Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1957
Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo
Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1957, pp. 202-241
In momenti nei quali molto si sente discorrere di unificazioni, particolarmente fra il partito socialista e quello socialdemocratico, e non paiono venuti meno del tutto gli accenni a colloqui fra socialisti e democristiani, e dai colloqui non desidererebbero forse essere esclusi i comunisti, non pare inopportuno osservare che unificazioni ed intese e patti e colloqui debbono fondarsi su un’idea. Se un’idea, che sia politica e cioè definisca un’azione, non esiste, di che cosa possono discorrere i capi dei partiti per giungere ad un accordo od alla constatazione del dissenso?
Non è agevole tuttavia scoprire l’idea o le idee che uniscono o dividono gli uomini in modo bastevolmente e chiaramente intelligibile; ché la maggior parte delle parole comunemente adoperate sono sovratutto notabili per la mancanza di contenuto. Che è probabilmente la ragione del loro successo; essendo legittimo il sospetto che le parole più divulgate siano state consaputamente od inavvertitamente scelte appunto perché esse sono adattabili a qualsiasi azione il politico deliberi poscia intraprendere, quando abbia acquistato il potere.
In verità, l’idea, anche abbastanza chiaramente enunciata, non basta per se stessa a definire un proposito di azione. I cosidetti punti programmatici, i capitoli ed i paragrafi di un manifesto politico non dicono nulla, sinché non siano tradotti in disegni di legge, forniti di articoli e di commi, senza la lettura dei quali è praticamente impossibile farsi un concetto esatto dei propositi enunciati da chi voglia riformare, innovare o conservare. Se, poi, il disegno di legge non è corredato della segnalazione dei mezzi di copertura della spesa eventualmente richiesta per la applicazione e le proposte le quali non importino spesa sono rarissime e, salvo eccezioni ancora più rare, fraudolente – esso è una mera dichiarazione retorica di voler far qualcosa che al tempo stesso si riconosce non potere o non volere intraprendere.
Giova dire innanzitutto di alcuni concetti o principi ai quali si fa massimamente richiamo nei fogli quotidiani:
«È od era nata una grande speranza», si scrisse nella primavera del 1945 e si ripeté nell’agosto scorso; ma sino a quando non sia chiaro quale fosse o sia il contenuto degli istituti nei quali si doveva concretare e si concreterà siffatta speranza, non si può dare alla sua enunciazione alcun valore, salvo quello di un generico desiderio di meglio. Ma il meglio non si attua col desiderarlo; ma la grande speranza non dà luogo a nulla, se il desiderato rivolgimento non sia definito in proposizioni chiaramente intelligibili.
Usitatissima è altresì la richiesta di “riforme di struttura”; della quale non v’ha forse altra più divulgata; ma è divulgata da coloro, che non potendo o non volendo scendere a particolari, preferiscono tenersi sulle generali e, con non dir nulla, procacciare plauso a sé ed alla propria parte. Le “riforme di struttura” sono richieste principalmente da coloro i quali vogliono “andare a sinistra”. Principalmente, sebbene non sempre, poiché invocano “riforme di struttura” altresì coloro i quali vagamente intravvedono qualche cosa attraverso la nube dei corporativismi cattolico-medievali ovvero fascistici, e quella, più spessa, dei diversi associazionismi, participazionismi, giustizialismi; ma costoro per lo più seggono sui banchi che volgono alla destra o stanno al centro delle aule parlamentari. Le riforme di struttura sono tuttavia popolari sovratutto tra coloro che, sedendo a sinistra, immaginano di volere “rinnovamenti profondi negli ordini sociali”, tali da porre fine ad uno stato che, per essere tacciato di “immobilismo”, è senz’altro reputato dannabile, senza che si spieghi perché lo stare fermi debba essere considerato migliore dell’agitarsi, senza una meta precisa, di quell’agitarsi a vuoto che è spesso, se pur c’è, la sola ragion d’essere del muoversi.
L’immobilismo si confonde spesso, nel linguaggio dei pubblicisti e degli oratori quotidiani, col conservatorismo o col reazionarismo contrapposti al progressismo. Che sono tutte parole alle quali è quasi sempre impossibile dare una sostanza univoca di contenuto. Sono stati invero in passato detti conservatori taluni uomini di stato i quali in Italia cacciarono stranieri, misero fine a regni millenari, mutarono regimi politici, rinnovarono il sistema tributario, attuarono leggi eversive della proprietà ecclesiastica; e reputano se stessi progressisti taluni altri i quali propugnano l’avvento di democrazie dette “progressive”, segnalate come negatrici dell’alternanza al potere dei partiti e delle fedi politiche, a vantaggio della dominazione propria a nome di un proletariato il cui avvento, non si sa perché, dovrebbe rendere inutili le alternanze e perpetuare un nuovo genere, e questo laudabile, di pace sociale perpetua. Sono medesimamente vuote di contenuto definibile le richieste di “ritorno all’osservanza di una rigida morale pubblica e privata” o quella di una “miglior giustizia sociale” o l’altra di “invocazione della pace” od ancora dello sterminio dei “fautori di guerra”. Mere parole le quali richieggono il consenso di tutte le persone bennate e possono essere interpretate nelle più diverse maniere, confacenti ai propositi ed ai temperamenti di uomini i quali non hanno nulla di comune nella loro condotta politica quotidiana. Quando si ascoltano discorsi intessuti di cotali parole, l’esperienza consiglia ad interpretarle nel significato opposto a quello letterale; chi grida giustizia vuole di solito qualche nuova iniquità, chi vuole innovare morali intende interpretare una certa condotta in modo contrario ai comandamenti del vangelo od all’imperativo categorico della morale ordinaria; chi vuole sterminare i fautori di guerra ed instaurare la pace perpetua sta escogitando mezzi per addormentare l’avversario e distruggerlo col minor rischio proprio.
Se certe parole sono dannose perché nessun’azione feconda può seguire al nulla od al vago od all’equivoco, non altrettanto si può dire per i miti dei quali alcuni pochi sono necessari, principalissimo quello della sovranità popolare intesa come sovranità della maggioranza. Per fermo esso non è logicamente dimostrabile; potendo invece sembrare evidente (è evidente quel principio il quale si impone senza uopo di dimostrazione, per l’assurdità del contrario) che debba prevalere l’opinione di chi sa sopra quella dell’ignorante, del buono sopra il cattivo, dell’intelligente sopra lo stupido. Chi distinguerà però gli uni dagli altri? Come impedire che i furbi cattivi ed ignoranti non prevalgano sui buoni e sui sapienti? Altra via non c’è fuor del contar le teste, che è metodo, per sperienze anche recenti, migliore del farle rompere dai più forti decisi a conquistare o tenere il potere. Il mito è valido, nonostante la dimostrazione data da Ostrogorscki, da Mosca, da Pareto, da Michels, da Schumpeter che non avendo gli elettori libertà di scelta – la libertà di scelta è sinonimo di dispersione di voti e quindi di confusione – se non fra i candidati, ed essendo i candidati proposti necessariamente dai capi di gruppi organizzati, detti partiti, la scelta è fatta non dagli elettori, ma dai fabbricanti auto-selezionati di gruppi politici. Il che è vero, ma, di nuovo, quale metodo migliore se non il diritto di tutti i volenterosi di farsi capi-gruppo e di scegliere così di fatto gli eletti? Solo l’educazione politica giova a consentire una scelta non del tutto infelice tra i candidati.
S’intende che, mutando la volontà del popolo sovrano nel tempo, importa ricontare ad ogni tanti anni le teste, per appurare quel che sia di volta in volta la volontà dei più. Il mito dura in Inghilterra dal 1689 e non pare destinato a venir meno tanto presto. Durò in Piemonte e poi in Italia dal 1848 al 1922; e l’incanto cessò soltanto quando un uomo audace disse di aver scoperta una nuovissima dottrina politica detta fascismo, che non si seppe mai cosa significasse; ma ebbe virtù di comando, sino a quando l’uomo provocò forze più potenti delle sue, che lo abbatterono. Il mito risorto nel 1945 dura ancora e durerà sino a quando gli italiani, fatta la triste sperienza contraria, rimangano persuasi che nessun altro mito può sopravanzar quello, tuttoché razionalmente non dimostrabile, del contar le teste.
In passato gli uomini ritennero che altri miti fossero validi ed imperatori e re furono ubbiditi perché “unti dal Signore” o consacrati dalla “grazia di Dio”. Che erano miti anch’essi, accettati dai popoli perché dietro ad essi stavano credenze, abitudini, costumi venerandi, i quali equivalevano al consenso odierno del corpo elettorale. Ma quando si vide che i sovrani consacrati dai miti antichi non operavano Più in maniere conformi al vantaggio ed alla volontà dei più, sorse il nuovo mito, quello della volontà di tempo in tempo espressa dai cittadini viventi, ed i miti antichi caddero.
Il nuovo mito ha un nemico; e son coloro i quali reputano di avere scoperta la verità e ritengono dover attuarla. «La peste de l’homme, c’est l’opinion de sçavoir», scriveva Montaigne (II, 12, p. 541 dell’edizione della Pleiade). E prima di lui, nella Genesi, si legge che nell’elenco dei reietti erano collocati in primo luogo coloro che credevano di sapere: «Eritis sicut dii, scientes bonum et malum» (Genesi, III, 5).
Nei tempi moderni, Gian Giacomo Rousseau spiegò nuovamente la teoria[1] dell’uomo che sa e si fa guida ai popoli (cfr. nel saggio precedente in questa dispensa quarta). Perciò il Rousseau ha insegnato che il governo libero, il governo democratico esige una “guida”. «S’il y avait un peuple de dieux, il se gouvernerait démocratiquement» (III, 4). Solo un popolo di dei può governarsi democraticamente. Non il voto dei cittadini, ma il riconoscimento degli dei dichiara la volontà generale.
A coloro i quali “sanno”, i quali conoscono la “verità” e credono di avere il dovere di attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi conosciamo la verità solo se e finché abbiamo la possibilità di negarla; che il solo criterio della verità politica, come di ogni altra verità, è il diritto illimitato di discutere le regole accettate nel costume o nelle costituzioni scritte, di criticare gli ordinamenti esistenti e gli uomini al potere, di adoperarsi per mutare gli uni e per cacciare gli altri di seggio, il diritto delle minoranze di trasformarsi, in virtù di persuasione, in maggioranze. Nella diuturna battaglia per la conquista del potere politico, i combattenti hanno d’uopo di fare appello a parole d’ordine, a grida di battaglia. Che sono, per lo più, quelle parole prive di contenuto, delle quali si disse sopra; e sono parole che variano di tempo in tempo, di luogo in luogo, e sono ripetute, da uomini di diverse parti politiche, identiche spesso nel suono verbale e differentissime nel sottinteso significato sostanziale.
