Opera Omnia Luigi Einaudi

Della fonte del risparmio e della tassazione del reddito normale come approssimazione alla esclusione del risparmio dalla materia imponibile

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1958

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1958, pp. 451-468

161. Mentre meditavo, con sommo diletto, come accade per i libri belli, sulle pagine dei Principii del De Viti e cercavo di inseguire colla mente le trasmutazioni dei beni strumentali in beni diretti e le conseguenti vicissitudini tributarie, mi accadde di leggere, nelle ore in cui la mente ama riposare, uno dei più attraenti e meritamente fortunati romanzi d’oltre Atlantico, Maria Chapdelaine, di uno scrittore, ignoto ieri famoso oggi, Louis Hémon, morto giovine innanzi che la gloria del suo unico libro potesse essere oscurata dalla possibile mediocrità di quelli che forse sarebbero venuti di poi[1]. È il poema potente del pioniere nel Canadà francese, la rivelazione del perché un pugno di uomini, non più di 80 000, abbandonati dalla madre patria nel 1763 si sia moltiplicato (circa 2.750.000 nel solo Canadà, senza contare le propaggini numerose degli Stati Uniti), abbia popolato province, e sia oggi divenuto il popolo più prolifico, più compatto, più tradizionale e vivo dell’America settentrionale. Leggendo quel libro, si sentono le ragioni profonde che muovono gli uomini alla conquista della terra, che fanno le famiglie, le razze grandi e durature. Si vedono anche, e perciò ricordo quel romanzo, nitidi, non oscurati da superstrutture monetarie e da convenzioni verbali, i fenomeni del lavoro, del salario, del profitto, del risparmio. La terra si stende vasta, senza limiti, dinnanzi agli occhi del pioniere ma coperta di abeti, di pini, di sterpi e cespugli d’ogni sorta; ma priva di strade, ma intersecata da fiumi, ma sepolta per sette mesi dell’anno sotto una spessa coltre di neve e di ghiaccio. Samuel Chapdelaine è un pioniere, che ha l’istinto dell’ignoto, del lontano. Uno dopo l’altro egli ha dissodato tre o quattro poderi. Solo, con la fedele compagna della sua vita, egli si ferma su un terreno, dove il pascolo gli permetta di alimentare le sue due vacche e dove esista la possibilità di «fare della terra». «Io, dal mattino alla sera, batti e batti colla scure, senza mai tornare a casa eccetto che a pranzo, e lei, lungo tutta la giornata, ad attendere alla casa a curare gli animali, a tenere le chiusure in ordine, a pulire la stalla, faticando senza tregua. Tre o quattro volte al giorno, davanti alla porta, restava un momento a guardare là dove io, giù al limite del bosco, a tutta forza sbarazzavo colla scure il terreno dai cespugli e dai tronchi per farle della terra». Quando in luglio le sorgive attorno alla casa inaridiscono, la donna otto o dieci volte al giorno scende al torrente e a braccia ed a spalle porta su l’acqua per le vacche. Anni ed anni, di duro lavoro e di «miseria» si susseguono; e poi vengono i figli e il lavoro ricomincia su terre nuove, più adatte ai bisogni della cresciuta famiglia. Quando i figli sono ancor piccoli, il pioniere assume un servo di campagna per aiutarlo «a fare la terra»; divenuti capaci al lavoro, il servo non più necessario non è licenziato; ma, d’inverno, quando la terra è coperta di neve, con i due figli maggiori, se ne va a guadagnare il pane come boscaiolo, al soldo di una delle società le quali più in alto ancora «fanno» legna da costruzione e materia prima per le cartiere.

162. Il reddito dove è? È il frumento, è il latte, è il formaggio, è il burro, è la lana, è la carne che ogni anno si trae fuori dalla terra fatta.

Il risparmio dove è? È il «fare la terra», l’abbattere alberi, farne travi ed assi e con quello fabbricare la casa e la stalla e le chiudende.

È l’allevamento di una prima vacca e poi di parecchie che utilizzino i pascoli anch’essi fatti, ripuliti da tronchi, da pietre, divisi in chiudende.

L’imposta su che cosa cade? O meglio in che cosa possiamo noi credere debba cadere l’imposta affinché Samuel Chapdelaine la ritenga equa? Sul frumento, sul latte, sul formaggio, sul burro, sulla lana, sul godimento della casa d’abitazione; sui beni diretti che la famiglia di mano in mano riesce a procurarsi in copia sempre maggiore.

L’imposta non cade sul fare «la terra», sul costruire la casa, sull’allevare vacche e vitelli; perché la terra che si sta facendo, la casa che si costruisce, le vacche che crescono sono beni strumentali; e Samuel Chapdelaine sentirebbe subito che l’imposta lo colpisce due volte; prima nella terra che si fa e poi nel frumento che esce dalla terra fatta, prima nella casa che egli ed i figli mettono su tronco a tronco e poi nel riposo di cui godranno contro le nevi ed i venti del lungo inverno.

