Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1942
Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta
«Giornale degli economisti e annali di economia», luglio–agosto 1942, pp. 301-331
In estratto: Padova, CEDAM, 1942, pp. 35
1. La tesi dello «stato fattore di produzione» è negata per le ragioni seguenti:
1) Essa è «indiscutibilmente» la vecchia tesi della «produttività o riproduttività» dell’imposta; e quindi, par si dica, soffre di tutte le obbiezioni che sono state vittoriosamente opposte a quella tesi veneranda;
2) numerosi servizi pubblici, forse la maggior parte, e fra essi ad esempio quelli della pubblica igiene, dei giardini pubblici, dei parchi, dei teatri di stato, dei musei e gallerie d’arte, dell’acqua potabile, della pubblica illuminazione, degli ospedali, dei sanatori, della beneficenza e simili non possono essere considerati come fattori di produzione, quando non si voglia dare al concetto di fattore una estensione così vasta da renderla del tutto inutilizzabile.
3) se alcuni servizi pubblici, come la sicurezza interna ed esterna, sono i presupposti necessari di ogni attività economica, non sono però fattori di produzione. I «presupposti» sono anche necessariamente «fattori»?
4) vi è in questo concetto tutta l’indeterminatezza e l’inafferrabilità che si ritrova nella nebulosa idea delle «economie esterne» messa innanzi dal Marshall ed ora di fatto abbandonata dai teorici. Che cosa è questo fattore, di cui non si conosce la produttività marginale, che consiste di migliaia di cose diverse, continuamente mutabili, in qualità e quantità, che non è possibile proporzionare con gli altri coefficienti? Che cos’è questo fattore di produzione, del quale si afferma nel tempo stesso l’attitudine a soddisfare bisogni consolidati?
5) forse che nel concetto vago di «stato fattore di produzione» vi è qualche cosa di più della vaga idea che quanto è utile a tutti aumenta il benessere generale e, se questo sia espresso in volume di beni economici, aumenta questo volume? Perciò lo stato non può essere trattato al paro di un fattore di produzione propriamente detto; né l’imposta può essere considerata, alla pari del salario, dell’interesse, del profitto, della rendita, il «compenso» di un fattore produttivo.
6) se i servizi resi dallo stato sono una condizione dell’attività economica, non è possibile dalla caratteristica di condizionalità trarre alcun criterio di massima in ordine al modo di ripartire le imposte.
2. L’atto di accusa, che ho voluto riprodurre quasi con le stesse parole del suo più valoroso espositore[1] è invero gravissimo e degno del più attento esame. Intanto si veda quel che è caduco e quel che è vivo nella «vecchia» tesi della produttività dell’imposta. Questa, in sostanza, era un aspetto della dottrina contrattualistica dello stato: gli uomini, insieme congregati, avrebbero deciso, con deliberazione formale o per virtù di consuetudine di adattamento o di forza, di attribuire, in regime di divisione del lavoro, ad un gruppo particolare detto dei governanti, alcuni speciali compiti di difesa, di sicurezza, di giustizia, di igiene, e via dicendo, così come ad altri era attribuito il compito di coltivar la terra e ad altri ancora quello di esercitare industrie commerci professioni arti; e, come ai lavoratori «privati» erano attribuiti compensi detti di salario di interesse di profitto o simili, così ai lavoratori «pubblici» fu attribuito un particolare compenso detto «imposta». I compensi altro non sono se non quote parti del flusso continuo dei beni e servizi nuovi che di momento in momento vengono prodotti ed insieme, senza eccederlo, lo esauriscono. Se si esclude espressamente ed esplicitamente che con ciò si voglia affermare che la società politica abbia avuto origine da un contratto, sia pure tacito, e che l’imposta sia un compenso contrattuale per una prestazione economica, non si vede in che cosa il quadro non sia atto a raffigurare la realtà.
Non è forse vero che il flusso totale della ricchezza nuova osservato in una data collettività, suppongasi di 100 miliardi di lire, in un determinato lasso di tempo, dicasi un anno, si divide in quote parti, e che l’una di esse, a titolo di rendita o fitto dei terreni e delle case, ad ipotesi 10 miliardi di lire, cade a vantaggio dei proprietari di quelle terre o case; che un’altra parte, suppongasi parimenti di 10 miliardi di lire, è riscossa, a titolo di interesse o profitto, dai capitalisti ed imprenditori esercenti le varie specie di imprese economiche; che una terza parte, si dicano 50 miliardi, è data, a titolo di salario o stipendio od onorario ai prestatori di lavori manuali od intellettuali e che finalmente un’ultima parte, detta imposta, è, per l’ammontare di 30 miliardi, assegnata allo stato e, attraverso esso, ai lavoratori pubblici?
Non è parimenti vero che se i proprietari di terre e case non avessero fornito i servizi terrieri ed edilizi non avrebbero riscosso i 10 miliardi di canoni di fitto; se i capitalisti ed imprenditori non avessero portato sul mercato risparmio ed iniziative investendoli in imprese ed opere di organizzazione e direzione non avrebbero riscosso i 10 miliardi di interessi e profitti; se i lavoratori privati non avessero lavorato non avrebbero ricevuto i 50 miliardi di salari e finalmente se i lavoratori pubblici non avessero, attraverso la particolare Organizzazione coattiva detta «stato» fornito alla collettività servizi pubblici, non sarebbero ad essi stati pagati i 30 miliardi di imposte?