Se ben si guarda, esiste tuttavia, attraverso il velame delle parole apparenti, un filo conduttore, il quale consente, a chi voglia, di vedere e tentare di orientarsi. Quel filo conduttore è il contrasto, che ad ogni volta vien fuori tra i due principi del “liberalismo” e del “socialismo “. In tutti i partiti, cattolici o democristiani, monarchici, repubblicani, conservatori, progressisti, liberali, radicali, socialisti, laburisti, democratici, qualunque sia il nome assunto a simbolo del partito, due sono i principi che, discutendo di problemi politici, economici, sociali, materiali o spirituali, si contrappongono: l’idea della libertà della persona umana e l’idea della cooperazione o solidarietà o dipendenza reciproca degli uomini viventi in società. Gli uomini, tutti gli uomini, sentono il valore dei due principi ed ora prevale in essi l’uno ed ora l’altro; e se i più sono legati alle tradizioni familiari, all’opinione del proprio ceto sociale, alle amicizie ed alla iniziata consuetudine di voto, esiste sempre in ogni luogo e tempo, là dove le opinioni ed i voti sono liberi, ed una maggioranza fino al 60 % dei votanti è reputata l’optimum della sanità e della stabilità politica, esiste sempre un margine di uomini fluttuanti i quali bastano a dare la vittoria, bastano a trasformare la minoranza di ieri in maggioranza di oggi. Se i progetti tentati ed attuati dei governanti di ieri hanno dato luogo ad un minimo di errori, costoro appoggiano la maggioranza al potere; se si errò nell’operare e se gli sbagli commessi hanno dato luogo a malcontento, il pendolo elettorale oscilla, gli elettori fluttuanti mutano segno e il potere passa dall’un partito ad un altro.
Negli stati stabili le somiglianze tra le due grandi correnti d’opinione sopravanzano di gran lunga le dissomiglianze; ed oggi in Inghilterra, negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi, nella Svizzera, nel Belgio e nell’Olanda, le dissomiglianze fra i due partiti o fra i due gruppi di partiti sono minime; e si riducono a piccole sfumature, rispondenti, più che a differenze sostanziali, a minori modalità di attuazione di principi universalmente accettati.
Non presumo di saper cogliere la più parte delle somiglianze e delle dissomiglianze fra l’idea liberale e l’idea socialistica. Vorrei solo esaminare quali siano le somiglianze e le dissomiglianze tra gli uomini i quali nel nostro paese tendono verso il liberalismo e quelli i quali guardano al socialismo.
Liberali e socialisti sono concordi nel sentire vivamente il rispetto della persona umana; che direi, più semplicemente, il rispetto dell’uomo. I liberali non aggiungono nulla alla parola “uomo”; e sono accusati dai socialisti di essere difensori di una particolare specie di uomo, che sarebbe l’uomo “borghese”. I socialisti vagamente aspirano a liberare un’altra sottospecie di uomo, quello “proletario” dalla schiavitù economica ed incolpano i liberali di volere una libertà puramente “formale” o “giuridica”, e di ignorare la libertà sostanziale, che sarebbe quella “economica”. Se ben si guarda, la dissomiglianza tra gli uni e gli altri riguarda non già il principio della libertà ma quello della “uguaglianza”, che è tutto diverso e deve essere discusso per se stesso. Messi alle strette, gli uomini liberali e quelli socialisti vogliono medesimamente che l’uomo sia libero di pensare, di parlare, di credere senza alcuna limitazione, sono parimenti persuasi che la verità si conquista discutendola e negandola, sono convinti che solo la maggioranza ha diritto di passare dalla discussione alla deliberazione, e di passare a ciò provvisoriamente sino a quando la maggioranza, seguitando a discutere sia mutata, venendo in opinione diversa od opposta. Liberali e socialisti non possono, per principio, distinguere fra uomini aristocratici, borghesi o proletari, cristiani od ebrei o mussulmani, bianchi o gialli o negri. Tutti sono uomini ed hanno diritto a tutta quella libertà di opinare e di operare, la quale non neghi l’ugual diritto di tutti gli altri uomini. I contrasti paiono sorgere quando dal principio di libertà si passa a discutere il principio dell’uguaglianza. Non già che alcuno dichiari mai di essere fautore di una uguaglianza assoluta od aritmetica; non già che esista alcun liberale o socialista pronto a sostenere la tesi che tutti debbano partecipare in quantità identica ai beni della terra. Liberali e socialisti sono concordi nel riconoscere che l’uguaglianza piena del possesso o del godimento è assurda, data la diversità sempre esistita in passato e, fino ad esperienza contraria, destinata a durare in avvenire, fra le attitudini intellettuali, morali, fisiche degli uomini. Non è immaginabile che gli uomini laboriosi o poltroni, risparmiatori o dissipatori, intelligenti o mediocri o sciocchi, muscolosi o fiacchi possano godere di uguale ricchezza o reddito. Astrazione fatta dalla impossibilità pratica di misurare ricchezze, godimenti, felicità e dolori, l’uguaglianza, anche se per miracolo potesse essere instaurata per un attimo, potrebbe durare solo colla forza. Se un capo od un collegio sapientissimo, onniveggente, giusto non usasse all’uopo la forza, l’uguaglianza verrebbe immediatamente meno, non potendosi supporre che l’uomo intelligente, forte, previdente non si giovi delle sue qualità per innalzarsi al di sopra della condizione di coloro che hanno tardo l’intelletto o sono minorati fisicamente o non vedono al di là dell’attimo fuggente. Ma alla forza, anche se la somma del potere spettasse al capo sapiente, puro, incorruttibile, giusto, perfetto, repugnano ugualmente, in nome della libertà, liberali e socialisti, di nulla tanto gelosi come del rispetto alla persona umana.
Se alla “libertà” non si può aggiungere aggettivo veruno, alla “uguaglianza” fa d’uopo forzatamente aggiungere un chiarimento non agevole ad enunciare, il quale giovi ad escludere trattarsi di uguaglianza aritmetica e perciò tirannica.
La formula meno impropria è forse quella della uguaglianza “nei punti di partenza”. Ogni uomo deve essere inizialmente posto nella medesima situazione di ogni altro uomo; sicché egli possa riuscire a conquistare quel posto morale, economico, politico che è proprio delle sue attitudini di intelletto, di carattere morale, di vigore lavorativo, di coraggio, di perseveranza. L’uguaglianza, così intesa, ha innanzitutto un contenuto giuridico universale: nessun uomo deve essere posto dalla legge in condizioni di inferiorità rispetto ad ogni altro uomo, per motivi di sesso, di colore, di razza, di religione, di opinioni politiche, di nascita, di appartenenza ad un determinato ceto o classe sociale. Sull’uguaglianza giuridica non nascono e non possono nascere divergenze fra socialisti e liberali.
L’uguaglianza nei punti di partenza ha altresì un contenuto economico e sociale. L’uguaglianza “giuridica” sancita in Inghilterra dalla Magna Charta, negli Stati Uniti dalla costituzione del 1787, in Francia dagli avvenimenti del 1789 e dalla costituzione del 1791, non è oggi reputata bastevole. Quale è il contenuto sostanziale della uguaglianza giuridica, per chi nasce da genitori provveduti di mezzi decorosi o larghi o larghissimi e il bambino nato tra gli stracci da genitori miserabili? tra colui il quale, essendo nato in una famiglia agiata e colta, può trarre partito dalle opportunità di studio a lui offerte; e chi è costretto, dalla urgenza di provvedere alla sussistenza sua e dei suoi, ad abbandonare anzi tempo le scuole medesime obbligatorie? tra colui il quale dall’eredità del padre o dei congiunti è messo in grado di trascorrere i giorni nell’ozio o, se ha voglia di lavorare, di iniziare la carriera coll’aiuto di amicizie e di relazioni familiari e chi è costretto a darsi a lavori umili o grossolani perché i mezzi familiari non gli consentono di procacciarsi una pur minima istruzione professionale? tra chi può utilizzare presto e bene, le sue, notabili o mediocri, facoltà di intelligenza; e chi, pur dotato di specialissime attitudini scientifiche o inventive, non può, per difetto di adatta istruzione, trarne alcun partito?
Su taluna maniera di porre rimedio alla disuguaglianza nei punti di partenza vi ha sostanziale concordia fra liberali e socialisti ed è per quel che riguarda l’apprestamento – a spese di tutti, e cioè dei contribuenti, ossia, formalmente, dello stato, degli enti pubblici e delle varie specie di opere di bene, coattive o volontarie – di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione aperti a tutti. Scuole gratuite elementari, refezioni scolastiche, opere post scolastiche, borse di studio per i meritevoli nelle scuole medie ed universitarie con pagamento di tasse, sono patrimonio comune alle due tendenze politiche.
Ad uguale sentenza si giunge rispetto a quei provvedimenti intesi ad instaurare parità di punti di partenza tra uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali: contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della maternità, contro la disoccupazione e simiglianti. Anche qui, le divergenze non sono di principio, ma di limiti e di applicazione; né esse dovrebbero dar luogo a dispute insanabili attenendo alla eliminazione delle cause di spreco e di degenerazione delle provvidenze medesime, eliminazione desiderabile a vantaggio massimamente dei beneficati. Non pare che la legislazione italiana sia in questo campo diversa né peggiore di quella di ogni altro paese civile; ed è probabile che il costo, sopportato per dare ai lavoratori sicurezza contro gli eventi sfavorevoli atti a diminuire la capacità di lavoro, non sia inferiore, proporzionatamente ai mezzi disponibili nei diversi paesi, a quello sostenuto in stati celebratissimi per l’avanzamento nella legislazione sociale e nella attuazione del cosidetto stato di benessere (welfare state). Certo ignoro esista una dimostrazione persuasiva del contrario.
Quale è dunque la spiegazione del contrasto fra il consenso soddisfatto di cui si ha notizia per i paesi anglosassoni e le querele italiane? Non certo quella dell’ammontare più tenue delle pensioni e dei sussidi italiani in confronto a quelli inglesi o svizzeri; ché in ogni paese i sussidi debbono essere proporzionati al reddito e al tenor di vita medio locale; e non pare che i benefici assicurativi italiani siano, a questo riguardo, inferiori e forse sono superiori a quelli dei paesi citati e di altri ancora. La insoddisfazione deriva dalla impressione, vera o fondata, dell’eccessivo costo di amministrazione, delle lentezze nel deliberare sul dovuto e sulle sue variazioni. Che non è evidentemente materia di disputa fra liberali e socialisti.
Neppure può essere occasione ragionevole di disputa il contrasto esistente intorno al modo più efficace di congegnare talune specie di assicurazione; rispetto al che non si odono lagnanze per quel che tocca l’assicurazione vecchiaia o invalidità o maternità, che sono fatti determinabili con sicurezza assoluta ovvero accertabili con sufficiente approssimazione. Le critiche sono praticamente limitate all’assicurazione malattie (incluse la tubercolosi e le malattie professionali) per le quali si narra di frodi da parte dei malati e di connivenze di medici. Né le critiche paiono senza fondamento; talché è probabile che il vantaggio per i malati veri sia inferiore, dicesi notabilmente, al costo sopportato dai contribuenti. Le critiche non riflettono tuttavia problemi di principio; ed impongono la disamina degli avvedimenti i quali dovrebbero essere usati per togliere di mezzo frodi e corruttele; risultato che socialisti e liberali concordemente devono perseguire, perché il malamente speso in questo campo vieta di fare altrimenti un sostanziale bene ai bisognosi ed è causa di ingiusto latrocinio a danno dei contribuenti.
