Disoccupazione agraria ed espropriazione di terre nel rapporto di un ufficio del lavoro
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/02/1904
Disoccupazione agraria ed espropriazione di terre nel rapporto di un ufficio del lavoro
«Corriere della Sera», 15[1] e 17 febbraio[2] 1904
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 101-107
I
Disoccupazione elevatissima, abbandono dei contratti colonici a base di operai avventizi e rifiorire della mezzadria, sostituzione delle culture a prato ed a grano a quelle a risaie, delle macchine alla mano d’opera, trascuranza delle migliorie agricole: ecco il quadro poco lieto delle condizioni dei contadini nel basso emiliano, che si può dedurre dalle risultanze di una inchiesta compiuta dall’ufficio del lavoro dell’Umanitaria. Ma non basta analizzare acutamente un fenomeno, studiarne le pulsazioni e segnalare l’esistenza di una male sociale. Occorre, potendo, indicare i rimedi più opportuni; od almeno quelli che, sia pur lentamente, possono alleviarlo di qualche poco.
In ciò siamo tutti d’accordo. L’osservazione dei fatti sociali servirebbe a ben poco se non avesse qualche pratica risultanza. Non varrebbe la pena di istituire uffici del lavoro se questi non dovessero fornire la materia prima su cui il legislatore elaborerà le sue leggi, l’uomo d’azione i suoi atti; se insomma gli studi dovessero servire soltanto a crescere i mezzi di studio dei teorici e non fossero stimolo ad opere di bene. Il compito degli uffici del lavoro deve però fermarsi lì: a fornire la materia prima ai legislatori ed agli uomini di azione. Andare più in là è pericoloso: da una officina di dati, l’ufficio corre gran pericolo di mutarsi in uno strumento di politica partigiana od almeno di essere creduto tale. Se si vuole proprio che gli uffici del lavoro indichino i rimedi ai mali sociali che essi hanno constatato, occorre sia ben chiaro che a questo punto cessa la loro funzione oggettiva, ufficiale e subentra l’opera soggettiva dei singoli direttori od impiegati dell’ufficio, i quali a seconda delle loro credenze socialistiche, liberistiche, riformistiche, ecc. ecc., trarranno dai dati conclusioni differenti, le quali avranno una portata puramente individuale.
Queste cose abbiamo voluto premettere alla critica che vogliamo brevemente fare al capitolo in cui lo Schiavi delinea nel suo lavoro i rimedi alla crisi di disoccupazione del basso emiliano. Lo Schiavi è socialista e dal suo punto di vista ha perfettamente ragione di scrivere a modo suo; ma sarebbe stato bene anche per lui che tutti potessero distinguere tra la parte oggettiva, veramente encomiabile e degna di ogni più ampia lode, in cui egli constata il fatto della disoccupazione e la parte soggettiva in cui egli vuole riassumere i rimedi a quel male. Anche in questa parte sono dette parecchie cose sensate, come quando egli elenca i lavori pubblici che potrebbero essere intrapresi con ordine sistematico e potrebbero distribuire 300 mila giornate di lavoro all’anno nei quattro comuni del ferrarese: 150.000 a San Giovanni ed a Molinella e 750.000 nei comuni del ravennate; o come quando fa il calcolo dello sfollamento che sul mercato locale del lavoro produrrebbe una ben diretta emigrazione all’estero. Siamo fin qui nel campo delle constatazioni di fatto, discutibili forse, ma sempre oggettive. Invece entriamo nel campo della politica e delle credenze economiche quando si enumerano i provvedimenti legislativi che si potrebbero prendere contro «l’incompetenza, l’assenteismo, il malvolere dei proprietari che mantiene molte terre improduttive o bassamente produttive» per costringerli «a coltivare razionalmente la terra secondo le buone norme agricole». Lo Schiavi potrà anche aver ragione di affermare che «essendo la terra la principale fonte delle sussistenze della nazione, il giorno in cui il proprietario che la detiene essicca volontariamente quella fonte, la collettività ha il diritto di sostituirsi a lui e di attingervi a beneficio di tutti». Gli esempi da lui addotti, della Nuova Zelanda che compra grossi latifondi e li fraziona in lotti, della politica agraria inglese in Irlanda, dei progetti di nazionalizzazione delle miniere di antracite nella Pennsylvania, sono così lontani dall’Italia, si sono verificati in condizioni politiche, sociali ed economiche così diverse dalle nostre che davvero non possono persuadere. Non è serio voler dimostrare che lo stato deve espropriare i latifondisti del ferrarese, adducendo il motivo che il governo americano, in un momento di panico pubblico per il caro del carbone, aveva l’intenzione di nazionalizzare le miniere di antracite. Il governo americano avrebbe probabilmente fatto un cattivo affare; ma uno pessimo lo farebbe certo il governo nostro, malgrado la procedura spiccia che l’ufficio milanese del lavoro propone per togliere di mezzo gli attuali proprietari, a cui si dovrebbe dare un prezzo corrispondente all’imposta che ora pagano. Quando l’on. Baccelli – durante la sua comica permanenza al ministero d’agricoltura – propose che i latifondi dovessero essere espropriati su questa base, la cosa parve sovvertitrice di ogni più saldo canone intorno ai diritti acquisiti, ed il senato respinse la proposta. L’ufficio del lavoro osserva semplicemente che la ripulsa del senato fu una «evirazione dell’intera legge», come se una bella frase valesse le molte ragioni addotte contro quell’aborto di legge. Non è serio nemmeno affermare che lo stato dovrebbe «risolvere il problema gravissimo della disoccupazione con provvedimenti radicali e inspirati a concezioni moderne della vita collettiva», quando la modernità delle concezioni consiste nel ripetere il vecchio ed abusato esempio delle colonie agricole semi – collettiviste fondate dall’Australia del sud nel 1894. L’esempio non calza, perché le colonie furono fondate in seguito ad una grave crisi bancaria che aveva seminato la rovina nelle grandi città australiane della costa ed aveva costretto i governi a trasportare nelle campagne gli operai affinché non tumultuassero e non cagionassero guai nelle città. Quelle colonie furono un solennissimo fiasco e vissero colle sovvenzioni dello stato; e quando il governo si stancò di pagare gli operai, si disfecero. Citare ora quelle colonie come esempio, è dare un ben cattivo consiglio al governo italiano.
