Di una proposta surrogatoria alla imposta di successione
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1923
Di una proposta surrogatoria alla imposta di successione
«Rivista bancaria», 1923, pp. 197-210
Anche in estratto: Milano, Associazione bancaria italiana, 1913, pp. 1-16
La proposta, sorta negli ambienti commerciali e finanziari italiani, di sostituire un’imposta surrogatoria a quella di successione per i titoli mobiliari pone problemi importanti i quali meritano di essere separatamente chiariti e discussi. Con le pagine seguenti non intendo di arrivare ad una conclusione ma soltanto di indicare quasi siano gli elementi di discussione per un’eventuale riforma legislativa.
Premesse tacite della proposta
È premessa fondamentale della proposta l’abbandono assoluto delle nominatività obbligatorie dei titoli mobiliari. L’abbandono è ormai avvenuto per legge e non è piccolo merito dell’attuale ministro delle finanze di aver fatto cessare lo stato d’incertezza in cui ci trasciniamo da anni, perché i governi non osavano prendere una deliberazione precisa sia nel senso di conservare sia nel senso di abbandonare il principio della nominatività.
Oramai l’unica giustificazione della nominatività, che era quella fiscale, è venuta meno ed è da augurarsi siano abbandonate, perché tanto meno gravi e plausibili, anche le altre ragioni economiche e moralistiche le quali venivano invocate a giustificare il principio abbandonato. Concetto, che sembra altresì abbandonato, è quello della nominatività coatta, intendendosi per nominatività coatta quella la quale si ottiene non per comando di legge ma per interesse dei contribuenti pressati da imposte non lievi, le quali colpiscono il titolo al portatore e lasciano il titolo nominativo.
Nella nostra legislazione fiscale esistono, come è ben noto, due imposte le quali hanno lo scopo di spingere i portatori di titoli verso la nominatività: di cui la prima è la differenza nell’aliquota dell’imposta di negoziazione sui titoli nominativi che è oggi, salvo errore, compreso il 15% dei mutilati, il 2.30 per mille circa per i titoli nominativi ed il 4 per mille circa per i titoli al portatore.
È vero che una spiegazione, la quale si potrebbe definire di fonte amministrativa, di questa differenza direbbe che essa ha per scopo di tener conto della circostanza che i titoli al portatore sono più mobili e si trasmettono più frequentemente dei titoli nominativi, e poiché la tassa di negoziazione è una surrogatoria della tassa di registro sui trasferimenti a titolo oneroso, essa dev’essere più elevata per i titoli al portatore che si trasmettono più frequentemente invece che per i titoli nominativi più lenti nella loro trasmissione. Ma la spiegazione amministrativa urta contro parecchie obbiezioni:
1) Sarebbe in primo luogo sommamente arduo dimostrare che, in realtà, la frequenza dei trasferimenti della grande maggioranza dei titoli al portatore delle 10.000 società per azioni italiane sia più elevata della frequenza dei titoli nominativi. Si pensi che il grosso blocco dei titoli al portatore appartiene alle società di pochi azionisti, talvolta di un solo azionista, i quali hanno appunto convertita la propria azienda in società per azioni per ragioni fiscali; e tengono perciò i titoli al portatore. Ma i trasferimenti di questi titoli sono rarissimi; mentre le Società si lamentano del fastidio loro arrecato dalle continue iscrizioni al nome e susseguenti trasformazioni al portatore, le quali sono indice quasi certo di avvenuto trasferimento di azioni nominative.
2) Ripugna alla natura dell’imposta surrogatoria trattare più benignamente i cespiti patrimoniali perché si trasferiscono poco frequentemente; anzi fu creata, ad esempio, la surrogatoria imposta di manomorta appunto allo scopo di equilibrare il carico fiscale sui beni di manomorta, i quali si trasferiscono rarissimamente in confronto con gli altri beni appartenenti a privati e più facilmente trasmissibili.
3) L’obbligatorietà del versamento agli azionisti della differenza delle due aliquote delle due tasse di negoziazione dimostra che il legislatore volle per l’appunto conseguire l’effetto di spingere i possessori verso la nominatività.
Oggi, in seguito alle querele delle Società infastidite dalla noia che questi rimborsi d’imposta loro arrecavano, si è, col R.D. 18 marzo 1923 soppresso l’obbligo del rimborso, ma ciò è accaduto per pura ragione di esperienza, rimanendo ferma la spiegazione che della differenza si deve dare. Anzi, di questa spiegazione è data autorevole conferma nella relazione preposta all’anzidetto decreto, dove si legge che il rimborso della differenza ai possessori era stato imposto «allo scopo di invogliare la conversione dei titoli al portatore in nominativi». Oggi, venuto meno l’obbligo del rimborso, l’interesse al titolo nominativo sarà delle società, come tali, allo scopo di pagare minore imposta; ma rimane tale.
Un’altra imposta, quella del 15% sugli interessi e dividendi sui titoli al portatore è esplicitamente un’imposta la quale ha per scopo la nominatività coatta.