La tesi non diceva necessariamente che l’imposta sia un compenso della stessa natura del salario o dell’interesse o del profitto; non diceva nemmeno necessariamente che si dovesse adoperare la parola «compenso» od altra consimile; non affermava necessariamente che i servizi pubblici fossero veramente desiderati o voluti dai membri della collettività o non, invece, apparissero soltanto desiderabili per una delle mille e mille specie di illusioni a cui gli uomini vanno soggetti, o non fossero semplicemente imposti, con o senza pretesti, ai cittadini, così come la moda o l’abitudine o l’imitazione fa desiderare agli uomini tanti beni ai quali essi spontaneamente non volgerebbero mai l’animo. La teoria, se teoria è, affermava soltanto che tra i servizi pubblici ed i 30 miliardi di imposte esiste un vincolo simile a quello che esiste fra i servizi delle terre e case, dei capitali industriali e commerciali e del lavoro privato ed i miliardi di fitti, di interessi, di profitti e di salari attribuiti ai fornitori di quei servigi.
La teoria non afferma che il compenso di imposta sia «meritato» dallo stato, così come non afferma che l’interesse sia meritato dal capitalista, il salario dal lavoratore, il profitto dall’imprenditore. Essa, in questo stadio dell’indagine non fa affermazioni di merito, non dà giudizi di valore morale e politico. Si limita a constatare l’esistenza di un vincolo tra due fatti. Come, venendo meno i servizi privati cessano le relative rimunerazioni, così, venuti meno i servizi pubblici, ossia venuto meno «quello» stato, organizzato in «quel» modo, vengono meno le relative imposte Non vogliamo chiamare quest’ultima quota del totale prodotto sociale «compenso»? Facciamo a meno della parola; e diciamo soltanto che l’imposta è quella quota che si dà allo stato in relazione ai servizi reali od immaginari che esso presta; reali se grosso modo desiderati o voluti dai cittadini; immaginari se imposti, grazie a pretesti varii od illusioni molteplici, dai governanti sopratutto a proprio vantaggio.
3. La tesi della produttività dell’imposta è stata tratta, non so se più dai denigratori o dai pedissequi o da ambedue insieme, a significare che l’imposta sia cagione di un beneficio specifico a chi la paga, all’industria od alla terra od al lavoro che vi è soggetto; sicché, naturalmente, i facili critici furono tratti a schiamazzare l’imposta non è, come il prezzo privato o pubblico, corrispettivo specifico del bene o servigio ricevuto dal consumatore od utente. Chi paga l’imposta non riceve nulla in contraccambio specifico; né è certo che egli debba ricevere qualche cosa in contraccambio generico, anzi non è nemmeno certo che egli non sia forse danneggiato dai servizi che lo stato fornirà alla collettività grazie al provento dell’imposta. Il che è ovvio e proprio dell’imposta, come tutti sanno; ma poiché la proposizione del vantaggio specifico non è niente affatto contenuta nella tesi della produttività dell’imposta, così non ha ragion d’essere il facile schiamazzo.
4. La tesi della produttività dell’imposta è stata modernamente[2] arricchita con considerazioni attinenti agli effetti che dati particolari usi del provento dell’imposta possono avere su talune branche dell’attività economica; come quando si osserva che il provento di una data imposta stradale può essere impiegato a migliorare la strada medesima, con vantaggiosi riflessi sul traffico e sulle imprese agricole od industriali o commerciali che da quel traffico traggono alimento. In verità qui usciamo fuori dal problema discusso; essendo evidente che le imposte istituite ad uno scopo particolare avvantaggiano o danneggiano particolarmente quello scopo assomigliando perciò più a contributi, che ad imposte propriamente dette. Le imposte «di scopo» sono un avvedimento tecnico il quale giova a scemare il costo di certi particolari servizi, in confronto col costo alternativo che si dovrebbe sopportare ricorrendo al prezzo pubblico. In luogo del pedaggio, riscosso volta per volta all’atto del passaggio dell’uomo o del veicolo sulla strada, con metodo costoso e fastidioso e sterile, si istituisce l’imposta di utenza sui veicoli e sugli immobili della zona; e con provento più sicuro e riscosso con minore spesa si copre il fabbisogno per la manutenzione ed il miglioramento della strada.
5. La tesi della produttività dell’imposta non riguarda però le imposte di scopo; ma invece quelle generali, per le quali non si può parlare di relazione logica fra l’imposta ed un qualsiasi particolare servizio pubblico; sibbene soltanto tra l’imposta e l’insieme generico dei servizi pubblici.
A tal riguardo la tesi della produttività dell’imposta non ha altro significato se non quello di una dichiarazione di vincolo necessario fra l’insieme dei servizi pubblici ed il pagamento del tributo. Astrazion fatta da qualunque giudizio economico o morale o politico sul valore, sulla dignità, sulla desiderabilità o richiesta effettiva da parte dei singoli dei servizi pubblici, esiste un vincolo siffatto, per cui cessati i servizi vien meno l’imposta, e non pagata l’imposta vengono meno i servizi pubblici. Non occorre nemmeno esistano sul serio i servigi pubblici. Se questi appartengono alla categoria dei servizi immaginari imposti dal ceto dominante a proprio esclusivo prevalente vantaggio a carico dei sudditi esiste tuttavia un vincolo fra il pagamento dell’imposta e la prosecuzione del sistema di illusioni o di brutale costrizione da parte della classe dominante. Se vien meno l’organizzazione coattiva di illusioni e di oppressione i sudditi si liberano dal pagamento dell’imposta. La scienza economica non indaga se i beni acquistati dai consumatori siano per essi fecondi di effettivo vantaggio; perché dovremmo assoggettare a siffatta indagine la scienza finanziaria?
