Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1929
Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese
«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1929, pp. 225-238
Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte I, pp. 77-92
Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 295-314
Il prelievo dell’imposta dal reddito dei contribuenti dà origine a qualche curioso paradosso contabile.
Supponiamo, come fanno il De Viti ed il Ricci[1], una società nella quale si produca nella unità di tempo «anno», un solo bene diretto, il pane, simbolo di tutti i beni e servigi diretti utili all’uomo. Chiamiamo 1 lira ogni unità del bene pane; e supponiamo che la produzione annua della società sia di 100.000 pani o 100.000 lire. La distribuzione dei pani o delle lire, ognuna delle quali da diritto ad acquistare sul mercato un pane, si faccia nel seguente modo:
[1] | Al fabbricante di aratri od altri strumenti agricoli…………………………………………………………………. | L 20.000 |
All’agricoltore, che produce il frumento……………………………………………………………………………… | ” 20.000 | |
Al mugnaio, che trasforma il frumento in farina………………………………………………………………….. | ” 20.000 | |
Al fornaio, che trasforma la farina in pane…………………………………………………………………………. | ” 20.000 | |
Allo Stato, che crea l’ambiente giuridico-politico necessario alla attuazione della vita economica…………………………………………………………………………………………………………………….. | ” 20.000 | |
Totale produzione annua | L. 100.000 |
Le ipotesi fatte suppongono un tessuto sociale tenue, una distribuzione a parti uguali della produzione, probabilmente disforme dalla realtà, un consumo totale degli strumenti agricoli nell’anno, che anch’esso non è probabile. Esse sono assunte così semplici allo scopo dimostrativo, e l’assumerle diversamente non muterebbe le conclusioni.
Il totale della produzione può essere chiamato anche reddito sociale o nazionale (R) ed è netto per la società o nazione, essendo uguale alla somma dei redditi netti (r1, r2, r3, r4, ed r5) dei singoli collaboratori alla produzione totale.
Avremo così:
[2] R = r1 + r2 + r3 + r4 + r5
Come spiega bene il De Viti (Pag. 211), lo Stato può prelevare la sua quota dal prodotto totale direttamente tutta a carico del fornaio, il quale ha R o 100.000 pani o lire in bottega. In tal caso si dice che l’aliquota dell’imposta, o quota spettante allo Stato di R, è 20-100 R, ossia il 20 per cento del reddito netto nazionale. Il fornaio, il quale aveva in bottega il valsente di 100.000 lire, e se lo vede ridotto ad 80.000 lire, terrà per sé un quarto di 80.000 lire e distribuirà, via via ritornando indietro, i restanti tre quarti tra gli altri collaboratori. Ognuno di essi rimarrà con 20.000 lire, ossia giusto con la quinta parte della produzione totale. Nessuno di essi avrà avuto l’impressione di essersi veduta portar via dall’imposta una parte della cosa propria; perché il prelievo dello Stato fatto in blocco alla fine del periodo produttivo, avrà avuto, oltreché la sostanza, anche l’apparenza di remunerazione pagata allo Stato per il suo contributo alla produzione del reddito totale sociale o nazionale (R). Ognuno ricevendo r1, r2, ecc., riterrà di aver ricevuto tutto il suo.
Le imposte, ordinariamente, non si distribuiscono però in questa maniera. Lo Stato non conosce R ossia il reddito netto nazionale e non si rivolge al fornaio come rappresentante della collettività produttrice di beni diretti. Ciò accade in parte solo per certe imposte dette di fabbricazione ed altre sui consumi; ma per la peculiarità del loro comportamento contabile, possiamo qui farne astrazione. Lo Stato conosce solo i redditi (r) netti dei singoli, e giunge alla conoscenza di questi redditi netti attraverso ad un conteggio di prodotti lordi e di spese. Così:
[3] | Prodotto lordo P | Spese di produzione S | Prodotto netto p | Imposta i | Reddito netto r | |
Fabbricante di aratri…….. | 25.000 | – | 25.000 | 5.000 | 20.000 | |
Agricoltore………………….. | 50.000 | 25.000 | 25.000 | 5.000 | 20.000 | |
Mugnaio…………………….. | 75.000 | 50.000 | 25.000 | 5.000 | 20.000 | |
Fornaio………………………. | 100.000 | 75.000 | 25.000 | 5.000 | 20.000 | |
Stato………………………….. | 20.000 | 20.000 | ||||
Reddito netto sociale (R) | 100.000 | 100.000 |
La tabella chiarisce:
- che il prodotto lordo (P) ultimo (del fornaio) è uguale alla somma dei prodotti netti (p) dei quattro contribuenti; ed invero ognuno di essi successivamente ha dedotto dal proprio prodotto lordo (valore dei prodotti crescente di gradino in gradino nella scala produttiva) il valore del prodotto lordo consegnatogli dal produttore precedente;
- che la somma dei prodotti netti (p) è uguale alla somma dei redditi netti (r), l’unica differenza essendo che R è ripartito, nella colonna dei prodotti netti, solo tra quattro produttori privati laddove nella colonna dei redditi netti è ripartito tra questi e il produttore pubblico o Stato.
