Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’ e di alcune tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1938
«Rivista di storia economica», III, 1938, pp. 50-60
1. – Quando nel 1776 la Ricchezza delle Nazioni venne al mondo, al nome dell’autore seguiva il ricordo dell’insegnamento tenuto da AdamoSmith fino a 12 anni prima: «formerly professor of Moral Philosophyin the University of Glasgow». Il monumento che nel novembre 1937 l’Università di Glasgow eresse col libro dello Scott (Adam Smith as student and professor, Glasgow, 1937) in memoria della immatricolazione avvenuta, precisamente 200 anni prima, di Adamo Smith comestudente nell’Ateneo che lo ebbe poi maestro e, divenuto celebre, rettore, è dovuto alle cure di William Robert Scott, il quale ha il grande onore di essere “Adam Smith Professor of Political Economy in the University of Glasgow”. La riverenza verso il creatore dell’insegnamento da lui oggi impartito ha stimolato l’autore della classica opera sulla storia delle società per azioni in Inghilterra, Scozia ed Irlanda fino al 1720, a consacrare anni di ricerche pazientissime e sagaci allo studio della vita e degli scritti del suo grande predecessore. È suggestivo il mistero che aleggia intorno a questi, che parrebbero, dati i tempi in cui visse, fatti ovviamente conoscibili: vita e scritti dell’uomo universalmente tenuto come il padre della scienza economica. Eppure, fino a poco tempo fa non si sapeva quasi nulla della sua famiglia e la notizia degli scritti si restringeva a quella delle due opere famosissime pubblicate dallo Smith vivo (1759: La teoria dei sentimenti morali e 1776: La ricchezza delle nazioni) ed al volume postumo dei saggi, edito nel 1795 dagli esecutori testamentari Joseph Black e James Hutton. Della mancanza di notizie sui suoi scritti la colpa era dello Smith medesimo, il quale poco prima di morire aveva voluto fossero distrutti i manoscritti inediti suoi, conservati nello scrittoio con rialzo, che la signora Bannerman piamente conserva in Edimburgo.
2. – A poco a poco, tuttavia, qualche maggior luce si è cominciata a fare intorno al mondo intellettuale sociale religioso e politico in cui Adamo Smith visse.
Le tappe principali dell’impresa sono le seguenti:
– nel 1793 Dugald Stewart legge alla Società reale di Edimburgo una notizia della vita e degli scritti del maestro ed amico. Su molti fatti e giudizi questa è la più autorevole fonte contemporanea. L’”Account” fu poi ripubblicato a guisa d’introduzione dei postumi Essays on Philosophical Subjects dello Smith e di nuovo nel decimo volume delle Collected Works dello Stewart (1858);
– nel 1894 James Bonar ricostruisce l’elenco dei libri posseduti dallo Smith; e nel 1932 ne pubblica una seconda edizione assai arricchita. ( A Catalogue of the Library of Adam Smith, London, Macmillan). È opera mirabile di pazienza e di erudizione, la quale ci fa rivivere il mondo
libresco, in mezzo al quale lo Smith visse. A segnalare il profitto che egli trasse dai suoi libri, il Bonar ha trascritto in inchiostro rosso i brani nei quali lo Smith cita o utilizza qualcuno dei libri da lui posseduti;
– nel 1895 John Rae pubblica (Life of Adam Smith, London, Macmillan) quella che rimane ancor oggi la miglior vita dello scrittore. Lettere edite ed inedite, ricordi di contemporanei, ricca aneddotica ci presentano Adamo Smith vivo, umano, benevolo, benefico, famigerato per
la distrazione e nel tempo stesso espertissimo amministratore delle cose altrui ed osservatore acuto dei fatti della vita economica contemporanea. Le lacune non sono poche nel libro di Rae; qualche notizia incerta ed anche, raramente, non esatta; ma il grosso del lavoro è compiuto;
– nel 1895 Edwin Cannan scopre, ad occasione di una conversazione nella quale si capitò a parlare anche di Adamo Smith, il manoscritto degli appunti che nel 1763 uno studente aveva preso assistendo alle lezioni di Adamo Smith (Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, 1896, Oxford, at the Clarendon Press). Scoperta capitale, perché consentì di conoscere quale fosse il punto al quale era giunta la meditazione dello Smith innanzi che, recatosi in Francia, in qualità di precettore del giovane Duca di Buccleuch, egli avesse avuto occasione di conoscere le persone e la dottrina dei fisiocrati.