La creazione di una nuova surrogatoria vera e propria all’imposta di successione implica l’abbandono delle due imposte (differenza dell’1.70 per mille di tassa di negoziazione ed imposta del 15 per mille sugli interessi e dividendi) le quali avevano per scopo la nominatività coatta. Difatti si presume di poter escogitare un tributo il quale renda inutile l’applicazione dell’imposta successoria. Se questa non è più ordinata dalla legge ai possessori di titoli mobiliari, cessa senz’altro ogni frode all’imposta stessa. Quindi non è più necessario con le due accennate surrogatorie e con la conseguente nominatività coatta difendersi dalla frode ad un’imposta già abolita.
Lo stesso ragionamento, si può ripetere per l’imposta patrimoniale e per quella complementare sul reddito.
Ammesso il principio che si possa escogitare una surrogatoria ad un’imposta personale, come è quella successoria, il principio vale per tutte le imposte personali. Superata l’obbiezione della premessa della nominatività per la tassa di successione, l’obbiezione medesima resta superata per le altre due imposte personali e per tutte quelle altre, le quali potessero essere create in avvenire. Epperciò, la nuova surrogatoria dovrebbe venire alla luce contemporaneamente all’abolizione della differenza fra le due aliquote della tassa di negoziazione – la quale dovrebbe essere ridotta ad un’aliquota solo uguale alla minore delle due – ; e dell’imposta del 15% sugli interessi e dividendi.
La forma tecnica della nuova surrogatoria
Autorevoli scrittori e rappresentanze commerciali propongono che la nuova surrogatoria all’imposta di successione prenda la forma tecnica di un’imposta del 5% all’anno, sul reddito dei titoli mobiliari.
A questa forma del nuovo tributo si possono fare alcune obbiezioni. In primo luogo sembra inutile di creare un tributo sul quale si differenzia dalla tassa di negoziazione, la quale, ridotta ad un’aliquota unica, dovrebbe continuare a esistere. Non si vede il motivo perché si debba continuare nell’andazzo di creare continuamente nuovi nomi d’imposta quando in sostanza si tratta sempre di diversi aspetti della medesima imposta. Se esiste una surrogatoria, ad esempio, ed arrotondando le cifre, del 2 per mille, per le negoziazioni a titolo oneroso, perché la surrogatoria per i trasferimenti a titolo gratuito dovrebbe prendere tutto un altro aspetto, e cioè quello del 5% sul reddito?
Ciò avrebbe come risultato di creare un’amministrazione speciale, uffici, registri, valutazioni, accertamenti diversi, con un costo della Finanza, con fastidio dei contribuenti e senza nessun risultato tangibile. Sembra più opportuno che alla esistente tassa di negoziazione ad aliquota unica, nella ipotesi del 2 per mille, si aggiunga una surrogatoria per la imposta di successione del 2 o 3 per mille organizzata nella medesima maniera. Alla conclusione di cui sopra si arriva altresì, riflettendo che l’imposta surrogata o di successione non colpisce il reddito ma bensì il capitale cadente nelle successioni e non si vede la ragione perché la surrogatoria debba ispirarsi a un altro concetto. Tanto meno poi l’imposta surrogatoria di successione deve cadere sul reddito in quanto così operandosi verrebbero ad essere immuni dalla surrogatoria o meno tassati da essa alcuni cespiti che dovrebbero essere colpiti o più tassati dalla imposta surrogatoria di successione. Accenno ai titoli mobiliari i quali non hanno reddito o hanno reddito molto tenue e tuttavia hanno un rilevante valore capitale perché i mercati capitalizzano le prospettive di reddito futuro o gli accantonamenti a riserva, i quali preludiano ad incrementi futuri di dividendi.
È vero che le due surrogatorie di negoziazione e di successione avrebbero, in parte, una materia imponibile differente, in quanto che la tassa di negoziazione colpisce la più gran parte delle carature delle società commerciali in accomandita semplice ed in nome collettivo, che non dovrebbero essere colpite dalla surrogatoria di successione non essendovi alcuna difficoltà a tassarle colla imposta di successione propriamente detta; ma questa difficoltà dovrebbe eventualmente fornire una buona occasione per abolire la eteroclita inclusione delle carature nel campo imponibile della tassa di negoziazione.
Le carature, le quali sono sempre al nome, possono essere colpite con tutta facilità dalla imposta di registro ordinaria e così sul trasferimento effettivo. Se esse furono soggette alla tassa di negoziazione ciò fu per pura comodità fiscale ossia per il desiderio della finanza di scegliere quella forma di tassazione che essa riteneva più elevata; criterio incongruo il quale dovrebbe essere abbandonato, per seguire invece l’altro secondo cui identica materia imponibile deve essere soggetta a identica tassazione.
La nuova surrogatoria di successione si differenzia altresì dalla surrogatoria perché essa dovrebbe colpire anche i depositi a risparmio ed a conto corrente delle banche, degli istituti e delle Casse di risparmio. In fondo però non trattasi di difficoltà vere e proprie perché già accade oggi che la medesima imposta colpisca alcuni cespiti in determinati casi ed altri in altri casi. Il parallelismo delle due surrogatorie non può essere turbato da queste piccole differenze e risponde al concetto di trattare con surrogatorie analoghe cespiti che si dichiarerebbero esenti da imposte cadenti in ambedue i casi su valori capitali.