E così di seguito. La indicazione dei rimedi è superficiale: l’ufficio del lavoro parte dall’ipotesi che i proprietari siano nemici della società, deliberati a ridurre la domanda di lavoro per far dispetto alle leghe ed ai loro organizzatori; e per costringerli a impiegare un numero maggiore di operai ricorda in fretta ed in furia certi provvedimenti che all’estero furono adottati in casi analoghi. Ma quei provvedimenti non sono esposti in modo oggettivo, con lo studio delle cause che li promossero, delle condizioni che li favorirono, degli effetti che produssero e di quegli altri effetti che produrrebbero in Italia. No: essi sono puramente messi lì a coonestare la proposta di una frettolosa legislazione socialisteggiante che nulla dimostra possa riuscire efficace.
Non così operano i grandi uffici del lavoro di Washington e di Londra. Nei loro rapporti veri modelli del genere – i fatti sono molti, larghissima l’esposizione dei provvedimenti adottati, ma le proposte concrete sono scarsissime o meglio non se ne fanno. Perciò noi abbiamo subito voluto elevare una voce contro un andazzo che potrebbe radicarsi in Italia, quando anche l’ufficio di Roma – diretto dalla medesima persona che inspira quello di Milano – si mettesse sulla stessa via di dare consigli ai politici socialisti invece che fornire fatti a tutti gli uomini di buona volontà.
II.
Abbiamo esaminato e discusso nel numero del 15 i giudizi dati dal dott. A. Schiavi, in una pubblicazione dell’ufficio del lavoro della società Umanitaria su La disoccupazione nel basso emiliano. Ci pare interessante ritornare sulla stessa pubblicazione per astrarre dai giudizi e riferire i dati di fatto che essa contiene.
Sono quattro comuni del ferrarese (Argenta, Bondeno, Copparo e Portomaggiore), due del bolognese (San Giovanni in Persiceto e Molinella), e tre del ravennate (Alfonsine, Conselice e Ravenna), tutti racchiusi in un trapezio fra l’Adriatico, il Po, il Panaro e la linea ferroviaria Bologna-Lugo-Ravenna; quelli su cui l’ufficio del lavoro di Milano diresse le sue investigazioni. In tutti il numero dei disoccupati è grande, ed in taluni sembra persino inverosimile. Non già che vi siano molti lavoratori i quali siano per tutto l’anno disoccupati, accanto ad altri oppressi da eccessivo lavoro. No. Il lavoro è entro certi limiti, distribuito a tutti, ma tutti lavorano assai poco, molto meno del numero dei giorni durante i quali potrebbero essere occupati. I 5.100 braccianti di Argenta rimangono disoccupati per 227 giorni all’anno, quelli di Bondeno per 170, quelli di Copparo 182 e quelli di Portomaggiore 205. Nel bolognese, i disoccupati sono il 47% dei braccianti esistenti a San Giovanni in Persiceto (ossia tutti lavorano solo il 47% del tempo utile al lavoro), e il 52% a Molinella. Nel ravennate, i 2.011 braccianti di Alfonsine sono occupati appena per 76 giorni all’anno; i 1.980 di Conselice per 77 giorni ed i 9.352 di Ravenna, per soli 55 giorni all’anno. Sebbene qui vi sia il compenso delle giornate di lavoro nelle opere pubbliche, 21 ad Alfonsine, 13 a Conselice, 31 a Ravenna, e sebbene la misura dei salari sia più elevata, il fenomeno della disoccupazione si presenta con una crudezza davvero notabile. A causa dei più bassi salari che si pagano alle donne, queste riescono a lavorare di più degli uomini. Eccetto che a Molinella, dove le donne sono più fervide leghiste degli uomini e dove esse sono disoccupate per il 55% e gli uomini per il 50%, le donne infatti sono sempre più occupate degli uomini. A San Giovanni in Persiceto gli uomini disoccupati sono il 51% e le donne il 43%; nei quattro comuni del ferrarese gli uomini hanno 197,9 giornate di disoccupazione e le donne 181,4; a Ravenna gli uomini lavorano in campagna per 62 giorni e le donne 72. Tra gli operai, quelli maggiormente colpiti dalla disoccupazione sono gli affiliati alle leghe; a Molinella sino al 56%. I disorganizzati riescono a lavorare un po’ di più e la proporzione dei disoccupati è appena del 51%; mentre i più favoriti sono gli organizzati nelle leghe cattoliche, che rimangono privi di lavoro solo per il 39%. Di qui l’odio delle leghe contro le organizzazioni cattoliche.