Dopo il 1896 non c’è nulla di veramente nuovo: la seconda edizione dell’elenco di Bonar, qualche piccola notizia qua e là (mi sia consentito ricordare, sebbene minima, la riesumazione del racconto della visita, nel 1788, di un italiano, il cavalier Luigi Angiolini, al famoso scozzese, da me fatta in La riforma sociale del marzo – aprile 1933, in Nuovi saggi, 1937, pagg. 328 e segg. e in questo volume, pagg. 83 – 86).
3. – Oggi, aspettato con impazienza dagli smithiani sparsi nel mondo, vien fuori il libro dello Scott. Frutto di almeno un decennio di lavoro, esso è un vero monumento. A leggere l’elenco dei colleghi studiosi parenti bibliotecari ed archivisti che l’infaticabile Scott mise a duro contributo di ricerche per venire a capo di qualche particolare, grosso o minimo, della vita dello Smith, c’è da rimanere allibiti. Per risolvere talun intricato problema genealogico intorno alla famiglia Smith il signor A. T. Mc Robert fece passare a foglio a foglio, naturalmente con l’entusiasmo che l’erudito mette nelle piccole cose, nove piedi cubi di carte d’archivio della città di Aberdeen. Alla fine il documento cercato saltò fuori e, nota con soddisfazione l’a., con «una eccellente firma» di Adamo Smith. Per quale grande economista italiano fu spesa altrettanta fatica e con ugual frutto? Viene, grazie alla buona scuola crociana ed a Fausto Nicolini, in mente il nome di Galiani; sebbene lo spunto a Nicolini non sia stato dato dall’interesse intellettuale per la scienza economica ma da quello per l’amico degli enciclopedisti e della marchesa d’Epinay, per l’uomo che brillò di luce vivissima in una società di uomini in cui tutti parevano avere abbondanza di esprit. Vengono in mente il carteggio dei due Verri ed i dotti suoi editori Greppi, Giulini e Seregni; ma anche qui l’interesse è letterario filosofico politico mondano, non certo economico in primo luogo.
4. – Lo Scott divise in quattro parti l’opera; delle quali la prima (pagg. 1 – 126) è quella narrativa. In essa l’a. non volle rifare la vita del Rae, la quale sfruttava ottimamente le fonti conosciute al tempo suo e non potrà essere riscritta con vantaggio se prima il materiale ancora inesplorato, ad esempio quello dell’archivio delle dogane Scozzesi di cui Adamo Smith fu commissario, non sia stato fatto oggetto di studio attento; ma volle invece fornire un completamento al Rae che ne integrasse la narrazione per la prima e meno nota parte della vita dello Smith dalla nascita (1723) alle dimissioni dalla cattedra di Glasgow (1763).
Nella seconda parte (pagg. 129 – 314) sono contenuti documenti relativi alla famiglia Smith, alla sua carriera come studente e professore, alla amministrazione da lui tenuta del patrimonio dell’Università, al suo interessamento per la biblioteca, alla parte da lui tenuta nei conflitti insorti intorno ai poteri delle varie autorità accademiche – e qui è pubblicata per la prima volta una lunga relazione dello Smith sui poteri rispettivi del rettore, suprema autorità accademica, in gran parte onorifica, e del principal che era il vero sovraintendente agli studi. Arricchiscono la seconda parte 83 lettere in gran parte inedite, di e ad Adamo Smith provenienti soprattutto dai fondi della famiglia Bannerman, discendente di Davide Douglas, Lord Reston, cugino ed erede dell’economista.
La terza parte (pagg. 315 – 356) consiste nella stampa della prima stesura di alcuni iniziali capitoli della Ricchezza delle Nazioni. La scoperta dello Scott fu giusto guiderdone di ricerche condotte con logico intuito nelle carte dell’archivio dei Duchi di Buccleuch, del terzo dei quali, come è noto e si disse sopra, lo Smith per tre anni fu precettore. Sembra che il manoscritto fosse stato inviato dallo Smith a Charles Townshend, secondo marito della contessa di Dalkeith, vedova del padre di Enrico, il giovane duca del quale lo Smith aspirava ad essere guida intellettuale durante il viaggio che, secondo il costume del tempo, quell’erede di un gran nome e di una grande fortuna si apprestava a condurre per alcuni anni sul continente. Il manoscritto, inteso forse a persuadere della attitudine dello Smith all’ufficio desiderato, rimase tra le carte del Townshend e quando egli morì, cancelliere dello Scacchiere, nel 1767 fu dalla vedova portato, con altre carte, a Dalkeith, dove d’allora in poi era rimasto.