Il vincolo fra servigi effettivi o pretesi e pagamento dell’imposta forse non è tale da soddisfare pienamente chi vorrebbe che quel vincolo implicasse il concetto della realtà, bontà, dei servizi medesimi; ma poiché quel concetto è estraneo alla scienza economica così come essa è comunemente intesa dai suoi cultori, quel che resta basta per andare innanzi col teorizzare.
6. Continuando, perciò, è chiaro che i servizi pubblici, qualunque essi siano, non sono «fattori di produzione» nel senso comunemente attribuito alla parola e neppure «presupposti» specifici della produzione. L’imprenditore il quale organizza l’impresa, non ha ragione di cercare ed acquistare sul mercato servizi di difesa o di sicurezza o di giustizia, né di igiene o di cura dei malati o di adornamento della vita cittadina. Tutto ciò è al di fuori dell’impresa propriamente detta e non rientra nel calcolo dei costi e di rendimento dei fattori produttivi. Egli non ha alcuna necessità di assumere come «presupposto» o «condizione» specifica per l’esercizio della impresa uno qualunque dei servizi statali. Lo stato gli usa la finezza di creare attorno a lui l’ambiente propizio necessario alla impresa, ma non chiede perciò alcun compenso che stia in una relazione specifica con quell’ambiente. Se ne gode come dell’aria circostante e non si pensa di pagare alcunché in cambio. Le imposte, che son pur pagate, paiono variare in relazione alla quantità dei beni prodotti o consumati od al successo dell’impresa. Fin qui, lo stato pare assente, come fattore produttivo, dall’impresa.
Pur tuttavia, l’imprenditore ha la sensazione che qualcosa ci sia nell’ambiente, nell’aria circostante della società civile organizzata a forma di stato che non è indifferente per il successo della sua impresa. Se egli ha libertà di scelta nella localizzazione dell’impresa, egli preferirà lo stato (e, in sfera più limitata, le provincie ed i comuni) nel quale:
- i servizi di sicurezza esterna ed interna di giustizia e di igiene siano meglio organizzati a preferenza di quelli nei quali essi siano imperfetti o trascurati o, talvolta, inesistenti;
- i servizi di assistenza sociale, assicurativi ed ospitalieri siano efficacemente ed a costo basso compiuti, a preferenza degli stati nei quali non esistano od esistano soltanto di nome, o si facciano sentire nel momento del prelievo dei contributi e non in quello della largizione dei benefici;
- la vita sia più lieta e più sana e quindi il lavoro umano più agile e fecondo per l’opportunità di vita all’aperto nei parchi, di onesti e sani divertimenti in teatri e palestre, di escursioni facilitate nelle domeniche e nelle vacanze ad irrobustire il corpo ed a riposare la mente, a preferenza di quegli stati nei quali, per la mancanza di codesti beni pubblici, gli uomini conducano vita sordida in carceri; chiamate città e, per lo strepito di macchinari e la oscurità propagata dal fumo degli alti camini, simili piuttosto ai quadri dell’inferno dantesco.
L’imprenditore non solo sente che il costo e il rendimento della impresa variano in funzione del variare della quantità e della qualità dei servizi pubblici ma egli, insieme con gli altri cittadini, compie rispetto ad essi continui calcoli di costo e di produttività marginali. Che cosa sono, negli stati nei quali, in forme diversissime, si delibera intorno alle spese ed alle entrate pubbliche in seguito a pubblica discussione, i dibattiti talvolta interminabili, istituiti intorno alla opportunità o convenienza o necessità di una qualche nuova pubblica spesa e relativa imposta? Che cosa sono se non calcoli di costo e di rendimento marginali? Anche per i fattori
di produzione specifici, interni all’impresa, non si discute mai o quasi mai intorno alla massa dei fattori. Quasi si direbbe che il grosso delle spese sia «consolidato».
Non si discute dei milioni, sì delle migliaia di lire; non delle lire, ma dei centesimi. Si discuteva in Italia, al tempo dei lunghi dibattiti parlamentari, non dei dieci corpi d’armata, ma del dodicesimo corpo; su questo si conducevano memorabili battaglie e cadevano ministeri così come l’agricoltore non si occupa del grosso dei carri, degli aratri, delle falciatrici e degli arnesi che già possiede e tuttodì adopera, ma della nuova seminatrice, che dubita gli convenga acquistare.
Non si discuteva nel consiglio comunale di una città bene amministrata, i consiglieri della quale fossero attentissimi a procacciarsi popolarità collo scansare spese inutili, dei giardini e dei parchi pubblici già goduti pacificamente dalla cittadinanza, sì dell’intollerabile peso dell’incremento alla sovrimposta dovuto al nuovo acquisto della villa privata che taluno avrebbe voluto aprire alla gratuita ricreazione dei bambini del vicinato; e «li conducano» – si gridava – «le mamme e le balie al non lontano parco pubblico. Facciano codeste amanti del comodo qualche centinaio di passi di più; ma si risparmi al contribuente quel centesimo addizionale che potrebbe dare il crollo ai già smunti ed instabili bilanci privati». E si paragonavano aumenti di area di giardino aperta all’uso gratuito dei cittadini e diminuzione di quattrini, ossia di mille svariate possibilità di piccole acquisizioni, nelle scarselle dei contribuenti.