Per altro motivo si può essere dubbiosi rispetto all’assicurazione contro la disoccupazione. È divulgata la opinione che il numero apparente, di cui nessuno conosce il significato, dei disoccupati in Italia sia notabilmente diverso dal vero, non tutti gli iscritti negli uffici di collocamento avendo curato la propria cancellazione dopo avere trovato lavoro e non pochi altri figurando senza lavoro solo perché alle ore fissate si presentano per la firma di controllo. Cosa risaputa, intorno alla quale non vi è disputa di principio, ma concordia sulle necessità della eliminazione di indulgenze colpevoli.
Il vero problema sta nella esistenza di un punto critico, sorpassato il quale il sussidio di disoccupazione diventa socialmente dannoso. Nessuno potendo essere costretto ad accettare un lavoro, il quale sia disadatto alle attitudini intellettuali e fisiche del lavoratore o notabilmente degradi la situazione sociale e morale sua, importa che l’ammontare del sussidio sia determinato in maniera siffatta da creare un incentivo nel disoccupato a cercare e ad accettare il lavoro che eventualmente può essere a lui adatto. Se il sussidio si avvicina troppo al salario normale suo, perché egli dovrebbe essere diligente nel cercar lavoro e non troppo sottile nell’accettarlo? La divergenza tra le due parti è di temperamento; i liberali più attenti ai meriti ed agli sforzi della persona sono propensi a tenersi stretti nell’ammontare dei sussidi, laddove i socialisti, meglio misericordiosi verso gli incolpevoli, sono pronti a maggiori larghezze. Né il contrasto è dannoso, perché giova alla scoperta del punto critico, per il quale si opera il trapasso dal bene al male sociale.
La scoperta del punto critico è di gran momento sia per la ragione ora detta, sia e sovratutto per il legame strettissimo esistente fra la politica della disoccupazione e quella dei monopoli di parte operaia; su di che, per non ripetermi inutilmente, mi intratterrò in seguito.
Pure di limiti, e non di sostanza, è il contrasto fra liberali e socialisti rispetto alle imposte.
La progressività delle imposte sul reddito e di quelle ereditarie allo scopo di fornire entrate allo stato e nel tempo stesso di ridurre le distanze fra ricchi e poveri, resecando più sui redditi altissimi in confronto a quelli alti e via via scemando sui redditi mediocri e minimi; e falcidiando, nel momento del trapasso gratuito per successione o donazione, più le grosse che le piccole eredità; è norma accolta oggi in tutte le legislazioni ed i dibattiti vertono sulle modalità e sui limiti di applicazione del principio.
I socialisti, i quali tengono in pregio particolare la uguaglianza, facilmente si persuadono ad esentare le quote minime dei redditi e dei patrimoni; e lentamente avanzando, non rifuggono da tariffe del 50 e del 60% per i redditi giudicati alti dai più ed all’80 o 90 od anche 95 e 98% per le quote di reddito o di patrimonio che all’universale, abituato a vivere tanto più strettamente, appaiono senz’altro superflue o persino insultanti. Chi ha 30.000 lire di reddito al mese – e sono moltissimi – pensa di non poter pagare nulla all’erario e giudica che i provveduti di 50.000 lire possono sopportare un piccolo sacrificio; chi ha 50.000 e paga l’1%, non reputa eccessivo un onere del 5 % per chi ha un salario di 100.000 lire; e così crescendo il 20% non pare eccessivo per chi ha mezzo milione al mese; ed il 40 per chi ha un milione e l’80 per chi ne ha cinque. Forseché il fortunato possessore di un reddito di cinque milioni pur pagando l’80%, non resta con un milione, che è cifra fantasticamente alta per chi sta sotto le 100 e le 50 mila lire? Così, ragionando in punto di uguaglianza, ed invidia aiutando verso chi sta, sia pur di poco, più in alto di noi, si giunge a saggi di tributo altissimi. I quali, agli uomini dal temperamento liberale, appaiono ingiusti per i colpiti e dannosi per l’universale. Essi, pur non avendolo letto, ripetono il ragionamento del Bentham, inventore bensì o riscopritore indipendente, dopo il Galiani, del principio della utilità decrescente delle dosi successive della ricchezza; ed inventore altresì della teoria della progressività livellatrice; ma che, non dimentico dei limiti della progressività, soggiungeva: non dimentichiamo che la progressività è innocua se il reddito è perpetuo e sicuro. Se supponiamo esista un reddito perpetuo di 100, noi possiamo ridurlo a 50, a 20, a 10 ed 1 senza danno; perché il percettore del reddito preferirà sempre l’uno al nulla, e dovrà reputarsi fortunato se lo stato non gli confisca il tutto. Il ragionamento è vano, perché non esistono redditi perpetui. Anche i redditi di terre e di case periscono se nessuno cura la manutenzione ed il rinnovo dei capitali investiti, la terra riducendosi in pochi anni allo stato selvaggio, come l’orto di Renzo Tramaglino, e le case diroccando per le piogge e gli insulti degli abitanti. Nessun reddito, nessun patrimonio nasce o dura se nessuno ha interesse a crearlo ed a conservarlo. Perciò v’ha un limite oltre il quale l’imposta distrugge la propria fonte. Tassate al 95 od al 98% la quota di reddito sopra i 100 milioni di lire; e in pochi anni la quota medesima scomparirà perché i percettori non avranno interesse a conservare, anzi avranno una spinta a consumare il capitale che era produttivo di quella quota di reddito. Lo stato, le cui entrate diminuiscono, sarà perciò indotto a colpire col 95 o col 98% le quote di reddito fra 90 e 100 milioni; e di nuovo, mancando l’interesse a conservarla, quella quota di reddito verrà meno. Bentham e poi De Viti De Marco descrissero la degradazione dell’ammontare massimo dei redditi che è la conseguenza ineluttabile della progressività rabbiosa degli egualitari, sicché tutti saranno uguagliati in basso, e, quindi al termine del processo di distruzione, nessun reddito supererà l’ammontare di quelli ora considerati minimi. A quel punto, avendo la progressività compiuto il proprio suicidio, l’imposta dovrà necessariamente abbattersi su tutti i redditi con aliquote uniformemente proporzionali e feroci. La previsione non può attuarsi, perché l’esperienza presto induce i confiscatori a miti consigli. Ma, osservano i liberali, perché non prevedere la sequenza inevitabile dei fatti e scegliere quel tipo di progressività la quale consenta a tutti, minimi e grandi, di non lasciar degradare il posseduto e non tolga l’incentivo a crescerlo?
Gli uomini dal temperamento socialistico oltrepassano il punto critico della progressività nelle imposte anche perché, contrariamente ai liberali, si sono ficcati in testa una divulgatissima opinione; che oggi il vero problema sociale sia quello della distribuzione della ricchezza, e non più, come in passato, della sua produzione. Opinione, oltrecché strana, manifestamente sbagliata. Può darsi, sebbene dubbia sia la prova, che in un certo tempo passato, che vagamente si suol riferire al medioevo od anche ai secoli dell’assolutismo, fra la controriforma e la rivoluzione francese, gli uomini stessero contenti nella propria condizione e non aspirassero a mutazioni. Oggi, non v’ha alcuno il quale non aspiri al meglio e non invochi una maggior giustizia sociale, il che vuol dire una partecipazione più larga al prodotto sociale totale; e molti ritengono che il fine non possa essere conseguito se non togliendo agli uni per dare agli altri. Ben poca strada si può far tuttavia con siffatto metodo; essendo stato dimostrato ad abbondanza che il trapasso dagli uni agli altri, dai meno ai più, frutterebbe miserevoli e subito spregiati incrementi di benessere alle moltitudini. Il grandioso mutamento nella distribuzione dei redditi dal 1789 ad oggi a prò dei molti ha potuto aver luogo grazie all’aumento ancor più notabile nella ricchezza annualmente prodotta. Se la mutazione sembra piccola, se lo stato di benessere non soddisfa ancora, dobbiamo accagionarne la circostanza che gli uomini hanno cessato di essere, se pur mai lo furono, contenti. I loro desideri crescono di giorno in giorno e diventano diversi e non sono mai soddisfatti. Guai se lo spirito inventivo, le scoperte scientifiche non consentissero di aumentare la produzione! Purtroppo, l’aumento dei desideri, dei bisogni dell’uomo è talmente violento e veloce che a stento i produttori riescono a tenervi dietro. Se la macchina produttiva cessasse di lavorare con accelerazione crescente, ben presto il malcontento crescerebbe a dismisura, con funeste conseguenze per la stabilità politica e sociale. Le richieste di innalzamento nello stato economico dei più non potrebbero essere soddisfatte se ad esse non rispondesse lo sforzo continuo degli inventori, degli organizzatori e dei produttori per produrre sempre maggiori quantità di beni.
Il contrasto fra lo spirito socialistico il quale guarda alla migliore distribuzione e lo spirito liberale volto maggiormente a liberare inventori e produttori dai vincoli frapposti all’opera loro è si contrasto, ma è anche collaborazione nell’opera comune.
La progressività nelle imposte deve dare allo stato i mezzi per fornire alla collettività i beni comuni della sicurezza sociale e della istruzione; sicché, partendo da possibilità non disuguali, gli uomini siano incitati a crescere il prodotto sociale totale. Il problema sta nello scoprire il punto critico del massimo vantaggio per tutti; e certo la scoperta non ha luogo senza contrasto; ma è contrasto di metodi; non è sopraffazione, non è lotta per la distruzione dell’avversario.
L’analisi critica delle somiglianze e dei contrasti fra liberalismo e socialismo o, meglio, fra uomini liberali e uomini socialisti non può trascurare quelle specie di intervento dello stato nell’economia, che hanno preso nome di “dirigismo” o “statizzazione” o “nazionalizzazione”.
Non fa d’uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello stato o di assoluto lasciar fare e lasciar passare e che il socialismo sia la stessa cosa dello stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione. Che i liberali siano fautori dello stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell’assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire “superata” la idea liberale; ma non hanno mai letto nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che esso consista. Che i socialisti vogliano dare allo stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che aborrano dalla tirannia dello stato onnipotente, e tali sono tutti i socialisti.
Liberali e socialisti sono dunque concordi nell’affermare che lo stato deve intervenire, come in tante altre cose, nelle faccende economiche; né può lasciare gli uomini liberi di agire a loro posta, fuor di un qualunque regolamento statale.