Applicabilità della surrogatoria
Quando si sia ammesso il principio della surrogatoria non se ne può, a priori, restringere l’applicazione alla sola imposta di successione. Le medesime difficoltà le quali sono addotte per mutare il metodo di tassazione sui titoli mobiliari in un caso valgono anche per tutti gli altri casi di imposte personali.
I titoli al portatore sfuggono non solo alla tassa di successione ma anche alla patrimoniale ed all’imposta complementare sul reddito ed a qualunque altra imposta la quale si modelli su questi tipi. Fa d’uopo perciò dimostrare, non la necessità di applicare la surrogatoria alla patrimoniale ed alla complementare sul reddito, ma la ragione per cui si voglia escludere per queste due imposte personali – e mi limito col discorso a queste due perché l’una esiste e l’altra di esse non ancora vigente è regolata da un decreto la di cui applicazione è soltanto sospesa – l’applicazione della surrogatoria.
Eliminazione dell’applicabilità all’imposta patrimoniale
Esistono ragioni per escludere l’applicazione della surrogatoria all’imposta patrimoniale straordinaria. Così come è organizzata l’imposta patrimoniale si riferisce ad una data fissa ormai trascorsa e sarebbe molto difficile di far coincidere i periodi di tempo della surrogatoria con l’attimo di tempo della patrimoniale. Tra imposta surrogata ed imposta surrogatoria vi dev’essere una certa comparabilità per le date e per la materia imponibile; comparabilità che nel caso dell’imposta straordinaria vigente in Italia è esclusa.
Rispetto all’imposta straordinaria patrimoniale fa d’uopo notare che l’applicazione di essa costituisce uno sfregio evidente alla giustizia tributaria. I titoli di Stato pagano già sotto forma di riduzione di valore corrente e di svalutazione monetaria un’imposta patrimoniale quale non fu assolta da nessuno degli altri cespiti di ricchezza.
La perdita patrimoniale subita dai titoli di Stato può facilmente dimostrarsi raggiungere i del valore ante guerra per i vecchi titoli che esistevano nel 1914 e giungere a percentuali altissime anche per i titoli emessi posteriormente ma prima del gennaio 1920; giustizia vorrebbe che nella liquidazione dell’imposta straordinaria si facesse perciò astrazione dai titoli di Stato.
Parecchio potrebbe dirsi se qui si volesse discutere di proposito della convenienza di incoraggiare ad ogni modo il riscatto dell’imposta patrimoniale; concedendo detrazioni per i titoli il cui valore abbia subito falcidie più sensibili fino al momento del riscatto, pubblicando tabelle di valutazione dei terreni con valori moderati e con diritto a riduzioni forti per coloro i quali si decidono al riscatto, concedendo altresì il diritto di riscatto per le case il cui reddito sia stato assoggettato a revisione non più tardi dell’1 gennaio 1920 sulla base della capitalizzazione del 5% dei redditi imponibili netti da imposta.
L’imposta straordinaria è un ingombro fiscale e come tale va eliminata al più presto possibile col vantaggio fiscale di accelerare i pagamenti in questi primi anni che sono i più duri per la finanza pubblica. Non sarebbe evidentemente opportuno di complicare l’assetto della nuova imposta surrogatoria, la quale dovrebbe essere permanente, per un riguardo alla patrimoniale la quale è destinata a scomparire al più presto possibile. Tutt’al più di surrogatoria alla patrimoniale si potrà parlare quando, scomparsa l’attuale patrimoniale, si voglia istituire un’imposta straordinaria permanente sul tipo di quella che era congegnata nel disegno di legge Meda.
La surrogatoria e l’imposta complementare sul reddito
L’abbandono della nominatività dei titoli e la difficoltà somma di escogitare espedienti i quali facciano ottenere il medesimo scopo della nominatività fanno sorgere dubbi gravissimi intorno alla convenienza di istituire una complementare globale sul reddito. Essa verrà alla luce cogli stessi difetti che si imputano all’imposta di successione: se si pensa che una complementare sul reddito si distingue dalle imposte reali sul reddito esclusivamente perché essa tiene calcolo del reddito complessivo del contribuente e può, per conseguenza, graduare le aliquote a seconda dell’ammontare del reddito e concedere detrazioni per carichi di famiglia in relazione appunto a questo ammontare, si pone il quesito: qual valore hanno le ipotesi fatte dal legislatore quando sia pacifico che una fortissima percentuale dei redditi derivanti da titoli al portatore sfuggono all’accertamento?
Progressività e detrazioni diventano istituti privi di giustificazione razionale, nulla vietando che redditi più elevati siano accertati per la mancanza dei titoli al portatore in cifre assai inferiori alla realtà o non siano accertati affatto e godano quindi di aliquote basse, di esenzioni e detrazioni che a essi non spettano.
È vano chiudere gli occhi dinnanzi a questa verità fondamentale: che la progressività e la detrazione suppongono un accertamento esatto dei redditi ed ove questo per la esistenza di imponenti masse di titoli al portatore sia escluso, anche la progressività e le detrazioni diventano prive di significato.