Nella quarta parte l’occhio si diletta contemplando una ricca serie di fac – simili: di firme di Adamo Smith, in diverse epoche della sua vita, del padre, della madre, di cugini, di indici autografi di volumi di miscellanee messe insieme da A. S., di lettere, di estratti di conferenze date da A. S., in copie dovute alla mano di amanuensi con correzioni autografe del manoscritto della or ricordata minuta ecc. ecc.
Alcuni fac simili sottopongono il lettore al supplizio di Tantalo. Ecco, a pag. 390 il titolo di un catalogo che, soddisfacendo 113 anni prima l’esigenza alla quale ubbidì il Bonar dopoché era già avvenuta la dispersione, Adamo Smith fece compilare, o dettò al suo segretario, dei libri da lui posseduti nel 1781; ed a pag. 391 la riproduzione di una pagina del catalogo medesimo. Una marca amministrativa ci ricorda che il manoscritto si trova oggi, insieme con circa 300 volumi appartenenti alla biblioteca smithiana, nella biblioteca della Università imperiale di Tokio. Quando i colleghi giapponesi ci daranno l’elenco, se non di tutti, di quei libri posseduti da Smith nel 1781, i quali non figurano nel catalogo Bonar? (cfr. qui, a pag. 106, i numeri 11 e 12).
Lo Scott dice che i libri mancanti all’elenco Bonar non sono molti (pag. 124); ma un confronto fra il fac simile della pag. 41 ed il catalogo Bonar ci permette di osservare che questi non riuscì a trovare la traccia di 4 sui 5 volumi dell’Ami des hommes, dell’ Essai sur les Ponts et chaussées, la Voierie et les Corvées (e la Réponse del marchese di Mirabeau?), di Le Commerce et le Gouvernement del Condillac, del secondo volume dell’Ordre naturale et essentiel del Le Mercier de la Rivière, di due opere sull’agricoltura del Monceau e di un anonimo Le Reformateur.
Questa minuziosa ricerca non è dettata da vano stimolo di mera erudizione. Con l’appurare le date alle quali le biblioteche di Edimburgo e di Glasgow acquistarono, nel tempo nel quale Adamo Smith non poteva presumibilmente ancora provvedere ad una raccolta propria, libri inglesi e forestieri, principalmente francesi, di economia politica, lo Scott ha voluto seguire l’arricchimento progressivo del pensiero smithiano. Una delle conclusioni più importanti è che nel 1763, alla vigilia della partenza per la Francia, presumibilmente lo Smith non aveva conoscenza diretta della letteratura fisiocratica; eppure aveva, come risulta dalle lezioni e più dalla minuta ora scoperta, già chiari in mente ed in parte aveva già scritto i primi capitoli dell’opera pubblicata nel 1776.
5. – L’opera è illustrata da 18 riproduzioni di ritratti, medaglioni, stampe, monete, (la testa di Adamo Smith nel 1797 fu coniata su denari e mezzi denari scozzesi); ed è chiusa oltreché da copiosissimi indici, da sette appendici, di cui cinque riguardano cose famigliari, una la fortuna di Smith in Russia ed una, forse la più interessante, la sua maniera di scrivere. Adamo Smith era lento nello scrivere; anzi repugnava a prendere la penna in mano. Perciò dettava e correggeva. Ma anche la correzione la quale implicava raschiature e richiedeva sostituzioni, a causa delle parole scritte dai suoi amanuensi, gli riusciva faticosa. Di qui una certa difficoltà nell’incorporare le aggiunte nel testo, una relativa frequenza di digressioni e talvolta una non perfetta fusione del nuovo coll’antico. Chi legge la Ricchezza delle nazioni, s’imbatte talvolta nella parola opulence, invece di quella da lui comunemente usata wealth (ricchezza). Adamo Smith, il quale aveva cominciato con «opulenza» aveva invece finito collo scartarla a favore della più tecnica e neutra «wealth»; ma non sempre riuscì a superare il fastidio della raschiatura e della sostituzione. Il sopravvivere di «opulenza» perciò può essere indizio di una redazione più antica.