Non è neppure necessario paragonare ad uno ad uno gli incrementi infinitesimi dei mille e mille tipi diversi di servizi pubblici; basta paragonare l’incremento di imposte con il corrispondente valore monetario dei diversi numerosi tipi di rinuncie a spese private alle quali il contribuente medio si dovrebbe perciò adattare. Il contribuente imprenditore paragona l’incremento di imposte dovuto alle scuole perfezionate e prolungate, alla viabilità ed illuminazione pubblica meglio curate, ai giardini e parchi largitori di sani divertimenti ai suoi concittadini ed ai loro figli, con l’incremento di imposte che ne deriverà al bilancio della sua impresa e giudicherà approvabile o contennenda la spesa a seconda che l’onere gli sembrerà o non sopportabile, ossia a seconda che, tenuto conto di quello e di tutti gli altri incrementi di onere per aumenti di salari o di altri costi, il reddito suo netto gli parrà cresciuto o invariato o minacciato. Il calcolo è un po’ istintivo ed in confuso; ma non è perciò dissimile dal calcolo istituito per la maggior parte degli altri privatissimi, peculiarmente proprii alla sua impresa, fattori del costo di produzione e non è calcolo meno di quelli tipicamente marginale.
7. Il concetto dello «stato fattore di produzione» è, sì, rassomigliante al concetto della «economia esterna» proposto dal Marshall. Del quale potrà dirsi non sia fecondo ai fini di talune particolari indagini teoriche[3]; non che esso non sia atto ad illuminare altre indagini e sopratutto taluni aspetti della realtà economica. Le economie esterne che una data industria crea non potranno probabilmente anzi certamente essere captate permanentemente a beneficio esclusivo di quella industria, e ridonderanno a poco a poco a vantaggio anche di tutte le industrie che si localizzeranno le une dopo le altre in una data località anzi di tutte le specie di attività economica che ivi verranno ad essere esercitate; ma non perciò esse sono meno una realtà viva ed operosa e feconda talvolta fecondissima. Chi di noi non si è trovato di fronte ad affermazioni o negazioni di questo tipo: non convenire o convenire assumere una data famiglia colonica perché essa dalle referenze avute risultava essersi educata od avere a lungo lavorato nel territorio del comune X od in quello del comune Y?
Nel secondo comune sì e nel primo comune no esistere da lungo tempo consuetudini di buona tecnica in certe operazioni agricole di gran rilievo nel caso specifico, per esempio nel potar viti, nel tirarle su in maniere confacenti ad un particolare vitigno o terreno, nel tener le viti alte o basse, nel serbare indipendenti l’una dall’altra e cioè non sovrapposte (suppongasi le viti di quel vitigno genericamente detto nebiolo) ovvero nel farle correre per lungo tratto l’una sovrapposta all’altra a quattro cinque e talvolta più ordini paralleli (come accade per il medesimo vitigno nebiolo che sia coltivato nella tipica zona del barolo). La lunga consuetudine del lavoro compiuto in una certa maniera adatta o disadatta diventa una proprietà quasi innata dell’uomo in quel luogo nato e cresciuto, sicché egli senza costo, per istinto e per una particolare attitudine della mano e del braccio compie atti che altri dovrebbe apprendere a fatica, anzi ad una certa età non sarebbe più capace di imparare.
Quelle attitudini ereditate nel nascere e diffuse nell’aria sono cagione di economie esterne ad ogni singola impresa, e proprie dell’industria viticola, delle quali si tiene quotidianamente conto dagli imprenditori nella scelta delle famiglie coloniche e nei calcoli dei costi di produzione.
Chi di noi non ha sperimentato i frutti dell’industrializzazione progressiva, meglio dicasi della diffusione della abilità tecnica in certe zone agricole? Cinquant’anni fa sarebbe stato impossibile od almeno costosissimo introdurre in quelle zone un trattore per l’aratura meccanica. Impossibile trovare sul luogo il guidatore; assurdo che l’improvvisata guida avesse l’orecchio fatto ai diversi rumori e suoni ed avvertimenti dati, nel suo moto, dal veicolo; ancor più assurdo trovare chi potesse sul luogo compiere le riparazioni necessarie al trattore quando questo si fosse per qualche accidente incantato.
Occorreva attaccare qualche paio di robusti buoi, trainare l’ammasso cigolante di ferraglie sotto una tettoia ed interrompere i lavori sino all’arrivo dello specialista dal capoluogo della regione; con enorme dispendio di tempo e di denaro e con scoraggiamento dei volonterosi che avessero voluto tentare l’esperimento. Correndo il secolo, al vecchio fabbro ed al maniscalco comincia ad aggregarsi un artigiano capace di riparare le pompe irroratrici di zolfo e di solfato di rame; poi si aggiunge una piccola officina di riparazioni delle biciclette e delle automobili di passaggio.