Il solo mezzo per costruire un’imposta complementare sul reddito complessivo è in regime di titoli al portatore l’accertamento presuntivo dei redditi, ossia l’accertamento fondato sulla considerazione degli indizi esteriori di reddito: come sarebbe il tenore di vita, l’importanza dell’appartamento, il valore delle assicurazioni dei mobili, il godimento di villini, di palchi a teatro, l’uso di vetture automobili e di impiego di più o meno numerosa servitù. Ma se la finanza si trova ridotta al metodo presuntivo di accertamento non vale meglio abbandonare la finzione priva di contenuto sostanziale di un’imposta complementare sul reddito, ed attenersi alla forma ben più logica e sincera di un’imposta sulla spesa complessiva quale chi scrive ha auspicato[1] e quale, dopo essere stata elaborata dalla Commissione reale per la riforma dei tributi locali, fu accolta nel disegno di legge Soleri sullo stesso argomento.
Se si accogliesse il concetto di un’imposta di questo tipo cioè di un’imposta sulla spesa complessiva, più razionale dell’imposta complementare sul reddito e feconda di risultati economici e finanziari migliori, verrebbe meno la necessità della surrogatoria, perché tutto il reddito del contribuente verrebbe ad essere accertato non coll’accertamento diretto soggetto alla lacuna dei titoli al portatore, ma coll’accertamento indiziario dei titoli di spesa, per il quale diventa indifferente l’origine del reddito ed inutile la sua ricerca, badandosi non al momento in cui il reddito entra nell’economia del contribuente, ma al momento in cui ne esce per essere consumato.
Ove a questa soluzione razionale non si voglia giungere e si voglia applicare la imposta complementare sul reddito complessivo secondo i metodi i quali all’incirca furono elaborati nei disegni di legge e decreti Meda-Tedesco-Soleri, la necessità d’una surrogatoria si imporrebbe allo stesso titolo ammesso per l’imposta successoria e varrebbero in tal caso per l’una e per l’altra imposta le considerazioni fatte qui di seguito. Sarebbe del tutto illogico applicare la surrogatoria per un tributo e non per l’altro, quando ambedue si ispirano ai medesimi concetti di tassazione personale e quando per ambedue sorge la medesima difficoltà di accertare il valore capitale o il reddito dei titoli al portatore.
Determinazione dell’aliquota della surrogatoria
È ignorato in base a quali elementi le associazioni commerciali e gli scrittori favorevoli al nuovo tributo, abbiano messo innanzi l’aliquota del 5% sul reddito dei titoli mobiliari come surrogatoria dell’imposta di successione.
Già fu detto sopra che l’imposta surrogatoria non dovrebbe essere stabilita in ragione di reddito ma in ragione di capitale per renderla esigibile con le stesse norme e dalla medesima amministrazione, la quale oggi è preposta alla esazione della tassa di negoziazione. Il calcolo il quale dovrebbe essere istituito sembra sia il seguente: constatare il peso totale che l’imposta successoria farebbe gravare sull’ammontare probabile dell’annualità dell’imposta successoria. Supponendo ad esempio che l’annualità successoria accertata sia di due miliardi e che il provento dell’imposta successoria sia calcolato in trecento milioni di lire, il peso medio dell’imposta successoria risulterebbe del 15 per cento. Al valore dell’annualità successoria soggetta ad imposta di successione dovrebbe essere aggiunto il valore degli enti patrimoniali i quali sono esenti dall’imposta medesima. L’aggiunta è indispensabile in quanto la surrogatoria colpirebbe indifferentemente tutti i valori mobiliari senza badare al possessore e quindi senza tener conto del loro eventuale diritto ad esenzione. Se noi supponiamo che per tale aggiunta il valore dell’annualità in questione sia aumentato a due miliardi quattrocento milioni, fermo rimanendo il provento a 300 milioni, l’aliquota media risulta del 12,50 per cento. Quest’aliquota media dovrebbe essere divisa per il numero degli anni componenti l’intervallo devolutivo tra una generazione e un’altra. Se noi supponiamo che questo intervallo devolutivo sia di trentatre anni noi riusciamo ad accertare un’aliquota della surrogatoria del 3,80 per mille all’anno. La nuova surrogatoria verrebbe in tal modo ad essere composta delle due parti seguenti: l’antica surrogatoria detta di negoziazione, in surrogazione dei trasferimenti a titolo oneroso, del 2,30 per mille e la nuova surrogatoria in surrogazione dell’imposta di successione del 3.80 per mille. Riducendo leggermente le percentuali al 2,25 e al 3,75 si ha un totale del 6 per mille annuo sul valore capitale dei titoli mobiliari. Le percentuali ora calcolate sono puramente ipotetiche e addotte a titolo di esemplificazione senza alcuna pretesa di esattezza. Calcoli precisi dovrebbero essere istituiti per giungere a conclusioni le quali adeguassero il peso comparativo da far gravare sui contribuenti, il quale dovrebbe essere lo stesso in media, sia per l’imposta surrogatoria, sia per l’imposta surrogata.
Ove non si accogliesse il concetto di abbandonare la complementare sul reddito complessivo a favore dell’imposta sulla spesa, alle due parti della nuova surrogatoria sopra detta si dovrebbe aggiungere una terza parte a titolo di surrogatoria della complementare sul reddito.