In che cosa stia il contrasto proprio delle due specie di uomini, liberali e socialisti, pur concordi sulla necessità dell’intervento dello stato, non è agevole dire; ma, dovendo pur fare il tentativo, dico che l’uomo liberale vuole porre le norme, osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare; laddove l’uomo socialista vuole sovratutto dare un indirizzo, una direttiva all’opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell’operare economico; il socialista indica od ordina le maniere dell’operare. Dico subito che, come per ogni altra distinzione, anche questa non è netta né sicura; ben potendo darsi che anche il liberale in certi casi ordini e diriga ed il socialista consenta a chi opera di muoversi liberamente a suo talento. Il liberale che si contenta di porre cornici e limiti, quando sia avvertito dell’approssimarsi di una grossa tempesta economica, di cui sono sintomi l’aumento dei prezzi, il peggioramento dei corsi della unità monetaria nazionale in confronto alla cosidetta parità dei cambi, il gonfiarsi degli sconti e delle anticipazioni delle banche, ricorre ai rimedi classici dell’aumento del saggio dello sconto e della proporzione delle riserve ai depositi bancari e, dove esiste un largo mercato, alla rarefazione del circolante mercé vendite di titoli pubblici. Il rimedio ha per iscopo di ridurre il ricorso al credito da parte degli imprenditori più arrischiati. Se il prezzo dei capitali cresce dal 4 al 5%, se i dispensatori del credito sono costretti, dalla necessità di destinare a riserva una parte maggiore dell’incremento dei depositi, a scrutare più a fondo la situazione finanziaria dei clienti, ecco operarsi una selezione elastica di questi. Richiederanno minori prestiti coloro che, godendo di un margine di guadagno fra spese e ricavi, quando pagavano l’uso del risparmio al saggio del 4%, vedono per l’aumento del prezzo di quell’uso scomparire o ridursi a zero il margine e fors’anco convertirsi in perdita; ma continueranno a far domanda di prestiti coloro i quali godendo di profitti maggiori, prevedono di lucrare ancora, pur pagando il 5%. D’altra parte, il banchiere preferirà seguitare a far credito ai clienti di tutto riposo, restringendo a poco a poco, con la prudenza necessaria a non far nascere sconquassi, che farebbero macchia d’olio e, propagandosi dall’uno all’altro scrollerebbero pure le imprese sane, il credito alle imprese più avventate o meno salde. In tal modo, lo slancio eccessivo del fare si acqueta; si ristabilisce l’equilibrio fra la massa dei risparmi in cerca di impiego e la richiesta degli imprenditori bramosi di espandere i proprii affari apparentemente ancora redditizi e si evita la corsa alla inflazione monetaria, causa di conseguenze funeste per l’universale e di arricchimenti per pochi.
Coloro che ai mezzi di cornice antepongono l’ingerenza diretta – e sono per lo più gli uomini dalla psicologia socialistica o dirigistica – vedono anch’essi l’approssimarsi della tempesta, sono anche essi persuasi della necessità di salvare l’unità monetaria (lira o franco o sterlina o marco); ma pensano che i freni agli eccessi nel produrre beni che poi non sarebbero richiesti o nel consumare merci a pagare le quali mancherebbero i mezzi, possano convenientemente essere posti da chi ha la responsabilità del governo economico e della pace sociale del paese, e cioè dai governanti, ministri, governatori di banche centrali, capi di partiti e di associazioni di imprenditori, e di lavoratori. Se i cambi esteri crescono e si vedono le importazioni superare notabilmente le esportazioni, crescere le giacenze di merci invendute, subito si pensa doversi correre appropriatamente ai ripari nei punti dolenti. Qual mezzo più ovvio e più rispondente alle esigenze dell’opinione pubblica del vietare o restringere le importazioni delle merci di lusso o reputate futili o non necessarie, del rifiutare il permesso di ampliamento o di nuovo impianto di stabilimenti industriali a coloro i quali intendessero dar nuovo o più largo impulso alla produzione di beni reputati meno urgenti dagli uomini responsabili, del restringere il credito alle imprese situate nelle regioni già prospere e ricche, riservando gli scarsi mezzi alle zone povere e dette sottosviluppate, incoraggiando più l’industria ovvero l’agricoltura, a seconda delle opinioni sul maggiore o minore “interesse nazionale” che si reputa essere proprio delle diverse branche dell’attività economica; restringendo bensì il credito in generale, ma destinando a prezzi di favore una quota apprezzabile del nuovo risparmio alle imprese fornite, a parere dei dirigenti pubblici, di caratteristiche di vantaggio all’interesse collettivo od adatte a promuovere l’aumento del reddito e del benessere nazionale?
Le due correnti sono entrambe rispettabili. L’uomo socialista o dirigista ritiene sia ufficio dei governanti dare indirizzo alla attività economica; addita gli errori, i fallimenti e i danni cagionati dalla libertà illimitata iniziativa concessa agli imprenditori privati; reputa faccia d’uopo dare una regola, fermare un programma che si proponga fini vantaggiosi e ritiene che, grazie al consiglio di uomini tecnici, e periti nelle varie branche dell’attività economica, sia possibile promuovere l’avanzamento della ricchezza nazionale e la migliore sua distribuzione. Gli uomini liberali affermano anch’essi che l’attività economica debba essere regolata; ma sono persuasi che l’esperienza dei millenni e dei secoli dimostra la eccellenza del metodo di cornice. Che cosa sono i codici se non regole obbligatorie di vita? Le norme codificate toccano non solo la famiglia, ma la proprietà, ma le obbligazioni civili e commerciali; ossia pongono limiti, vincoli all’opera dei singoli, i quali possono muoversi solo entro i confini stabiliti dal legislatore. L’uomo liberale non si oppone alla estensione del metodo dei vincoli, delle norme obbligatorie dai campi già regolati dal diritto romano a quello dei rapporti economici e sociali noti nelle età moderne; ma vuole che i vincoli siano uguali per tutti, oggettivamente fissati e non arbitrari.
Ottimi i propositi dei socialisti dirigisti; spesso pessimi i risultati. Quale certezza vi è che i divieti posti dalle leggi a certe attività e gli incoraggiamenti dati a certe altre attività abbiano risultati positivi? Quale probabilità che i vincoli alle importazioni riguardino beni davvero inutili o l’inutilità sia utile sovratutto a produttori intenti a rarefare il mercato ed a rialzare i prezzi? Il credito a buon mercato fornito a certe imprese considerate di pubblico interesse non fa crescere di una lira l’ammontare del risparmio disponibile e necessariamente aumenta il costo delle scarse disponibilità rimaste ai non favoriti. Scemare dal 6 al 3% il costo per le iniziative prescelte per il loro carattere pubblico, non significa forse aumentare dal 6 al 10% il costo del danaro per quelle non favorite? Gli errori degli imprenditori privati possono essere rilevanti; ma se coloro che li commettono non sono aiutati da pietosi interventi statali, l’interesse a non fallire e il più potente incitamento a ridurre gli sbagli al minimo umanamente pratico. Chi ci preserva dagli errori più grossi dei governanti i quali si accollino il compito di dirigere, senza interesse diretto personale, gli affari altrui? Chi invoca l’aiuto del credito a buon mercato, della protezione della concorrenza estera, dei divieti a nuove imprese e nuovi negozi, del numero chiuso dei professionisti? Chi grida contro lo stato insensibile alle sciagure, alle crisi in questo o quel campo? Coloro che conducono da sé a buon fine le proprie imprese o coloro che si sono avventurati imprudentemente in imprese male combinate o avventate e non hanno le attitudini di perizia tecnica e di prudenza economica atte a risanarle e a farle prosperare? Il dirigismo socialistico di sostanza, invece di quello liberale di cornice, non significa scelta da parte dei dirigenti pubblici di quel che si deve fare e delle persone incaricate di fare? Non vuol dire scelta delle assegnazioni di materie prime e di cambi esteri, preferenza nelle concessioni di prestiti in base all’esperienza passata? La scelta, così operata, appare bensì oggettiva ed imparziale, evita la taccia di favori politici; ma ha il gravissimo vizio di incoraggiare le attività le quali possono non rispondere alle richieste attuali dei consumatori e di favorire sopraproduzioni di merci non richieste; e di scoraggiare le iniziative nuove, le industrie progredienti, le quali possono fare appello non ai bisogni del passato, ma a quelli dell’avvenire. Il socialismo dirigistico cristallizza, il liberalismo è elastico; il dirigismo favorisce gli interessi costituiti, il liberalismo minaccia i beati possidenti ed incoraggia gli uomini nuovi. Non occorre supporre nei dirigisti alcuna propensione all’arbitrio ed alla corruzione. Il meccanismo medesimo della scelta dall’alto macina costi alti e profitti non meritati per i privilegiati. L’uomo liberale, pure prestando omaggio alle buone intenzioni dell’uomo socialista, conclude che la sua via conduce assai più sicuramente alla selezione dei capaci, alla preferenza data a chi guadagna ed al fallimento di chi perde; ed è garanzia di maggior produzione e di prosperità per tutti, con innalzamento delle moltitudini, senza distruggere, in misura dannosa, l’incentivo ai migliori. La soluzione dirigistica appare agevole e pronta. Partono gli ordini dai capi politici e debbono essere eseguiti. Forseché, nel primo istante, l’esecuzione non partorisce lavoro e non distribuisce salari e profitti? E poi? Se la strada scelta era sbagliata, se i favoriti, se gli aiutati politici non rispondono alle speranze – e quali probabilità vi sono perché la scelta dei concessionari pubblici sia buona? – alla lunga prevalgono i costi alti, e cioè la produzione scarsa, generatrice di salari bassi ripartiti non equamente fra le moltitudini che volevansi innalzare. Il metodo liberale è certamente duro e penoso, ed è sempre provvisorio, ché le norme poste dalla legge sono frutto dell’esperienza e debbono essere rivedute ad ogni esperienza nuova. Esso è oggettivo, imparziale; pone regole di scelta, non sceglie. Non favorisce nessuno e fa prevalere quelli che meglio sanno scegliere la via del successo, entro i limiti dei vincoli uguali per tutti. È implacabile verso coloro i quali non osservano le norme poste dalla legge all’operare dei singoli; non manda al muro o in Siberia i favoriti statali sfortunati; ma lascia fallire senza remissione coloro che, scegliendosi da sé, non hanno le qualità necessarie per resistere.
