Gli scopi proibizionistici di un decreto per la libertà commerciale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/08/1919
Gli scopi proibizionistici di un decreto per la libertà commerciale
«Corriere della Sera», 5[1] e 7[2] agosto 1919
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 360-367
I
Una interrogazione dell’on. Giretti
L’on. Giretti ha presentato alla camera una interrogazione – per la quale ha subito trovato la firma di oltre cento deputati, e che è già stata seguita, per il partito socialista, da una analoga interrogazione dell’on. Modigliani – «intorno ai criteri ai quali il governo si è inspirato vietando col regio decreto del 24 luglio 1919, num. 1296, l’importazione di numerosi prodotti industriali, necessarissimi per la ricostituzione della vita economica e specialmente agricola del paese».
L’interrogazione ha un’importanza grande e merita di essere illustrata. Il decreto 24 luglio 1919, al quale allude l’on. Giretti, ha per iscopo dichiarato di «ristabilire la libertà delle importazioni nel regno di tutte le merci di origine e provenienza estera, come pure di provenienza dalle colonie italiane». Questo è il proposito dichiarato dell’articolo 1 ed è proposito lodevolissimo conforme a quanto chiedevano industriali, consumatori, pubblicisti, tutti insomma coloro i quali da mesi insistevano per l’abolizione di questo che è uno dei pezzi più dannosi della bardatura di guerra. L’articolo 1 abolisce anche la Giunta tecnica interministeriale per gli approvvigionamenti, di cui tutti parlavano male, per le difficoltà e le lungaggini frapposte ad ogni minima pratica d’importazione. Benissimo.
Dopo l’articolo 1 il lettore immaginava di leggere un articolo secondo, in virtù del quale fossero conservati solo alcuni particolari divieti di importazione per determinate merci di lusso. Divieti assoluti; perché i balocchi, le pietre preziose, le gemme di ornamento, i ventagli, e simili, sarebbe stato ragionevole vederli proibiti senza alcuna eccezione, senza possibilità di deroghe e senza il parere di nessuna giunta, commissione o comitato nuovo o rinverdito
Invece, se si leggono gli articoli 2 e 6, e se si studia il decreto, si vede con grande stupore che gli elenchi sono due, e nessuno dei due si inspira al concetto di vietare tassativamente l’importazione di merci di lusso di cui si fosse ritenuto opportuno vietare senz’altro il consumo alla gente dimentica della somma necessità collettiva di non sprecare nulla e di risparmiare il più possibile.
Il secondo elenco ha una ragione fiscale, e non impone critiche di principio, sebbene lasci luogo a dubbi fondatissimi di applicazione. Esso si riferisce ai generi il cui approvvigionamento è avocato allo stato e perciò proibito ai privati; e sta bene per il tabacco, i fiammiferi, e le carte da giuoco, che sono oggetto pacifico di monopolio effettivamente esercitato dallo stato, o per la saccarina, la cui importazione è vietata per motivi fiscali. Per l’anno agrario in corso si può ammettere che il commercio dei cereali, compresi il riso e l’avena, sia ancora monopolizzato; l’erario perde 200 milioni di lire al mese in questa faccenda, e se esso non importa, nessuno importerebbe. Ma, dopo tante tergiversazioni, dire e disdire, annunci di immediate attuazioni e rinvii, si può sapere se la benzina, gli oli minerali pesanti, il petrolio, il caffè e surrogati di caffè, lo zucchero, il tè, la paraffina, il mercurio e le lampade elettriche formeranno oggetto, sì o no, di monopolio governativo?
Se sì, sta bene includerli nell’elenco. Se no, occorre lasciarne liberissima l’importazione ai privati. Che dire delle carni congelate, salate e in scatola, del lardo e del latte condensato per cui nessun annuncio venne in luce di futuro monopolio e per cui è ora fatto divieto ai privati di importazione? Perché? Lo stato ha forse paura di perdere, se anche i privati importano carne e latte? La paura sarebbe un’aperta confessione di voler continuare nella politica degli alti prezzi, più alti almeno di quelli che si avrebbero in regime di libero commercio.