Quali le cause di un fenomeno così intenso e così doloroso per gli operai che ne sono a preferenza colpiti?
Innanzi tutto la sostituzione di metodi di cultura più economici ed esigenti un minor impiego di mano d’opera. Nel ferrarese, terreni già condotti ad economia vengono dati a terzeria e a quarteria. A Portomaggiore, mentre dal 1821 al 1902 i giornalieri sono aumentati nella misura del 25%, gli obbligati crebbero del 92%. A San Giovanni in Persiceto ritorna in onore la mezzadria risparmiandosi così le spese della mano d’opera salariata, poiché il mezzadro – dice lo Schiavi -«preferisce assoggettarsi ad un lavoro che lo rende esausto, piuttosto che spendere denaro nei braccianti». probabile invece che il lavoro del mezzadro fatto a proprio conto sia semplicemente più produttivo del lavoro dell’avventizio, disinteressato dai risultati della produzione. Forse è questa altresì la cagione per la quale a Molinella una famiglia di mezzadri composta di 4 o 5 persone valide riesce a coltivare fin 25 ettari di terreno, mentre 15 ettari sarebbero, secondo lo Schiavi, inorridito al vedere i mezzadri lavorar tanto, più che sufficienti per una famiglia di 5 o 6 persone.
Una seconda causa di disoccupazione sarebbe quella che l’ufficio del lavoro chiama la «reazione dei proprietari», i quali oltre al preferire le organizzazioni confessionali ed al far venire operai piemontesi o veneti o romagnoli, limitarono od anche soppressero le culture. Ad Alfonsine nel 1902 non fu coltivato neppure uno dei 200 ettari di risaie, sopprimendo così d’un colpo 37.000 giornate di lavoro con un danno ai lavoratori di 65.000 lire circa. A Ravenna i proprietari hanno sospesi tutti i lavori di scavo, scasso, trapiantatura, ed hanno limitato anche negli altri lavori l’opera degli avventizi, preferendo l’opera dei mezzadri.
Le macchine si sono moltiplicate nel 1903; e quando si pensi che con una mietitrice-legatrice un uomo può compiere il lavoro di 16 mietitori a mano, si può valutare il danno fortissimo che ne è derivato agli avventizi. Alle macchine si aggiunge la trasformazione delle culture, per cui ai lavori di bonifica che occupano un numero massimo di operai, si sostituiscono prima le risaie, le quali ancora richiedono molto lavoro, e poi le culture del grano, del prato e della canapa. La limitazione della cultura umida a risaia porta tristi lacune nell’annata lavorativa non compensate dai lavori a cultura asciutta, se si pensi che un ettaro di terreno a prati, cereali, canapa esige 93 giornate di lavoro, mentre un ettaro di risaia ne abbisogna di ben 175. Ora a Conselice, in 20 o 30 anni, 1.100 ettari di risaia si sono ridotti a 200: a Molinella nel 1902 centinaia di ettari, nel 1903 solo a San Martino 1.200 ettari di risaia furono trasformati o avvicendati. La soppressione di quei 1.200 ettari si può calcolare abbia portato una perdita di circa 200.000 giornate, cioè di 70 giorni all’anno per bracciante. A Ravenna, col «pretesto» delle alte tariffe della mano d’opera, la proporzione di risaia nuova che dovrebbe essere impiantata nel terreno incolto è in proporzione sempre minore a quella che viene trasformata in cultura asciutta, con una perdita progressiva e costante di lavoro per la classe dei braccianti.
Se a tutto ciò si aggiunge l’irrazionale e tumultuario metodo con cui sono distribuiti i lavori pubblici, richiamando da altre regioni torme di operai, i quali poi, finiti i lavori, rimangono sul luogo a crescere la disoccupazione, si avrà un quadro completo delle cause le quali, secondo l’ufficio del lavoro, contribuiscono a mantenere un numero costante ed alto di disoccupati in permanenza in una delle più fertili regioni d’Italia.