Dovrebbe essere anche qui ripetuto il calcolo, e così accertata la massa dei redditi soggetti ed esenti dalla complementare sul reddito, accertato il gettito totale della complementare, calcolata l’aliquota media su essa e trasformata quest’aliquota media sul reddito in un’aliquota media sul valore capitale. Se noi supponiamo ad esempio che la complementare sul reddito complessivo assorba il 5% del reddito colpito ed esente dall’imposta medesima – ripetesi che anche il reddito esente dovrebbe essere tenuto in considerazione perché la surrogatoria colpirebbe tutto il reddito senza nessuna detrazione ed esenzione – e che un capitale dia in media un reddito del 5%, la terza parte della nuova surrogatoria dovrebbe essere uguale al 2,50 per mille del valore capitale dei titoli mobiliari.
Conseguenze sociali della surrogatoria
Qui si indicano le conseguenze sociali soltanto per la surrogatoria all’imposta di successione perché è quella di cui si discorre attualmente; ma le medesime osservazioni, con qualche variante secondaria, dovrebbero essere ripetute per la surrogatoria alla complementare sul reddito. L’imposta di successione diventerebbe un istituto claudicante; essa non potrebbe avere più neppure la pretesa formale di colpire tutto l’asse ereditario nelle sue rispettive quote spettanti all’erede e legatario, ma dovrebbe rassegnarsi a colpire soltanto quei cespiti facenti parte dell’asse ereditario i quali consistessero in terreni, case, mobilio, gioie, denaro contante, valori dei fondi in commercio e industria, scorte vive e morte agricole, e quelle altre attività le quali non consistessero in valori mobiliari, in depositi a risparmio e in conti correnti soggetti all’imposta surrogatoria. Ove questa, a somiglianza della tassa di negoziazione già esistente, colpisse anche le carature delle società commerciali, anche queste rimarrebbero escluse dall’imposta di successione.
L’imposta successoria, così organizzata, avrebbe una manifesta tendenza a provocare il frazionamento della proprietà immobiliare, perché questa sola sarebbe soggetta alle aliquote elevate insite nel regime della progressività per valore e per gradi di parentela. I possessori di forti patrimoni avrebbero tendenza, principalmente quando avessero eredi indiretti, a trasformarli in valori mobiliari per sottostare a un’imposta media meno forte delle aliquote elevate della successoria. I cespiti terrieri ed edilizi avrebbero tendenza a concentrarsi presso i contribuenti situati più in basso nella scala delle fortune perché essi preferirebbero di pagare le aliquote minori della successoria a quelle medie della surrogatoria. Persisterebbe e si accentuerebbe l’attuale tendenza alla trasformazione dei grandi patrimoni immobiliari in società anonime soggette all’aliquota della surrogatoria media e costante in confronto di quella progressiva della successoria. Alcuni di questi effetti specialmente sarebbero utili, come ad esempio il cresciuto frazionamento della proprietà terriera ed edilizia; alcuni altri, come la moltiplicazione delle società anonime a scopo fiscale e la vendita dei patrimoni immobiliari per la trasformazione in titoli, accentuerebbero quel carattere plutocratico della proprietà mobiliare che è tanta parte della avversione pubblica verso i titoli mobiliari. A una stabilità maggiore nella ricchezza immobiliare corrisponderebbe una instabilità più accentuata in quella mobiliare; crescerebbe probabilmente la persecuzione contro i titoli mobiliari; l’opinione pubblica composta dei piccoli e medi proprietari immobiliari continuerebbe ad affermare che i titoli mobiliari si sottraggono alle imposte personali; continuerebbero ad essere chiesti rimedi contro questo stato di cose; ben difficilmente, quando l’aliquota media fosse giustamente calcolata, come sopra è detto, a cagione di esempio, nel 3,80 per mille, potrebbe poi essere contenuta entro questi limiti. Le querele dei contribuenti alla successoria diverrebbero tanto più vivaci quando tra essi si diffondesse la nozione che la successoria, perché personale e progressiva, non si capitalizza e quindi grava sulle successive schiere di contribuenti al momento del passaggio della proprietà dei beni a causa di morte; mentre la surrogatoria, essendo reale e proporzionale, dà luogo al noto processo di capitalizzazione, per cui i nuovi acquirenti tengono già conto nel prezzo dell’imposta pagata e quindi l’imposta, dopo una prima falcidia nel momento della sua imposizione, più non è sentita dalle successive schiere di contribuenti. Tale nozione, sinora diffusa, a titolo di previsione, in una ristretta schiera di studiosi, diventerebbe, col tempo, di ragion comune, come è accaduto per le imposte reali in genere e rinfocolerebbe l’odio verso i detentori di titoli mobiliari. In una società democratica la quale facilmente è attratta verso la demagogia sarebbe impossibile frenare la tendenza all’inasprimento della surrogatoria. Sarebbe facile, in un momento successivo, venuta meno la ricordanza precisa delle ragioni le quali hanno dato luogo alla surrogatoria, si mantenesse questa, ristabilendosi tuttavia l’obbligo del pagamento dell’imposta successoria, escogitando metodi fastidiosi di accertamenti, forse anche ricorrendo a nuovi tentativi di nominatività.