Il problema veramente importante non è quello della tabella B, sebbene abbia anch’esso una rilevanza grandissima. È quello della tabella A riguardante merci non avocate allo stato, e oggetto di privato commercio. Qui veramente si casca dalle nuvole. Salvo pochissime eccezioni, da contarsi sulle dita di una mano, non si tratta di merci di lusso; sibbene di materie prime e di prodotti semi-lavorati e finiti dell’industria, vino e vermouth, alcool e liquori, essenze e oli essenziali, cioccolata, solfato di rame, canapa greggia e pettinata, lino, juta, e vegetali filamentosi, pettinati, tessuti e altri manufatti di lino, di canapa e di juta, filati, tessuti e altri manufatti di cotone, lane tinte, cardate e meccaniche, filati, tessuti e altri manufatti di lana, crine e pelo, cordami di sparto, tiglio e simili. Tutte le industrie sono rappresentate in questa lista inverosimile; le carte, i cartoni e i loro lavori, le selle, i guanti e altri lavori di pelle, il ferro e l’acciaio semi-lavorato, le rotaie e le traversine di ferro e di acciaio per ferrovie, le lamine di ferro e di acciaio, zincate, piombate, stagnate, il rame, l’ottone e il bronzo greggio e semi-lavorato, le macchine agricole e loro parti, i carri trattori e le vetture automobili, i veicoli di ferrovia. Vi passano materie prime come lo zolfo, i semi di lino, il copra; oggetti di uso diretto come i berretti e cappelli di ogni specie, gli ombrelli e i fornimenti di ombrelli, le mercerie di ogni genere.
Evidentemente, si tratta di prorogare il regime bellico di proibizionismo assoluto, a mala pena velato dalla pericolosa facoltà del governo di concedere licenze di importazione dietro parere di un comitato consultivo presso il ministero delle finanze, e aggravato dalla facoltà del ministero medesimo di aggiungere altre voci a quelle indicate nell’elenco.
Questo è il primo atto di una politica rigidamente protezionistica, anzi proibizionistica, che il ministro Ferraris ha annunciato alla camera, quando ha dichiarato essere il governo favorevole al sistema della tariffa autonoma e della doppia tariffa. Verranno poi gli altri decreti che per le merci importabili liberamente e per quelle licenziate stabiliranno dazi autonomi e cioè fissati dal governo nostro senza vincoli di trattati di commercio duraturi e impegnativi con gli stati esteri; e doppi dazi, uno massimo per i paesi che applicheranno a noi dazi ritenuti eccessivi e uno minimo per le provenienze dai paesi i quali applicheranno alle nostre esportazioni un trattamento più favorevole o normale.
Il sistema è dannoso all’Italia, pericoloso per la stabilità delle nostre industrie e favorevole al mantenimento e all’inasprimento del caro-viveri, atto a favorire privati interessi di gruppi industriali e finanziari, fin troppo potenti e inframmettenti. Senza entrare per ora nel vivo del problema, un punto preliminare occorre chiarire: è lecito che con piccoli decreti, i quali hanno l’aria di ripristinare la libertà di commercio, si venga a costituire una condizione di assoluto privilegio all’industria nazionale a danno dei consumatori? Proibire, dico, proibire l’importazione di una data merce non significa forse dare un vero monopolio sul mercato interno agli industriali italiani produttori di quella medesima merce? Il senatore Ferraris, ex presidente di confederazioni delle industrie e di associazioni delle società per azioni, ha malissimo provveduto al suo buon nome con questo atto di favore per certi e certi industriali, ai quali viene fatto lecito di imporre i prezzi che riterranno più opportuni ai disgraziati consumatori. Fra i consumatori vi sono industriali e agricoltori, i quali saranno costretti a comperare macchine agricole, solfato di rame, tessuti greggi e filati, ferro e acciaio, trattori, ecc., a prezzi resi elevati dalla proibizione.
Se l’opinione pubblica plaudirà a questo regime da muraglia cinese, se per la paura di invasioni germaniche, o chimeriche o legittimate da eccezionale incapacità nostra a produrre, il parlamento, dopo aperta la discussione, vorrà che gli italiani divengano schiavi di una piccola minoranza di produttori desiderosi di continuare in pace i lucri, e peggio, gli sprechi e gli alti costi del periodo bellico, sarà un malanno. Almeno però sarà un malanno voluto. Ma è intollerabile che il malanno sia inflitto alla chetichella in un decreto, il cui contenuto contraddice alla premessa di ristabilimento della libertà di commercio.