Si può talvolta essere ragionevolmente dubbiosi sul più o meno di regolamento coattivo proprio a talune specie di attività economica. Le norme relative al regolamento dei contratti a termine, nelle borse valori e degli acquisti a rate di abitazioni, vetture automobili, frigoriferi, apparecchi radio e televisione, mobilio di casa, ed altri oggetti di uso in generale, hanno dato, a cagion d’esempio, occasione a vivaci dibattiti. Di quando in quando, nei più diversi paesi di tipo occidentale, l’opinione pubblica dei politici e dei pubblicisti si allarma perché le borse sono più attive del solito, i corsi delle azioni salgono rapidamente ed attorno ai soliti agenti di cambio e speculatori periti nel mestiere si affollano i gaglioffi timorosi di giungere in ritardo nel comprare alle punte massime titoli dubbi o sballati e prossimi al crollo. Ovvero negli Stati uniti ed in Inghilterra si allarma perché gli acquisti a rate di ogni sorta di cose si moltiplicano e minacciano inflazione di credito e crisi di produzione per il giorno vicino in cui i consumatori dovranno restringere i consumi quando i redditi disponibili oggi saranno assorbiti in proporzioni eccessive dal pagamento delle rate per il rimborso dei debiti vecchi. Non v’ha dubbio che i dirigenti del tesoro e degli istituti di emissione debbono intervenire a calmare la febbre speculativa da cui è colpito il pubblico e per evitare crolli e crisi imminenti. L’intervento deve limitarsi agli avvedimenti tradizionali? rialzo dello sconto ed aumento delle percentuali obbligatorie delle riserve? Se la febbre è generale, se essa non si manifesta soltanto nelle borse o negli acquisti di cose, ma è estesa a tutti od a molti rami dell’attività economica, pare ragionevole applicare a tutti i medesimi freni, consentendo che essi agiscano imparzialmente contro coloro i quali danno i segni più acuti della pazzia universale. Che se invece gli invasati sono massimamente i soliti minchioni preoccupati di non arrivare in tempo ad arricchirsi sull’aumento dei corsi delle azioni di moda ovvero consumatori ansiosi di indebitarsi a rate per godere subito qualche nuovissima marca di automobile o il recentissimo gingillo inventato per risparmiare fatica nel cucinare in fretta, marca e gingillo di cui si stuferanno altrettanto subito, può darsi sia ragionevole applicare un freno particolare all’impazzimento specifico. Se, in queste circostanze, constatate sul serio e cioè non in seguito alle strida del solito minchione che si è bruciate le dita a comprare titoli, di cui ignora tutto, salvo che ne ha sentito parlare bene dal compare o dalla donna di casa impaziente di acquistare, senza danari e senza margini di reddito, un inutile apparecchio per lavare biancheria, i responsabili monetari aumentano, dal 20 al 50 e poi all’80% la percentuale del contante da versare subito all’atto dello acquisto della azione fasulla o dell’inutile aggeggio il provvedimento dovrà forse dirsi affetto da dirigismo socialistico? Esso non deve essere senz’altro condannato come illiberale, solo perché specifico e non generale. Nei limiti del suo particolare, il provvedimento non è volto contro l’individuo perché costui ha nome Mevio e non Sempronio, Sempronio e non Tizio; ma è generale per tutta una categoria, non è parziale ed arbitrario; ed evita il peccato capitale del dirigismo che vuol fare o far fare quel che ai capi talenta.
Un problema grosso, che avventuratamente si comincia a discutere anche da noi è quello della lotta contro i monopoli. L’uomo liberale, non alieno dalle reminiscenze storiche, si compiace innanzitutto nel ricordare che non i socialisti, salvo forse il non classificabile e ribelle Proudhon, non Marx, ma l’economista Cournot analizzò teoricamente il contenuto del monopolio nettamente opposto alla concorrenza; ma, venendo ai metodi di lotta, in primo luogo osserva che molti, forse i più dei monopoli di fatto traggono origine dall’opera dello stato, dal dirigismo economico antico ed accettato. Che cosa, se non i dazi protettivi, i contingenti di importazione, le restrizioni di valuta, i permessi per nuovi impianti, maggiormente favorisce il monopolio dei produttori nazionali? Sopprimete o riducete i dazi, fate venir meno i contingenti ed i permessi all’importazione e le connesse limitazioni nell’acquisto della valuta necessaria alle importazioni di merci e voi avrete posto fine ad una delle specie di arbitrio e talvolta di corruzione che più aduggiano la vita politica ed amministrativa dei paesi liberi; ed avrete tagliato alla radice il fondamento stesso del monopolio. La libertà di importare una merce dall’estero, da qualunque paese estero, rende ardua la vita del monopolista. L’uomo liberale tristemente constata che questo, che è il primissimo dei rimedi contro il monopolio, è il men popolare di tutti; e che nella lotta contro il nemico numero uno della libera iniziativa, quel che meno si invoca è il ritorno alla libertà. Egli però non commette l’errore di immaginare che l’opera restrittiva e dirigista dello stato sia la sola causa del monopolio; e volentieri riconosce che, aperte le frontiere, aboliti i vincoli alla creazione, accanto alle antiche, di nuove imprese concorrenti all’interno, qualche monopolio persisterà nel procacciar danno al paese; ma reputa che, a prò delle tenebre monopolistiche, giova sovratutto il segreto dei conciliaboli dirigisti. Egli è scettico sull’opera dei consigli e comitati incaricati di fissare prezzi pubblici che tengono conto delle esigenze opposte dei produttori e dei consumatori; ha scarsissima fiducia nella attitudine dei collegi di uomini detti periti incaricati di stabilire prezzi equi o di equilibrio; prezzi determinati talvolta non soltanto nei massimi, ma persino nei minimi. Egli è persuaso che siffatti collegi – di cui pare esista un campione insigne in Italia corrente sotto il nome di Cip o comitato interministeriale prezzi – siano una invenzione diabolica immaginata dai furbi allo scopo di saldare il giogo del monopolio al collo del consumatore paziente. In quei collegi di uomini, dotti nella equità e nella giustizia dei prezzi, chi parla, chi persuade? Coloro che offrono dati inoppugnabili di costi, desunti dai libri sicuri di produttori. Ma quale è l’impresa tipica, se non quella che vive al margine della produzione; quella che sarebbe eliminata dalla riduzione dei prezzi? Essa è la sola che possiede libri fededegni; ed essa, aiutata dai rappresentanti dei lavoratori minacciati di licenziamento, è quella, i cui dati sono tenuti in gran conto. Chi dei politici potrebbe non tenerne conto?
Perciò l’uomo liberale non bada ai tanti Cip creati a salvaguardia dei consumatori in Italia ed altrove e reputandoli i più sicuri alleati dei monopolisti, volge gli sguardi altrove. Pur non presumendo di additare “il” rimedio, ha una certa tal quale fiducia nel comando rivolto ai dirigenti di società anonime e in accomandita per azioni, di cooperative, di enti pubblici economici, di dare amplissima pubblicità ai proprii conti patrimoniali e di esercizio. Società ed enti siano obbligati a pubblicare periodicamente ed almeno una volta l’anno, documenti nei quali si dia notizia particolareggiata del prodotto lordo, delle varie categorie, ben specificate, di spesa, dei salari, degli ammortamenti fatti, degli indebitamenti verso privati e banche ed enti, degli investimenti in edifici, macchinari, scorte; degli investimenti in azioni, obbligazioni, partecipazioni in altre aziende, in mutui ed aperture di credito, con l’obbligo, per ogni specie di azioni o titoli o partecipazioni, di indicare la specie, il numero, il prezzo unitario di acquisto, la cifra iscritta in bilancio per ogni azione o titolo e nel complesso; ed ognuno abbia diritto di acquistare a prezzo determinato i rendiconti particolareggiati ed intelligibili. Per fermo, nemmeno così il potere dei monopolisti verrebbe senz’altro meno; ma sottoposto allo scrutinio dei concorrenti e dei censori indipendenti – e qualcuno esiste mosso da amor della cosa pubblica ed altri si farebbero innanzi non foss’altro perché la critica economica diventerebbe una professione stimata ed accreditata e normalmente e giustamente remunerata – perderebbe parte delle sue attitudini a sopraffare altrui. Conoscendo i fatti, sarebbe possibile proporre adatti rimedi; ed i divieti di coalizione, accordi e patti dannosi alla collettività ed ai consumatori potrebbero essere concepiti in maniera chiara, siffatta da offrire ai giudici strumenti preziosi di sentenze ponderate ed efficaci.
Poca cosa – opina l’uomo socialista – e di poco effetto contro i monopolisti davvero potenti. Fa d’uopo togliere di mezzo la causa del male, espropriando i monopolisti e nazionalizzando l’impresa. Che per essere monopolistica dimostra, per la natura sua medesima, di essere dannosa ai più, perché, cercando il monopolista di conseguire l’utile netto massimo, sceglie le quantità ed i prezzi i quali sono adatti ad ottenere lo scopo. Prezzi diversi e più alti e quantità minori di quelle date dalla libera concorrenza. Lo stato eserciterà, in regia diretta ovvero per mezzo di enti intermediari pubblici o di società anonime o cooperative concessionarie, l’impresa in regime di monopolio, allo scopo, invece che di ottenere il lucro netto massimo, di coprire i costi. L’uomo socialista, in ubbidienza al precetto di sostituire all’ideale del profitto privato quello del servizio pubblico, si prefigge di nazionalizzare i mezzi di produzione in generale; ma volendo procedere gradualmente, senza convulsioni rivoluzionarie e distruzioni rapide di intiere classi sociali, dà inizio alla mutazione della struttura capitalistica, coll’abbattere il male del profitto là dove esso è universalmente riconosciuto dannoso perché al profitto normale si aggiunge il profitto di monopolio.
Partendo da questa premessa, in Italia si sono nazionalizzate le ferrovie, gran parte delle banche, assai imprese di gasometri e di illuminazione elettrica, i più degli acquedotti, le più grosse imprese di navigazione, siderurgiche e meccaniche ed una miscellanea varia di cose alle quali, dovendole accogliere nell’ospedale detto Iri, si è dato l’attributo monopolistico. In Inghilterra si sono nazionalizzate, non fortuitamente, sibbene dopo lunga discussione, le ferrovie, le miniere, l’elettricità ed il gas; e si erano nazionalizzate le imprese siderurgiche, che poi furono restituite ai privati, sì come in parte è stato rivenduto e si continua a rivendere il parco automobilistico per trasporti di cose, collegato con le ferrovie statali.
Anche alla tesi della lotta contro il monopolio a mezzo della nazionalizzazione, l’uomo liberale non muove obbiezione di principio; e quando ne sia bastevolmente dimostrata la convenienza, propugna l’esercizio statale di talune particolari imprese. Del proposito attuato nel 1885, di nazionalizzare le ferrovie, fu invero fautore noto e valoroso Silvio Spaventa, uomo liberale se altri mai; e nei trattati della scienza finanziaria la ferrovia era noverata da antica data quasi pacificamente, da studiosi non addetti alla psicologia socialistica, tra i casi tipici di impresa nazionalizzata o da nazionalizzare.
Se il favore verso le ferrovie di stato è scemato negli ultimi tempi, la occasione del mutamento di opinione è nota: il persistente saldo passivo dei conti delle ferrovie statizzate. L’esperienza sfortunata si può dire propria di ogni paese, ad eccezione forse delle ferrovie federali svizzere, per le quali si lamenta da molti però l’altezza inusitata delle tariffe. Quale sia il disavanzo ferroviario italiano è mal noto; lamentando i dirigenti di dovere compiere molti servigi gratuitamente o sotto costo, per divulgatissimo abuso di concessioni a titolo gratuito a personaggi privilegiati, per trasporti di cose a sottocosto a favore di questa o quella industria o regione, per obblighi politici di operare linee improduttive; ma si sa che il disavanzo esiste ed è invincibilmente crescente, e se appare di non molto inferiore o superiore ai cento miliardi di lire, questa è una lustra, perché nel conto esercizio non figurano interessi ed ammortamento del capitale “antico” ed i criteri di calcolare le annualità di ammortamento del capitale vivo sono probabilmente disformi ed inferiori al vero.