163. E il risparmio da dove sorge? Non da un salario non pagato; non dall’avere negato al servo di campagna, il quale da undici anni, ad ogni ritorno dell’estate ritorna anch’egli sul podere, un centesimo di quel che gli è dovuto per il suo lavoro. Viene dalla fatica e dalla «miseria» che Samuel Chapdelaine ed i suoi hanno durato per tanti anni. Viene anche, sebbene egli non ne abbia neppure coscienza, dalla sua capacità di pioniere, dall’amore che egli ha per la terra nuova, mai prima abitata, dall’ambizione di «fare» della terra sempre più bella, dove finalmente i suoi figli possano mettere radici. Altri, suo vicino, non riesce a vivere nemmeno sulla terra «già fatta». Sono arrivati da poco, nei dintorni, tre francesi della Francia, tre uomini dalle mani di cittadini, che parlano un francese ricercato tanto diverso dal semplice francese del secolo XVII e che questi rudi canadesi guardano con stupore ed ammirazione, quasi fossero uomini di un’altra razza. I loro vicini ed essi medesimi sono persuasi che il fallimento li aspetta. La terra, sebbene già fatta, non è in grado di dare neppure un salario a chi non è capace di amarla, di fecondarla, di aspettare. Essa mangerà i risparmi vecchi che i nuovi venuti si sono portati dalla Francia; e li rigetterà sulle vie della città da cui sono venuti.

164. Così è dappertutto. Nello stesso modo come il risparmio non va da sé al pioniere, né egli lo trae da un salario non pagato; né consiste nel frumento, nel latte, nella lana che egli consuma o che vende per procurarsi altri oggetti di consumo; ma viene da un lavoro di fatica materiale, di previsione, di organizzazione per cui si aspetta ancora una remunerazione (frumento degli anni futuri, abitazione per l’inverno prossimo); cosi dall’imprenditore della nostra complicata società il risparmio non si fa con le spese sostenute per acquistare materie prime, per salariare impiegati ed operai, per prendere a nolo il capitale necessario all’impianto della fabbrica. Tutte queste spese l’hanno sostenute anche altri, l’ha sostenute anche il progettista che si è gittato, senza le volute qualità, nella stessa impresa e che dal mercato è costretto a pagare, al paro dell’imprenditore, l’intiero salario all’operaio, l’interesse completo al capitalista, il prezzo pieno delle materie prime al fornitore. Ma l’imprenditore ottiene un profitto e può risparmiare, laddove il progettista perde; ed i profitti ottenuti dagli imprenditori, come le perdite dei progettisti sono disposti lungo una gamma positiva e negativa che va, nei due sensi, dallo zero a limiti non precisabili.

165. Il problema che deve risolvere l’imposta è di una complicazione straordinaria:

— l’imposta deve colpire tutta la massa dei beni diretti che sono prodotti e consumati nell’anno, in proporzione alla quota, netta da spese, con cui ogni contribuente partecipa alla massa comune;

— l’imposta non deve colpire la terra che si fa, il bene strumentale che si crea nel periodo od anno considerato, e che non si è ancora trasformato in beni diretti. La tassazione in questo momento farebbe doppio con la tassazione dei beni diretti in cui i beni strumentali sono poi destinati a trasformarsi;

— l’imposta deve colpire la terra che si disfa, il bene strumentale che si consuma nel periodo od anno considerato; perché il disfacimento della terra, il consumo del bene strumentale vogliono dire la loro trasformazione in beni diretti, senza ricostituzione della frazione consumata. Se non si tassasse, come oggi non si tassa[2] il logorio della terra e dei beni strumentali, una frazione, dei beni diretti prodotti nell’anno sfuggirebbe all’imposta.

166. I soli legislatori, i quali risolsero il quesito nella maniera concretamente la più approssimata all’equità, che si voleva raggiungere, furono[3] quei «grandi economisti che, ignoti all’Europa reggevano nel secolo scorso [XVIII] le sorti della Lombardia». Essi scopersero il metodo della tassazione del reddito normale od ordinario, detto anche catastale, col quale non si cerca la verità di fatto sui guadagni e sulle perdite che hanno i singoli contribuenti; ma si indaga quale sia il reddito che, data quella terra di una certa fertilità e posizione e cultura, o data quella attrezzatura di fabbrica, l’imprenditore normale riuscirebbe ad ottenere. L’imposta colpisce quel reddito normale, che una quantità superiore ai redditi bassi ottenuti dagli imprenditori inabili ed alle perdite dei progettisti, ed inferiore ai redditi alti conseguiti dagli imprenditori abili e fortunati. Altrove[4] ho studiato quali siano le caratteristiche economiche e tecniche del metodo catastale, che lo pongono bene al disopra dei metodi «barbari» (cosi qualificati dal Cattaneo) con cui nelle «colte nazioni» si infliggono multe all’attività dei contribuenti e che oggi son di moda col titolo di imposte sul reddito vero od effettivo. Ed ivi ho anche dimostrato tutti gli inconvenienti e le difficoltà della tassazione dei sovraredditi o dei redditi effettivi individuali.