È necessario correggere il decreto, cancellare i nove decimi delle voci della tabella, rivedere la tabella B e astenersi da successivi decreti che, con pretesti più o meno plausibili, infliggano al paese il fatto compiuto di una tariffa autonoma e doppia. Se il fato dovrà compiersi, si compirà, ma il paese deve saperlo prima; il parlamento, quello attuale o quello futuro, deve poter discutere a ragion veduta. Non c’è alcuna urgenza di fucinare in fretta e in furia decreti compromettenti. Abbiamo aspettato tanti anni, aspettiamo alcuni mesi. Nel frattempo il ministro dell’industria pubblichi relazioni e proposte della commissione reale per la nuova tariffa doganale, e relazioni e proposte della piccola commissione di funzionari la quale ha fucinato o sta fucinando una nuova tariffa provvisoria. È il suo stretto dovere.
II
Argomenti sbagliati del ministro Dante Ferraris
La sola giustificazione che il governo ha tentato nel suo mal decreto del 24 luglio per la cosidetta libertà delle importazioni è la provvisorietà del provvedimento. Speriamo che davvero il regime sia provvisorio, duri cioè due o tre settimane, quanto occorre per portare alla camera la tariffa doganale provvisoria, la cui presentazione alla commissione il ministro Ferraris ha annunciato essere stata ritardata semplicemente dallo sciopero tipografico.
Dopo le prossime brevi vacanze parlamentari, la tariffa doganale merita di formare oggetto d’una discussione approfondita. Essa tocca l’avvenire del paese; e sarebbe gravissimo abbandonarlo alla sapienza di quattro funzionari e all’arbitrio del potere esecutivo. Ha un bel dire l’on. Nitti che questo decreto provvisorio non pregiudica l’avvenire. Anzi, lo pregiudica gravemente, perché crea situazioni di fatto, privilegi da cui non si potrà più fare astrazione. Che cosa è la disoccupazione operaia, il cui spettro dovrebbe far trangugiare al paese il proibizionismo e il caro-prezzo di certi prodotti siderurgici, se non la conseguenza dello stato di fatto attuale per cui alcune maestranze vivono a spese della collettività, producendo a costi alti merci che si potrebbero acquistare all’estero assai più a buon mercato?
Urge che il provvisorio non si aggiunga al provvisorio, in modo che, quando il parlamento sarà chiamato a discutere la tariffa doganale definitiva, questa non sia irrimediabilmente compromessa da quella provvisoria. È questa ultima che urge rendere pubblica, insieme coi suoi motivi e insieme con le proposte e le relazioni della commissione reale per i nuovi trattati di commercio e il nuovo regime doganale. I ponderosi volumi della commissione pare siano stampati. Perché non sono resi di pubblica ragione? Perché non si dà modo di confrontare il regime definitivo proposto dalla commissione grande con quello provvisorio messo innanzi dalla commissione piccola? Perché non si vuole consentire all’opinione pubblica di rendersi per tempo ragione delle modificazioni proposte al regime ante-bellico?
Nel corso del dibattito furono addotte argomentazioni a pro del decreto Ferraris, le quali meritano di essere discusse. Come è possibile, disse il ministro dell’industria, ammettere l’entrata in paese di merci di cui in Italia vi sono rimanenze abbondanti? Questa è una argomentazione veramente nuova negli annali del dibattito tra libertà degli scambi e proibizionismo doganale. Sempre si è sentito dire – a torto o a ragione – che i dazi occorrono quando una merce non si produce in paese e se ne vuole stimolare la produzione interna. Adesso, il canone sarebbe rovesciato: quando una merce bussa alle porte dall’estero, bisognerebbe andare ricercando se la merce in Italia c’è o c’è qualcuno che la può produrre. Se vi è , non si concede il permesso d’importazione. Se non esiste e se in Italia non c’è chi la può produrre, il permesso si dovrebbe concedere. Parlando chiaro, la politica doganale non dovrebbe più avere lo scopo di utilità generale, che ora non discuto, di favorire il sorgere e il rafforzarsi di industrie inesistenti; ma quello privato di consentire agli industriali esistenti, o peggio, ai semplici detentori di partite di merci nello stato, di vendere a quel più alto prezzo che sarà reso possibile dalla mancanza di competizione estera.