6. – È un così grande uomo, parmi sentir chiedere, codesto Adamo Smith da giustificare tante cure editoriali e tanto devoto culto quasi religioso, che parrebbero dovuti solo agli Alighieri ed ai Shakespeare? Non pochi economisti teorici dubiteranno ed in una lista di una mezza dozzina di creatori della economia pura non ho visto ricordato il nome di lui. Tuttavia egli ha serbato finora e probabilmente serberà nei secoli il gran luogo che la tradizione gli ha assegnato di fondatore della nostra scienza. Quasi certamente Petty, Cantillon, e Galiani sono più grandi teorici di Adamo Smith ed i fisiocrati lo sopravanzano come sistematori dei fatti economici, di cui essi hanno veduto meglio la unità e la continuità. Nessuno, tuttavia, meglio di Adamo Smith ha interpretato il tempo in cui egli visse. C’era un mondo il quale crollava, materiato di vincoli protezionistici nel commercio interno ed esterno, nelle relazioni con le colonie, nella regolamentazione delle industrie e delle arti, nei privilegi delle corporazioni, nel libero movimento degli uomini e delle cose da luogo a luogo e da tempo a tempo. Quel mondo era battuto in breccia da centinaia di opuscoli, da pubblicisti esasperati dal persistente trionfo di volgari errori intorno alla bilancia del commercio, di superstizioni monetaristiche, di sofismi intesi a giustificare privilegi oramai privi di contenuto. A tratti i parlamenti ordinavano l’abbruciamento sulle pubbliche piazze di fogli insolenti ed incendiari i quali assalivano gli interessi cari ai parlamentari. Ma i pubblicisti erano detti panfletisti e scribi; ma Petty e Cantillon erano troppo secchi e troppo tecnici per far presa; ma il capolavoro di Galiani era reputato frutto immaturo di un estroso genio ventenne; ma i fisiocrati erano giustamente irrisi per il gergo stravagante e le tabelle incomprensibili. Nonostante si vivesse nel secolo dell’illuminismo e della ragion ragionante i privilegi non potevano, massimamente in Inghilterra, essere vinti da un puro ragionatore. Venne un osservatore minuzioso della vita quotidiana, un critico il quale fondava i ragionamenti sulla esperienza storica, un moralista persuaso che le azioni scorrette sono alla lunga un cattivo affare per le nazioni e scrisse il libro, dal quale veramente si può far datare una nuova epoca nella storia del mondo. Quel libro era, per accidente, scritto in un inglese classico sonante ed ebbe anche per ciò quasi tanta fortuna come la contemporanea storia della decadenza e della rovina dell’Impero romano di Gibbon; con gran stizza di Samuele Johnson dittatore del mondo letterario britannico, il quale per nessuno dei due trionfatori ebbe mai simpatia. Trionfatore fu veramente lo Smith, che il secondo Pitt poco dopo dalla tribuna parlamentare proclamava maestro. Corre la leggenda che l’epoca smithiana sia chiusa; e non è ben certo se e quando sia cominciata. Occorsero, dopo la comparsa del libro, 70 anni prima che la libertà del commercio internazionale fosse proclamata in Inghilterra; e se la separazione delle 13 colonie nord americane provò subito la fondatezza delle critiche di lui ai regimi restrittivi coloniali, il programma smithiano di un impero britannico sta appena ora faticosamente attuandosi. È vero che il mondo stia ora ritornando ai metodi di politica economica che Adamo Smith aveva distrutto? Per dimostrare il ritorno sarebbe necessario dimostrare la inesistenza della esperienza storica sulla quale Adamo Smith aveva fondato i suoi ragionamenti demolitori. Se egli avesse formulato, come è compito degli economisti teorici, pure ipotesi astratte, sarebbe fuor di luogo parlare di passato e di presente, di epoche e di fasi storiche. Il segreto della fortuna dello Smith fu che egli formulò soltanto quelle ipotesi le quali servivano ad interpretare i fatti del suo tempo. Il suo libro è uno strumento di interpretazione di fatti accaduti; e poiché quei fatti di vincoli, di privilegi, di superstizioni sempre si rinnovano, lo strumento da lui apprestato ha valore perenne.
7. – Essendo vivi oggi come ieri i problemi posti da Adamo Smith si comprendono il culto votato alla sua memoria e la religione con la quale si va in cerca delle briciole sfuggite al rogo al quale egli aveva votato i suoi manoscritti. Quale è il contributo nuovo che il volume dello Scott fornisce alla conoscenza dell’uomo privato, di quello politico e dello scienziato?