167. Qui, sviluppando un pensiero accennato in altra occasione, importa mettere in rilievo come il metodo della tassazione del reddito ordinario sia altresì un avvedimento il quale attua mirabilmente le esigenze della tassazione dei soli beni diretti, ad esclusione degli incrementi dei beni strumentali.

Che cosa è invero il reddito ordinario se non quello che è ottenuto dall’imprenditore ed in generale dal contribuente medio il quale utilizza il fattore di produzione, che è suo, secondo le attitudini di un buon padre di famiglia, secondo cioè attitudini medie, normali, non eccellenti e non deteriori? In ogni campo, il reddito normale ottenuto dal contribuente che io chiamerei rappresentativo, se non fosse più chiaro tenersi alla terminologia, oramai tradizionale, di contribuente marginale[5].

Se imprenditore, è contribuente marginale colui il quale paga ai lavoratori il salario corrente, al capitalista l’interesse di mercato, ai fornitori il prezzo corrente per le materie prime e i macchinari e guadagna per sé la remunerazione ordinaria spettante ad uomini dotati della capacità direttiva ed organizzativa richiesta normalmente per la sua funzione.

Se lavoratore, è contribuente marginale colui il quale compie il lavoro normale relativo alle sue attitudini e riceve il salario corrispondente.

Se professionista è contribuente marginale colui il quale utilizza le sue attitudini professionali in modo da ottenere altresì un reddito corrispondente ad esse.

Se proprietario è contribuente marginale colui che mantiene il suo terreno in condizioni di efficienza normale secondo le consuetudini invalse e le norme tecniche generalmente osservate nella sua zona agraria e ne ricava un reddito, variabile da terreno a terreno, ma tale da non eccedere né rimanere al di sotto di quello che ordinariamente sì ottiene in quelle condizioni.

Se capitalista, è contribuente marginale colui che non cerca impieghi particolarmente avventurosi, ma si tien pago del frutto che normalmente si può ottenere dal risparmio impiegato con la sicurezza che si confà alla prudenza propria dei buoni padri, di famiglia.

E così via. Il contribuente marginale è colui che non disfa la terra ma nemmeno la fa; è colui che non cresce la dotazione iniziale in beni strumentali, ma neppure consente che diminuisca per logorio non riparato. È il contribuente conservatore del patrimonio avito, che lo mantiene intatto, che è attento a ricostituire ma non in grado di costruire. Se tutti i contribuenti fossero marginali e ottenessero né più né meno che il reddito necessario a remunerare l’opera loro, sia di lavoro manuale come di lavoro intellettuale, sia di esecuzione come di organizzazione direttiva, sia di impiego di capitale come di utilizzazione delle loro proprietà, la società economica non muterebbe di tempo in tempo. Ogni anno un flusso costante di beni diretti sarebbe messo a disposizione degli uomini e sarebbe consumato; ogni anno una frazione della terra «fatta» ridiverrebbe selvatica, una frazione delle case costrutte crollerebbe, una frazione delle macchine, delle navi, delle strade, delle scorte esistenti si logorerebbe trasformandosi in beni diretti; ed ogni anno, formiche pazienti, gli uomini provvederebbero alla reintegrazione dei fattori distrutti, dimodoché, ferma rimanendo la dotazione di beni strumentali, costante risulterebbe il flusso dei beni diretti.

In questa immaginaria condizione di cose, lo stato preleverebbe ogni anno una frazione di beni diretti annualmente prodotti e rispetterebbe la dotazione, perpetuamente rinnovellata e conservata, dei beni strumentali.

168. La società vera non è uguale alla società immaginaria. V’ha chi sale e chi scende. Vi sono i contribuenti sub-marginali, i quali non giungono a guadagnare il salario normale, l’onorario normale, il profitto d’intrapresa ordinario, il reddito fondiario dominicale ordinario. Siccome i loro bisogni sono però, per ragioni psicologiche di imitazione, per la inconsapevolezza delle proprie loro qualità inferiori alla media del compito che essi si sono assegnato[6], cosi essi consumano più del reddito in beni diretti che realmente producono, disgregando cosi a poco a poco la dotazione di beni strumentali che avevano ereditato da un periodo precedente. E la disgregano altresì perché, non essendo in grado di usarne economicamente, il logorio che il tempo e l’uso producono non è compensato da una produzione sufficiente a fornire quote normali di manutenzione, riparazione e reintegrazione.