Le ragioni del minor favore per le nazionalizzazioni o statizzazioni o socializzazioni come mezzo di combattere il monopolio privato sono varie. La prima è la constatazione della difficoltà somma o quasi impossibilità di abolire in siffatta maniera il profitto di monopolio. Nei rendiconti delle imprese economiche pubbliche non sono frequenti i saldi attivi atti a remunerare normalmente i capitali investiti; e se vi sono, importa scrutare se essi non siano fallaci, la remunerazione figurando decente solo perché i capitali da tempo investiti sono valutati in unità monetarie antiche, laddove occorrerebbe continuamente ricostituire il capitale al valore di sostituzione in unità monetarie attuali. I politici ed i pubblicisti ogni giorno, contemplando le cifre delle perdite, gagliardamente favellano della necessità di amministrare le imprese pubbliche, al pari delle private, con criteri economici, agili, alieni dalle lentezze burocratiche e dai defatiganti controlli delle ragionerie e delle corti dei conti. Ma son fole; ché le imprese pubbliche non possono essere amministrate se non in conformità alla loro indole propria; che è quella della pubblicità, della casa di vetro, del controllo parlamentare, della responsabilità ministeriale. Lo stato non può non essere imparziale, non può consentire differenze fra impiegato e impiegato; fra cliente e cliente; lo stato non può assumere impegni se non esistono stanziamenti in bilancio, non può pagare se non osservando certe formalità. Se operasse come il privato, il quale risponde a se stesso o contratta per telefono o su parola, lo stato non sarebbe più tale e sarebbe spalancata la porta agli abusi ed alla corruzione.
Perciò i profitti di monopolio nelle imprese pubbliche hanno nome di aumenti di costo; e sono inevitabili. Dove necessariamente fan d’uopo controlli e rendiconti e gerarchie ed organici, i costi aumentano senza colpa di nessuno. Agli aumenti necessari di costo si aggiungono i costi politici. Come tener testa alle pressioni dei disoccupati giovani provveduti di titolo di studio, di coloro che, avendo nei gradi inferiori paghe insufficienti ai bisogni della crescente famiglia hanno diritto ad una carriera? Così gli organici si gonfiano; le sezioni, le divisioni, le direzioni generali, i servizi si moltiplicano per scissiparità; i capi si lagnano diuturnamente per la mancanza di personale. Ma il personale continuamente ingrossa, perché nessun impiegato inetto o svogliato può essere cacciato di seggio; le leggi sullo stato giuridico vietando non soltanto di licenziare ma anche di punire leggermente chi non sia colpevole, per sentenza di giudice, di delitti meritevoli perlomeno dell’ergastolo. Nel sistema del monopolio privato il profitto è un saldo netto, eccedente il costo e può giovare a nuovi consumi od investimenti; nel sistema delle imprese pubbliche, il profitto è probabilmente maggiore che nel caso del monopolio; ma assume la forma di sovracosti, destinati a mantenere operai, impiegati, dirigenti esuberanti. A uomini liberali ed a uomini socialisti si pone ugualmente la domanda: tra i due tipi di profitto, quale è peggiore?
Nel sistema del monopolio privato, il danno sta nel ridurre la quantità di beni prodotti e nel crescere, a danno dei consumatori, il prezzo di quelli venduti. Nel sistema della impresa pubblica, il danno della scarsità dei beni e del prezzo alto non pare venga meno e vi è qualche probabilità che i prezzi siano, a badare alla sequenza temporale delle cifre, forse più alti; e si aggiunge il danno di stornare uomini e cose a favore di occupazioni richieste bensì da ragioni amministrative o politiche, ma socialmente ed economicamente inutili.
L’uomo liberale afferma: rendiamo abolendo dazi, contingenti, restrizioni e divieti e imponendo pubblicità, la vita dura e, se occorrerà, con procedure giudiziarie ed obbligatorie frantumazioni in imprese concorrenti, come oggi si tenta negli Stati uniti, e si comincia a ritenere possibile in Inghilterra, durissima la vita ai monopolisti. L’uomo socialista replica: in tal modo si combatte la minutaglia dei monopolisti, non i grossi. Per gli alti papaveri si impone il taglio delle cime, la espropriazione. La gestione collettiva, forse più costosa, forse meno produttiva, si impone politicamente, per sottrarre lo stato dal dominio delle oligarchie economiche.
Ma l’uomo liberale ha altrettanta e forse maggior paura delle oligarchie economiche pubbliche che di quelle private. Queste possono essere battute in breccia dall’opinione, dai giornali, anche da uno solo. Gli uomini monopolisti invecchiano e muoiono; gli oligarchi privati possono corrompere, ma resistono male alle critiche degli uomini indipendenti, talvolta aiutati dai gruppi politici interessati a scalzare altri partiti accusati di essere manutengoli degli oligarchi. Esiste una possibilità di lotta e di vittoria dell’interesse generale. Chi invece combatte le oligarchie pubbliche? Se una impresa ha l’aureola di essere amministrata da funzionari pubblici, da amministratori statali, chi oserà combatterla, chiedendone il ritorno alla gestione privata? La vendita di attività statali a privati è fatto, per rarità, maraviglioso; e fu mirando il ritorno delle ferriere e delle acciaierie britanniche nazionalizzate alla gestione privata. Nessuno obbiettò in Inghilterra alla perfetta regolarità del ritorno; ché nessuno suppose avvenissero collusioni e corruzioni nelle vendite avvenute secondo il comando della legge. In altri paesi il ritorno sarebbe reso impossibile dal mero sospetto di favoritismi nelle vendite. L’oligarchia pubblica, quando esiste, è di fatto incrollabile; e diventa uno stato nello stato, assai più potente di una qualsiasi oligarchia privata. All’uomo liberale l’oligarchia pubblica governata da uomini politici potenti e difesa da giornali detti indipendenti appare perciò assai più spaventosa delle oligarchie private. Se un partito riesce a trincerarsi nei fortilizi di qualche impresa pubblica, disponendo dei fondi e della clientela ad essa connaturati, chi mai potrà liberarsene?
A scemare il favore sentimentale del quale godevano le nazionalizzazioni allo scorcio del secolo passato ed all’inizio di quello odierno ha contribuito il contrasto tra le ambizioni ed i risultati. Si volevano frenare i prezzi, abolendo i profitti; ma in nessun luogo si poté osservare l’esistenza dell’auspicato calmiere. I confronti tra i prezzi antichi ed i prezzi nuovi, tra i prezzi nei paesi e nelle città a regime privato ed in quelli a regime pubblico sono difficili e quasi sempre fallaci; ma ad una conclusione certa pare si possa giungere: che, pur tra le difficoltà dei paragoni di monete cangiate, di mercati diversi, di consumi diversi, non fu offerta sinora una plausibile prova che la nazionalizzazione abbia recato beneficio ai consumatori.
Né poteva avvantaggiare i lavoratori, che era il secondo ideale perseguito dai suoi fautori. Crebbe, per le ragioni predette, il numero degli addetti alle imprese nazionalizzate; ma fu chiarito dianzi che l’aumento è dannoso alla cosa comune, perché cresce il numero delle braccia e degli intelletti occupati a vuoto e diminuisce la torta destinata ad essere divisa fra tutti. La remunerazione media degli impiegati e degli operai delle imprese pubbliche, divenne superiore in genere, almeno in Italia, a quella degli impiegati statali propriamente detti – ed in ciò soltanto l’impresa pubblica tende scioltamente ad imitare quella privata – ma rimase inferiore, pure generalmente, a quella dei dipendenti delle imprese private. Essi sono, bensì, in posizione privilegiata, rispetto ai dipendenti privati, per quanto ha tratto alla possibilità di premere politicamente sull’ente pubblico; ma poiché la pressione a prò del numero è forte ed un tal quale riguardo per i contribuenti è pur inevitabile, le agitazioni per l’aumento delle paghe individuali battono contro il freno del coram latronem vacuus cantabit viator, dove il viator è il tesoro dello stato. Il dipendente non osa per lo più affermare, per tema di provocare le risa universali, che le sue richieste sono giustificate dall’aumento nella produttività netta dell’opera sua; ostano le notizie di saldi passivi della più parte delle imprese pubbliche. I lavoratori privati, all’argomento comune ai lavoratori pubblici, del rialzo del costo della vita, aggiungono spesso quello della loro produttività cresciuta, che si dimostra con i dati forniti dai saldi attivi medesimi delle imprese. Non è meraviglia perciò che i lavoratori organizzati nelle leghe inglesi diano prova di mala soddisfazione per lo scarso o nessun vantaggio ottenuto dalle cosidette conquiste nazionalizzatrici e nei congressi delle leghe e del partito laburista la rivendicazione di nuove nazionalizzazioni sia di fatto posta in non cale, pur inserendola, per ossequio rituale, nei programmi di avvenire. I capi laburisti paiono andare affannosamente alla cerca di qualche formula nuova, atta, in quel paese di discussione, a volgere a loro prò le simpatie degli elettori; e tra quelle formule non ha luogo, se non per ricordo storico,
la nazionalizzazione.
Il minor favore odierno per le socializzazioni si spiega ancora con l’essere non di rado venuta a mancare la motivazione principale a favore del passaggio dal regime privato a quello pubblico[2], che è l’esistenza del monopolio. Il quale se c’è, meglio si combatte, ripetesi, dalle richieste dell’uomo liberale che dal falso rimedio della nazionalizzazione; ma accade talvolta che, dopo essere sul serio esistito, il monopolio scompaia. Come accade oggi in misura notabile per le ferrovie, battute in breccia dalla concorrenza dei mezzi automobilistici, i quali hanno nuovamente creata in ampie zone quella situazione di concorrenza che parve venuta meno nella seconda metà del secolo scorso e, dopo lunghe serie discussioni, fu causa le ferrovie fossero assunte sul continente europeo e, poscia anche in Inghilterra, dallo stato. Gli avanzamenti tecnici si fecero beffa del ragionamento che aveva persuaso alla statizzazione, ripristinando la concorrenza e spesso viva concorrenza nei trasporti terrestri. Ed oh! con meraviglia per l’uomo socialista ma non per quello liberale, ecco le ferrovie di stato farsi subito nemiche della concorrenza, dei nuovi mezzi di trasporto; ed invocare restrizioni all’uso libero della strada ordinaria, classificazioni delle vetture e dei carri automobili in categorie, le une libere e le altre sottoposte a regimi di licenza, sedicentemente rivolte a garantire l’incolumità del pubblico, degli utenti ed in realtà intese a mantenere artificialmente in vita quel monopolio pubblico ferroviario, noverabile oggi tra i nemici più pericolosi dell’erario, che dissangua, e del pubblico a cui tenta di negare l’accesso a rapidi e men costosi servizi. Con danno dell’impresa pubblica ferroviaria, che se della concorrenza libera della strada fosse spinta a rinnovarsi, a restringere i suoi servigi a quelli per i quali essa oggi indubbiamente è sovrana, acquisterebbe nuove benemerenze. I dirigenti ferroviari probabilmente sono pronti a reggere all’urto; ma il monopolio statale, aiutato dalla forza della legge e dalle pressioni elettorali, non consapevoli del proprio interesse vero, si dimostra ben più forte e più pericoloso dei monopoli privati i quali, minacciati da nuove invenzioni, sono costretti dal rischio della bancarotta a rinnovarsi o perire.
