europea centrale, dominata dalla Germania, nel giorno in cui la Germania da un lato potesse impedire ogni opposizione anglo francese e l’Austria dall’altro potesse dominare i Balcani ed, attraverso ad esse, estendere il dominio germanico sino all’Asia minore ed alla Persia? Potremmo in quel giorno ottenere in dono la Tunisia e magari anche l’Egitto; saremmo pur sempre uno Stato effettivamente vassallo, una stella vivente di luce riflessa nella grande costellazione del redivivo Sacro Romano Impero di nazione germanica. Chi creda sia un sentimentalismo vano preoccuparsi se l’Italia abbia ad essere una nazione libera, vivente di vita sua propria e collaborante con gli altri paesi, anche germanici, all’opera comune di civiltà, quegli riterrà denari spesi invano quelli di una guerra condotta anche per tutelare la libertà del Belgio e della Serbia. Quegli invece che freme di vergogna al solo pensiero di un paese intento unicamente ad aumentare i suoi beni materiali e contento di vivere all’ombra di un qualche grande Stato mondiale, colui riterrà lievi i sacrifici sopportati per la difesa dei piccoli Stati e compensati largamente dalla preservazione della indipendenza effettiva sua propria;
- 4) Né è un puro sentimentalismo lottare affinché prevalgano nel mondo gli ideali di nazionalità, a cui dobbiamo la nostra unità italiana. In un’epoca nella quale si parlava quasi soltanto di imperialismi, in cui sembrava che l’avvenire fosse riservato ai popoli conquistatori, in cui era ridivenuto di moda il motto: «il commercio segue la bandiera», noi asseriamo, colla nostra guerra contro l’Austria, voluta malgrado fosse di tanto più comodo e meno rischioso accettare le profferte degli antichi alleati, il valore supremo dell’imperativo categorico di non mancare all’appello dei fratelli trentini e triestini che vogliono venire con noi.
Le vecchie idealità della lingua, delle tradizioni storiche, della volontà sovratutto di unirsi alla famiglia italiana, le sante idee plebiscitarie del nostro risorgimento risorgono e dimostrano di non essere morte. Malgrado qualche vampata di entusiasmo imperialistico, gli italiani non hanno sentito la ragione per cui eravamo andati ad imbrogliarci in Libia con arabi e simili genti forastiere. Il ragionamento da farsi per persuadere un popolano della necessità storica di sottomettere un popolo straniero anche semicivile, è troppo complicato e difficile. Ma Trento e Trieste sono come Venezia e Milano, come Palermo e Messina. Ogni popolano si persuade subito che è una «ingiustizia» non averle con noi; ogni contadino, ogni montanaro, capisce essere intollerabile che le teste delle valli italiane siano in mano dei tedeschi, ogni marinaio vede che è un’onta che gli stranieri possano venire da porti italiani a bombardare coste italiane. Ognuno a casa sua, dicono il contadino, il popolano e il marinaio; e staremo in pace con tutti. E ragionano benissimo anche dal punto di vista economico; poiché, ripetasi, come si può lavorare col cuore tranquillo quando le porte di casa sono aperte ai nemici?
- 5) Né è per ingordigia dei beni altrui che noi vogliamo togliere all’Austria il suo più gran porto, Trieste. Noi vogliamo Trieste, non perché essa sia uno dei maggiori porti del mondo, non perché essa possegga una flotta potente e traffici ricchi. La vogliamo perché i suoi abitanti sono italiani e perché essi vogliono unirsi a noi, prima che la loro nazionalità sia snaturata dalla marea slava, che in parte scende dalle montagne per ragioni naturali di inurbamento ed in parte vi è artificiosamente trapiantata dal governo austriaco per soffocare la nazionalità italiana. Per questo noi vogliamo Trieste, e non perché essa sia ricca. Anzi, noi siamo convinti di non avere alcun diritto ad ipotecare per noi i vantaggi della posizione e della potenza economica di Trieste.
L’Italia è il solo paese il quale, dominando a Trieste per ragioni etniche, possa offrire alle altre nazionalità il modo di giovarsi senza ostacolo dei vantaggi economici del suo porto. Se l’Italia, dopo averla conquistata, vorrà con servare Trieste, lo potrà fare soltanto a condizione di non volere sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani.
Angariare gli slavi ed i tedeschi, frastornare con dazi doganali e tariffe ferroviarie il traffico da Trieste verso le regioni rimaste all’Austria od assegnate alla nazione serbocroata sarebbe un suicidio per noi. Sarebbe la rovina del porto di Trieste. Per il traffico dell’entroterra veneto lombardo basta il porto di Venezia. Trieste vive come un punto di intermediazione fra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo tedesco. Sopprimere questo traffico vorrebbe dire ridurre Trieste ad un porto di pescatori. Slavi e tedeschi non ce lo permetterebbero. Un programma di sfruttamento del porto di Trieste a pro dell’Italia ci apparecchierebbe nuove guerre a breve scadenza coi popoli vicini, che hanno bisogno del porto più settentrionale e più orientale dell’Adriatico.
Perciò a noi interessa conservare a Trieste la sua situazione di porto dell’entroterra slavo tedesco. Raggiungere tal fine, per quanto dipenda dall’opera nostra non è impossibile: basta considerare Trieste come un porto franco, ammettendo in franchigia tutte le merci destinate all’importazione ed all’esportazione per o dall’entroterra slavo tedesco.