E vi sono i contribuenti sopra-marginali, i quali dalla stessa dotazione di beni strumentali, e possiamo per i lavoratori considerare come beni strumentali le attitudini congenite od acquisite, riescono ad ottenere più del salario normale, del profitto marginale d’intrapresa, del reddito dominicale ordinario della terra. Se, come spesso accade, i loro bisogni di consumo immediato non crescono subito solo perché crescono oltre l’ordinario i loro redditi, costoro dedicheranno il supero oltre il reddito normale, ordinario, sufficiente per il tenor loro di vita già invalso, alla produzione di nuovi beni strumentali, in aggiunta alla reintegrazione di quelli che già esistevano all’inizio di ogni tempo successivo.

169. Se i beni strumentali sono visti come opere di rimboschimento e di sistemazione della montagna, di sistemazione e di arginatura del fiume, di costruzione di canali adacquatori nelle loro varie ramificazioni, dalle maggiori alle più minute, di livellazione di terreni, noi diremo che in una società di uomini marginali, tutte cotali opere vengono mantenute in perfetto stato, ma non vengono migliorate. Lo stesso volume d’acqua viene convogliato, gli stessi campi vengono adacquati, la stessa massa di beni diretti viene prodotta di anno in anno.

In una società progressiva, di uomini sub-marginali, la montagna trascurata, gli argini non sono curati, i fossi adacquatori a poco a poco si colmano. La degradazione è insensibile. Gli uomini ottengono in ogni anno un frutto dalla terra quasi uguale a quello dell’anno precedente; quasi, ma non proprio lo stesso. Dopo dieci, dopo vent’anni la differenza è sensibile. Dopo cent’anni, dove erano fiorenti campagne, ricche di uomini, domina la malaria e pascola il bufalo.

In una società progressiva, di uomini sovra-marginali, la montagna è sempre è meglio curata, il rimboschimento viene spinto alle massime altitudini, la terra viene trattenuta con opere di difesa, con sbarramenti, con laghi artificiali, gli argini sono resi infrangibili, il deflusso delle acque viene regolato e portato a beneficare una superficie agraria sempre più vasta. I frutti della terra crescono di anno in anno e mantengono copia crescente di popoli sempre più rigogliosi.

170. Quale condotta deve tenere l’imposta dinnanzi a questi tre tipi, i quali non sono in verità di società stazionarie; regressive o progressive, ma tipi di uomini conservatori, dilapidatori e costruttori nella stessa società; tipi dal cui alterno prevalere dipende lo stato di stazionarietà, di decadenza o di progresso della società intiera?

I grandi economisti, che si chiamarono Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri diedero al quesito questa memoranda risposta: «comportati, o stato, nel distribuire l’imposta come se tutti gli uomini del tuo paese appartenessero al tipo degli uomini marginali o normali. Ignora l’esistenza degli uomini sub e sopra-marginali»[7].

171. Perché, invero, lo stato dovrebbe preoccuparsi delle esigenze degli uomini che non sanno utilizzare normalmente i beni strumentali di cui sono forniti o che li utilizzano eccezionalmente bene? Non ha reso egli parimenti i suoi servigi a tutti? Il suo esercito non ha forse difeso tutti ugualmente, il suo magistrato e il suo funzionario non hanno forse tutelato di tutti egualmente i beni e la integrità fisica? Non ha fornito a tutti uguali opportunità di istruirsi e di elevarsi? Perché dovrebbe lo stato soffrire le conseguenze della cattiva condotta altrui o partecipare ai vantaggi di una condotta particolarmente buona, di cui il merito non risale fino a lui? Perché dovrebbe lasciare intristire i suoi servigi solo perché taluno dei contribuenti non è in grado o non ha voglia di utilizzare i suoi mezzi di produzione? Perché dovrebbe magnificare ed ingrossare i suoi servigi fin dal momento in cui il contribuente pianta l’albero sulla montagna e non aspettare, come fanno gli uomini del suo paese, ad estendere i suoi compiti, a spendere di più, quando, per opera del rimboschimento montano, la terra del piano abbia cominciato a fruttare maggiormente?

Che se lo stato vuole, come talvolta bene deve volere, essere il primo degli imprenditori sopra-marginali del suo paese; se vuole trasformare l’indirizzo della produzione in guisa da produrre, per il momento, minor copia comparativa di beni diretti pronti all’immediato consumo e maggior copia di beni strumentali; se cioè vuole prelevare imposta per costruire, esso, quelle opere di rimboschimento, di arginatura, di redenzione delle terre sommerse e paludose; se perciò intende ridurre i redditi consumabili presenti per crescere i redditi consumabili futuri; perché mai dovrebbe ripartire queste stesse straordinarie imposte in guisa da lasciare immuni i contribuenti sub-marginali, i dilapidatori delle dotazioni già esistenti di quei beni marginali che egli vuol crescere e da tassare di più coloro che, per la loro indole sopra-marginale, spontaneamente collaborarono già all’impresa sua di incremento della attrezzatura economica del paese? I frutti dell’opera statale non andranno forse a beneficio potenzialmente, di tutti i produttori, anche dei sub-marginali? Se questi non ne sapranno trarre loro pro, perché i contribuenti sopra-marginali, debbono soffrire il danno della loro incapacità e della loro ignavia?