8. – Quanto all’uomo, abbiamo la conferma delle verità che sono volutamente ignorate solo da coloro i quali, avendo attribuito a sproposito allo Smith la creazione del fantoccio detto homo oeconomicus, attribuiscono, con sproposito anche più grossolano, a lui le qualità di cui essi adornano quel fantoccio. In verità, egli era uomo di esemplari virtù umane. Amò teneramente la madre, con la quale visse sino alla morte, avvenuta (1784) in tarda età pochi anni prima della sua (17 luglio 1790). Rimase scapolo forse per non distaccarsi dalla madre e forse più per scarsa fortuna e una tal quale sua incertezza nelle cose amorose. Predilesse i parenti e della educazione dei più giovani di essi ebbe gran cura. Ma gli furono anche attaccatissimi gli allievi; e delle sue diligenze a prò di essi rimangono testimonianze numerose nelle lettere ora pubblicate dallo Scott. Non ebbe nemici, neppure tra i colleghi, avverso ai quali talvolta dovette, per ragion d’ufficio, concludere in occasione di invidiose pretese di cattedre e di onorari; e tra avversari, specie tra avversari accademici, irritabile genus, fu arbitro ascoltato. Ebbe amici fedelissimi. Nella conversazione talvolta li stupiva; ed invero amava, contrariamente all’uso dei dottrinari, stimolare altrui alla disputa ponendo i problemi in maniera nuova o paradossale o non conforme alla dottrina filosofica da lui sostenuta in genere (pagg. 98 – 99).
Visse semplicemente, senza sfarzo, anche quando le rendite sue, sommati i redditi patrimoniali con il vitalizio concessogli dal Duca di Buccleuch e l’onorario di commissario alle dogane scozzesi, pare superassero le mille lire sterline l’anno, che era per quei tempi somma ragguardevole. Ma in silenzio aiutava, a mezzo della madre e poi direttamente, i bisognosi; sicché il patrimonio pervenuto al cugino Lord Reston si chiarì assai inferiore al prevedibile.
Sull’uomo pubblico, lo Scott fornisce qualche particolare degno di nota. A 26 anni egli manifestava già diffidenza verso l’intervento della politica nell’economia.
L’uomo – scriveva Adamo Smith nel 1749 – è generalmente considerato dagli uomini di stato e dai progettisti come la materia prima di una specie di meccanica politica… Tutti i governi, i quali frastornano il corso naturale delle cose, e forzano queste in altra direzione e tentano di arrestare ad un qualche particolare istante il progresso della società, sono impropri (unnatural) e per mantenersi son costretti a diventare oppressivi o tirannici (pag. 54).
Le dispute faziose dei partiti lo impazientivano. In una lettera a Lord Fitzmaurice del 21 febbraio 1759 scriveva:
Sono lieto di non sentir più parlare di fazioni parlamentari. Quantunque di tanto in tanto un qualche spirito di parte conferisca alla vita del paese (tho a little faction now and then gives spirit to the nation), l’abuso persistente di esso ostruisce tutti gli affari pubblici e toglie ai migliori ministri la possibilità di fare molto bene (pag. 241).
Incaricato dal corpo accademico di Glasgow di redigere l’indirizzo di omaggio dell’università al nuovo Re Giorgio III, succeduto nel trono il 25 ottobre 1760 al nonno Giorgio II, usa maschio linguaggio:
I fedeli sudditi delle Maestà Vostre (l’indirizzo era anche rivolto alla regina) non possono non concepire gli auspici più radiosi di felicità dal regno di un principe nato ed educato in mezzo ad essi, abituato ai loro costumi, informato delle loro leggi, amante della loro costituzione e desideroso di governarli così come si addice a popolo generoso marziale e libero. Tanto alta è l’opinione che i vostri oramai riuniti ed affezionatissimi sudditi unanimemente hanno della magnanimità e della disinteressata virtù delle Maestà Vostre, da farli convinti che voi non desiderate, che voi non intendete governarli in altro modo, che voi tenete così cari i privilegi dei vostri sudditi come le prerogative della vostra corona, che voi siete orgoglioso di essere il re di un popolo libero e che, ben lungi dall’ingelosirvi dell’ardente spirito di libertà che anima naturalmente il petto di ogni britanno, voi generosamente ambite accarezzarlo e secondarlo. Tutti i membri di questa vostra devota e leale università riguardano principale merito proprio di essere stati sempre sinceramente e fervidamente attaccati al ramo protestante della vostra illustre famiglia e di aver sempre considerato la legge che la introdusse fra noi come il fondamento più sicuro della religione e della libertà della Gran Bretagna; ed essi si sono costantemente sforzati di inculcare nella gioventù affidata alle loro cure sentimenti di leale fedeltà quali si addicono ai sudditi di una monarchia fondata su principi di libertà (pagg. 167 – 8).