Moltiplicandosi le biciclette e qualche non rara automobile prendendo in luogo suo domicilio talun agricoltore avendo sostituito agli aratri comuni quelli volta orecchie ed a ruota, ecco diventare più numerosi gli artigiani capaci di riparare – macchine agricole e provvisti dei modesti capitali occorrenti a tenere in magazzino una certa varietà di pezzi di ricambio. Ecco i ragazzi più svelti del luogo appassionarsi ai lavori meccanici, esercitarsi nel disegno; e accumulato qualche risparmio, ecco taluno acquistare trebbiatrici e trattrici; e laddove un tempo occorreva attendere che dalla città vicina giungesse la trebbiatrice con turno di parecchi mesi, oggi nel luogo forse una dozzina di trebbiatrici percorrono immediatamente tutto il territorio ed entro luglio tutto il frumento è posto in serbo nei granai.
Ciò può sembrare ovvio a chi oggi lo vede; ma chi ha assistito al lento avanzamento compiuto in questo campo nel cinquantennio dal lontano giorno in cui egli ricorda l’ala di ogni podere risuonante delle grida dei contadini intenti a far girare a tondo i buoi col greve peso del rullo trainato sulle spighe del frumento sparso sul suolo indurito coi colaticci della stalla; e le grida più alte ed affannose dei contadini che intendevano a sbarazzar frettolosamente l’aia dai covoni ed a raccogliere il grano per salvarlo dalla furia prossima degli acquazzoni estivi; chi tutto ciò ricorda non è propenso a dar poco rilievo al concetto delle economie esterne talora alle singole imprese, più spesso alla singola industria, derivanti dall’affittirsi delle imprese artigiane, dal diffondersi delle cognizioni tecniche, dalla emulazione dei bravi, dall’esempio dei migliori. Taluno, che primo intraprese una data operazione agricola apparentemente semplice compiuta in maniera contrastante con le consuetudini locali, durò fatica e superò costi particolari. I circostanti contadini sopraggiunti ad osservare il modo nuovo e strano commentavano quasi si trattasse di un pazzo buttar danari dalla finestra. A poco a poco, il metodo è divenuto universale e poiché tutti lo sanno applicare, costa meno.
Prima si doveva fare con dura fatica dell’uomo, non convenendo azzardare i capitali occorrenti per il macchinario atto a surrogare la vanga ed il piccone. Oggi, che tutti lo pregiano e lo applicano, il lavoro costa la quarta parte di quel che costerebbe se si dovesse eseguire a mano; e si fa su larga scala, alla quale non basterebbero i pochi uomini disponibili. Poiché esistono biciclette, vetture automobili, trattori per trebbiatrici, è nata anche la maestranza capace di guidare e riparare trattori per aratura meccanica; e quel lavoro profondo che cinquant’anni fa sarebbe stato assurdo e costosissimo, oggi è possibile e, mirabile dictu, persino richiesto dai contadini che prima l’odiavano.
Fatti i conti tra sé e sé – ma non ne fanno confessione aperta e ricercano altri pretesti – concludono essere più conveniente lasciare i buoi nella stalla a poltrire e pagare fior di danari per il nolo del trattore per l’aratura meccanica. Quel che volgarmente si dice il nuovo ambiente di diffusa abilità tecnica e di moltiplicazione delle piccole imprese industriali ed il Marshall disse metodo delle economie esterne ha fatto sì che il rustico contadino, facendo suoi calcoli comparativi di costi e di rendimenti, concluse che l’incremento di peso netto dei buoi impigriti per un giorno di più nella stalla insieme con il maggior prodotto in paglia e granella del frumento seminato sul terreno rotto in profondità superava l’incremento di spesa dovuto al noleggio per un giorno del trattore per l’aratura meccanica. Il guadagno differenziale pare in se stesso una economia meramente interna ed il contadino sornione non si occupa d’altro; ma noi che ricordiamo quel che accadeva cinquant’anni or sono ed i miserabili rendimenti di allora, non possiamo non registrare che quelle economie interne non sarebbero oggi possibili se attorno ad esse non si fossero verificati quegli accadimenti, ognuno per se stesso inavvertito e determinato da particolari esigenze, i quali crearono l’ambiente di cultura tecnica ed agricola, di cui noi oggi godiamo, come dell’aria, quasi senza avvedercene.
8. Il cattedratico ambulante il quale vuole convincere il sospettoso contadino della convenienza della aratura profonda meccanica non ha bisogno di impacciarsi di economie esterne; basta gli faccia il conto del vantaggio in lire, soldi e denari del lucro netto che egli otterrà dalla nuova pratica; né il contabile, il quale volesse ridurre in cifre il bilancio delle entrate ed uscite dell’impresa, avrebbe bisogno di far altri conti fuor di quelli dei costi e rendimenti valutabili in danaro specifici all’impresa medesima.
L’economista non è né un benemerito cattedratico ambulante, né un mero contabile. Egli deve spiegare l’intiera realtà economica e non può chiudere gli occhi al fatto che l’impresa è parte dell’industria e questa dell’intera attività economica e questa ancora è in funzione dell’ambiente generale di cultura tecnica ed, ancora, lo stato della cultura tecnica ed agricola è funzione di altri fattori, tra i quali preminenti i servigi pubblici creati dallo stato.