172. A questo punto siamo in grado di modificare la norma esposta dal De Viti la quale dice (cfr. sopra § 38):

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito»;

in quest’altra:

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito normale — al reddito che il produttore o lavoratore normale avrebbe avuto ordinariamente in rapporto ai mezzi di produzione posseduti — debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito normale».

173. La norma posta dal De Viti è un tentativo di risposta al quesito: quale è il consumo individuale dei servigi pubblici generali? Come si osservò sopra, ogni fattore di produzione riceve una remunerazione corrispondente al valore del suo apporto. Possono verificarsi attriti, errori, danni sociali a causa delle maniere con cui il mercato fissa la remunerazione di ogni fattore; ed una branca importantissima della scienza e dell’arte economica è quella che studia quegli attriti, errori e danni e ne indica i rimedi. La regola normale è: la remunerazione del lavoro è in funzione del valore del lavoro, non del valore di un altro fattore della produzione, del capitale o della terra o del genio di intrapresa; la remunerazione dell’imprenditore è in funzione del valore del suo apporto e non del valore di qualsiasi altro apporto, ad esempio del lavoro o della terra. Il solo stato vede determinata la sua remunerazione in funzione non del valore del suo apporto alla produzione comune, ma in funzione del reddito dei contribuenti, ossia della remunerazione di ogni altro fattore della produzione.

È questa, in un terreno oscuro e destinato a rimanere oscuro per sempre, la migliore approssimazione esistente alla verità ignota. Ma sia ben chiaro che è una approssimazione imperfettissima. Perché il valore dell’apporto fornito dallo stato dovrebbe essere proporzionale a volta a volta al valore dell’apporto degli altri fattori della produzione, del capitalista, del lavoratore, dell’imprenditore? Nessuno degli apporti di questi altri fattori è misurato in questa maniera bislacca. Il salario dell’operaio non è una proporzione costante del profitto dell’imprenditore, né questo di quello. Le proporzioni variano da caso a caso e sono determinate dal principio di dare a ciascuno fattore quel che esso si merita, qualunque siano le proporzioni rispettive, che dall’attribuzione derivano.

174. A me pare che l’aggiunta dell’aggettivo «normale» alla proposizione posta dal De Viti faccia compiere un progresso ai criteri di valutazione dell‘apporto statale. Senza quell’aggiunta, la norma lascierebbe all’arbitrio degli altri fattori della produzione di pagare o non pagare lo stato a seconda del «proprio» successo nel collaborare all’opera comune. L’incapace, il presuntuoso che perde non pagherebbe nulla; il capace e laborioso pagherebbe assai. Lo stato sarebbe una specie di parassita che si adatterebbe a riconoscere che il suo apporto non vale nulla se non val nulla quello degli altri collaboratori e acquista valore solo se gli altri gliene attribuiscono. Questa è una posizione teoricamente insostenibile. Ogni fattore vale per quel che vale, non per il valore che gli concedono altri in rapporto alla loro propria potenza produttiva. L’operaio non pensa affatto che il suo lavoro non valga nulla, solo perché il suo imprenditore sciaguratamente fallisce. La norma per cui gli operai sono pagati, ad uguale abilità, ugualmente da imprenditori diversamente fortunati, è molla potente di progresso economico e contribuisce alla eliminazione degli imprenditori disadatti ed alla vittoria dei migliori.

L’aggiunta dell’aggettivo «normale» ha per iscopo di mettere lo stato nella stessa situazione di tutti gli altri fattori della produzione. Sia pure che lo stato sia pagato, non potendosi scoprire norma migliore, in funzione del valore degli altri fattori di produzione e non del valore proprio; ma sia pagato da tutti in relazione al valore che ogni singolo fattore normalmente ha, astrazione fatta dal successo od insuccesso individuale. I servigi pubblici sono resi a tutti, e non è colpa dello stato se gli altri fattori non sanno utilizzare le forze produttive di cui essi dispongono[8].

175. Né vi è alcuna maggiore difficoltà nel calcolare il reddito «normale» sociale e nel distribuirlo, senza salti o doppi, fra i componenti la società, di quel che vi sia nel calcolare e nel ripartire il reddito «effettivo», ossia la somma delle perdite, dei redditi normali e di quelli eccezionali in effetto di momento in momento da ogni singolo contribuente ottenuti. Anzi questa seconda operazione è un impossibile pratico, fonte di sperequazioni salti e doppi senza fine[9]; laddove la prima è operazione comunemente compiuta dai periti stimatori per scopi svariati e di fatto preferita dai funzionari delle imposte per la ripartizione dei redditi i quali non risultano da documenti certi.

