Due parole tra di noi. Ai giornalisti liberali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/01/1945
Due parole tra di noi. Ai giornalisti liberali
«L’Italia e il secondo Risorgimento», 13 gennaio 1945
Vi è un pericolo nella elevatezza di una dottrina: è che i suoi dottori perdano il contatto col suolo. Per suolo intendo il pubblico; per pubblico intendo quello che non fa parte dell’Elite.
Che il Liberalismo più di ogni altra dottrina concorrente sia esposto a questo pericolo, contropartita di un titolo d’onore, è nella logica delle cose.
Meno logica è però la rarità dei casi in cui la coscienza di questo pericolo si rivela in uno sforzo tendente a combatterlo; e ancor meno lo è l’abbondanza di quelli in cui sembra di poter avvertire una tendenza a compiacersene, quasi al punto di civettare con esso. Come se la maggioranza di noi scrittori liberali non solo avesse perduto il senso della necessità elementare per ogni scrittore politico di farsi comprendere da quanti più lettori è possibile, ma addirittura aspirasse a rimanere comprensibile solo per un numero di lettori ristretto – tanto più onorifico anzi quanto più ristretto: a rimanere un’accolta di scrittori per esclusivo uso interno dell’Elite.
L’Elite è soddisfatta. L’Elite legge, commenta, discute, complimenta; è soddisfatta, e lo scrittore è soddisfatto con lei. Le sue idee circolano soltanto in questo ambiente confortevole, cioè vivono in vaso chiuso; ma questo basta allo scrittore per ritenersi in regola col proprio servizio. Se faremo un buon esame di coscienza, quanti di noi potranno non rimproverarsi questo peccato – poiché siamo in presenza di un peccato di vanità in piena regola?
E se allora confronteremo con umiltà la nostra azione al Servizio cui siamo fieri di dedicarla, quanti di noi potranno sentire di aver servito nel senso vero e totale della parola? Intendiamoci su questa parola. Nel suo significato più alto è il servizio dello spirito nella lotta politica: su questo siamo tutti d’accordo. Ma cosa intendiamo con ciò? cosa intendiamo sopratutto per consegna odierna di questo servizio?
Fino a ieri si trattava di custodire: oggi si tratta di predicare. Lo spirito non è più la fiammella da conservare accesa nascostamente: è di nuovo la luce da diffondere.
Oggi non è più il tempo dei chiostri da primo medioevo nei quali ci aveva ridotti ieri l’imperversare della tirannia dall’alto e della platea dal basso: oggi è il tempo dei missionari. Ma la maggioranza di noi continua a parlare come ieri. E scende nella lotta politica – che è proselitismo – con lo stesso linguaggio che userebbe a una riunione di iniziati: un linguaggio che per il pubblico è un rumore affaticante, incomprensibile, che lo annoia, che lo scoraggia, che lo allontana.
La lotta politica è proselitismo. Con tutta la differenza che corre tra il demagogo e lui, pur anche lo scrittore liberale ha in definitiva il suo scopo nella persuasione del numero. Sarà un numero forzatamente limitato; ma questo limite, egli deve sforzarsi di allargarlo, non deve accettarlo a priori come un muro quasi fatale che rinserri l’Elite cui egli appartiene – e del quale per giunta l’Elite e lui, invece di addolorarsene, si direbbe quasi pensino di dover essere orgogliosi.
Peccato di vanità, e di presunzione. Perché se si vuole servire lo spirito nella lotta mortale in cui è oggi impegnato sul campo di battaglia politico, occorre pensare che esso ha bisogno che si arruolino al suo servizio tutti coloro che ne sono degni: e questa dignità non è affatto monopolio esclusivo di un’alta preparazione culturale. Il compito della cultura è di andare incontro a costoro, di aiutarli, di dar loro la parola d’ordine che essi cercano, di mostrar loro la vita che non trovano: non è di ignorarli, o peggio – mi si scusi la brutta parola – di «snobbarli».
