Dello scrivere storie per le scuole
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1955
Dello scrivere storie per le scuole
«Idea», gennaio 1955, pp. 5-9
Una mutazione notabile è accaduta o si afferma debba intervenire nel modo di scrivere storie, principalmente per i giovani: non più o non più soltanto vicende di guerre e di dinastie, date di avvenimenti, partizioni di epoche storiche, spostamenti di confini, nascita e morte di regni e di repubbliche, ritratti di capitani e di governanti, contese diplomatiche, conflitti di opinioni strategiche e tattiche, a preludio di vittorie o di sconfitte, introduzione di nuovi metodi e di nuovi strumenti di guerra, assunti a causa di vita e di morte degli imperi.
Tutto ciò, si disse e spesso si ripete, sta alla superficie della storia; è il frutto ultimo di quel che accade al di sotto: dei metodi di procacciamento dei beni economici – caccia pastorizia agricoltura industria traffici – della divisione in classi a mezzo della schiavitù del servaggio del salariato, dei tipi di organizzazione sociale, feudale capitalistica comunistica; e, su su avanzando verso l’alto, è la logica derivazione delle credenze religiose, delle scuole filosofiche, dei metodi di indagine scientifica invalsi nei successivi stadi di organizzazione economica. Più dei capitani, dei politici, dei regnanti importa far conoscere il contadino e il lavoratore, il servo e il mercante, il poeta ed il letterato; un canto di Omero ed una satira di Orazio importando assai più del racconto di una celeberrima battaglia a far rivivere luoghi tempi passioni sentimenti credenze dei tempi che furono.
Nella tesi è non un piccolo germe di vero; e sono per fermo laudabili gli sforzi compiuti da taluni compilatori per distinguersi «dai manuali scolastici di storia in uso nelle scuole, che si presentano di solito come elenchi di fatti e di avvenimenti ed esigono da parte del lettore e dell’allievo uno sforzo unicamente diretto ad apprendere la cronologia e la successione degli avvenimenti»; né debbono essere tenuti in scarso conto i tentativi di «legare fatti ed avvenimenti sia tra loro sia con i problemi di fondo del momento o dell’epoca con lo svolgimento della storia». Non dobbiamo tuttavia dimenticare che nello scrivere storie scolastiche è grave il pericolo di cadere nell’andazzo, e, come prima l’andazzo moltiplicava le date le epoche i nomi, riducendo la conoscenza del passato a meri esercizi mnemonici, così l’andazzo odierno di illustrare per classi sociali, per tipi di produzione, per scuole e sette filosofiche scientifiche e politiche affastella le categorie gli schemi le astrazioni, sicché di nuovo i giovani avidi di imparare, stringendo in mano parole, immaginano di sapere, laddove ripetono formule scarsamente intelligibili, le quali non suscitano nella mente alcuna immagine di vero.
Giova riconoscere che lo scrivere storia compiuta, la quale cioè non si limiti alla narrazione dei grandi avvenimenti ed alla dipintura dei grandi uomini, ma analizzi i rapporti esistenti tra tutti gli aspetti della vita, religiosi filosofici scientifici economici sociali tecnici letterari ed artistici, è impresa assai più ardua di quel che non fosse dar mano alla storia comunemente detta politica; sovratutto perché a scrivere storia compiuta si richieggono doti che sono di pochissimi. Forse molti schiveranno lo errore volgare di immaginare, secondo una interpretazione oggi universalmente rifiutata, che la storia si svolga a piani sovrapposti: al basso la struttura economica della società, i metodi di procacciarsi il cibo e le altre cose necessarie alla vita, secondo noti schemi di organizzazione sociale o di procedimenti acquisitivi; e, via via salendo, si arricchisca illustrando sovrastrutture successive di classi soggette e dominanti; di governi tirannici aristocratici o democratici, di religioni filosofie e dottrine politiche e scientifiche, di scuole poetiche ed artistiche.
Solo qualche uomo di genio è riuscito a far dimenticare, con la potenza della rappresentazione artistica, l’artificio del quadro così costruito; artificio il quale sta nell’affermare che a fondamento di ciò che accade sia una cosidetta struttura economica e nel descrivere le azioni ed i pensieri degli uomini, dai più semplici ai più alti, come fossero funzioni necessarie della premessa economica. La qual tesi non essendo mai stata dimostrata e non essendo dimostrabile e per giunta essendo troppo grossolana, niuno è che, dopo breve voga, segua oggi siffatto andazzo, e non procacci di sostituire, al grezzo metodo dei piani sovrapposti, strumenti più logici ed eleganti di correlazione storica.