176. Il comandamento di ripartire l’imposta in proporzione al reddito «normale» non è identico alla norma che logicamente deriva da tutta la dimostrazione di questa e della precedente mia memoria: «non tieni conto del risparmio quando esso si compie e tassalo quando esso si ritrasforma in consumo»[10]. Intendo insistere su questa dichiarazione di non identità, poiché, in tutta questa controversia, è troppo frequente sì elevino a dignità di obbiezioni, scoverte dai critici, le riserve messe avanti dall’espositore della tesi principale. Osservai ripetutamente che altra cosa è la determinazione di un principio, altra la ricerca intorno ai limiti della sua applicazione concreta. Il principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile non può applicarsi integralmente, perché e finché gli uomini sono quello che sono, ossia invincibilmente tratti, in tutti i tempi e in tutti i paesi, a non assolvere, appena scoprano la via di sfuggirvi, il debito d’imposta. Imprudente sarebbe quel legislatore il quale facesse astrazione dall’indole umana o presumesse rimediarvi colla sola minaccia di pene anche fortissime. Il rimedio migliore è la sapienza sua nel legiferare; e sovratutto nell’escogitare espedienti atti ad attuare il principio senza pericolo per il tesoro e senza eccitare l’invidia di coloro che non sanno risparmiare o risparmiare meno ai altri.

177. Il principio della tassazione del reddito normale è qualcosa di più di un espediente. Al pari della esclusione dalla materia imponibile dell’incremento legnoso dei boschi prima del taglio dell’albero maturo, dell’incremento di valore delle aree fabbricabili prima della realizzazione dei fitti della casa costruita, dei premi di assicurazione sulla vita, al pari della esenzione temporanea del reddito delle case nuove e delle nuove imprese industriali, la tassazione del reddito normale pare una traduzione concreta del principio della esclusione del risparmio dal novero delle cose imponibili, una traduzione meglio approssimata alle esigenze a cui una formula legislativa deve soddisfare per tener conto dei fattori morali, sentimentali, politici dei quali il legislatore deve preoccuparsi. Coloro che respingerebbero con disdegno la cosidetta esenzione al risparmio del ricco, accettano e plaudono alle esenzioni a chi rimboschisce i monti, a chi, fabbricando nuove case, da ricovero alle moltitudini, a chi, migliorando terreni o promuovendo industrie, dà lavoro agli operai. Il disdegno e la lode sono parimenti privi di significazione teorica. Il legislatore, tuttavia, che dei sentimenti umani deve preoccuparsi grandemente, opera bene a fingere similmente disdegno ed a far cosa che gli procacci lode. Cosi facendo, scema gli attriti che si oppongono al suo saggio operare.

178. La tassazione del reddito normale è la approssimazione più ampia e probabilmente più perfetta che si conosca al principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile. Come fu osservato dianzi, il contribuente sub-normale, il quale perde o guadagna di meno di quello che è comunemente considerato il compenso normale per il lavoro o per l’impiego di capitale da lui compiuti non è certamente quasi mai in grado di risparmiare, anzi è addetto di solito al consumo del risparmio da lui o da altri già accumulato. L’imposta sul reddito normale, tassandolo anche sul reddito che egli non produce, obbedisce, in quanto è possibile, alla norma teorica di tassare il risparmio quando esso viene consumato, i beni strumentali quando si logorano, senza essere ricostruiti.

La zona grigia dei contribuenti marginali, i quali ottengono per l’appunto il reddito normale o poco se ne discostano, comprende coloro che guadagnano e spendono in conformità al tenor di vita corrente, che, non avendo, come produttori, gli ardimenti propri del pioniere e del costruttore non sanno discostarsi, come consumatori, dai costumi del tempo in cui vivono. L’imposta li colpisce in pieno. Non essendoci in media un margine pratico di risparmio, la regola teorica è nella maggior parte dei casi osservata.