Il vizio, psicologico, del metodo sta in ciò che i quattro produttori privati immaginano di avere essi prodotto un valore di 25.000 lire ciascuno, da cui lo Stato preleva poi 5.000 lire d’imposta, cosicché il tributo assume parvenza di qualcosa portato via dallo Stato a chi l’aveva primamente prodotto. Sembra che la società produttrice, composta dei quattro produttori privati, abbia prodotto un valore di 100.000 lire e poi venga una persona estranea alla produzione (Stato) a sottrarre 20.000 lire, riducendo il reddito netto ad 80.000 lire. In generale l’attenzione si fissa sull’equazione.
[4] P – i = r1 + r2 + r3 + r4
Nasce confusamente l’idea di un reddito lordo uguale a P, che invece è il prodotto lordo ultimo della società e di un reddito netto che invece di essere, come è, uguale al prodotto lordo ultimo o al reddito netto sociale (P ed R) sarebbe uguale a P – i ossia alla somma dei redditi netti dei quattro produttori privati. Il reddito netto (r5) del quinto produttore pubblico (o Stato), assume per il volgo, insieme al nome di imposta, la sembianza di qualcosa persa o distrutta o spesa. È una impressione volgare, che importa rilevare, perché ha lasciato traccie profonde nella terminologia scientifica, la quale discorre di continuo di «prelievo» dell’imposta dai redditi privati, e ricerca la «incidenza» di essa su questo piuttosto che su quel reddito dei privati. La terminologia è insensata, e chiunque di leggieri se ne persuade guardando le equazioni [1] e [2], da cui risulta che lo Stato, ricevendo r5, ha né più né meno della quota che a lui spetta per il contributo apportato all’opera comune.
Oltre a subire l’illusione psicologica di «prelievo» sul «proprio» reddito, i contribuenti, a causa del modo tecnico tenuto nell’accertamento della imposta, sono punti da un prepotente bisogno di far rendere ossequio alla giustizia distributiva. «Non paghiamo forse noi 5.000 lire d’imposta sulle 25.000 lire di “nostro”, reddito?; e perché i funzionari pubblici, a cui lo Stato trasmette, a titolo di stipendio, le 20.000 lire riscosse come imposta[2] non dovrebbero pagare anch’essi tributo?» La querela essendo fondata, il legislatore non può non accoglierla. I risultati sono pure tuttavia puramente formali; poiché l’imposta che dev’essere del 20 per cento per parità di trattamento cogli altri contribuenti, non può colpire le 20.000 lire distribuite ai funzionari pubblici. Ché le ridurrebbe a 16.000 lire e sarebbe rotto l’equilibrio fra le remunerazioni nette di produttori, i quali hanno prestato uguale lavoro, gli uni (privati) ricevendo 20.000 lire e l’altro (pubblico) 16.000 lire. E che farebbe lo Stato delle 4.000 lire così prelevate? Rimarrebbero in sospeso, sarebbero ridate ai produttori privati con ulteriore offesa all’equilibrio tra le remunerazioni o disperse al vento? Il problema, si risolve agevolmente, crescendo la remunerazione nominale dei funzionari, pubblici da 20.000 a 25.000 lire, cosicché l’imposta del 20 % le riduca alle stesse 20.000 lire degli altri produttori (Ricci, art. cit., p. 897).
Nasce a questo punto una nuova distribuzione del reddito sociale, che può essere raffigurata come dallo schema seguente:
|
Che cosa siano le quantità ed ι è assai difficile dire. Il Ricci nota assai bene che ci si arriva «se non si fa attenzione» nel ragionare, che sono cose «che appaiono», che si tratta di redditi «apparenti»: che «in realtà il reddito nazionale o prodotto netto nazionale» è solo quello che io ho chiamato R, perché «il vero numero di pani che la nazione ha prodotto e consumato durante l’anno», è solo, nel caso sopra detto, di 100.000; e gli altri (25.000) pani «non esistono se non sulla carta». Ma alla fin fine, forse per disperazione, egli si adatta ad attribuire una patente di esistenza in vita a questa entità immaginaria e la chiama «reddito apparente» o «reddito lordo in rapporto all’imposta».
