È possibile consolidare i buoni del tesoro?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/12/1921
È possibile consolidare i buoni del tesoro?
«Corriere della Sera», 18 dicembre 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 481-484
Gli scrittori di parecchie lettere inviatemi in seguito ad un articolo: Diminuire i buoni del tesoro! concordano nella tesi principale; ma sono scettici sulla possibilità di trovare un rimedio:
«Come volete – si osserva – che si possa consolidare il colossale e crescente e pericoloso debito fluttuante, quando il consolidato 5 per cento emesso in principio del 1920, quasi due anni fa, è ancora in parte in aria, non è intieramente classato e pesa per grosse partite sul mercato; quando il prezzo da 87,50 è disceso a 75? – quando i risparmiatori vivono sotto il peso della stridente ingiustizia di pagare l’imposta patrimoniale su un valore di 87 circa quando il valore vero è tanto inferiore? – quando ad ogni tratto è minacciata una ritenuta del 10 o del 15 o del 20 per cento sulle cedole dei titoli dianzi proclamati esenti da ogni imposta presente e futura? – quando non si sa se i titoli di debito pubblico saranno o non saranno obbligati a trasformarsi in nominativi ed i tortatori vivono nella peggiore delle situazioni economiche, che è quella dell’incertezza? – quando i possessori dei titoli nominativi di stato vanno raccontando cose raccapriccianti sul ritardo e sul costo dei trapassi dei titoli in occasione di vendite o di eredità? Finché dureranno tali condizioni, lo stato non può emettere prestiti all’interno, che andrebbe incontro ad un solennissimo insuccesso. Meglio emettere buoni ordinari a breve scadenza, da tre a dodici mesi, che danno buon frutto, che il pubblico predilige, perché non soggetti a ribassi di valore, perché realizzabili alla scadenza e scontabili prima».
Le quali osservazioni, appunto perché sono serie e gravi, mettono in luce anche più vivacemente di quanto non avessi fatto io, il grado di pericolosità della situazione odierna di tesoro. Esse dicono, in sostanza, che i risparmiatori non hanno fiducia nei titoli soliti emessi dallo stato, e comprano avidamente i buoni, perché da essi si può uscire, senza perdita, più facilmente che da qualunque altro impiego. Ecco il dilemma entro cui si muove il risparmiatore: desiderare vivamente impiegare i proprii risparmi in titoli pubblici; ma temere, altrettanto vivamente, il titolo che ribassa, il titolo che è soggetto a pericoli di taglie, di confische, di falcidie imprevedute.
Dal dilemma, il pubblico risparmiatore in parte dovrà uscire per virtù propria ed in parte per virtù del tesoro. In se stesso deve trovare l’energia di partecipare alla vita pubblica; e, fra tanti vociferanti ed assalitori del pubblico erario, far sentire alta la sua voce, la quale dica: «basta con le improvvisazioni tributarie, basta con le minacce non eseguite, basta coi programmi che si sa a priori di non avere i mezzi e la capacità di attuare! Il corso del consolidato è basso perché noi risparmiatori fino al febbraio del 1920 eravamo i benemeriti della patria e si faceva appello alla nostra buona volontà ed al nostro spirito di rinuncia, mentre dopo fummo detti parassiti, tassabili e svalutabili ad arbitrio». Il credito dello stato non si solleva da sé; migliora creando un diverso clima politico e sociale, in cui il risparmio sia apprezzato, incoraggiato, difeso, assicurato. Lo stato ha interesse alla formazione del nuovo clima creditizio; perché se oggi paga dal 6 al 7 per cento ed è in balia delle scadenze, domani, ridata la sicurezza ai risparmiatori, troverà denari al 5% ed a lunga scadenza.
Tuttavia, fatta la dovuta parte alla necessità di mutare l’animo dei politici e del pubblico verso i detentori dei titoli di stato, una parte di responsabilità della situazione assillante in cui si trova il tesoro premuto da 23 miliardi di buoni a breve scadenza, l’ha il tesoro stesso. Perché questo si ostina a non emettere i titoli del tipo che il pubblico desidera? L’esperimento è stato fatto; è riuscito bene ed inesplicabilmente non lo si ripete.