Qui i cambi non c’entrano; perché se esiste libertà di commercio e le riserve interne sono davvero abbondanti, basta che i detentori interni ribassino i prezzi, perché la merce estera non entri e i consumatori abbiano il beneficio dei prezzi ridotti. Se si pensa che grandissima parte delle merci elencate nella tabella A è materia prima o prodotto semi-lavorato, è chiaro che la nuova stupefacente teoria esposta dal ministro competente – perché mai si chiamano «teorie» gli spropositi, quando il nome di «teoria» è proprio di quei soli principii generali i quali sono conformi ai fatti? – porta diritti alla conclusione che quando un’industria, supponiamo la siderurgica, su cui hanno amato intrattenersi gli uomini di governo, ha commesso l’errore di produrre e possedere provviste abbondanti di materie prime e di semi-lavorati ad alti costi, le industrie successive, quelle meccaniche, ad esempio, devono rassegnarsi a comperare ad alti costi questa roba interna e mettersi così nella impossibilità di produrre e di esportare. Quel produrre e quell’esportare che sono l’ossessione e l’ideale dei quotidiani discorsi del ministro presidente.
Questa falsa teoria si collega con un’altra pseudo-teoria, pure pericolosa, esposta dal ministro dell’industria: che quando un’industria si svolge in condizioni precarie, sia legittimo l’intervento dello stato a salvarla, oggi con la proibizione delle merci concorrenti, domani con aiuti finanziari, ecc. ecc. È la teoria del salvataggio, illustrata nella scienza in un magnifico saggio di Maffeo Pantaleoni, e rimasta famosa per i salvataggi del Banco di credito edilizio, della Banca romana, per le cure amorevoli portate dalla Banca d’Italia alla siderurgia dopo il 1906, ecc. ecc. Per eccezione, e in casi specialissimi, il salvataggio può essere imposto da un vero interesse pubblico; in generale aggrava il male, lo estende, e, prorogandole, ne rende più terribili le conseguenze. Ad ogni modo, è argomento controverso, è problema che non si può risolvere senza aperta e franca discussione pubblica.
La siderurgia è, dice il ministro Ferraris, in condizioni precarie? Assai male. Ma quando in conseguenza si chiede il pubblico soccorso – la proibizione dell’entrata di merci estere e il conseguente elevamento dei prezzi sono un pubblico soccorso prestato per ordine del governo dalle industrie consumatrici e dai consumatori italiani alla siderurgia – bisogna presentare conti, bilanci, dati precisi. Questi devono essere vagliati per sapere in quale misura il soccorso debba essere dato; e se vi sia un preminente interesse pubblico che ordini di darlo. Se la ragione pubblica del dare il soccorso è quella militare – innanzi alla quale non ho aspettato lo scoppio della guerra europea ad inchinarmi – bisogna discutere intorno al modo di dare il soccorso. L’impresa aiutata col denaro pubblico per ragioni di difesa militare non è più un’impresa privata, ma un’impresa pubblica. Fa d’uopo discutere i mezzi più opportuni a garantire nel tempo stesso la spinta di intrapresa, di invenzione, di rinnovazione e l’ossequio alla necessità assoluta che neppure un centesimo del pubblico denaro sia sprecato o devoluto a lucro privato, oltre l’indispensabile per mantenere in vita e far progredire l’intrapresa. Se la ragione militare non viene in campo, urge vieppiù sapere quale mai motivo vi possa essere di infliggere altrui oneri gravi a pro di una singola industria. Se vi saranno ci inchineremo. Se no; no.
Una teoria vera fu esposta dal governo rispetto al vino; ma non fu integrata a dovere. Contro chi voleva aprire le porte al vino spagnuolo per far ribassare il vino nazionale, l’on. Nitti rispose che sarebbe assurdo comprare vino all’estero quando non abbiamo pane a sufficienza. Nitti ha ragione; bisogna impedire, oggi, ad ogni costo, al popolo italiano di ubriacarsi a buon mercato. Il vino è il lusso del povero; e nello stesso modo come bisogna interdire l’importazione di spumanti di lusso, di gioielli e di altre inutilità chieste dalla parte balorda delle classi ricche, così bisogna interdire l’importazione del vino chiesta dalla parte intemperante delle classi popolari. L’on. Nitti s’è tuttavia scordato di integrare la teoria vera. La proibizione dell’importazione del vino estero, approvabile per motivi pubblici, reca però un notevole vantaggio privato ai produttori di vino italiano. Questo vantaggio è ingiusto. È necessario eliminarlo nella misura del possibile con una forte imposta sul vino. L’occasione all’introduzione dell’imposta sul vino già annunciata dal governo è magnifica e unica: ora o non più.