Giova non perdere di vista questo pericolo che, per quanto non imminente, non può essere considerato lontanissimo e facilmente trascurabile.
Conseguenze della surrogatoria per il credito pubblico
Fin qui fu dimostrato come la surrogatoria trasformerebbe profondamente l’imposta successoria, sia per i titoli a cui si applicherebbe, sia per i cespiti immobiliari rimasti, quasi soli, soggetti ad una claudicante successoria.
La surrogatoria, per conseguire effetti apprezzabili, non potrebbe essere applicata soltanto ai titoli privati, ma dovrebbe essere estesa anche ai titoli di Stato. Anche per i titoli privati la sua estensione non sarebbe scevra di difficoltà. Non a torto i portatori stranieri di titoli privati hanno elevato fiere proteste contro l’applicazione dell’imposta patrimoniale straordinaria ai titoli da essi posseduti. Essi accusarono di mala fede, di violazione dei patti legittimamente convenuti in base alla legislazione vigente quelle norme legislative le quali obbligarono le società anonime a detrarre dai titoli al portatore, posseduti dagli stranieri, l’imposta del 15% sui dividendi e sugli interessi. Essi avevano, in molti casi di obbligazioni ferroviarie e tramviarie ed industriali, convenuto il pagamento degli interessi al netto, e ritennero di essere ingiustamente trattati quando le Società trattennero sull’importo degli interessi il nuovo tributo. La stessa lagnanza eleverebbero contro la nuova surrogatoria. Peggio accadrebbe per i titoli di Stato, a molti dei quali fu promessa l’esenzione da tutte le imposte presenti e future. Questa esenzione dev’essere interpretata in buona fede, osservata scrupolosamente e senza restrizioni mentali.
La promessa fu data in un momento grave per le finanze dello Stato e tanto perciò maggiore è l’obbligo di interpretare questa clausola dell’esenzione secondo il significato genuino, senza togliere nulla di ciò che è stato promesso e senza recare nel tempo stesso ingiusto danno allo Stato. Secondo i canoni accolti di interpretazione delle leggi d’imposta, la esenzione non può essere estesa al di là dei casi che furono espressamente contemplati, ma neppure può essere ristretta in modo da togliere efficacia rispetto a questi casi medesimi. La promessa deve intendersi di carattere oggettivo, perché è scritta sul titolo, tanto in quelli i quali furono emessi al nome quanto in quelli i quali furono emessi al portatore. Essa non ha carattere personale perché dal contenuto della promessa stessa non si può dedurre che siasi voluto concedere un’immunità tributaria al portatore del titolo; è il titolo stesso il quale non può essere colpito da nessuna imposta o trattenuta di qualsiasi genere né per quanto si riferisce al capitale né per quanto si riferisce agli interessi.
Nonostante perciò la pratica invalsa, sembra che sia ingiustificata la pretesa della Finanza di colpire con una tassa di bollo il titolo al momento della sua rinnovazione per esaurimento delle cedolette degli interessi. È vero che sul titolo stesso appare la stampiglia del bollo come se questo fosse stato pagato al momento della emissione; ma questa può e deve intendersi come una semplice formalità tipografica, posto che all’atto della emissione fu annunziato un prezzo di sottoscrizione, e non questo più un diritto di bollo. Così che il bollo applicato senza pagamento del corrispondente diritto al momento della emissione giustamente può ritenersi come una conferma della estensione alla tassa di bollo della esenzione promessa al titolo.
Né giova riferirsi alla diversa terminologia tra imposte e tasse, in quanto se la diversità avesse un qualsiasi valore, anche minima, basterebbe al legislatore, per venir meno alla sua parola data, mutare il nome ai suoi tributi, non essendovi nel linguaggio amministrativo nessuna differenza sostanziale fra imposta e tassa o qualsiasi altro tributo con qualsiasi denominazione stabilito, ed essendo pacifico che la parola «tassa» si adopera indifferentemente per istituti che nella terminologia scientifica hanno i caratteri della tassa ovvero quelli della imposta ovvero anche caratteri misti.
Detto questo è evidente che la promessa esenzione equivale né più né meno alla formale promessa da parte dello Stato di pagare lire 5 all’anno d’interessi divisi in due semestralità (o quell’altra somma che sia stata convenuta), in moneta legale del paese senza distinzione di veruna specie sinché dura il rapporto di mutuo e di rimborsare alla scadenza del mutuo stesso o nel momento della sua denuncia lire 100 o quell’altra somma che sia stata convenuta, perimente senza alcuna detrazione.
Lo stato deve pagare le anzidette somme senza differenza tra chi possegga il titolo al nome o al possessore e se dal presentatore di titolo al portatore ha diritto di farsi comunicare il nome ciò accade esclusivamente per poter ripetere le somme pagate ove si riscontrino non dovute per falsificazione del titolo o per altri motivi analoghi.