In realtà le cifre che stanno a destra dello schema [5] non sono reddito né lordo né netto. Sono semplici espedienti contabili o di scrittura usati per dare l’impressione di usare giustizia verso tutti. Non è mai esistito un reddito sociale di 125.000 lire; poiché se nella realtà i pani sono 100.000 e valgono 1 lira l’uno, non c’è trucco contabile che riesca a farli diventare 125.000 lire. La quota spettante allo Stato nella produzione comune è di 20.000 pani o 20.000 lire; e nessun prestidigitatore riesce a portarla a 25.000 lire. I redditi imponibili legali π, le imposte ι ed i loro totali sono utili espedienti scritturali adoperati per eliminare le conseguenze di un errore di sostanza: quello per cui si lascia credere ai contribuenti che essi avevano prodotto p e che il prelievo dell’imposta è fatto a loro danno. Il giorno in cui tutti si saranno persuasi che la vera distribuzione del reddito netto sociale è la [1], sarà distrutto il fondamento del grottesco abracadabra contabile raffigurato nella distribuzione per scrittura [5].
Frattanto, sinché l’abracadabra sussiste sulle scritture pubbliche per riflesso delle idee confuse vaganti nella mente dei contribuenti e dei trattatisti rispetto all’indole dell’imposta, taluno discorre di reddito nazionale o sociale uguale a , ossia a 125.000 lire. E può sembrare che in seguito alla riduzione del debito pubblico o suo riscatto, con o senza intervento di una imposta straordinaria sul patrimonio, il reddito nazionale anzidetto sia soggetto a diminuzione.
Ho detto sopra come il gonfiamento per «scrittura» del reddito nazionale sia la conseguenza contabile dell’idea di uguaglianza tributaria applicata all’idea storta che le imposte siano pagate sul serio dai contribuenti con la roba loro. È chiaro che ad ogni riduzione d’imposta, il gonfiamento scritturale scemerà e scemeranno per conseguenza i redditi scritti su qualche libro contabile. Spingendo l’ipotesi sino all’estremo, supponiamo, per assurdo[3], che lo Stato non spenda nulla per i servigi pubblici propriamente detti e che tutte le 25.000 lire prelevate, secondo lo schema per scrittura [5], a titolo di imposta, e ridotte a loro volta a 20.000 lire nette da tributo, siano destinate a fare il servizio degli interessi di un debito perpetuo di 500.000 lire 4 per cento.
Supponiamo che i creditori dello Stato i quali riscuotono le 25.000 lire di interessi siano in un primo momento un gruppo speciale, vivente di quel reddito. In un secondo momento, avendo gli altri quattro gruppi sociali accumulato qualche risparmio, i creditori vendono ad essi in parti uguali le 500.000 lire di capitale nominale di titoli di debito pubblico ed emigrano[4]. Restano a far parte della collettività considerata solo i fabbricanti di aratri, gli agricoltori, i mugnai ed i fornai, provvisti ciascuno del reddito antico, più una quarta parte delle 25.000 lire di reddito da debito pubblico. Ad un certo punto (momento terzo) essi si accorgono che potrebbero fare un bel falò dei loro titoli di debito pubblico e nel tempo stesso abolire le imposte così da conservare immutato il reddito netto. Così fanno[5]. Ma in quel punto certi statistici si accorgono che il reddito nazionale è diminuito da 125.000 lire a 100.000 lire, e certi finanzieri notano che, se lo Stato volesse stabilire, per qualche, nuova occorrenza, imposte, dovrebbe distribuirle su una base imponibile minore di prima. Così:
[6] | Momento primo | Momento secondo | Momento terzo
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Che il gonfiamento prima e lo sgonfiamento poi del cosidetto reddito imponibile sia tutta una fantasmagoria è manifesto dalla circostanza che nei tre momenti il reddito netto dei cinque e poi dei quattro gruppi fu sempre di 100.000 lire; e poiché i cinque o quattro gruppi costituiscono la totalità della collettività è chiaro che nient’altro essi produssero e consumarono e distribuirono. Le tre colonne intitolate «reddito netto legale» raffigurano anche il reddito netto «effettivo», quale risulta dallo schema [1].