Vi sono migliaia e migliaia di nostri simili che non sanno né si interessano di dialettica, di problematica, di pragmatismo, di immanenza, di antistoricità, di determinismo e chi più ne ha più ne metta – ma che non per questo sono meno «spirituali» di noi e di quanti per leggerci non hanno bisogno di un vocabolario e di un’enciclopedia. Vi sono migliaia e migliaia di nostri simili che ci trovano noiosi e ci sfuggono, senza che da questo venga a noi la minima patente di superiorità: perché si tratta di nostri simili il cui valore morale non ha nulla da invidiare al nostro, e del cui servizio lo spirito si onorerebbe e si avvantaggerebbe non meno che del nostro.
Perché si tratta infine di nostri simili la cui forza è necessaria alla vittoria dello spirito – a quella vittoria politica dello spirito che è il fine di questa lotta alla quale ci siamo consacrati. Verrà un giorno in cui questa lotta si deciderà, e quel giorno essa sarà decisa da tutt’altra voce che quella delle pagine stampate: sarà la voce delle urne, nella migliore delle ipotesi; comunque, sarà una voce in cui il numero avrà qualche decisivo diritto.
Se allora l’Elite sarà rimasta sola, il naufragio dei principii ai quali rimase fedele e dei quali ci esaltammo nel suo seno, sarà sicuro: e sarà anche sua e nostra colpa. Il nostro compito è di parlare principalmente per questi nostri simili, il nostro dovere è di farci comprendere da loro. Decidiamoci (non vi è più molto tempo da perdere) a essere più modesti e più leggeri, meno difficili e più utili, meno casisti e più missionari.
In materia d’arte fu detto con intelligenza: – «l’artiste doit avaler une locomotive et rendre une pipe». Trasferita in materia di politica è una massima alla quale dovremmo tutti modestamente ispirarci. Ma confessiamo che troppi di noi invece si comportano come se – per ogni trattato d’alta dottrina esoterica assimilato dalla loro cultura – il massimo sacrificio imponibile alla dignità politico letteraria di un loro articolo fosse di non porgerne al pubblico due.
Pubblichiamo volentieri del nostro collaboratore questa manata di sassi in piccionaia, prima di tutto perché nulla più ci piace, nulla ci dà più il senso della maggiore respirabilità dell’aria, che il dibattere all’aperto anche le critiche interne.
Lavare fuori dell’uscio i panni dalle tracce del lavoro (e questo nostro lavoro comporta naturalmente macchie d’errori) è una franca estensione d’attività: con l’uscio aperto, dove si può guardar dentro; con la disciplina della semplice lealtà e l’obbedienza assoluta soltanto a principii che poco hanno a vedere coi meriti o demeriti dei singoli. E poi perché nella critica del nostro collaboratore c’è del giusto.
È vero: dobbiamo cercare di non dare per risaputo da tutti ciò che all’uno e all’altro è noto o è accaduto d’apprendere, e dobbiamo tener meglio presente che la chiarezza e la semplicità sono insostituibili strumenti di persuasione.
Ma non bisogna poi che il collaboratore calchi troppo la mano sui motivi dei difetti e non dia l’impressione (che del resto non crediamo sia nella sua intenzione) che questi liberali di cui non si contenta siano un gruppetto di accademici vanesii. Meno astruserie, va bene, meno complicazioni intellettuali e culturali, va benissimo; ma vi sono anche questioni che si discutono soltanto con una certa complessità di cognizioni e che non possono essere tralasciate perché non tutti i lettori vi si orientano facilmente.
Bisogna essere missionarii, si: ma bisogna anche fare dei missionarii. E se persone di media coltura si trovano nella necessità qualche volta di ricorrere al vocabolario o all’enciclopedia, ci ricorrano. Sta a vedere che si debba considerarla una disgrazia, dopo tante negligenze della coltura media.
La crisi del nostro tempo è anche una crisi delle teorie, che sono da rivedere o che bisogna scrostare delle male cose appiccicatevisi; e questo porta a esami, discussioni e controversie di natura meno elementare dello spiegare a Peppe tagliapietre perché gli convenga di votare per il candidato liberale.
Dunque: chiarezza e relativa semplicità. Senza per ciò preparare addirittura il bolo alimentare, ma lasciando al prossimo almeno la fatica della masticazione.