9. – La minuta della prima stesura della Ricchezza delle nazioni sembra, quanto allo scienziato, offrire la prova definitiva che le idee svolte nei primi due capitoli del libro pubblicato poi nel 1776 ed in parte nei seguenti intorno ai prezzi, alla moneta, agli scambi ed agli ostacoli ad essi frapposti dai governi erano già formate nella mente di Adamo Smith prima che egli avesse contatti diretti con i fisiocrati, e che il legame fra la dottrina smithiana e quella fisiocratica si restringeva alla derivazione comune dalle fonti dottrinali preesistenti. La prova è raggiunta attraverso a delicate indagini sulla calligrafia dell’amanuense e sul tipo di carta usata per la stesura della minuta ora scoperta, le quali persuasero lo Scott che il manoscritto fu redatto a Glasgow intorno al 1763.
10. Si sapeva che il linguaggio di Smith verso coloro che non possono essere detti, secondo il significato letterario della parola, lavoratori, era spesso duro; sicché dal suo libro altri potrebbe, come in parte fece Antonio Menger, dedurre autorevole conferma della teoria la quale attribuisce al lavoro diritto a tutto il reddito sociale e reputa l’interesse, il profitto e la rendita risultato di un furto legale a danno dei lavoratori:
Tra le nazioni civili e laboriose… molti uomini che non lavorano affatto consumano il prodotto di fatiche dieci e spesso cento volte maggiori di quello che è consumato dalla maggior parte dei lavoratori… (W. of N., pag. 2 dell’ed. Cannan).
Nelle società primitive e rozze… l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore… (libro primo, cap. sesto, pag. 49).
Nelle società nelle quali il capitale si è accumulato nelle mani di privati l’intiero prodotto del lavoro non appartiene sempre al lavoratore… Non appena la terra di un paese è divenuta proprietà privata, i proprietari, simili in ciò a tutti gli uomini, amano raccogliere dove essi non hanno mai seminato. La legna della foresta, l’erba del campo e tutti i frutti naturali della terra, i quali, quando la terra era proprietà comune, costavano al lavoratore unicamente la fatica del raccogliere, acquistano anche per lui un costo addizionale. Egli deve pagare per ottenere licenza di raccogliere e deve dare al proprietario una parte di ciò che il suo lavoro coglie e produce… (ivi, pag. 51).
Il prodotto del lavoro è il compenso o salario naturale del lavoro. Nella condizione originale di cose, la quale precede la appropriazione della terra e la accumulazione del capitale, l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore. Egli non deve spartire nulla col proprietario o col padrone… appena la terra diventa proprietà privata il proprietario domanda una quota (rendita) di quasi tutto il prodotto che il lavoratore può ricavare o raccogliere da essa… il profitto (a vantaggio di colui che anticipa al lavoratore la sussistenza) è una ulteriore detrazione dal prodotto del lavoro impiegato nel coltivare la terra (ivi, cap. ottavo, pagg. 66 – 7).