Perché il mero contabile è sempre più impacciato ed esitante nel redigere i suoi conti del dare e dell’avere a mano a mano che egli trascorre dall’impresa singola al ramo particolare d’industria, da questo all’industria in generale, dall’industria in generale all’ambiente culturale e statale che è alla base dello stato generale dell’industria, sol perciò diremo noi che quei conti sono assurdi e sono posti fuori del campo della scienza economica? Diremo che sono difficili, ardui, praticamente talora impossibili a condursi al di là di mere constatazioni generiche; ma non diremo che essi non siano trattabili con gli stessi criteri con i quali si trattano fatti più semplici, più terra a terra, più agevolmente misurabili e traducibili in quantità monetarie. Tanto varrebbe dire che la scienza economica deve ridursi a quel che è oggetto di quella utile, sebbene scientificamente modesta, arte che si chiama contabilità o ragioneria.
La difficoltà di misurare il contributo che il fattore di produzione «stato», come il fattore di produzione «economie esterne» dà alla consecuzione del prodotto totale di una data impresa, di una data industria e dell’industria umana in generale non è argomento valido ad escludere che esso sia un fattore di produzione. Dire che quel contributo non è agevole a misurarsi non equivale a negare che esso sia un fattore di produzione. La esistenza della caratteristica «fattore di produzione» è forse in funzione della attitudine degli uomini ad apprezzare, ad attribuire nella gerarchia dei fattori una collocazione quantitativa precisa ad ognuno dei fattori? La mancanza o la scarsità dei dati di valutazione, i limiti posti alla intelligenza umana nel vedere e valutare i dati medesimi consigliano, per ragion di prudenza, agli studiosi di approfondire le loro indagini in quei campi nei quali i dati esistono, e sono conoscibili ed apprezzabili.
Ma la regola di prudenza non autorizza a negare che oltre i fattori conosciuti ed usati e manipolati altri esistano, come le «economie esterne» o lo «stato» i quali sono bensì meno facilmente apprensibili e valutabili, ma non perciò sono meno realmente operanti e potenti. Né bisogna esagerare le difficoltà comparative di valutazione. Sarebbe suggestivo lo studio di chi mettesse a confronto i metodi di valutazione e di attribuzione dei cosidetti costi generali o fissi di un’impresa ai prodotti dell’impresa medesima con i metodi corrispondenti usati per la valutazione e la attribuzione (distribuzione dei tributi) dei costi dei servizi pubblici. Il vago e l’arbitrario che a giusta ragione si imputano alle operazioni relative ai servizi pubblici sono forse ignoti alle operazioni relative al riparto delle spese generali di un’impresa?
Le discussioni teoriche compiute in proposito dagli studiosi sono tanto più ben ragionate di quelle che si usa o si usava fare nei parlamenti a proposito del riparto del costo dei servizi pubblici? Sovratutto, ed è quel che massimamente conta, gli espedienti adottati di volta in volta dai capi di impresa per distribuire i costi generali sulle unità di merci prodotte valgono davvero molto di più degli espedienti, detti sistemi tributari, ai quali ricorrono gli amministratori della cosa pubblica per ripartire sui redditi sui consumi sui patrimoni il costo dei servigi pubblici? Sebbene sia lecito in proposito un ragionevole scetticismo, nessun economista nega, ad esempio, agli impianti industriali ferroviari portuali agricoli, ai quadri dei dirigenti, dei funzionari e degli impiegati, che danno luogo a costi cosidetti fissi la qualità di fattori di produzione che altri nega, per analoghi motivi di difficoltà di valutazione, allo stato.
Se un ponte è posseduto da una impresa privata e questa preleva un pedaggio sui passanti, l’impresa la quale spende 50.000 lire all’anno per diritto di pedaggio sui suoi veicoli, indubbiamente considera la spesa come un costo specifico della produzione delle merci da essa trasportate attraverso a quel ponte e nessuno si stupisce se l’impresa proprietaria del ponte considera questo come un fattore di produzione, al quale è attribuita la remunerazione detta pedaggio. Solo perché lo stato espropria, dietro indennizzo, l’impresa ed apre il ponte al transito gratuito, coprendone il costo con l’imposta, diremo che il ponte non è più un fattore di produzione e lo stato non ha più ragione di esigere in qualche modo un compenso per il suo uso? La mera variazione del mezzo tecnico usato per la copertura dei costi di manutenzione, di ammortamento e di interesse avrebbe la virtù di mutare il contenuto sostanziale del fatto economico?
Se l’imprenditore del tempo fra il 1880 ed il 1900 assoldava negli Stati Uniti una banda Pinkerton per difendere lo stabilimento dall’assalto delle maestranze, egli considerava il salario pagato agli uomini della banda alla medesima stregua di quello pagato dovunque ai custodi ordinari di fabbriche e di case: compenso per un fattore di produzione. Forseché la natura della prestazione muta solo perché essa, perfezionandosi, è oramai passata anche in quel paese agli agenti della polizia statale o federale ed il costo è coperto con le imposte?
È ben fondato il maggior interesse dell’economista per lo studio dei fattori di produzione specifici, meglio analizzabili nelle loro variazioni qualitative e quantitative. È ragionevole che normalmente si discuta solo dei fattori specifici negli scritti di economia pura ed applicata e che nella discussione dei costi e dei rendimenti del fattore «stato» si usino metodi e strumenti meglio appropriati alla sua particolare figura. Qui si vuole soltanto affermare che la difficoltà di trattare quello alla stessa stregua di ogni altro fattore di produzione non legittima la negazione ad esso dell’attributo suo proprio di fattore.
