Di nuovo i 200 milioni per i cantieri navali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/03/1922
Di nuovo i 200 milioni per i cantieri navali
«Corriere della Sera», 26 marzo 1922
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 630-633
La questione della marina mercantile nuovamente dichiarata d’urgenza. Occasione di questa sembra sia l’avvicinarsi del momento in cui le maestranze dei cantieri navali, principalmente dell’Istria e della Liguria, rimarranno completamente senza lavoro. Il ministro della marina ha dichiarato ad una commissione parlamentare di essersi recato a Trieste e di avere riportato un’impressione disastrosa dei cantieri della Venezia Giulia, i quali fra poche settimane, quando siano entrate in servizio le poche navi ultimate grazie al primo decreto Belotti, dovranno licenziare decine di migliaia di operai.
Il fatto indubbiamente doloroso; ma quali possono essere i rimedi veramente efficaci Governo e commissione parlamentare sembrano concordi nell’idea di consacrare 200 milioni (quelli del secondo decreto Belotti rimasto finora sospeso) a costruire, in primo luogo, navi adatte a sostituire il naviglio vetusto adibito a linee sovvenzionate ed a trasformare piroscafi da carico in navi miste, pure adattabili al servizio sulle linee sovvenzionate.
Contro questo metodo tradizionale di combattere la disoccupazione nei cantieri navali, si possono ripetere note obbiezioni:
- 1) Non si crea così un giorno solo di lavoro nuovo. I 200 milioni che lo stato dedica a domanda di navi non piovono dal cielo. Li pagano i contribuenti, o meglio, essendo il bilancio dello stato in disavanzo, li pagano i risparmiatori, i quali investono i loro risparmi in buoni del tesoro. È evidente che se non li investissero in buoni, li avrebbero impiegati altrimenti, creando una domanda di lavoro disseminata in tutta Italia, invece che concentrata a Trieste ed a Genova. Per dar lavoro agli uni, si toglie lavoro agli altri.
- 2) È utile togliere denaro all’industria agricola, a quella edilizia e ad altre eventuali industrie manifatturiere per darlo ai cantieri navali? Il criterio economico dice che è preferibile impiegare il risparmio nelle industrie produttrici di beni deficienti, non in quelle le quali producono beni sovrabbondanti. Ora, fra tutte le industrie, quella dei cantieri navali è oggi la più colpita dalla crisi. In tutto il mondo la navigazione è in crisi ed i cantieri sospendono costruzioni iniziate o si vedono cancellate ordinazioni ricevute. Il che è perfettamente spiegabile. Vi sono troppe navi nel mondo parecchi milioni di tonnellate di più che nell’anteguerra, mentre il carico disponibile è diminuito. Fabbricare nuove navi in questo momento sarebbe una pazzia, perché si aggraverebbe la crisi della marina mercantile. La quale si risolleverà certamente fra qualche tempo, quando, per la demolizione di navi vetuste, per la mancata costruzione di nuove navi e per il rifiorire del traffico, la domanda e l’offerta di trasporti marittimi si saranno aggiustate reciprocamente, per modo da rendere nuovamente i noli remunerativi.
- 3) In queste condizioni, è fatale che i cantieri traversino periodi di attività e di ozio. La costanza e la continuità del lavoro nei cantieri navali è un’utopia; e probabilmente sarebbe anche un errore. Non si può prevedere nei tempi di crisi quale sarà esattamente il tipo di nave più richiesto nel periodo futuro di nuove attività. Costruendo a vuoto, senza ordinazioni preventive, si rischia di costruire navi, le quali non saranno domandate da nessuno o dovranno essere vendute a perdita.
- 4) Sembra perciò che il modo più economico di provvedere alla disoccupazione operaia sia quello delle casse di disoccupazione, incaricate di pagare un sussidio ai disoccupati. Il sistema dei sussidi si presta a frodi e può spingere all’ozio, specie quando il sussidio si elevi a una quota-parte notevole del salario. L’operaio poco laborioso è tentato ad oziare, quando sia sicuro del sussidio. Non pochi operai figurano come disoccupati e percepiscono il sussidio, laddove essi sono occupati in industrie casalinghe o in campagna. Ma forse quest’ultimo pericolo è minore nei cantieri navali, in cui è impiegata una mano d’opera specializzata, la quale non trova modo di occuparsi altrove in modo clandestino.