179. I contribuenti sopra-normali sono i soli i quali abbiano un margine effettivo di risparmio. Risparmia il pioniere, il quale «fa terra» nelle regioni deserte del Canadà, in aggiunta al lavoro normale di produzione di beni diretti; risparmia il contadino, il quale in Sicilia e nel Monferrato rompe la terra dura e vi pianta la vigna; risparmia l‘operaio che lavora a cottimo e guadagna i premi di produzione concessi ai più diligenti e la cui moglie tiene una piccola bottega od assume lavori in casa per le ore libere; risparmia il professionista, il quale cura con particolare amore la clientela e se la affeziona e la allarga; risparmia l’imprenditore il quale sa organizzar bene i fattori della produzione e pagando gli stessi salari e gli stessi prezzi dei concorrenti, guadagna dove altri perde. Dove esiste un reddito differenziale, sopra-normale, ivi è la possibilità del risparmio. Possibilità non equivale a risparmio in effetto; ma è una marcata approssimazione ad esso. Le generazioni, le quali spendono tutto il reddito prodotto, non sono le generazioni che costruiscono beni strumentali. Coloro che fanno la terra, che creano l’impresa non hanno tempo, voglia, attitudini a spendere nulla più del reddito normale. Verranno poi le seconde generazioni dei conservatori e le terze generazioni dei dilapidatori. Per ora, la generazione che costruisce, che aumenta la dotazione di beni strumentali, spende forse meno del normale e al più poco al di sopra del normale. Le eccezioni sono proprie dei tempi di rivoluzioni monetarie ed economiche, dei nuovi ricchi a cui la ricchezza è venuta per un colpo di fortuna. Normalmente, per coloro che hanno creato la agiatezza o la ricchezza con la tenacia e con il lavoro e con la capacità, l’eccesso sul reddito normale si identifica approssimativamente col risparmio. Cresce la spesa, ma non subito, prudentemente, dopo che la ricchezza si è consolidata, quando si cominciano a godere i frutti delle rinunce passate. La imposta, la quale colpisce il reddito normale; è una ottima approssimazione all’imposta ideale la quale esenta il risparmio.

180. Essa è conforme, finalmente, alle esigenze della vita dello stato, le quali, se lo stato è vivo, sono crescenti. Col tassare il reddito ordinario e coll’esentare implicitamente il risparmio, lo stato promuove, colla ricchezza dei privati, la propria grandezza.

«Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, — scrivevo io in La terra e l’imposta a proposito della rada ripetizione delle revisioni catastali, — è cagione di un benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dalla esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce 1a produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e sono diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto “ordinario” al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti, o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto ben più in su nella scala della produttività ed il prodotto “ordinario” è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi, variabili da uomo a uomo, invece che ai frutti normali, della terra non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario» (La terra e l’imposta, p. 139).

Non sempre è tecnicamente possibile attuare il principio teorico con la mirabile approssimazione che si riscontra nella tassazione catastale del reddito normale della terra. Ma sempre, qualunque sia l’espediente osservato, se esso avrà per effetto di attuare la norma di tassare tutto e soltanto il flusso dei beni diretti prodotti, non si sarà creato alcun privilegio né concessa alcuna immunità, né commesso alcun errore di doppia tassazione. Non si raddoppia la imposta sui dilapidatori, quando si chiamano a pagare sul patrimonio distrutto. Pagano, come devono, sui beni che essi convertono da strumentali in godimenti immediati. Non si concede alcuna immunità ai costruttori quando non son tassati sul risparmio. Se fossero tassati, pagherebbero due volte, prima sui beni strumentali e poi sui beni diretti in che essi si trasformano. L’osservanza della norma che vuole tassati i soli beni diretti è la sola la quale consenta il progresso economico e abolisca gli attriti tributari che lo rallentano.

 


[1] Louis Hémon, Maria Chapdelaine, récit du Canada Francais. Le livre de demain, Armande Fayard, Editeur, Paris. Quel che l’ Hémon lasciò di inedito pare siano soltanto appunti.

[2] Come fu spiegato a suo luogo (§§ 64 sgg.), se Tizio possiede al 1° gennaio 100 unità di beni strumentali e queste si riducono, per logorio, a 90 e non sono ricostituire, il reddito tassabile non è, secondo le vigenti legislazioni, uguale alla massa di beni diretti 20 prodotta nell’anno; ma a questa meno l’impoverimento cagionato dal logorio, non ricostituito, dei beni strumentali. Il logorio non ricostituito deve invece essere tassato, certo non direttamente ma col non dedurne l’ammontare dalla massa tassata dei beni diretti.

[3] Sono parole di Carlo Cattaneo, citate in La terra e l’imposta, p. 137.

[4] Nel mio scritto La terra e l’imposta, Ibid, in Lezioni, 1926, pp. 203 sgg. e di nuovo Ancora le sperequazioni e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile (in «La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1925, pp. 13-21) ho studiato il fenomeno teorico e pratico del sistema della tassazione del reddito normale o catastale e le tendenze di tatto alla sua estensione anche ai redditi non fondiari.

[5] Nelle pagine che seguono e in conformità alla descrizione fatta qui di seguito nel resto, si considerano sinonimi e sono usati promiscuamente gli aggettivi normale e marginale, sub-normale e sub-marginale, sopra-normale e sopra-marginale.