Tra l’uomo liberale e l’uomo socialista v’ha, a proposito del monopolio, un altro, sebbene non necessario, contrasto di opinione. Quando l’uomo socialista (o laburista o, nelle sue sottospecie deteriori, corporativista, giustizionalista e simigliante varietà in -ista) pensa ai monopolisti, il pensiero è ristretto ai monopoli detti capitalistici. Non si ha, invero, notizia di disegni di legge o di proposte o di campagne promosse dai socialisti contro i monopoli operai; non cadendo in mente ad essi che le leghe, o sindacati di lavoratori possano dar luogo a monopoli degni di essere controllati od osservati, al par dei monopoli detti capitalistici, per il danno che possono recare alla collettività.
Eppure non v’ha ragione di escludere che leghe, sindacati od associazioni di lavoratori possano formare monopoli in tutto simili a quelli degli imprenditori. Gli istituti della assicurazione contro la disoccupazione e della piena occupazione, quando superino il punto critico, sono invero arma potentissima per creare e saldare monopoli operai; ed in primo luogo l’assicurazione contro la disoccupazione. Se l’ammontare del sussidio contro la disoccupazione è tale che il lavoratore preferisca l’ozio al lavoro od il lavoro nascosto, o per frode non denunciato e non smascherato, al lavoro ufficialmente noto, quale probabilità vi è che il salario degli occupati sia quello di mercato, che si verificherebbe se non esistesse il sussidio artificioso dato a coloro che prediligono vivere senza faticare? Quale limite vi è all’aumento delle remunerazioni, se esiste un meccanismo, grazie al quale le leghe operaie possono affrontare i rischi dello sciopero senza svuotare normalmente le loro casse di resistenza, perché l’onere di mantenere gli scioperanti è posto a carico delle casse di disoccupazione? È vero che queste sussidiano solo i disoccupati involontari; ma si può negare il sussidio a chi diventa disoccupato e, formalmente, disoccupato involontario, perché in industrie collegate manca la materia prima, perché il disoccupato può essere, anche con scarso o nessun aiuto della propria lega mantenuto da familiari, i quali, percependo il sussidio pubblico di disoccupazione, non trovano mai di loro gusto l’albero del lavoro a cui impiccarsi. Se poi, in virtù della politica della piena occupazione la percentuale dei disoccupati scende all’1%, ossia al di sotto di quel 3 o 4% della popolazione lavoratrice che l’esperienza dimostra necessaria per assicurare la mobilità del lavoro, ossia il trasferimento dei lavoratori dalle industrie decadenti a quelle progressive, qual limite vi è alle richieste delle leghe monopoliste? Se la legislazione sui minimi di salario fissa minimi siffatti da cancellare l’interesse dei lavoratori, contenti della sorte garantita dal minimo, a mutare stato, a cercare nuove e migliori occupazioni; non si provoca la cristallizzazione sociale e non si distruggono gli incitamenti a salire ed a migliorare?
Ma, nel mondo degli uomini socialisti, esistono idoli che si chiamano unità della classe lavoratrice, conquiste di orario unico, conquista di diritti all’organico, vincoli alle migrazioni interne, diritto al posto, diritto alla occupazione, divieti di licenziamento, che in linguaggio volgare, equivalgono a monopolio di coloro che sono forniti di occupazione ed obbligo dello stato di sussidiare e dar mezzo di vita a coloro che dalle leggi e dall’opera delle leghe sono privati di occupazione.
Tutto ciò vuol dire aumenti inutili di costo, diminuzione della produzione, riduzione della capacità di esportare, difficoltà di importare, creazione di miseria. Ma l’uomo socialista adora gli idoli popolari e l’uomo liberale è peritante nel denunciare monopoli supposti vantaggiosi ai lavoratori.
In verità, la lotta contro i monopoli dei lavoratori è ardua forse più di quella contro i monopoli degli imprenditori; ma la difficoltà di affrontare il problema non toglie il dovere di affermarne la esistenza. L’uomo liberale confida sovratutto, per diminuire le azioni monopolistiche delle leghe operaie, nell’osservanza della norma di ragione, la quale dice che scioperi e serrate sono ugualmente liberi, e sono punibili soltanto gli atti di violenza fisica e morale intesi a limitare la libertà di lavoro propria dell’uomo. Egli opina che lo strumento più efficace per assicurare all’uomo la libertà di lavorare o di non lavorare sia la pubblicità data ampiamente a tutti quei fatti ed atti, i quali intendono a limitare l’entrata nelle professioni, negli impieghi e nei lavori, creando privilegi a favore di coloro che già vi attendono o richiedendo diplomi, iscrizioni, appartenenze a corpi od associazioni; unica esigenza essendo l’attitudine, di fatto e non di diritto, ad adempiere all’ufficio preferito. Perciò l’uomo liberale è nemico nato delle restrizioni poste a chi vuole emigrare all’estero o muoversi liberamente all’interno; e non considera l’appartenenza per domicilio o residenza ad un dato comune o la iscrizione ad una associazione o lega qualsiasi condizione necessaria per essere ammesso a lavorare.
L’uomo socialista rende istintivamente omaggio ad idoli i quali si chiamano organizzazione operaia, imponibili di lavoro, diritto di preferenza per categorie di lavoratori, come mutilati, reduci, prigionieri di guerra, disoccupati locali e ubbidisce così a sentimenti umanitari, i quali rendono testimonianza del suo buon cuore; ma non guarda abbastanza ai risultati economici di maggior costo i quali derivano dall’attuazione dei suoi propositi sentimentali.
Allo scopo di creare posti di lavoro e di migliorare la distribuzione del reddito l’uomo socialista si fa patrono di leggi a favore della piccola proprietà e delle piccole e modeste imprese industriali e commerciali, vuole accelerare il frazionamento della terra, con espropriazioni a prezzi politici, con aperture di credito a basso interesse e con contributi statali; pone al principio della progressività delle imposte fini diversi da quello del più corretto e fecondo sopperimento delle spese pubbliche non esitando perciò talvolta a propugnare la estensione del concetto della progressività dalle persone alle cose, dal reddito complessivo netto del contribuente al reddito della cosa singola, terra od impresa, sicché le cose piccole paghino scarso tributo, perché piccole, e le cose grandi (particolarmente latifondi fondi terrieri e grosse case di vendita al minuto) paghino tributo alto, perché grosse o colossali. Talvolta, l’animus socialista lo ammonisce, ricordandogli le pur predilette nazionalizzazioni e socializzazioni, le quali male si confanno all’apologia ed al sovvenimento del piccolo contadino proprietario, dell’artigiano e del bottegaio simboli vivi dell’iniziativa individualistica; ma, se si discosta dai corporativisti medievaleggianti perché egli non predilige il piccolo in sé stesso, trae conforto alla sua compassione osservando che il “suo” piccolo è anche sociale; e ne auspica la vittoria sui grandi mercé lo strumento dell’associazione, delle cooperative di produzione, di acquisto, di lavoro e di consumo.
L’uomo liberale non è nemico della progressività, ma reputa che riguardi le persone e non le cose; e nota che la cosa grossa può essere frazionata fra centinaia e migliaia di proprietari e la cosa piccola può appartenere ad una persona dai redditi vistosi; ed addita nel metodo italiano della tassazione del reddito medio ordinario della terra il mezzo per tassare fortemente i proprietari neghittosi e incapaci i quali non sanno far fruttare la terra almeno quanto fa il buon padre di famiglia, e colpire nel tempo stesso lievemente i proprietari laboriosi e capaci, i quali sanno far rendere alla terra più di quel reddito medio che è oggetto di imposta. L’uomo liberale è persuaso che nelle culture arboree ed in quelle fini dell’orticoltura, delle piante industriali e della floricoltura, il coltivatore piccolo e modesto più del grosso riesca a superare il reddito medio; plaude all’imposta più lieve, che sia frutto non di privilegio ma dell’opera diligente del coltivatore; ma non vede perché debba essere sovratassato il grande coltivatore che, colla intraprendenza coraggiosa, coll’impiego di capitali imponenti, colla perizia riesce ad ottenere prodotti siffatti da consentire a lui giusto compenso ed ai contadini condizioni di vita, quali essi non sarebbero in grado mai di conquistare sui frustoli di terra ereditati, acquistati od anche elargiti a basso prezzo dallo stato.
L’uomo liberale ricorda, rispetto alle cooperative, che nessun sviluppo di esse si ebbe che sia stato più rigoglioso di quello proprio dell’epoca del liberalismo classico, quando nell’Inghilterra vittoriana nacquero le cooperative di consumo e diedero origine alle grandi cooperative all’ingrosso, oggi colonne del laburismo, o nell’Italia degli uomini della destra detta conservatrice, dei Luzzatti, dei Raineri, dei Buffoli, dei Wollemborg, e dei socialisti come Baldini o Massarenti si ebbe una fioritura di casse rurali, di banche popolari, di cooperative di lavoro, e di consumo quale dopo non si vide più; ma ricorda altresì che alla radice dei trionfi cooperativi si ebbe sempre un uomo, un apostolo, che sacrificò se stesso, la speranza e quasi sempre la certezza della fortuna privata alla causa l’aveva entusiasmato giovinetto ed all’avanzamento economico e morale dei suoi compagni non sempre riconoscenti. Perciò l’uomo liberale è scettico sull’avvenire delle cooperative predicate e volute dai politici, sussidiate e regolate dallo stato e non crede che la fortuna dei lavoratori possa grandeggiare sul terreno della elemosina forzata da parte dei contribuenti.
L’uomo liberale aborre dai vincoli alle migrazioni interne, dalle restrizioni poste al diritto dell’uomo a cercar lavoro in qualsiasi luogo a lui piaccia, agli obblighi imposti ai datori di lavoro di occupare tanti e tali lavoratori, di tale o tale altra specie preferita quanti possono essere fissati d’autorità; ed è convinto che con siffatte provvidenze dette sociali o corporative non si provveda se non a ridurre il prodotto delle imprese e quindi a crescere la miseria e la disoccupazione.
Il confronto fra il comportamento dell’uomo liberale e quello dell’uomo socialista non è limitato ai problemi sociali propriamente detti. Nel campo dei lavori pubblici il liberale si preoccuperà sovratutto di scegliere, fra le tante desiderate, quelle opere le quali offrano modesti vantaggi diretti monetari e quindi non attraenti per i privati, ma invece promettono frutti principalmente indiretti ed apprezzabili perciò solo dallo stato; quelle opere le quali siano necessarie ed utili a promuovere ed incoraggiare le iniziative private, ma i privati non hanno alcun interesse ad intraprendere; quelle le quali sono la condizione per l’approntamento dei beni comuni di godimento della collettività intera; laddove l’uomo socialista darà, pur tenendo conto dell’interesse pubblico generale, la preferenza, nelle zone di disoccupazione, ai lavori pubblici atti a creare occasioni di lavoro, senza troppo preoccuparsi del rendimento netto, monetario ed indiretto, di essi. L’uomo liberale preferirà invece sussidiare il disoccupato, nei limiti nei quali il sussidio non favorisca l’ozio ed il monopolio delle leghe, piuttostoché fargli compiere lavori, i quali siano fine a se stessi e richieggano, oltrecché di mano d’opera, spreco di materie prime ognora limitate in quantità e di capacità direttive ed organizzative ancor più rare.