11. – Se la forma definitiva con la quale Adamo Smith presenta nel 1776 il suo pensiero è chiara, quanto più incisivo è il discorso nella minuta del 1763! In una società incivilita il povero provvede nel tempo stesso a sé ed al lusso enorme dei suoi superiori. La rendita, consacrata a sostenere la vanità di un proprietario ozioso, è tutta guadagnata grazie alla fatica del contadino. L’uomo denaroso indulge ad ogni sorta di godimenti ignobili e sordidi, a spese del mercante e del trafficante, ai quali egli dà a mutuo capitale ed interesse. Gli indolenti e frivoli cortigiani sono nello stesso modo mantenuti, vestiti ed alloggiati grazie al lavoro di coloro i quali sono chiamati a pagare le imposte all’uopo necessarie. Fra i selvaggi, al contrario, ogni individuo gode dell’intero prodotto della sua propria fatica. Non vi sono in mezzo ad essi proprietari, usurai ed esattori… Una divisione equa ed uguale del prodotto di una grande società non può mai darsi. In una società composta di 100 mila famiglie, vi sono forse 100 famiglie, le quali non lavorano affatto e tuttavia, grazie alla mera violenza od alla più ordinata oppressione della legge, impiegano (utilizzano) una quota della fatica dell’intiera società maggiore di ogni altro gruppo di 10 mila famiglie. La divisione di quel che, dopo questo enorme diffalco, rimane disponibile non è affatto proporzionata al lavoro di ogni individuo. Il ricco mercante, il quale consuma la maggior parte del suo tempo nel lusso e nelle feste, gode di una proporzione assai più grande dei frutti della sua impresa di tutti gli impiegati e contabili i quali pur compiono il lavoro. Questi, alla loro volta, pur avendo assai tempo a propria disposizione e non soffrendo quasi altro fastidio fuorché l’obbligo di attendere all’ufficio, ottengono una parte assai più vistosa del prodotto totale di quanto non faccia un numero triplo degli artigiani, i quali, sotto la loro direzione, durano una fatica assai più severa ed assidua. L’artigiano poi, lavorando generalmente sotto un tetto, protetto contro le intemperie, a suo comodo ed aiutato dal comodo di innumerevoli macchine, ottiene un compenso proporzionatamente assai più pingue di quello del povero contadino, il quale deve combattere col suolo e con le stagioni e, sebbene produca la materia necessaria a contentare il lusso di tutti gli altri membri della collettività e sopporti, quasi si direbbe, sulle spalle l’intiero edificio della società umana, sembra schiacciato dal gran pondo della terra e sepolto fuori dalla vista di ognuno nelle fondazioni più profonde dell’edificio (minuta citata, ed. Scott, pagg. 326 a 328).
12. – Queste frasi sono scritte ad occasione della celebre dimostrazione dei vantaggi della divisione del lavoro (esempio dello spillo), con la quale si apre il libro e vogliono illustrare la tesi sostanziale dello Smith: che pur essendo remunerato con una mera e relativamente piccola quota dell’intiero prodotto del suo lavoro, il lavoratore nelle società incivilite gode di un benessere incomparabilmente superiore a quello del selvaggio, il quale pur teneva per sé il frutto intiero del proprio lavoro, e superiore a quello dei più grandi capi e principi delle epoche nelle quali non esistevano proprietari e capitalisti pronti a vivere del frutto del lavoro altrui.
Alla conclusione storicamente ottimista dei vantaggi della divisione di compiti tra lavoratore, risparmiatore, imprenditore o proprietario si giunge così attraverso una infiammata denuncia della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro. Era quella davvero una denuncia? Voleva Adamo Smith affermare che al tempo suo, nelle condizioni tecniche esistenti di divisioni del lavoro e di classi il lavoratore fosse l’unico fattore della produzione e si potesse senza effetti dannosi privare di una quota del prodotto i proprietari ed i capitalisti? Entro che limiti possiamo scorgere nelle frasi ora lette una condanna di quell’assetto economico che si usò poi chiamare capitalistico? La condanna era morale od economica o tutte e due insieme? Questioni grosse a risolvere le quali sarebbe necessario leggere le frasi non, come si fece sopra, staccate dal resto del discorso, ma dentro in quel discorso e non solo in quel o quei capitoli, ma in tutta l’opera dello scrittore.
13. – Impresa grossa, sebbene allettante. Per ora, basti far rilevare il mutamento di tono avvenuto dal 1763 al 1776 nelle frasi lette staccatamente, avulse dal resto del discorso. Nella minuta avanti lettera del 1763 c’è l’impeto sdegnato del moralista. Adamo Smith, anche se poi dirà che «la opulenza più grande si estende agli ordini più bassi della collettività», accentua il concetto della «disuguaglianza» nella distribuzione della proprietà (pag. 328). La violenza o la oppressione della legge fanno sì che colui che più fatica meno riceva. Vanità di proprietari oziosi, godimenti ignobili e sordidi, indolenza e frivolità di cortigiani, miseria dei contadini sono il frutto di una organizzazione sociale la quale cagiona enormi diffalchi dal prodotto comune a prò di infime minoranze – nelle 100 famiglie su 100 mila di Adamo Smith non si sente il preannuncio delle 200 famiglie le quali, secondo gli oratori del fronte popolare, governano la Francia o delle 60 le quali, a sentire i Rooseveltiani, dominano gli Stati Uniti? – e di gradino in gradino opprime la massa infima sotto un peso intollerabile di ingiustizie.