Basta segnare ai tratti di ferrovia correnti fra Trieste ed il confine politico tariffe minime, di concorrenza e di penetrazione. Mancherà in tal caso agli slavi ed ai tedeschi l’interesse a lottare con noi per strapparci un possesso, di cui noi avremo dimostrato di non volere servirci ai loro danni e da cui anzi avremo loro consentito di trarre tutti quei vantaggi economici, i quali siano compatibili con la conservazione della sovranità e della nazionalità italiana.
Se noi sapremo fare una buona e sana politica economica, la gelosia degli slavi e dei tedeschi sarà la migliore nostra alleata. I tedeschi preferiranno noi e la nostra politica liberale al pericolo di una conquista slava, la quale sicuramente monopolizzerebbe il porto di Trieste a suo beneficio; ed altrettanto accadrebbe per gli slavi, più paurosi dei tedeschi che di noi. Certamente noi dovremo meritare il successo, usando moderazione e larghezza verso i popoli serbo croati e cercando di ridurre al minimo l’irredentismo serbo croato entro i nostri nuovi confini. Alla lunga la nostra moderazione nel pretendere subiti guadagni dal possesso del porto triestino, la nostra liberalità nell’ammettere slavi e tedeschi, a parità di condizione con gli italiani, a godere dei vantaggi del porto, saranno feconde di utili risultanze economiche anche per l’Italia. Slavi e tedeschi avranno interesse a frequentare il porto; ed i suoi progressi arricchiranno i triestini e cioè genti italiane; che al traffico slavo tedesco aggiungeranno nuovi e più vivaci rapporti con l’Italia, con loro e nostro grandissimo vantaggio. La più grande Italia erediterà tutta quella parte del traffico triestino che non ha origine nella intermediazione con l’entroterra, ma nello spirito di intraprendenza e di speculazione dei triestini: il lavoro di banca, di assicurazioni, di borsa delle merci diventerà un lavoro italiano.
Trieste continuerà ad arricchirsi e diventerà più ricca quindi anche l’Italia. Perché ciò accada, occorre principalmente che gli italiani di oggi non presumano di arricchirsi a spese d’altri.
La volontà di sacrificio e la rinuncia ai benefici immediati; ecco le caratteristiche fondamentali della guerra nostra; ed ecco le ragioni per cui essa non ha trovato contrasti ed anzi ha trovato l’assenso degli studiosi italiani di economia.
Costoro odiano sovratutto i ragionamenti sbagliati; ed una guerra fatta per ottenere vantaggi economici e commerciali diretti è sovratutto un ragionamento sbagliato. Non è possibile che l’Inghilterra abbia fatto una guerra commerciale perché i suoi pensatori sanno tutti ed i suoi uomini di Stato sanno ancora quasi tutti ragionar bene. Se vi furono alcuni in Germania, i quali si illusero di fare una guerra per conquistare il mondo alla espansione economica tedesca, ciò poté accadere solo perché due generazioni di economisti spregiatori delle teorie classiche avevano insegnato alla Germania colta a fare dei ragionamenti falsi. I Wagner e gli Schmoller sono, purtroppo, tra maggiori responsabili della guerra europea, forse più di Treitschke, di cui gli inglesi hanno dimenticato le pagine superbe, degne dei grandi storici della tradizione liberale classica, e certamente non sono meno responsabili del pangermanista generale von Bernhardi. Io sono convinto che nessuno in Italia prenderà invece sul serio le teorie di coloro, i quali reputano che una guerra possa essere intrapresa colla speranza di poter ottenere dei vantaggi economici diretti.
Una guerra può produrre, in un tempo molto lungo ed in un avvenire lontano, vantaggiosi risultati economici quando essa sia stata intrapresa da un popolo convinto di dover sacrificare sangue e denaro per raggiungere fini puramente ideali. La guerra cioè può diventare una operazione anche economicamente vantaggiosa solo quando si sappia che i suoi vantaggi economici presenti e diretti sono nulli e sono grandissimi invece i costi della sua condotta. Nella verità di questo paradosso sta la bellezza teorica della nostra presente guerra italiana. Noi sappiamo che la guerra renderà la vita della nostra generazione più dura; noi sappiamo che essa crescerà la fatica nostra e scemerà i nostri godimenti. Ma appunto questo volemmo, mossi dall’ideale di apparecchiare ai nostri figli ed ai nostri nepoti una condizione di vita più elevata e sicura.
[1] Principles of Economics, di Alfredo Marshall. (p. 22 della quinta edizione), di cui si citano le parole, come quelle del trattato principe inglese dell’epoca nostra, il più rappresentativo del pensiero economico in ciò che esso ha di permanente e di nuovo nel tempo stesso.
[2] In A proposito della Tripolitania, «Riforma sociale» dell’ottobre-novembre 1911, p. 637.
[3] Su una di queste deviazioni, e specialmente sul biasimevole sforzo, in parte riuscito, dei zuccherieri, fiammiferai ed industriali tessili di trarre immediatamente partito dalla conquista libica, discorsi nell’articolo Per l’avvenire d’Italia nella Libia, nel fascicolo di febbraio-marzo della «Riforma sociale» del 1915.