Le osservazioni precedenti non significano che le scritturazioni conseguenti ad imposta non abbiano conseguenze importantissime sostanziali; e bene le mette in luce il Fasiani[6]. Significano soltanto che bisogna stare attenti alle illusioni ottiche prodotte dall’imposta in materia di stima del reddito di un paese. Forse l’illusione più singolare è quella relativa alla valutazione della ricchezza nazionale. Si ponga mente ancora allo schema [5]. Nel momento «primo», i creditori pubblici sono in possesso di titoli di debito pubblico, i quali danno il frutto lordo di 25.000 e netto di 20.000 lire. Se il saggio di interesse è del 4 per cento, i titoli hanno un valore corrente capitale di 500.000 lire e per tal somma sono registrati nell’inventario della ricchezza nazionale. Il resto della ricchezza nazionale è dato dalla capitalizzazione di quella parte del reddito di 20.000 lire nette spettanti agli altri quattro gruppi, la quale derivi dall’impegno di capitale. Se noi supponiamo che le 20.000 lire derivino per tre quarti parti dal lavoro prestato dai componenti il gruppo, e per un quarto del capitale da essi impiegato, poiché il reddito di lavoro non si capitalizza (eccettoché nei paesi a schiavi), avremo che delle sole 5.000 lire di reddito da capitale corrisponde, al 4 per cento, un valore capitale di 125.000 lire per ognuno dei quattro gruppi. Nel momento «secondo», nulla è mutato nella valutazione «totale». Il reddito «capitalizzabile» è sempre 25.000 lire lorde e 20.000 lire nette da titoli di debito pubblico e di una quarta parte delle 100.000 lire lorde e 80.000 lire nette da impiego di capitali investiti nell’agricoltura e nell’industria. È mutata solo la distribuzione della proprietà della ricchezza nazionale. Il passaggio dei titoli di debito pubblico dal gruppo speciale dei creditori pubblici ai quattro altri gruppi non esercita nessuna influenza sull’ammontare del reddito netto da capitale; epperciò anche sull’ammontare del capitale corrispondente.
Momento primo | Momento secondo | |||||||
[7] | Reddito netto capitalizzabile proveniente da | Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro | Reddito netto capitalizzabile proveniente da | Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro | ||||
Capitali investiti nell’industria e nella agricoltura | Possesso di titoli di debito pubblico |
Tot. | Capitali investiti nell’industria e nella agricoltura | Possesso di titoli di debito pubblico |
Tot. | |||
Fabbricante di aratri…………………. | 5.000 | – | 5.000 | 125.000 | 5.000 | 5.000 | 10.000 | 250.000 |
Agricoltore………….Mugnaio……………. Fornaio……………… Creditori pubblici… | 5.000 5.000 5.000 – | – – – 20.000 | 5.000 5.000 5.000 20.000 | 125.000 125.000 125.000 500.000 | 5.000 5.000 5.000 – | 5.000 5.000 5.000 – | 10.000 10.000 10.000 – | 250.000 250.000 250.000 – |
Totale | 20.000 | 20.000 | 40.000 | 1.000.000 | 20.000 | 20.000 | 40.000 | 1.000.000 |
Mutano invece i valori nel momento «terzo». Il quale è caratterizzato dalla circostanza che i quattro gruppi, stanchi di pagare, come contribuenti, un’imposta di 6.250 lire, destinata a ritornare nelle loro tasche in qualità di creditori pubblici, decidono di sopprimere in un atto medesimo imposta e debito pubblico riducendo così le scritturazioni alla loro realtà effettiva. Scompaiono le cifre, create per convenzione contabile, del reddito «imponibile» assommanti a immaginarie 125.000 lire e restano quelle sole del reddito netto di 100.000 lire, vive e scritte, effettive legali nel tempo medesimo. La capitalizzazione si effettua così:
[8] | Reddito netto totale | Di cui provenienti da | Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro | |
lavoro e non capitalizzabili 3/4 | capitale e capitalizzabili 1/4 | |||
Fabbricante di aratri | 25.000 | 18.750 | 6.250 | 156.250 |
Agricoltore | 25.000 | 18.750 | 6.250 | 156.250 |
Mugnaio | 25.000 | 18.750 | 6.250 | 156.250 |
Fornaio | 25.000 | 18.750 | 6.250 | 156.250 |
Totale | 100.000 | 75.000 | 25.000 | 625.000 |