Nel 1776, le frasi anche se lette ad una ad una hanno perso il loro sapore incendiario. Adamo Smith constata un fatto: che il prodotto sociale totale non è più un tutto indistinto, interamente fatto proprio dal lavoratore; ma è un insieme distinto in quote, una sola delle quali è trattenuta dal lavoratore. C’è qualche ricordo della indignata condanna antica nell’accenno ai proprietari «i quali amano raccogliere dove non hanno mai seminato»; ma è un accenno obbiettivo; il quale può essere anch’esso interpretato non come affermazione della ingiustizia della loro partecipazione alla raccolta, ma come mera constatazione del fatto che i proprietari non hanno compiuto essi medesimi l’atto materiale della seminagione. Il moralista, il quale condanna l’ingiustizia, non è assente, ma si è ritirato nello sfondo del quadro; ed in prima linea sulla scena rimane l’economista il quale constata: nelle epoche primitive della società umana l’appropriazione di tutto l’indistinto prodotto da parte del lavoratore, libero da ogni tributo verso proprietari e capitalisti; e nelle società incivilite la divisione del prodotto sociale in quote, di cui quella minore, per testa, spetta al lavoratore e la più grossa ai proprietari ed ai capitalisti. Adamo Smith non guarda ancora ai due fatti dal di fuori, come se si trattasse di un cadavere da sezionare; egli è ancora parte di essi e l’animo suo ripugna dinanzi a quella che alla sua diritta coscienza appare una ingiustizia. Ma subito lo storico prende il sopravvento e gli fa osservare: eppure il lavoratore delle epoche primitive, il quale riceve tutto, è miserabile, laddove il lavoratore dei tempi moderni inciviliti, il quale riceve la minor parte, è un ricco epulone in confronto al suo antenato! Perché? Al perché risponde l’economista con la dimostrazione degli effetti meravigliosi della divisione del lavoro.
Il processo mentale è identico nel 1763 e nel 1776: le tre anime di moralista, di storico e di economista che erano in Adamo Smith pongono insieme il problema, il quale è proprio di tutto l’uomo vivente in società e non può essere risoluto compiutamente solo sulle basi di una astratta ipotesi moralistica od illuministica od economistica, sibbene su quella dell’esame critico di tutta la realtà. Ma nel 1763 la posizione dominante era quella moralistica dell’ingiustizia della attuale organizzazione sociale e la correzione storico-economica appariva come un’attenuante: nonostante l’ingiustizia il povero lavoratore di oggi sta meglio del più ricco potente di un tempo. Nel 1776 la disuguaglianza è un mero fatto che si tratta di spiegare. La teoria della divisione del lavoro pone un nuovo problema: poiché il lavoratore, il quale riceve solo una parte del prodotto sociale totale, sta tanto meglio dei suoi antenati, la attribuzione delle altre parti aliquote ai proprietari ed ai lavoratori ha una spiegazione? Qui comincia l’analisi superba della rendita, del profitto e dell’interesse, superba più dal punto di vista di spiegazione della realtà storica che da quello della teoria pura economica, con cui continua il gran libro. Ecco la conclusione principale che mi pare di ricavare dal confronto fra le due stesure: dal 1763 al 1776 Adamo Smith, senza rinunciare alla pienezza del suo giudizio, che è insieme morale, storico ed economico, nella sempre più raffinata meditazione dell’oggetto proprio della scienza che egli stava per fondare, studia i fatti sempre più dal punto di vista economico. Il fatto dominante non è più l’ingiustizia nella ripartizione della ricchezza; è l’altro che la nuova ripartizione ha grandemente cresciuto il benessere dei più miseri. Egli risolve l’apparente paradosso ricorrendo alla osservazione storica dei frutti della divisione del lavoro. E qui si ferma; ma l’economista par chiedere al moralista, che è tanto vivo in lui: sulla base dei fatti da me storicamente constatati ed economicamente analizzati, non c’è nulla davvero da rivedere nella tesi moralistica della ingiustizia? Era posta così la gran domanda, alla quale dopo 160 anni non si è ancora risposto.