Altri, vista la difficoltà di collegare, per dimostrazioni logiche di causa ad effetto, ad una fonte prima unica gli accadimenti umani, si appagano di porre le une accanto alle altre le dipinture dei diversi aspetti della vita; e ragionano in capitoli o paragrafi successivi di vicende belliche e politiche, di variazioni economiche; e descrivono, quasi ricalcando un piano, il succedersi delle scuole filosofiche, delle credenze religiose, delle tendenze teoriche letterarie ed artistiche quasiché la sequenza avesse significato di interpretazione causale.
Ma ognuno, il quale sia perito in qualche particolare branca del sapere, facilmente si avvede del balbettio del compilatore di cotali storie in quel suo ramo e parimenti se ne avvede ogni altro perito, ciascuno nella branca a lui nota. Ed ognuno, il quale ponga attenzione alla sequenza dei fatti e delle idee esposte, altrettanto agevolmente si avvede che la narrazione politica non ha alcun legame logico con quella economica; ed amendue sono inette a gettar luce sulle variazioni delle idee, delle credenze, dei costumi e delle arti. Il danno è piccolo nei trattati maggiori, quando il direttore distribuisce per argomenti il compito a scrittori diversi a norma della particolare loro perizia; ché, fortunatamente, ognuno di essi contempla il peculiare suo mondo con l’occhio suo proprio; e, se non si può evitare il contrasto tra il capolavoro insigne e la compilazione diligente, l’uno all’altra avvicinati dal mero accidente editoriale, si scansa l’altro maggiore pericolo di vedere guasto il capolavoro dalla necessità di tener in esso conto di quel che ha visto su quel punto l’erudito utile compilatore. Il lettore avveduto mediterà il capolavoro e consulterà, quando ciò giovi, la compilazione; senza preoccuparsi del legame di interdipendenza che dovrebbe esistere tra le rispettive materie.
Se, per i grandi trattati, la salvezza viene dalla libertà del lettore avvertito di preferire i capitoli buoni e di negligere i mediocri; non così per i libri scolastici, informati all’andazzo odierno, e dei quali la lettura è al paziente fatta obbligatoria dai programmi scolastici; e la noia e l’oblio sono il frutto e la sanzione lacrimevole dell’andazzo. Non v’ha differenza tra la noia dell’apprendere date e filastrocche di regnanti e di capitani e quella del comprendere e ricordare il significato di schemi e simboli ai quali si dia nome di salariato e capitalista, di servo e schiavo, di dirigismo e liberismo, di corporativismo e comunismo. Sempre trattasi di parole astratte, dietro alle quali solo un lungo studio e una lunga esperienza riescono a fare intravvedere azioni e condotta e pensieri di uomini veri viventi in una od in un’altra epoca, in uno o altro tempo, in questo o quel rapporto, di contrasto o di comunanza, con altri uomini viventi nello stesso o diverso tempo, nella medesima o diversa epoca. I legami di interdipendenza fra gli accadimenti ed i pensamenti esistono; ma il fattore dominante, il fattore che sembra essere alla radice ora è l’uno ed ora l’altro; e vi sono fattori che importa conoscere ed apprezzare in un momento e luogo e allora collegarli con altri fattori; ma che non hanno peso e forse non esistono in altri luoghi e momenti. Il mondo degli uomini è bello perché è vario e mutabile, e le storie sono leggibili e forse anche istruttive perché quel che accade oggi non è accaduto identicamente ieri e non si ripeterà domani.