Nel campo dell’istruzione, liberali e socialisti concordano nel volere la massima estensione dell’istruzione con borse di studio e di post studio ai giovani sprovveduti di mezzi proprii, purché volenterosi e capaci; ma i primi sono contrari al monopolio della scuola di stato, negano valore legale ai diplomi scolastici; laddove i secondi veggono di buon occhio la uniformità dell’insegnamento particolarmente elementare e medio, reputando essi che le attitudini dei giovani possano meglio affermarsi, indipendentemente dallo stato di coltura e di fortuna dei genitori se a tutti, poveri, mediocri ed agiati, siano fornite le medesime opportunità di studio; e non sia dato ai figli dei ricchi di frequentare scuole singolari per valentia di insegnanti, per perfezionati metodi pedagogici od anche solo per comunanza di estrazione sociale degli scolari.
Non giova seguitare l’elenco, il quale non è limitato, come qui si fece, ai problemi economici e sociali; poiché su ogni problema morale, religioso, educativo, familiare, nazionale od internazionale, i due principi, della libertà della persona e della cooperazione degli uomini viventi in società, costringono l’uomo, che è uno solo, ad essere a volta a volta e nel tempo stesso, liberale e socialista; o più l’uno o più l’altro, a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro principio.
La tesi esposta nel presente saggio non è probabile accolga largo consenso tra i politici ed i pubblicisti, ai quali giova configurare tipi più nettamente contrapposti, storicamente definiti da circostanze accidentali e secondarie, circostanze dalle quali nacquero talune che si potrebbero chiamare “costellazioni politiche” o riunioni di tenuti insieme da tradizioni di luogo, di famiglia, di appartenenza a un dato ceto sociale, da ideologie più o meno chiaramente o confusamente apprese, da virtù di propaganda, da vantaggi ottenuti o sperati e dal cemento della macchina od apparato od organizzazione, che sempre nasce e via via si rafforza non appena la “costellazione politica” ha superato i primi e più labili momenti della sua vita. A poco a poco, nasce il mito del partito, e, col mito, il suo “credo”, destinato a diventare programma, atto a dar nome alle azioni degli uomini viventi in società. Ed accade anche che, tenendosi le assise dei grandi partiti in Italia, da quello democristiano a quello comunista e poi a quello socialista, i particolari problemi, dei quali si fece cenno nel presente saggio, o non furono toccati o di sfuggita appena accennati; sicché i contrasti fondamentali, quelli che appassionano e muovono i popoli, appaiono altri e, per il rumore da essi suscitato, più generali e più solenni. Sia consentito star fermo nell’opinione che quando si passi dall’enunciazione dei supremi principi a quella delle tesi legislative, vien fuori il contrasto fondamentale fra le due esigenze della libertà dell’uomo e della necessaria cooperazione fra gli uomini associati; e dal contrasto nascono le due tendenze che ho detto liberale e socialistica. Vogliamo dare ad esse altre denominazioni? Ben vengano, se saranno meglio significative e chiare. Frattanto, in mancanza di parole più appropriate, continuerò a dire che i due uomini o le due tendenze spirituali proprie dell’uomo intiero sono bensì in contrasto; ma è contrasto fecondo e creatore.
I due uomini, pur avversandosi, non sono nemici; perché ambedue rispettano l’opinione altrui; e sanno che vi è un limite all’attuazione del proprio principio. Ambe le specie di uomini sanno di collaborare ad un’opera comune, esaltando al massimo a volta a volta il principio della libertà umana o quello della necessaria collaborazione degli uomini viventi in società; e sanno di essere capaci di vivere ed operare se e finché sono decisi a tollerarsi a vicenda.
La stabilità politica e sociale è minacciata solo quando venga meno il limite; e l’uomo liberale rinneghi stoltamente la necessità della collaborazione degli uomini viventi in società o l’uomo socialista neghi il diritto dell’uomo a vivere diversamente dal modo che egli abbia dichiarato obbligatorio.
Parve che negli ultimi decenni del secolo scorso in taluni paesi, e massimamente negli Stati uniti, fosse nato l’uomo libero da ogni vincolo legislativo, pronto alla conquista dei beni della terra, nato per dominare i proprii simili e per renderli schiavi della propria signoria economica sociale e politica. Diventarono famosi i nomi dei Vanderbilt, dei Carnegie, dei Rockefeller, dei Morgan e si parlò molto di re di reami economici sterminati. Fu una breve meteora, resa possibile dal fatto che nessuno era costretto a farsi schiavo dei nuovi signori. La terra era aperta ai nuovi venuti e sembrava illimitata. Non appena, verso la fine del secolo scorso, il limite fisico comparve, venne meno il diritto illimitato dei signori potenti; e lo stato sopraggiunse a porre vincoli, a dettare leggi di cornice regolatrici dell’attività privata; sicché oggi l’equilibrio tra le due diverse concezioni della vita, quella liberale e quella socialistica, appare negli Stati uniti, se non perfetto, quello che ha consentito un incremento del reddito nazionale e nel tempo stesso una siffatta meno diseguale sua distribuzione, che in nessun altro luogo, salvo forse nell’oasi svizzera, appaiono emulati.
Anche l’uomo socialista può varcare il limite sino ad attuare, come accade in Russia, pienamente il principio dell’abolizione della proprietà privata e del trasferimento allo stato dei mezzi di produzione. A questo punto, il contrasto fra l’uomo liberale e l’uomo socialista non è più sui particolari; su tendenze, sul più o meno di cornice o di dirigismo, sui limiti del fare dei singoli e su quelli del fare dello stato. L’abisso diventa di principio ed è invalicabile. L’uomo liberale non ignora che taluni gruppi di uomini monaci conventuali, apostoli della cooperazione, ebrei palestinesi viventi oggi in comunità terriere – sono vissuti dall’antichità ad oggi e vivono volontariamente in società comunistiche perfette, nelle quali sono comuni i mezzi di produzione; ed è regolato, secondo criteri concordemente accettati, il consumo dei beni prodotti. L’uomo liberale plaude ad esperimenti condotti secondo regole diverse da quelle ordinarie; e non esclude anzi augura che dagli esperimenti nascano nuovi tipi forse più alti di vita associata. Ma aborre da tutto ciò che è coattivo; e come fu nemico alle corporazioni di arti e mestieri obbligatorie dei secoli XVII e XVIII e contribuì alla loro abolizione e poi difese e fece trionfare il diritto alla libertà di coalizione, di sciopero e di lavoro, così oggi è contrario al socialismo o collettivismo o comunismo obbligatorio; essendo convinto che la proprietà coattiva e piena dei mezzi di produzione da parte dell’ente pubblico (comunque sia la denominazione sua di stato, di proletariato, di lavoratori, di contadini o altra ancora) non è compatibile con la libertà dell’uomo.
È vero che il pensiero è libero anche se la persona fisica langue nelle segrete del carcere; è vero che i martiri liberamente rifiutarono di prestare omaggio alla divinità dell’imperatore; ma è vero anche che la libertà pratica di operare, di discutere, di eleggere e di licenziare i magistrati chiamati a governare la nazione è negata di fatto quando gli uomini dipendono tutti, per il procacciamento del pane quotidiano, da un unico datore di lavoro. Il nome dato all’unico distributore dei mezzi di vita, sia esso lo stato proletario o lo stato degli eletti per grazia di Dio o per virtù di sangue, non ha importanza. È decisivo il fatto che gli uomini sono servi di chi comanda, di chi è riuscito ad afferrare la somma del potere e può negare ad essi i mezzi di vita. Lo stato degli eletti può assumere nome di stato comunista; e la sua legge regolatrice si legge in certi libri sacri, che si dicono del marxismo o del materialismo dialettico. Ma il nome può essere altro. Se l’uomo socialista, giunto al limite degli interventi statali nella gestione economica della produzione, sostituisce in tutto alla proprietà privata quella collettiva dei mezzi di produzione, in quel momento egli dichiara la sua irreconciliabile nimicizia alla libertà medesima. Il nome assunto di socialista ovvero di comunista, la ideologia accolta a spiegazione storica o dottrinale del sistema sociale non montano. Il liberale è nemico del socialismo o comunismo integrale perché sa che, quando una volta la proprietà collettiva di tutti i mezzi di produzione sia stata decretata, agli uomini, per la loro indole propria riluttanti a continuare volontariamente e singolarmente l’esperimento, sarà vietata, nonostante rivolte sanguinose, ogni possibilità di sottrarsi alla tirannia.
Epperciò l’uomo liberale non può attendere che l’attuazione dell’ideale socialista sia giunta al limite; perché in quel momento la libertà di opporsi e di mutar rotta sarebbe venuta meno. Principiis obsta. Ogni passo compiuto sulla via che va dalla legislazione di cornice a quella dirigistica è un passo verso la perdita della libertà. Nessuno può dire in generale quale sia il punto critico, al di là del quale si affaccia il pericolo; il punto in cui l’allargamento della zona egualitaria minaccia la esistenza medesima della libertà dell’uomo. Certo è che un punto critico, diverso da tempo a tempo, da paese a paese, esiste.
Sembra che, nell’Italia d’oggi, il punto critico sia stato superato, in virtù di una combinazione, non nuova, e di cui non mancano esempi nella nostra storia contemporanea, di dirigismi, demagogico da un lato e plutocratico dall’altro. L’Italia economica resiste e tuttora avanza, in virtù quasi esclusivamente della meravigliosa attitudine ad arrangiarsi di cui gli italiani sono provveduti.
Anche quando il punto critico sia stato toccato, la lotta tra gli uomini devoti ai due ideali liberale e socialistico non è destinata ad attenuarsi, ed è lotta necessaria e feconda; ché, se fa d’uopo che l’individuo sia libero di raggiungere massimi di elevazione individuale, è necessario anche che la gara si compia non coll’abbassare tutti al livello comune, ma coll’elevare i minori a livelli sempre più alti; ché se è vantaggiosa l’elevazione dei singoli, questa non può giovare, se non si apprestino quei beni comuni di istruzione, educazione e sicurezza sociale senza i quali l’elevazione dei singoli avrebbe luogo con disuguaglianza eccessiva a vantaggio dei più forti. L’optimum non si raggiunge nella pace forzata della tirannia totalitaria; si tocca nella lotta continua fra i due ideali, nessuno dei quali può essere sopraffatto senza danno comune. Solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a vittorie ed insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere.
[1] Il libro fondamentale sulle fonti della teoria fu scritto da J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, Secker and Warburg, London 1952
[2] Preferisco usare la terminologia “regime pubblico” a “stato”, per non cedere alla vanità delle dispute intorno al significato delle socializzazioni, nazionalizzazioni, statizzazioni. Molti, i quali veduta la esperienza infelice delle imprese gerite dallo stato, immaginano di uscire dal pasticcio, affermano che si tratta non di statizzare, che è cosa sospetta e mal vista, ma di nazionalizzare o socializzare. Sono queste dispute verbali, alle quali non si sfugge, se non si definisca con precisione l’ente a cui si vuole affidare l’impresa pubblica, le garanzie di indipendenza del potere politico, le regole di formazione delle tariffe e dei prezzi, gli obblighi di pareggio dei bilanci, la pubblicità minuta dei conti ecc. Che sono esigenze non assurde, sebbene ardue, ad attuarsi; ma sono volentieri ignorate dai soliti predicatori di riforme di struttura.