Perché nel passaggio dal momento «secondo» al momento «terzo» scompaiono 375.000 lire della cosidetta ricchezza nazionale? – La risposta è ovvia. Finché esistevano le 20.000 lire di reddito dei titoli di debito pubblico, esse, sia che appartenessero ad un gruppo sociale autonomo sia che, appartenendo, pro-rata, ai gruppi dei produttori privati, avessero vita puramente formale, erano «capitalizzabili», e corrispondevano ad un capitale di 500.000 lire. Non appena i titoli sono estinti, cessa la capacità di capitalizzazione del loro reddito e vi subentra la «eventuale» capacità del reddito dei residui gruppi sociali. L’agricoltore, ad esempio, il quale nel momento «secondo» aveva: nel momento «terzo» aboliti i titoli di debito pubblico, che gli procuravano un reddito nominale di 6.250 lire ed abolite le conseguenti imposte, con altrettanto gravame, rimane con il reddito, prima lordo ed ora netto, che nello schema [9] è raffigurato da cifre in corsivo. E poiché, come allo schema [8], le sole 6.250 lire provenienti da capitale sono capitalizzabili, il suo capitale risulta di sole 156.250 lire[7]
[9] | un reddito lordo per | e pagava imposta per | rimanendo con reddito netto di | e possedeva perciò un capitale di |
Dall’impiego di lavoro nell’agricoltura……… | 18.750 | 3750 | 15.000 | – |
Dall’impiego di capitale nell’agricoltura……… | 6.250 | 1250 | 5.000 | 125.000 |
Totale | 25.000 | 5000 | 20.000 | |
Di possesso di titoli di debito pubblico….. | 6.250 | 1250 | 5.000 | 125.000 |
Totale generale | 31.250 | 6250 | 25.000 | 250.000 |
La creazione di titoli di debito pubblico ha dunque per effetto di «creare» e la loro estinzione di «distruggere» valori capitali, nei limiti in cui il servizio del debito è compiuto con imposte gravanti redditi di lavoro. Se il servizio del debito è fatto con imposte gravanti redditi di capitale, il titolo di debito pubblico ha soltanto per effetto di «spostare» la valutazione dal capitale colpito, ad esempio, terra, al titolo. Come nello schema [11], se la terra paga 5.000 lire d’imposta essa vale solo 31.250 lire, corrispondenti al suo reddito netto di 1.250 lire; ma il titolo a cui sono pagate le 5.000 lire d’imposta vale 125.000 lire. La somma di amendue (terra + titolo) ha un reddito di 1.250 + 5.000 = 6.250 lire ed una valutazione capitale di 156.250 lire. Non importa nulla come il totale sia distribuito tra le due parti. Esso non varia, sia che sia maggiore o minore o nulla la parte attribuita al titolo. In sostanza, l’unico valor capitale esistente è quello corrispondente al reddito totale della terra: 6.250 lire. La creazione di titoli di debito pubblico ha solo per effetto di fare passare una parte del reddito e del valor capitale al nome dei possessore del titolo; la loro estinzione di farli ritornare al nome del proprietario del terreno.
Ben altri sono gli effetti di quella parte del debito pubblico, il cui servizio grava sui redditi di lavoro. Prima, il reddito totale spettava al lavoratore, il quale, essendo un uomo, in regime di padronanza sulla propria persona, non è capitalizzato dal mercato. Economisti e statistici discutono di «capitali personali» e talvolta si azzardano a valutarli. Il mercato no. Il titolo di debito pubblico il cui servizio è fatto con imposta sui redditi di lavoro da luogo a quel processo di capitalizzazione dei redditi del lavoro a cui il mercato si rifiuta, finché il reddito rimane proprio dell’uomo – lavoratore. Se, come nello schema [9] l’agricoltore ricava dal suo lavoro 18.750 lire e le tiene tutte per sé, a quel reddito non corrisponde alcun capitale. Ma se lo Stato preleva dal suo reddito 3.750 lire per fare il servizio duna parte del debito pubblico, ecco il reddito dividersi in due parti:
- l’una, rimasta all’agricoltore, di lire 15.000 che continua a non essere capitalizzata;
- l’altra, detta imposta di lire 3.750, la quale, attraverso allo Stato, è versata al possessore dei titoli di debito pubblico. Un capitale viene «creato» che prima non esisteva; poiché il titolo, fruttando 3.750 in perpetuo al 4 per cento ha un valor capitale di lire 93.750. Se il debito viene estinto e il reddito è restituito all’agricoltore, in quanto lavoratore, ecco «distrutto» un uguale capitale.
«Creazione» e «distruzione» sono qui, ovviamente, parole adoperate in senso traslato. In realtà non si crea e non si distrugge niente di effettivo, di reale. Si fanno passare valori esistenti, da una forma che il mercato conosce soltanto sotto la specie «reddito» ad un’altra forma che il mercato conosce ed apprezza anche sotto la forma «capitale». Il debito pubblico è cioè un congegno tecnico per dare una valutazione «di mercato» a certi capitali, quelli «personali», che normalmente formano oggetto solo di speculazioni teoriche da parte degli economisti e degli statistici.