Da questa conclusione discende che lo Stato non ha mai diritto di colpire in alcun modo interesse e capitale dei titoli a cui aveva promesso esenzione. Può, quando lo creda, colpire i possessori di titoli di Stato con imposte personali sul reddito, sul patrimonio o sulle successioni: quando ciò faccia lo Stato non viola la promessa data perché non tassa il titolo per sé stesso, bensì il complesso del reddito o della fortuna del contribuente qualunque sia la fonte del reddito o la natura del cespite patrimoniale. Lo Stato insomma deve in primo luogo assolvere l’obbligo del pagamento integrale e percentuale degli interessi e in seguito potrà, secondo le norme comuni per tutti i contribuenti, tassare coloro i quali hanno riscosso gli interessi medesimi in quanto questi entrano a comporre il reddito o il patrimonio in base a cui è elevata una tassazione personale contro il contribuente. La tassazione reale sul titolo è certa e da questa tassazione certa il possessore del titolo di Stato è immune; la tassazione personale è incerta e dipende dal raggiungere o meno il reddito o il patrimonio totale del contribuente il minimo imponibile; essa varia d’intensità perché l’aliquota dell’imposta è variabile a seconda dell’ammontare del reddito o del patrimonio o della quota ereditaria. A parità di reddito o di patrimonio un contribuente può essere tassato e l’altro no a seconda delle sue condizioni familiari o di quelle altre che il legislatore abbia ritenuto opportuno considerare. Bene spesso gli stranieri non sono colpiti dalle imposte sul patrimonio o di successione essendo residenti all’estero, sebbene posseggano cespiti, sia in titoli di Stato o altri, di nazionalità italiana. Perciò si può affermare senza errore che la tassazione personale non viola la promessa in quanto che il possesso del titolo di Stato entra solo come uno dei tanti fattori di carattere variabile i quali danno luogo alla tassazione.
Il legislatore non può d’altra parte non tener conto della interpretazione che al momento dell’emissione fu data alla sua promessa. Allora moltissimi e probabilmente la maggior parte dei sottoscrittori ai prestiti pubblici ritennero, in piena buona fede, che la promessa della esenzione si riferisse indistintamente a tutte le imposte, anche a quelle di carattere personale. Che sì fatta opinione fosse erronea non v’ha dubbio; ma non v’ha dubbio altresì che in quel momento non vi furono avvertimenti ufficiali sufficientemente chiari che quella opinione era erronea e che l’esenzione si riferiva soltanto alle imposte di carattere reale. Forse parve inopportuno in quel momento, in cui si aveva bisogno dei privati risparmi, pregiudicare il successo dei prestiti con una dichiarazione di tassazione personale che poteva sembrare più grave di quanto in realtà non fosse; ma è certo che il silenzio ufficiale non giovò a diffondere nel pubblico la conoscenza, sia pure di carattere ovvio nella scienza finanziaria, sulla distinzione tra imposta reale e personale e sul diverso significato delle diverse promesse di immunità in rapporto ai due sistemi d’imposta. L’ignoranza della legge non scusa, ma poiché non vi è un testo di legge che codifichi questa materia, sembra scusabile l’ignoranza di una scienza la quale viene insegnata soltanto in un ordine aristocratico di scuole di carattere universitario. Se quella ignoranza, pur legittima, di fronte al silenzio ufficiale non basta a trattenere il legislatore dall’applicare logicamente le imposte personali, dev’essere un argomento sussidiario di più per indurlo ad evitare qualunque lontano sospetto di volere infrangere la promessa nella parte, la quale non lascia alcun dubbio, che è quella relativa alle imposte reali.
Né vale dire che lo Stato mai promise esenzione dell’imposta successoria. Tutti gli sforzi del legislatore per acquisire alla materia imponibile dell’imposta successoria anche i titoli di Stato sono legittimi, ma i metodi di acquisizione devono essere propri dell’imposta successoria stessa, a carattere personale e non devono degenerare in metodi che hanno carattere di realtà.
La proposta surrogatoria sia del 5% sul reddito sia del 3.80 per mille sul valore capitale è un abbonamento e come tutti gli abbonamenti fa gitto dei caratteri di personalità e si converte in un’imposta reale pretta: con la surrogatoria nessuna esenzione di minimi, nessuna progressività in ragione di quota ereditaria o di parentela, nessuna detrazione in ragione di debito o di altre passività ereditarie. La surrogatoria colpisce il titolo per sé stesso, astrazione fatta dai passaggi o lenti o frequenti a titolo di successione da una persona all’altra.
La surrogatoria colpisce anche i titoli i quali non dovrebbero mai essere soggetti all’imposta successoria per essere di proprietà di enti o persone giuridiche non soggette a morte. Colla surrogatoria accadrà invero che siano soggetti a trattenuta anche i titoli di proprietà di enti morali, i quali già pagano, a titolo di surrogatoria all’imposta di successione, lo speciale tributo di manomorta.
Se questa è una duplicazione stranissima di surrogatoria a una sola imposta, un’altra strana complicazione si verificherà per titoli di Stato e dei privati esistenti nel portafoglio di Società anonime.
Bene spesso in questi titoli è investito l’attivo sociale rappresentato al passivo da azioni e obbligazioni. E poiché anche queste azioni o obbligazioni saranno soggette alla surrogatoria, ecco che questa potrà essere pagata, per il suo carattere oggettivo, due o più volte a seconda delle interferenze di investimento tra diversi enti, sicché infine gli azionisti e gli obbligazionisti della società pagheranno in taluni casi una doppia o una tripla surrogatoria all’imposta di successione.