9. Certamente, esso è un fattore «sui generis», il quale è remunerato in modo peculiare, diverso dal modo tenuto nel remunerare gli altri fattori. È certo che dalla premessa dello «stato fattore di produzione», non si può ricavare alcuna regola intorno al modo di ripartire il costo dei servizi pubblici per mezzo di imposte. Noi non conosciamo quale sia il contributo che il fattore stato dà alla produzione dei beni economici; e l’imposta è pagata appunto perché noi non abbiamo alcuna possibilità di misurare quel contributo. Se potessimo, non esisterebbe l’imposta; ché ognuno apprezzando, come nel caso dei trasporti ferroviari, il vantaggio specifico ricevuto dal trasporto farebbe domanda volontaria di esso quando il prezzo non superasse il vantaggio.
«Ma questa verità» – scrivevo nel 1919[4] – «non contraddice in nulla all’altra che l’imposta, come massa complessiva di mezzi forniti allo stato, dia modo allo stato di agire come fattore della produzione … Naturalmente lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’esser suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato, magistrato, educatore, difensore degli interessi generali, esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercite dai privati imprenditori. In tal guisa essa collabora al raggiungimento della meta che è la massima produzione di beni materiali e spirituali, alla massima elevazione degli uomini».
L’equivoco di coloro i quali negano allo stato la caratteristica di «fattore produttivo» sta nel ritenere che non si possa dare fattore produttivo se il suo contributo ad una specifica produzione non è misurabile e se la sua remunerazione non può essere determinata in rapporto alla sua specifica produttività marginale.
Si può, volendo, anche fare siffatta convenzione; e può essere utile farla quando si voglia, per i motivi ragionevolissimi già indicati, limitare le proprie indagini al campo specifico di quella produzione, tutte le altre circostanze supposte invariate. Trattasi però di mera convenzione, comoda e spesso vantaggiosa. Nello stesso modo che gli economisti, dopo aver reso omaggio allo schema teorico dell’equilibrio generale, limitano per lo più i proprii ragionamenti entro lo schema degli equilibrii parziali, il quale promette approssimazioni più sicure e soddisfacenti alla realtà, così è ragionevole nelle indagini intorno alla produzione ed alla imputazione dei diversi fattori produttivi al prodotto totale, supporre esistente ed agente lo stato e fare astrazione dal suo intervento. Ma se l’astrazione è comoda ed utile, rimane astrazione.
Noi sappiamo che la realtà è un’altra; che alla pari di tanti altri fattori, supposti costanti, anche lo stato esiste e muta; e che il più o il meno e il modo del suo agire ed intervenire esercitano una influenza profonda sulla produzione. Sappiamo che se i servizi pubblici sono forniti in una certa quantità e scelti in un certo modo, che nel linguaggio comune, sul fondamento di ragionamenti o sentimenti spesso istintivi ossia ereditati dalla esperienza passata e dalla tradizione e trapassati nel subconscio della nostra psicologia, piace qualificare ottimo o buono; se il loro costo è distribuito parimenti in un modo che giova designare come ottimo o buono – ma potremmo indicarli semplicemente come modi A o B ovvero I o II – gli effetti diretti o indiretti, a breve od a lunga distanza di tempo sulla produzione dei beni, materiali o spirituali, sono tali che comunemente si indicano come ottimi o buoni (ovvero, se più talenta, à o á, o m o n).
Sappiamo parimenti che se i servizi pubblici sono invece forniti in una certa altra quantità e scelti in un certo altro modo; se il loro costo è distribuito in un modo che noi usiamo qualificare come cattivo o pessimo (ovvero M od N, ovvero III o IV), gli effetti diretti od indiretti, a breve o lontana scadenza sono tali da farli comunemente designare come cattivi o pessimi (ovvero, se così piace, m od n, r o s). Se noi ciò sappiamo, perché non dovrebbe essere lecito passare dallo schema nel quale si tiene solo conto dei fattori di produzione economici in senso stretto posti dentro l’impresa: varie specie di lavoro, terra, capitali tecnici fissi, capitali variabili, ecc. allo schema nel quale si tiene conto anche dei «fattori» esterni all’impresa, come la località, la varietà ed il numero delle imprese esistenti nella località, la specializzazione tecnica delle imprese, l’educazione delle maestranze, la organizzazione sociale, la distribuzione della ricchezza, e l’opera dello stato? Scriveremo, probabilmente, pagine un po’ discorsive e descrittive, non intonate al rigore delle dimostrazioni solite a darsi oggi, con efficacia di persuasione, dei teoremi economici[5]. Daremo così la prova che, in quel campo, noi siamo ancora in uno stadio arretrato dei metodi di investigazione scientifica. O dimostreremo invece che, per quanto tocca lo stato, sarà mai sempre difficile andare al di là di quanto seppero dire – Aristotile, Machiavelli, Guicciardini, Giambattista Vico e pochi altri sommi?
Forseché in questo campo l’avanzamento scientifico si misura dalla perfezione della piccola tecnica adoperata nell’esporre ovvero dallo splendore delle nuove idee messe innanzi?
10. Se il concetto dello «stato fattore di produzione» è negato in particolar modo da quegli economisti i quali amano, e, poiché ognuno è libero nella scelta del proprio campo di studio, ragionevolmente amano discorrere soltanto di quei fatti o problemi i quali possono essere discussi con rigore di impostazione e di terminologia; i medesimi scrittori non esitano implicitamente ad usare il medesimo concetto come strumento per la discussione di problemi particolari.