Dalle osservazioni fin qui fatte si possono dedurre alcune illazioni metodologiche:
- in primo luogo, i redditi devono essere valutati al netto dalle imposte quando si vuol fare il calcolo del reddito netto nazionale;
- ai redditi netti degli altri contribuenti bisogna aggiungere il reddito netto dei funzionari, creditori ed altri dipendenti dello Stato;
- in secondo luogo, se si vuole fare il calcolo della ricchezza nazionale fa d’uopo distinguere chiaramente se si intenda tener calcolo dei soli capitali materiali o di questi e dei capitali personali insieme;
- nel primo caso, è necessario fare una stima, la quale non potrà non essere grossolana, della quota del debito pubblico, il cui servizio è compiuto con imposte sui redditi di capitale e tener conto solo di questa parte, ad esclusione di quella il cui servizio si compie con imposte gravanti i redditi di lavoro;
- nel secondo caso, quando cioè lo statistico ambisce a valutare non solo le terre, le case, le miniere e le altre ricchezze mobili e immobili esistenti nel paese ma anche gli uomini, i cosidetti capitali personali, si deve aggiungere alla somma degli altri valori capitali, anche l’importo totale del capitale debito pubblico[8].
D’indole non più metodologica, ma sostanziale è un’altra illazione. Si domanda: le cose dette sopra gittano luce sul problema della convenienza di ammortizzare il debito pubblico? Sembra a me che da esse resti rafforzata la opinione del De Viti intorno alla preferenza da darsi al processo di ammortamento spontaneo, da cui così mirabilmente messo,in luce. Si sa in che cosa consista il processo. A mano a mano che gli originari contribuenti[9], i quali nel primo momento, avevano dovuto privarsi di 5.000 lire di reddito per versarlo ai creditori pubblici, risparmiano, essi riscattano i titoli di debito pubblico, diventando nel tempo stesso contribuenti e creditori pubblici. Quando, idealmente, i contribuenti originari hanno acquistato titoli per 6.250 lire lorde di reddito, equivalenti a 6.250 lire di imposta da ciascheduno di essi pagata, il processo effettivo di ammortamento è compiuto. Il debito pubblico è solo vivo per «scrittura» non più in realtà. Esso dà luogo ad una semplice partita di giro, non ad attuali sacrifici e benefici effettivi. Lo Stato potrebbe, come nel momento terzo, passare la spugna sulle scritturazioni ed il debito pubblico, già divenuto nome senza soggetto, svanirebbe come fantasma, senza lasciare di sé alcuna traccia.
Conviene, tuttavia, passare, col colpo di spugna, dal momento secondo al momento terzo?
Non conviene ai contribuenti capitalisti, poiché il titolo di debito pubblico, consentiva ad essi di frazionare il valore capitale del proprio terreno, o casa od industria, ecc., ecc., in due parti: l’una, quella attaccata al terreno o casa od industria, difficilmente alienabile o ipotecabile, o alienabile ed ipotecabile con una certa difficoltà o in seguito a date formalità, e l’altra, quella attaccata al titolo di debito pubblico, alienabile e pignorabile senza difficoltà senza perdita di tempo, con un minimo costo di formalità, spese, imposte e tasse[10].
Ma ben più grandi sono i vantaggi dei contribuenti lavoratori. Il lavoratore urta contro un grande scoglio: la difficoltà di mobilitare, di ipotecare, di alienare sé medesimo. È principio sacrosanto che l’uomo non possa, neppure per atto suo volontario ridursi in schiavitù; ma è utilità evidente che l’uomo possa ottenere credito a saggi non usurai. Il credito personale, fondato sulla mera fiducia, è spesso usuraio. L’esistenza dei titoli di debito pubblico può scemare la difficoltà.
Deve premettersi:
- che il debito pubblico sia stato originariamente creato per una causa seria;
- che non sia stato caricato sui redditi di lavoro il servizio di una quota del debito pubblico maggiore di quella la quale su di essi correttamente può essere fatta gravare;
- che l’ammortamento «spontaneo» si sia già attuato, anche per la quota gravante sui redditi di lavoro e che quella quota sia venuta in possesso di lavoratori, suppergiù per importi corrispondenti alle imposte da essi pagate.
Se le premesse sono osservate (altrimenti è ovvio che diverse siano le conclusioni) il titolo di debito pubblico è divenuto un mero espediente contabile. Come tale, è utile. Il lavoratore il quale guadagna 10.000 lire all’anno e deve pagare 1.000 lire di tributo, restando con 9.000 lire di reddito di lavoro, se possiede egli stesso 25.000 lire di titoli di debito pubblico che gli fruttano 1.000 lire, ha ancora 10.000 lire di reddito in tutto, di cui 1.000 da capitale. Queste possono, all’occorrenza, essere alienate od impegnate, con vantaggio sommo, in date urgenze della vita, del lavoratore.