Ragioni esaurienti generali per trattare i cantieri navali diversamente dalle altre industrie non esistono, dunque. Se è opportuno far fabbricare navi a spese dello stato, è opportuno altresì far fabbricare stoffe, macchine, rotaie, ecc. ecc., in genere tutte le merci, le quali non trovano compratori. L’esempio è contagioso: o che forse in questo stesso momento i produttori di zolfo non pretendono che il governo italiano acquisti a prezzo remuneratore 150 milioni circa di zolfo che, ai prezzi attuali, essi dovrebbero vendere in perdita? Lo stato dovrebbe convertirsi nel sovventore universale di tutte le industrie in crisi; caricarsi di tutte le merci invendibili; assicurare tutte le aziende insolventi o pericolanti. Tutto ciò è inammissibile.
Ne sono talmente persuasi i proponenti della spesa dei 200 milioni, da indurli ad impostare il problema in maniera interessante e degna di considerazione:
«Sì, è vero – sembrano dire – noi vogliamo provvedere alla disoccupazione; ma non vogliamo provvedervi ricorrendo al solito sistema di fabbricare navi quando queste sono sovrabbondanti. Noi non vogliamo che lo stato fabbrichi navi in genere, di cui ce ne sono fin troppe sul mercato, a vile prezzo. Lo stato deve invece fabbricare navi speciali, che sul mercato non si trovano e di cui ha assoluto bisogno per le linee sovvenzionate, servite oggi in parte da vecchie carcasse pericolose per i viaggiatori. Queste navi dovrebbero essere costruite ad ogni modo; tanto meglio se possono essere costruite in tempo di crisi, quando probabilmente la costruzione può farsi a buon mercato e si può inoltre alleviare la crisi della disoccupazione. Si raggiunge così l’intento di rendere più costante la domanda di navi e di evitare gli alti ed i bassi dell’eccessivo lavoro e dell’ozio deprimente».
L’argomento è plausibile; ma per diventare accettabile bisognerebbe poter rispondere affermativamente, con dati di fatto precisi, e non con chiacchiere, alle seguenti domande: lo stato ha davvero bisogno di quelle navi? Non potrebbero procurarsele le società, le quali saranno incaricate di esercire le linee sovvenzionate, posto ch’è unanime il consenso nel non volere che lo stato continui il rovinoso presente esercizio diretto? Il farle costruire dallo stato, non equivale a far imbrogliare oggi l’erario con i prezzi alti di costruzione ed a farlo imbrogliare una seconda volta con i prezzi bassi di vendita? Come si fa oggi a sapere quali siano i tipi necessari di navi, quando appena oggi è nominata una mastodontica commissione di quindici senatori e quindici deputati, fiancheggiata da un comitato tecnico di sette membri, la quale, fra l’altro, deve indicare le linee da esercire? È proprio certo che non si trovino nel mercato, a buon prezzo, navi adatte alle linee sovvenzionate? Ed è un bel modo di dare cominciamento al metodo della specializzazione dei tipi, prendere qua e là navi da carico e trasformarle in navi miste, ossia in navi né carne, né pesce, malamente rappezzate, le quali non potranno in alcun modo servire efficacemente al fine a cui saranno destinate? Questa faccenda del rabberciamento delle navi da carico in miste non fa supporre che la specializzazione sia un pretesto, e che i 200 milioni siano destinati a liberare taluni cantieri da navi non potute collocare altrove, salvo che fra le braccia misericordiose dello stato provvidente? Far costruire o rabberciare sin d’ora navi per conto dello stato non pregiudica gravemente il problema delle linee da sovvenzionare? Una volta che ci siano le navi da smaltire, non bisognerà per forza sovvenzionare le linee alle quali quelle navi unicamente siano adatte? Come sarà possibile ridurre le linee sovvenzionate a quelle assolutamente necessarie per le comunicazioni fra il continente, le isole e le colonie, come pur sarebbe indispensabile per non seguitare a rovinare – col pretesto di fomentare i traffici – la marina mercantile, creando la concorrenza artificiale di linee sovvenzionate tra l’Italia, il Levante, le Indie, le Americhe, i paesi del nord, con approdi obbligatori e con vincoli capaci di rendere passiva qualunque linea che ad un libero armatore sarebbe attivissima?
In conclusione, non è escluso che la costruzione nel momento presente di navi specializzate sia consigliabile; ma vi sono fortissime probabilità che la convenienza sia tutta teorica e pretestuosa, e che, in realtà, si tratti d’uno dei consueti assalti all’erario dello stato. In tempi in cui il governo affetta di tenere in sommo onore l’economia, è intollerabile che si faccia precisamente il contrario. Camera e senato hanno il dovere di vegliare affinché i fatti seguano alle parole; e l’opinione pubblica non mancherà di dimostrare il proprio favore verso quel ramo del parlamento, il quale meglio avrà adempiuto al proprio compito.