Il canone di interpretazione della Storia d’Italia dal 1870 al 1914 è stupendo perché è di Benedetto Croce; ma lo stesso canone maneggiato da altri diventa una macchinetta, che subito viene la voglia di smontarla, quasi fosse un giocatolo da bambini. Leggendo, par di conoscere sin dalle prime pagine lo svolgimento del racconto: come quando, a cagion d’esempio, vien fuori la enunciazione del «sostrato» economico di qualche successione di fatti; che poi non è per nulla un sostrato, ed appare agli economisti professionali un’infilzata di parole generiche, dalle quali esse non apprendono nulla che abbia sapore economico o li interessi menomamente; o come quando si contempla la posizione della solita tesi e poi dell’antitesi e quindi della conseguente sintesi dialettica; posizione usata per ogni sorta di vicende umane ed utile solo ad agevolare le risposte degli scolari, i quali risparmiano così la fatica di intuire quel che di volta in volta è caratteristico di una epoca o di un avvenimento.
Il fastidio verso gli andazzi in sostanza è il fastidio verso i pedissequi, gli imitatori ed i contraffattori dei grandi storici; e siccome i grandi non si incontrano ad ogni canton di strada, la noia di doversi assoggettare ai ripetitori consiglia, per istinto di ribellione, il ritorno agli eruditi di storie locali, ai modesti ricercatori di documenti bene letti e bene pubblicati, ai raccoglitori di briciole e di aneddoti, ai produttori di quella che i francesi chiamano la «petite histoire». Sono diventato alquanto scettico anche verso quest’ultima specie di storia, da quando, chiamato a coprire un ufficio pubblico esposto alla curiosità dei produttori della cronaca quotidiana, mi sono avveduto che, fuor del fatto nudo e grossamente visibile – arrivi e partenze, cerimonie e discorsi, visite condoglianze o complimenti – ben poco del racconto poi letto sui diarii rispondeva all’accadimento effettivo, visto nelle sue molte, poche o nulle particolarità significative; sicché persisto a leggere i libri della «petite histoire» solo perché mi sembrano più interessanti e non di rado più illuminanti delle novelle e dei romanzi del giorno, privi della venerazione dovuta ai capolavori.
Se i manuali scolastici non debbono infastidir con date o con schemi i disgraziati scolari, importa scriverli in modo che i giovani apprendano qualcosa di ciò che accadde in passato e siano spinti a tentare di capire il perché o una parte del perché e del come l’accadimento si verificò. Non oserei perciò dire che una tal quale parte fatta alle guerre, alle invasioni, ai guerrieri, ai re, ai rivoluzionari, ai santi ed ai malvagi sia in tutto inutile.
Se non esistessero i programmi ufficiali obbligatori ed i conseguenti esami, dei quali è difficile immaginare, se non fossero la radio e la televisione, strumento meglio adatto all’istupidimento dei giovani, e gli insegnanti fossero liberi di discorrere di ciò che a loro piace; guerre e guerrieri, re e ribelli offrirebbero spunti stupendi per insegnare storia in disordine. Che non è la meno efficace maniera di far innamorare le menti giovanili avide di apprendere le storie del passato: quanti di noi non hanno cominciato a guardare alla storia di Francia, come a qualcosa che meritava appassionato studio, grazie alla lettura dei romanzi di Dumas o ad interessarsi alla storia del Piemonte, leggendo i romanzi di Gramegna, di Calandra o di Augusto Monti?
Perché, discorrendo delle ragioni per cui gli stati crescono e decadono non leggere nel Milione di Marco Polo, nella versione di Crusca, detta «l’ottima» per il gusto trecentesco della sua stesura, il perché della conquista d’un continente da parte dei Tartari?:
«E si vi dico che, quand’elli è bisogno, eglino cavalcano bene giornate sanza vivanda che tocchi fuoco, ma vivono del sangue delli loro cavagli, ché ciascuno pone la bocca alla vena del suo cavallo e bee. Egli hanno ancora loro latte secco come pasta, e mettono di quel latte nell’acqua e disfannolovi dentro, e poscia il beono. E vincono le battaglie altresì fuggendo come cacciando, ché, fuggendo, saettano tuttavia, e gli loro cavagli si volgono come cani; e quando gli loro nemici gli credono avere isconfitti cacciandogli, e egliono sono isconfitti egliono: perciocché tutti gli loro cavagli sono morti per le loro saette. E quando gli Tarteri veggono chegli cavagli di coloro che gli cacciavano, morti, egliono si rivolgono a loro e sconfiggongli per la loro prodezza. E in questo modo hanno già vinto molte battaglie» (a pag. 63 dell’ed. Einaudi, in Torino, 1954).