Se il debito viene estinto, il lavoratore non paga più l’imposta di 1.000 lire ma nemmeno esige più le 1.000 lire di reddito dei titoli. Il reddito totale resta sempre 10.000 lire, tutto personale, poco mobilizzabile, poco utile in gravi emergenze.
Obbietto: questi sono i vantaggi del risparmio, comunque impiegato. Può darsi. Si risparmierebbe, tuttavia, nella stessa misura se esistessero soltanto case, terreni, imprese industriali; e se l’invenzione del debito pubblico non consentisse ai lavoratori di investire in sé medesimi, in un titolo la cui garanzia in ultima analisi talvolta consiste nella loro medesima persona? il crescere della superficie di garanzia del credito, dalle gioie agli immobili,dagli immobili alle imprese industriali, da queste alla parola data dalla persona del debitore non ha avuto davvero nessuna influenza sul crescere del risparmio effettivo? Quei gonfiamenti immaginari nei valori dei redditi e dei patrimoni che abbiamo visto essere la conseguenza talvolta paradossale dell’imposta e del debito pubblico non hanno davvero nessuna parentela spirituale con quei fenomeni di risparmio «forzato» a cui da qualche tempo ingegni sottili dedicano ragionamenti raffinati con risultati speculativi certamente stimolanti?
[1] A. De Viti De Marco, I primi principii della economia finanziaria (Roma, 1928, pag. 209 e seg.); Umberto Ricci, La taxation de l’epargne (in «Revue d’economie politique», 1927, n. 3, paragafi 6 e 8).
[2] L’imposta non serve solo a pagare funzionari civili e militari, ma anche a fare il servizio degli interessi del debito pubblico e ad acquistare le cose necessarie alla vita dello stato. Ma poiché qualunque pagamento fatto da privati o dallo Stato si risolve da ultimo, in creazione di redditi netti di qualcuno, il ragionamento esposto nel testo è valido in ogni caso.
[3] Trattandosi di ipotesi teorica, il procedimento pur assurdo è lecito. Va da sé che le conseguenze a cui si arriverà, saranno vere entro i limiti in cui si ridurranno le spese in seguito alla scomparsa del debito pubblico.
[4] L’ipotesi dell’emigrazione è necessaria, per non far variare da un momento all’altro il patrimonio e il reddito del gruppo. Se gli altri quattro gruppi risparmiassero 500.000 lire e il loro reddito crescesse di 25.000 lire all’anno, ma rimanessero nel gruppo i creditori dello Stato, il reddito, sociale crescerebbe di 25.000 lire. Emigrando i creditori con le 500.000 lire ricevute in cambio dei loro titoli, il reddito nazionale non muta e l’unica circostanza mutata è quella (esistenza o meno del debito pubblico) di cui si vuole studiare l’effetto. L’ipotesi dell’emigrazione dei vecchi creditori pubblici equivale all’altra che, fin dal principio, i creditori pubblici non fossero una classe distinta dalle altre quattro, ma queste avessero mutuato allo Stato, come nella sezione seconda dello schema [6], ciascuna 125.000 lire in capitale su cui riscuotevano 6.250 lire di interessi annui, equivalenti, di fatto, alle 6.250 lire di imposta a ciascuno attribuite.
[5] Applicando il processo ideale delineato da A. DE VITI DE MARCO in Saggi di economia e di finanza (Roma 1898), pag. 107. Il «Contributo alla teoria del prestito pubblico» del De Viti è fondamentale per la concezione dell’ammortamento «naturale» o «spontaneo».
[6] Nell’articolo Di alcuni effetti dell’estinzione del debito pubblico mediante un’imposta sul capitale (in «La Riforma Sociale» del maggio-giugno 1929 e specie al paragrafo 9).