[6] Spesso chi è imprenditore sub-marginale sarebbe ottimo impiegato. Ma la stessa cecità che lo ha persuaso a ritenersi dotato di qualità superiori o diverse da quelle sue gli fa mantenere altresì un tenor di vita superiore a quello dell’impiegato e proprio del ceto degli imprenditori e lo conduce alla rovina.

[7] In La terra e l’imposta a carte 134-37 ho riprodotto i classici brani di Gian Rinaldo Carli e di Carlo Cattaneo dai quali si ricava la norma dichiarata nel testo.

[8] Così si elimina l’obbiezione che il Ricci (in Reddito e imposta, 66) tra dall’esempio della povera miliardaria Hetty Green. Se l’imposta esentasse il risparmio fino al momento del consumo ed «Hetty Green investisse i suoi averi in speculazioni sbagliate, lo stato perderebbe milioni. Mentre, se la Green avesse anno per anno pagato le imposte sul risparmio nuovo, lo stato avrebbe riscosso parecchie somme con le quali avrebbe potuto pagar magistrati, soldati e simili». L’obbiezione in realtà non è mossa contro il caso particolare dell’imposta che esenti il risparmio, ma contro il caso generale dell’imposta la quale tassa il contribuente sul suo reddito «effettivo», se e in quanto egli lo ottenga. Perché, come è detto nel testo, lo stato deve essere pagato, per servigi che rende sempre, a coloro che guadagnano ed a coloro che perdono, solo nel caso che il contribuente guadagni? Qui sta il vero contenuto, validissimo, dell’obbiezione; non nella accidentalità che chi perde sia un fervente risparmiatore. Questo è caso rarissimo, laddove è frequente che perdano coloro che non sanno conservare il risparmiato da altri. Perché preoccuparsi tanto di un danno immaginario per lo stato, quando si trascura quello assai più frequente e grave?
L’altra obbiezione tratta dal caso di Hetty Green si riferisce al caso limite in cui i risparmiatori risparmino sempre e non consumino mai. Lo stato rimarrebbe senza mezzi. Segue, nello scritto del Ricci, un brillantissimo quadro della società limite di accumulatori, tutti intenti a risparmiare, viventi una vita meschina senza godimenti spirituali, senza lusso. «Una comunità di gente sordida, dedita solo alla moltiplicazione della specie ed all’accrescimento del capitale sarà dunque additata come la società ideale? » (Ibid, 71).
Tutta la presente memoria e quelle precedenti essendo indirizzate a provare che la cosidetta esenzione del risparmio non è esenzione, ma esclusione di un doppio d’imposta, e che la tassazione del reddito prodotto o consumato conduce ad una situazione d’equilibrio, perché il contribuente non si sente indotto dall’imposta a preferire il consumo al risparmio e viceversa, cade l’obbiezione del limite infelice a cui sarebbe spinta la società per una causa inesistente.
Se è vero, come mi lusingo di avere chiarito almeno con un principio di prova, che l’imposta sul reddito guadagnato conduce ad una condizione di squilibrio e fa preferire, essa sì, il consumo al risparmio, vogliamo raffigurarci, a nostra volta, il limite estremo a cui tenderebbe la società, se quell’imposta agisse con tutta la sua forza e non fosse frenata dagli istituti tributari apparentemente contrastanti con il principio dell’imposta sul reddito guadagnato (imposte sui consumi, esenzioni ai redditi nuovi, alle case nuove; ai rimboschimenti, ecc. ecc.) che il legislatore è trascinato, dall’evidenza del buon senso e dalla previsione delle malefatte della sua teoria, a porre in essere? Se l’imposta scorretta riuscisse, con la tassazione differenziale, a frenare l‘accumulazione del risparmio, il tenor di vita rialzerebbe per un istante, le raffinatezze dell’esistenza ed i godimenti spirituali si intensificherebbero fino a quando l‘umanità potesse godere del fondo di beni strumentali e durevoli accumulati in passato. Ma il crollo sarebbe più duro, la decadenza più dolorosa in un secondo momento; quando per la mancata reintegrazione del capitale esistente e il venir meno del suo incremento, anche il flusso dei beni diretti sminuisse di volume. E sarebbe decadenza irremediabile; poiché appare assai più difficile ad un popolo decaduto di risollevarsi che ad un avaro di accorgersi dell’inutilità di accumulare senza tregua, senza assaporare mai i frutti dolcissimi della ricchezza posseduta. Esempi di società di questo secondo tipo sono rarissimi, quasi ignoti; laddove sono, purtroppo, frequenti i casi di società decadenti per eccessivi consumi e scarso spirito di rinuncia. In quale dei due tipi, lo stato è più forte?

[9] Cfr. per la dimostrazione di questo asserto i miei scritti sopra citati al § 143.

[10] Od ognuna delle norme equivalenti, in cui essa si può convertire, secondo le varie esigenze della realtà a cui essa si deve applicare.

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