Dove si vede che il vivere parco e l’usare astuzia hanno qualche parte nel formare stati; e sono virtù valide oggi come ieri e faticose a conquistare. I piemontesi ebbero fama di soldati valorosi e tenaci: sebbene non fossero tali nel primo cinquecento e, per essere dediti al vino poltroni e pronti a disertare, avessero ridotto il loro duca Carlo, perciò detto il buono, a perdere quasi tutti i suoi stati ed a chiudersi in Vercelli. Emanuele Filiberto, facendo morire sotto la mannaia qualche nobile traditore, serrando parecchi altri nella fortezza di Mommeliano e mandando plebei malviventi e renitenti a pendere sulle forche, riuscì in breve ora a rendere prodi e tenaci quegli stessi uomini che prima erano poltroni e beoni. Dove si impara che non esistono popoli congenitamente valorosi e conquistatori; e basta talvolta che al padre «buono» succeda un figlio testa di ferro perché l’indole dei popoli muti. Che, ovviamente, non è la spiegazione piena delle mutazioni piemontesi; ma è l’avvio, stimolante per il giovane, ad approfondire ed intendere il problema storico, mentre la filastrocca delle date aride e degli schemi altrettanto mutoli a nulla gioverebbe.
Marco Polo teneva in gran pregio la morigeratezza e la giustizia come creatrici e in gran dispetto lo stravizio e la malvagità come distruttrici di regni. La Piccola Armenia, ad esempio, è soggetta al Gran Cane che vi mantiene «giustizia buona». Perché gli armeni perdettero la signoria di sé medesimi? Marco non pone direttamente il problema; ma sobriamente nota: «Quivi soleva già essere di valenti uomini: ora sono tutti cattivi; sono rimaso loro una bontà: che sono grandissimi bevitori«» (p. 15). E perché ad un certo punto parve che tutta l’Asia e parte dell’Europa cadessero sotto il dominio dei Tartari?
Ora avvenne che nel 1187 anni gli Tarteri feciono uno loro re che ebbe nome Cinghys Cane. Costui fue uomo di grande valenza e di senno e di prodezza; e si vi dico che, quando costui fu chiamato re, tutti gli Tartari, quanti n’erano al mondo, che per quelle contrade erano si vennoro a lui e tennolo per signore. E questo Cinghys Cane tenea la signoria bene e francamente; e quivi venne tanta moltitudine di Tarteri, che non si potrebbe credere. Quando Cinghys si vidde cotanta gente, apparecchiossi con sua gente per conquistare altre terre. E sì vi dico ch’egli conquistò in ben poco di tempo otto provincie.
E non faceva male cui egli pigliava né mò rubavano, ma menavanglisi dietro per conquistare l’altre contrade; e così conquistò molta gente. E tutta gente andava volentieri dietro a questo signore, veggendo la sua bontà. Quando Cinghys si vidde tanta gente, disse che voleva conquistare tutto il mondo» (p. 55).
Se quasi riuscì nell’impresa, Marco Polo non dà il merito alle armi, sibbene alla «bontà» del conquistatore. Governava «bene» e «francamente»; né incrudeliva contro i vinti; sicché le genti recavano a lui le armi e per lui combattevano; e con lui prosperavano. Come si vide poi col suo nepote, il Gran Cane del tempo di Marco Polo, il quale governava in pace un impero del quale non si vide mai il maggiore.
Ho forse dichiarato la tesi che, nello scrivere storia per i giovani, si debba ritornare ai re ed alle guerre? Mai no. Se appropriato, l’avvio dato al racconto è buono, sia quello dei re e delle battaglie, sia l’altro dello stato dell’agricoltura e dell’industria o dei rapporti tra padroni e schiavi od uno ancora diverso; purché il racconto non si riduca né a date né a schemi, né a divisioni per epoche né a classificazioni per tipi. Non solo perché date, schemi, epoche e graffe sono noiosità che fanno dormire in piedi i giovani e li persuadono a far passare il tempo manipolando pallottoline di carta da buttare alla cattedra; ma perché sono false. Esistono sequenze e correlazioni; ma non si ripetono e perciò sono ardue da scoprire e stupende da narrare. Non esistono invece tipi leggi fatalità necessità, che son tutte invenzioni comode per i compilatori privi di fantasia creatrice e micidialissime per la conoscenza della storia.