Voglio accennare all’emissione avvenuta nella primavera scorsa del primo miliardo di buoni settennali del tesoro 5% a premi emessi al corso di 94. In pochissimo tempo quei buoni furono venduti; le banche quasi subito restarono sprovviste; ed ora i buoni fanno premio e valgono sino a 100 lire; qualche taglio piccolo sembra persino sia stato pagato di più. È il primo e finora unico caso di un titolo emesso dal 1914 in qua dal governo italiano il quale faccia premio; tutti gli altri titoli ribassarono di valore, scoraggiando e irritando i sottoscrittori, i quali, se potessero, se ne sbarazzerebbero volentieri. Questo, invece, coloro che l’hanno se lo tengono ben caro. Varie le ragioni: si chiama buono del tesoro ed è perciò sottratto alla nominatività – sebbene si dica buono del tesoro, ha una scadenza abbastanza lontana e soddisfa i gusti di coloro i quali non vogliono ad ogni anno nuovo pensare al reimpiego dei proprii fondi – tenendo conto del 5% su 100, del rimborso a 100 mentre lo si è pagato 94, frutta più del 6% – e finalmente corre l’alea di vistosi premi. Al 15 febbraio ed al 15 agosto si estraggono taluni grossi premi, di cui il primo una volta all’anno è di un milione e un’altra volta è di 100.000 lire. Questa è una attrattiva di cui in Italia non si apprezzava abbastanza la forza. Moltissimi, che non risparmierebbero un centesimo per la sola aspettativa del 6% all’anno, mettono da parte le 100 o le 500 o le 1.000 lire, quando sperano di diventare con ciò milionari. Si sa bene che è difficilissimo guadagnare il milione; ma intanto: – lo stato ha ottenuto un prestito a migliori condizioni, pur conteggiando il premio, che in qualunque altro modo; gli acquirenti hanno imparato la virtù del risparmio e si può essere sicuri che dopo le prime 100 o 1.000 lire ne risparmieranno altre, ed alla fine, se non milionari, capiteranno ad avere un gruzzolo, garanzia di pace sociale e di tranquillità domestica.
Perché mai, dunque, non si emette un secondo e un terzo miliardo, chiarendo, s’intende e dimostrando, prima, che non si tratta di debiti per nuove spese, ma per sistemare il debito vecchio; assicurazione, questa, assolutamente necessaria per dissipare la giustificata ripugnanza della gente risparmiatrice a buttare i proprii denari per aumenti di impiegati inutili e per spese improduttive?
Non voglio prendere sul serio certe ragioni sentite riferire intorno al ritardo nel servirsi di questo magnifico strumento di credito: quali, per esempio, che i buoni a premio ora sono divenuti introvabili, che essi fanno premio, e che le banche li tengono nel proprio portafoglio. Tutte queste ragioni, caso mai, devono indurre precisamente, se il buon senso vale qualcosa, a concludere: che bisogna appunto emettere i titoli che poi diventano introvabili, perché ciò vuol dire che i titoli stessi sono veramente piaciuti e sono detenuti dagli acquisitori e non buttati sul mercato; che bisogna emettere i titoli che fanno premio, perché la seconda o la terza volta si può forse spuntare un prezzo maggiore, mentre, se il titolo ribassa, bisogna cominciare a venderlo a 97 e poi a 93 e poi a 90 ed ancora ad 87,50 ed ora non si sa a che prezzo bisognerebbe vendere. Che se anche le banche ci si sono affezionate, questa sarà una nuova prova che il tesoro ha colpito giusto emettendo un titolo così ricercato e che, ripetendo l’emissione, anche l’ipotetico accaparramento verrà meno, perché si può accaparrare ciò che esiste nella quantità 1, non ciò che esiste nella quantità 10.
Quando il tesoro si deciderà a far ciò che al posto suo un privato non avrebbe esitato a fare, non faccia, per carità, la viola mammola. Nei prestiti a premio, bisogna saper battere la gran casa. Ad esempio, chi è il vincitore del premio del milione? Chi del premio di 100.000 lire e chi dei premi minori? Bisogna scovarli; sguinzagliare alle loro calcagna un nugolo di giornalisti. Specie se si tratta di gente mediocre o povera, il caso farà rumore. Tutti vorranno sapere come si è acquistata la fortuna e le sottoscrizioni fioccheranno.
Costa fatica popolarizzare i prestiti a premio; ma solo a costo di fatiche e di noie infinite il risparmio veramente popolare può essere utilizzato a presidio dello stato e della società.