[7] La conclusione può mutare rispetto all’importo se si suppone che le imposte non siano distribuite, come per semplicità si ammise nel testo, uniformemente sui redditi di capitale e di lavoro; ma gravino di più sui redditi di capitale che su quelli di lavoro. Se fermi rimanendo in lire 6.250 gli interessi di debito pubblico di cui bisogna fare il servizio, le imposte relative si distribuissero per 1.250 lire (si lascia, anche qui, per semplicità, invariata questa cifra convenzionale, per non dovere variare tutte le altre) sul reddito dagli interessi medesimi, dividendo le residue 5.000 per esatta metà fra redditi di lavoro e di capitale, lo schema [9] si trasforma in quest’altro:
[10] | Reddito lordo | Imposta | Reddito netto | Capitale |
Reddito proveniente dall’impiego di lavoro nell’agricoltura | 18.750 | 2500 | 16.250 | – |
Reddito proveniente dall’impiego di capitale nell’agricoltura | 6.250 | 2500 | 3.750 | 93.750 |
Totale | 25.000 | 5000 | 20.000 | |
Reddito proveniente dal possesso di titoli del debito pubblico | 6.250 | 1250 | 5.000 | 125.000 |
Totale generale | 31.250 | 6250 | 25.000 | 218.750 |
il patrimonio dell’agricoltore invece di essere, come nello schema [9] di 250.000 lire, è di sole 218.750 lire, perché l’imposta riduce più fortemente, essendo differenziata, il quarto del suo reddito terriero proveniente da capitale. E per converso, l’abolizione contemporanea del debito pubblico e dell’imposta, riducendo il suo reddito a 25.000 lire nette (vedi le cifre in corsivo), di cui 6.250 da capitale, fa si che egli possegga ancora un capitale di 156.250 lire. Ossia la sua perdita di capitale, differenza fra 218.250 e 156.250, ossia 62.500 lire ossia a 93.750 lire.
Se si supponesse che, sempre fermo rimanendo in 1.250 lire la quota gravante convenzionalmente sui titoli di debito pubblico, tutte le altre 5.000 lire di imposta gravassero sui redditi di capitale, agli schemi [9] e [10] si dovrebbe sostituire il seguente:
[11] | Reddito lordo | Imposta | Reddito netto | Capitale |
Reddito proveniente dall’impiego di lavoro |
18.750 | – | 18.750 | – |
Reddito proveniente dall’impiego di capitale |
6.250 | 5000 | 1.250 | 31.250 |
Totale |
25.000 | 5000 | 20.000 | |
Reddito proveniente dal possesso di titoli di debito pubblico | 6.250 | 1250 | 5.000 | 125.000 |
Totale generale | 31.250 | 6250 | 25.000 | 156.250 |
Il patrimonio risulta di sole 156.250 lire, perché l’imposta assorbe gran parte del suo reddito da capitale. Perciò la conservazione e l’abolizione del debito pubblico e dell’imposta è indifferente, per la valutazione del suo patrimonio, poiché di quanto diminuisce il suo reddito da titoli di debito pubblico (lire 5.000 capitalizzabili in 125.000 lire) di altrettanto aumenta, per la abolizione dell’imposta relativa, il suo reddito da capitale (lire 5.000 capitalizzabili in 125.000 lire).
[8] Questa mi pare la norma metodologica da sostituire a quelle che solitamente sono discusse dagli statistici. Cfr. per ricordare una trattazione meritamente reputata, quella contenuta nei paragrafi 8 e 9 dell’opera di C. GINI, L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni (Torino, 1914) dove è ben messo in luce che il debito pubblico può essere solo condizionalmente incluso nella valutazione della ricchezza nazionale. Nel testo si è cercato di chiarire la linea teorica caratteristica di distinzione fra la parte che, deve essere e quella che non deve essere inclusa.
[9] Si guardi allo schema [4] e si chiamino originari contribuenti le prime quattro categorie di produttori privati. L’ultima è dei risparmiatori che, anticipando nel primo momento 500.000 lire allo Stato, diventarono creditori pubblici.
[10] Il vantaggio per i risparmiatori – capitalisti enunciato nel testo appare diverso da un altro vantaggio che il De Viti nel citato saggio così descrive: «L’ordinamento del debito pubblico, per la facile negoziabilità dei suoi titoli e la relativa stabilità e regolarità dei corsi, rende talvolta servigi notevoli nel facilitare operazioni di credito privato. Cioè chi offre credito, anche a breve scadenza, compera, e chi domanda credito vende titoli del debito pubblico, salvo a invertire l’operazione alla scadenza. Questa compra – vendita avvicina con la massima rapidità il mutuante al mutuatario e compie con la massima garanzia l’operazione creditoria, risparmiando l’intervento costoso di un apposito intermediario. È lo stato che facendo il servizio degli interessi per suo conto, fa anche da intermediario in operazioni di credito fra i privati. Non è già che il debito pubblico, secondo una vieta teoria, sia ricchezza pel paese; ma la conservazione sul mercato di un certo numero di titoli di debito pubblico mette lo stato in condizioni di produrre, senza aumento di costo, l’utilità addizionale di offrire ai privati un meccanismo cantabile, che facilita loro vere operazioni creditorie e risparmia il banchiere o un istituto di credito».