Poiché fu sopra ricordata l’imposta di manomorta giova esaminare un’obiezione che fu fatta a chi combatteva la proposta surrogatoria. Si disse che l’imposta di manomorta è già un precedente a favore del diritto di convertire l’imposta di successione in un canone di abbonamento; ed infatti gli enti manomorta, per loro natura indefettibili, non potendo pagare la imposta di successione, sono chiamati a pagare la tassa di manomorta e nel calcolo di questa si tien conto senza fallo dei titoli di Stato, sebbene a questi sia stata promessa l’esenzione.
Il precedente se anche esistesse non dovrebbe far testo perché il sopruso a danno degli enti morali non legittimerebbe la sua estensione a danno delle persone fisiche: ma precedente non è in quanto l’imposta di manomorta è esatta con metodi che possono, fatta ragione alla diversa natura dei contribuenti, chiamarsi personali.
Invero i titoli di Stato di proprietà di enti morali non sono mai soggetti a ritenuta per sé stessi, anzi lo Stato ne paga integralmente gli interessi agli enti intestatari. L’imposta o tassa di manomorta colpisce poi gli enti sull’insieme dei redditi posseduti, li colpisce soltanto quando il reddito raggiunga un minimo imponibile, li colpisce con aliquote differenti a seconda che si tratti di enti morali ordinari o enti aventi scopi di beneficienza. Ove si tratti di enti morali parrocchiali si ha persino riguardo alle condizioni personali dell’investito pro tempore del beneficio parrocchiale e l’imposta non si esige quando ciò possa far cadere il reddito del beneficio al di sotto del minimo di congrua.
Quindi la surrogatoria di manomorta conserva perfettamente i caratteri dell’imposta di successione che si vuole surrogare e si allontana nel modo più chiaro dalla nuova proposta surrogatoria. Se la surrogatoria di manomorta raggiunge l’intento di colpire i titoli di Stato o privati di proprietà degli enti di manomorta, ciò accade non per una ragione propria alla surrogatoria medesima ma per una ragione la quale esisterebbe altresì se invece della surrogatoria si applicasse l’imposta di successione. Invero gli enti morali non posseggono titoli al portatore e quando anche, in casi rarissimi, li posseggono, per loro natura non li possono nascondere in occasione di accertamenti tributari.
Conseguenze finanziarie della proposta surrogatoria per i titoli di stato
Giova non dimenticare che quando si addivenisse alla surrogatoria, la sua efficacia sarebbe ristretta a titoli a lunga scadenza; per i 23 miliardi di buoni del Tesoro ordinario e per i 5 miliardi 662 milioni, 700 milioni di buoni del Tesoro triennali e quinquennali, esistenti al 31 Dicembre 1922, la efficacia della surrogatoria sarebbe irrilevante. Significando essa una riduzione forzosa degli interessi dal 5 al 4.75% essa implicherebbe alla scadenza del Buono una revisione del saggio dell’interesse convenuto. A parità di altre circostanze, lo Stato ben difficilmente riuscirebbe a collocare al 5% lordo quegli stessi Buoni che prima collocava al 5% netto. Probabilmente dovrebbe emettere i titoli stessi al 5.25% lordo o a quell’altro saggio che permettesse di dare ai portatori il 5% netto della nuova surrogatoria. E poiché i risparmiatori sono portati ad ingigantire i pericoli di future imposta v’ha ogni probabilità che il saggio d’interesse sui Buoni abbia ad aumentare in misura maggiore di quello che non possa essere l’importo della surrogatoria.
Sicché da ultimo lo Stato per circa 29 miliardi su 84 del suo debito fruttifero interno verrebbe quasi immediatamente soggetto ad un danno invece che ad un vantaggio finanziario.
L’osservazione ora fatta dimostra come sia precario il guadagno che si spera di ottenere su gli altri 55 miliardi nominali di debito pubblico fruttiferi interni a lunga scadenza o perpetui. Il guadagno stesso sarebbe limitato al periodo dall’approvazione della surrogatoria al momento della prima possibilità di conversione.
In questo secondo momento invero il detentore del titolo terrebbe conto di tutte le circostanze nel decidersi ad accettare o no le proposte fatte dallo Stato; delle quali circostanze la più importante sarebbe senza dubbio l’esistenza di una surrogatoria aumentabile ad libitum dallo Stato. Che se poi questa non fosse aumentabile sarebbe indifferente profferire un titolo al 3.50 netto o al 3.75% lordo della surrogatoria. Se noi supponiamo che il momento della conversione sia il 1931, il quesito si pone nel modo seguente. Il valore attuale di 8 annualità di surrogatoria prelevabile prima di quel momento è maggiore o minore del valore attuale del maggior interesse che a partire dal primo gennaio 1931 dovrà pagare lo Stato per l’appunto a causa della istituzione della surrogatoria?
Il problema è di difficile soluzione pratica; questa dovendo fondarsi su parecchi elementi incerti e non prevedibili. Ma basta porlo per mettere in luce come non tutto sia guadagno per lo Stato nel presumibile gettito della surrogatoria e come forse invece di un guadagno possa anche darsi il caso che lo Stato debba subire una perdita.
[1] In Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato, in serie II, Tomo LXIII delle «Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino».