Gli sgravi sui consumi, il Mezzogiorno e l’imposta sui fabbricati
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/10/1903
Gli sgravi sui consumi, il Mezzogiorno e l’imposta sui fabbricati
«La Tribuna», 7[1] e 20[2] gennaio 1903
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 523-529
I
La esposizione finanziaria dell’on. Di Broglio ha agito come una doccia fredda. L’annuncio che l’avanzo andava progressivamente diminuendo, ha contribuito a far guardare di cattivo occhio, ancor più di prima, le proposte le quali intendono a regalare i denari dello stato a classi sociali, delle quali sono ignoti i titoli ad ottenere siffatti regali e l’uso che ne saprebbero fare. Il salutare ammonimento non toglie debbano continuare gli sforzi per utilizzare bene gli avanzi ancora esistenti, sovratutto a favore delle regioni meridionali, le quali per unanime consenso hanno maggiore necessità di aiuto.
Poiché l’avanzo dei bilanci dello stato è pericoloso forse più ancora del disavanzo, poiché sarebbe ingenuo tesaurizzarlo per vederselo portar via dai mille e mille appetiti scatenati alla vista di così bella preda, e poiché d’altra parte già si è provveduto in equa misura ai lavori pubblici straordinari più urgenti, l’impiego migliore che oramai si possa fare dell’avanzo residuo si è di dedicarlo a sgravi d’imposta. Si evita così di far sorgere nuove cause di spesa, le quali poi dovrebbero essere consolidate, e, scemando la pressione tributaria, si accresce il gettito delle imposte rimanenti. Che le attenuazioni di imposte debbano anzitutto andare a vantaggio precipuo del mezzogiorno, rispettando al tempo stesso il principio della uguaglianza dinnanzi alla legge tributaria è oramai verità pacifica.
Le difficoltà sorgono soltanto quando si tratti di attuare il principio, osservandolo da ambedue le parti di cui si compone: riduzione in diritto estesa a tutti; ed in fatto più larga per il mezzogiorno.
In verità si potrebbe prendere a caso un qualsiasi tributo sui consumi, per ottenere l’effetto desiderato. Il mezzogiorno, intanto, si giudica meritevole di maggiore riguardo, in quanto i suoi abitanti hanno in media un reddito minore dei settentrionali. Dunque, siccome i tributi sui consumi – sul sale, sul petrolio, sul caffè, sullo zucchero, sul grano – gravano, in proporzione al reddito, più sui poveri che sui ricchi; ove noi ne riducessimo l’aliquota, potremmo essere sicuri di beneficare maggiormente il mezzogiorno che il settentrione.
Essendosi, però, già proposta la riduzione del prezzo del sale, sembra difficile di procedere subito ad un’altra riduzione d’imposta sui consumi, la quale si mantenga entro i limiti dell’avanzo disponibile per gli sgravi. Bisognerebbe limitarsi ad una riduzione quasi insignificante e che, attraverso all’attrito degli scambi, potrebbe riuscire inavvertita ai consumatori. Perciò le simpatie dei più sono rivolte ad una modificazione nell’assetto di qualcuna fra le imposte dirette; ed è questa la ragione per la quale si ritiene che l’imposta sui fabbricati possa servire di strumento per beneficare il mezzogiorno, senza ledere l’uguaglianza tributaria. Già il progetto ministeriale all’art. 12 propone che nelle province dei compartimenti catastali napoletano e siciliano, fino a quando non abbia effetto il catasto nuovo, i fabbricati esistenti all’1 gennaio 1903, quando servono di abitazione ai lavoratori di terreni appartenenti ai proprietari dei fabbricati stessi, saranno assoggettati all’imposta fondiaria soltanto in ragione del suolo, assimilato, pel valore imponibile, alle migliori terre del comune. La disposizione è giusta, in quanto estende al mezzogiorno una disposizione già vigente nelle altre parti d’Italia, e che non si era potuta applicare al mezzogiorno per circostanze storiche e per la diversa distribuzione degli abitanti. Se il principio si volesse allargare, accordando l’esenzione dall’imposta a tutte le case rurali che nel sud sono situate nei grossi centri, crediamo che nessuno del settentrione potrebbe lamentarsi, trattandosi di una disuguaglianza (case sparse nel nord, case ammassate nel sud) di cui il legislatore deve tenere conto per potere trattare, in sostanza, ugualmente, cose disuguali.
Ma l’imposta sui fabbricati può essere efficace strumento di perequazione tributaria tra nord e sud, non solo sotto questo rispetto notissimo; ma anche sotto un altro, che ai più è sinora sfuggito.
Invero, l’imposta sui fabbricati fu concepita dal legislatore come un tributo reale sul reddito dei proprietari di case, ma in realtà fu attuata per modo che essa è ora in Italia un’imposta sul consumo delle abitazioni. Ognuno comprende la sostanziale differenza che vi è fra le due specie d’imposta. In apparenza noi ci troviamo dinnanzi ad un tributo il quale grava sulla proprietà edilizia; ad un tributo, quindi, che non dovrebbe essere alleviato, poiché colpisce una ricchezza già consolidata, od almeno non dovrebbe potersi alleviare finché rimangono in vita altri tributi pesanti sui consumi popolari. Se invece l’imposta sui fabbricati non è in realtà quale si palesa in apparenza; se essa incide non sulla ricchezza consolidata dei proprietari, ma sulla spesa dei consumatori di alloggi; evidentemente, può venire assimilata alle altre imposte sui consumi, e la sua riforma presenta lo stesso carattere di urgenza della riforma delle altre imposte sui consumi.
Come accada che la imposta sui fabbricati sia in realtà diversa da quella che è in apparenza, è detto da una dottrina che si dice della traslazione dei tributi. La traslazione tributaria – ossia il processo per cui un’imposta messa su un contribuente, viene da questi trasferita su altri, e magari su parecchi successivamente, sinché incida sul contribuente definitivo, è certo uno dei più intricati ed oscuri capitoli della pubblica finanza; ed è per questo che di solito i finanzieri pratici lo saltano di piè pari, allegando trattarsi di cose troppo astruse, per poterne ricevere un qualsiasi costrutto. Ragionamento comodo, ma anche pericoloso, perché in grazia sua spesse volte i finanzieri immaginano di ottenere un certo risultato, e ne ottengono uno invece tutto diverso e magari contrario a quello desiderato.
Noi non possiamo rifare qui il ragionamento per cui si dimostra vera la proposizione ora esposta rispetto al tributo sui fabbricati. Riassumendo i risultati dalle indagini più recenti, si può affermare che l’imposta sui fabbricati ha la tendenza a trasferirsi dai proprietari sui consumatori di alloggi, non tanto in virtù del principio informatore suo (colpire i proprietari di case in base al loro reddito netto), quanto grazie ai modi adottati dal legislatore italiano per attuare in pratica quel principio. Questi modi consistono sovratutto:
- nella variabilità dell’aliquota da luogo a luogo e da tempo a tempo a causa dei centesimi addizionali;
- nell’incremento esagerato dei centesimi addizionali che innalzano l’aliquota sua bene al di là sopra delle aliquote delle altre imposte; e
- la uniformità della quota di detrazione per ispese dal prodotto lordo per riceverne il prodotto netto.
Quest’ultima circostanza – ossia il fatto che per tutte le case di abitazione, per ricavare dal prodotto lordo delle case il reddito netto, si detrae la aliquota uniforme del 25% – è cagione principale della incidenza dell’imposta sui consumatori. Con quel sistema sono poste sull’istesso piede le case ricche a logoro basso e lunga durata, e le case povere con logoro alto e durata più breve; le case di città, in cui parte del fitto è compenso per l’uso dell’area, spesso pregevolissima e per la quale non occorre fare spese di manutenzione, e le case della periferia o dei villaggi o delle piccole città, dove il valore dell’area è nulla e tutto il reddito è compenso dell’uso della casa che si deteriora col tempo ed è causa di spese continue. Eppure due case le quali rendano 1.000 lire lorde ed in cui le spese siano di 500 e di 250 e rendano perciò nette 500 e 750 lire, sono tassate dal legislatore italiano amendue col 25% di detrazione ossia a 750 lire. Di qui viene disparità fra case ricche a logoro basso, poste nei centri dove il valore dell’area è alto e dove abitano i ricchi e case povere della periferia o dei borghi di campagna, dove abitano popolazioni povere. Siccome i costruttori intendono, dai proprii impieghi di capitale, ricavare il medesimo compenso, ne viene che se si vogliono costruire case della seconda categoria, l’imposta dovrà essere sopportata dai consumatori.
Da questa considerazione e dalle altre appena accennate, deriva che la imposta italiana sui fabbricati ha la tendenza a trasferirsi ad incidere sui consumatori di case e ad incidere su di essi con tanta maggiore facilità, quanto più le case sono abitate da gente povera.
II
L’effetto non è stato certamente voluto, né desiderato dal legislatore, il quale intendeva, con quella imposta, creare uno strumento con cui colpire i redditi edilizi, e non già i consumatori già vessati in mille altri modi dal fisco.
Purtroppo non basta che il legislatore voglia una cosa, perché l’intento si raggiunga. Le leggi della traslazione delle imposte sono altrettanto inesorabili nel loro processo quanto le leggi fisiche; e tanto più gravemente producono i loro effetti, quanto più i finanzieri pratici affettano di trascurarle. Se dunque il fare incidere l’imposta edilizia sui proprietari è opera di giustizia, occorre eliminare le cause dalle quali nasce la tendenza in quella imposta a trasferirsi dai proprietari agli inquilini.
Tolte in tutto od in parte quelle cause, il trasferimento non potrà più verificarsi, e l’imposta inciderà sui proprietari, in conformità ai criteri di giustizia che il legislatore si è imposto di seguire. Non è certo impresa facilissima; ma non è nemmeno tale che non si possa tentare. Già fu detto che una delle cause principali del trasferimento dannoso ai consumatori è l’uniformità dell’aliquota di detrazione per ispese del prodotto lordo delle case. Invece di detrarre da tutte le case il 25%, il fisco dovrebbe adottare una aliquota di detrazione variabile a seconda della variazione effettiva di quelle quote di spesa. Se in una prima casa del reddito di 1.000 lire le spese fossero di 400 lire, il fisco dovrebbe dedurre il 40% e colpire solo un reddito netto di 600 lire. Una seconda casa pure del reddito lordo di lire 1.000, ma con sole 100 lire di spesa, dovrebbe pagare su un reddito netto di lire 900. Se, supponiamo, l’aliquota complessiva è del 30% (compresi i centesimi addizionali) adesso le due case pagherebbero amendue il 30% su lire (1.000-il 25%) 750 ossia lire 225; dopo la riforma pagherebbero: la prima lire 180 (lire 45 in meno), e la seconda lire 270 (lire 45 in più).
Le due case sono le rappresentanti di due tipi fondamentalmente diversi: le prime sono le case di breve durata, di costruzione mediocre, poste su terreni di poco valore, nelle quali le spese di manutenzione e di ammortamento sono alte; le seconde sono le case ben costrutte, di lunga durata, poste su terreni di gran pregio, nelle quali le spese di ammortamento sono minime ed anche quelle di manutenzione (se si tolgano l’illuminazione ed il riscaldamento pagati a parte), sono scarse in proporzione al valor capitale della casa.
Se quindi si attuasse quella riforma, si avrebbero i seguenti risultati:
- aumenterebbe l’imposta sulle case abitate dai ricchi e scemerebbe l’imposta sulle case abitate dai poveri… ed a questo spostamento di classe dell’onere tributario, corrisponderebbe uno spostamento regionale dal sud al nord, se è vero che il sud è abitato da persone più povere del nord;
- l’imposta tenderebbe a spostarsi nel suo onere complessivo dai villaggi di campagna ai borghi cittadini, dalle città mediocri alle grandi città, dalle situazioni in cui il valore del suolo è stazionario o magari decadente, alle situazioni in cui il valore del suolo è in aumento, dalle montagne alle valli, dai paesi a forte emigrazione ai paesi di immigrazione.
Sotto un altro rispetto quindi il carico del settentrione – dove è il numero massimo di città progressive, dove il movimento di immigrazione nelle grosse città e nei borghi industriali è accentuato – verrebbe accresciuto e diminuirebbe il carico del mezzogiorno, dove quelle cause di rialzo del valore dell’area in confronto al valore della costruzione, operano in una misura più tenue o non operano affatto.
Né il settentrione potrebbe lagnarsi, trattandosi di una riforma intesa ad attuare i principii della più stretta giustizia distributiva; di una riforma anzi la quale costituisce il postulato di taluni partiti – specie nei paesi anglo-sassoni – i quali si propongono di attribuire alla collettività il così detto «incremento non guadagnato» del valore del suolo nelle grandi città. Colla nostra proposta non si giunge alla confisca della rendita; ma la si costringe solo a contribuire come gli altri redditi alle spese dello stato, facendo così opera di stretta giustizia. Né si violerebbe alcun altro canone tributario, trattandosi di impedire la degenerazione di un’imposta reale sul reddito in un’imposta sperequata su un consumo di prima necessità.
Lo stato andrebbe bensì incontro ad un’alea; ma ad un’alea in cui forse le probabilità di guadagno sono altrettanto grandi come le probabilità di perdita. Infatti crescerebbero le spese di valutazione degli imponibili edilizi e diminuirebbe il gettito dell’imposta per le case a logoro alto e con detrazioni dal lordo più elevate del 25% attuale. Aumenterebbe invece il provento dell’imposta nelle grandi città e nei borghi industriali progressivi; aumento di onere tributario che andrebbe a carico – badisi – non dei consumatori di alloggi e nemmeno dei costruttori di case; ma dei percettori delle rendite edilizie, ossia dei percettori dell’incremento cosidetto «non guadagnato» di valore del suolo fabbricabile. La quale ultima non è certo la più interessante delle classi economiche e neppure quella che più contribuisce al progresso della ricchezza.
Quale di queste due somme – la perdita od il guadagno – abbia a riescire superiore è difficile dire. Alla finanza spetta il dovere di compiere studi in proposito, atti a fornire gli elementi di una riforma, che avvicini l’assetto dell’imposta sui fabbricati a quello che deve essere il suo vero ufficio: colpire la rendita dell’area ed il reddito netto della casa.