Così il valoroso scrittore, da cui presi le mosse per ricostruire ed esaminare criticamente l’atto di accusa contro il concetto dello «stato fattore di produzione», quando si trova dinnanzi al problema degli effetti dell’imposta generale sui redditi nell’ipotesi dello stato cooperativo, ossia nell’ipotesi di uno stato – il quale prelevi imposte allo scopo di produrre servizi utili a tutti, che è l’ipotesi tacitamente e necessariamente affermata quando si attribuisce allo stato la caratteristica di «fattore produttivo» e cioè di fattore di produzione di ricchezza noti nella maniera propria ai fattori economici, bensì in quella propria ad esso stato, senz’altro riconosce (Fasiani, II, 147) che, in quella ipotesi, «in media il reddito reale di tutti tende ad aumentare. Di qui una duplice conseguenza. Da un lato, l’incremento dei redditi reali tende a determinare, alla lunga, un qualche aumento nella produzione del risparmio, e quindi nell’offerta di capitale. Dall’altro lato, in quanto si verifichino talune condizioni [altrove analizzate dall’autore], i percettori di lavoro puro sono indotti a diminuire la loro offerta individuale di lavoro. Ne deriva che, alla lunga, il salario tenderà piuttosto ad aumentare che non a diminuire, mentre tenderà invece a diminuire il saggio di interesse»[6].
Che altro si vuol dire quando si afferma che lo stato è un fattore di produzione, se non che esso, agendo in conformità all’esser suo, che non è, intuitivamente, di arare terre o di far girar tornio e perciò riscuotere salari, sibbene di prelevare imposte per produrre servigi utili alla collettività, cresce il flusso della ricchezza nuova prodotta? Chi fa passare il flusso della ricchezza nuova da 100 a 120 si chiama fattore della produzione del flusso 120. E s’intende anche che questa maniera di discorrere dello stato o di vedere l’opera dello stato la useremo soltanto noi economisti, in quanto siamo ridotti al melanconico studio dei più o dei meno di ricchezze, vecchie e nuove, e del variare di codeste quantità col variare delle situazioni in che si trovano persone fisiche e giuridiche, uomini singoli e collettività e stati, e non pretenderemo affatto di imporre siffatto nostro materiale modo di discorrere a chi si occupa dello stato da altri punti di vista: ai politici, ai giuristi, ai filosofi, ai moralisti. Tutt’al più gli storici potranno avere opportunità, essi che debbono fare quadri compiuti degli accadimenti umani, di accennare anche a questo aspetto dell’attività dello stato e di usare, a far più persuasiva la esposizione, anche le cifre aritmetiche da noi calcolate.
11. è ben vero che, voltata pagina, il Fasiani dichiara l’opera dello stato essere feconda soltanto in lunghi periodi secolari, «così lunghi da rendere vano il tentativo di applicare ad essi le leggi tendenza di prima approssimazione» [che si possono formulare in materia], tanto lunghi da non consentire di attribuire a quella fecondità «un significato che sia valido per il periodo limitato di tempo entro il quale possono essere valide le leggi tendenze studiate come effetti dell’imposta».
Sembra che la differenza tra i periodi lunghi ed i periodi brevi di tempo, sia questa: che solo per i periodi brevi di tempo si può far la premessa del rebus sic stantibus ed usare lo strumento detto degli equilibri parziali. Appena il tempo si allunga, muta certamente qualche altra condizione, od anzi mutano parecchie insieme e lo studioso non può più andare innanzi nella dimostrazione, senza ricorrere allo strumento, di tanto più arduo maneggio, dello studio delle variazioni contemporanee di tutti i dati componenti l’equilibrio economico, anzi sociale e politico insieme. Questo è certo il tragico dilemma dinnanzi al quale si trova posto lo studioso: od egli si mette il paraocchi della clausola del rebus sic stantibus e può scavare in profondità e costruire quella perfetta teoria della traslazione e degli effetti delle imposte che è il contenuto più bello della recente opera del Fasiani; ma egli sa che le conclusioni alle quali giunge sono valide soltanto per breve tempo, sinché non mutano le altre condizioni ambienti.
Ovvero egli cerca di tener conto della interdipendenza di tutti i dati del problema in un mondo nel quale tutto muta continuamente e si trova, dopo avere delineato un magnifico quadro d’insieme alla Walras od alla Pareto, ridotto d’un tratto alla impotenza; ché i dati conosciuti son così pochi in confronto a quelli che farebbe d’uopo conoscere e gli strumenti a lui accessibili per calcolare le relazioni fra i dati noti e quelli ignoti sono così imperfetti, da fargli abbandonare l’impresa come disperata[7].
12. In verità il dilemma non è così tragico come pare a primo aspetto. Perché in fondo i teoremi ottenuti mercé lo strumento degli equilibri parziali alla Marshall appaiono, anche a chi li guarda coll’occhio dell’uomo d’azione, dell’imprenditore industriale o commerciante, del banchiere, dell’agricoltore, pienamente rispondenti in sostanza alla realtà? Perché si osserva una singolare coincidenza fra le risposte che a quesiti economici danno industriali commercianti banchieri agricoltori interrogati, ognuno di essi, sui loro affari proprii, e quelle che intorno ai medesimi quesiti si leggono nei libri di economica scritti secondo il sistema degli equilibrii parziali?[8]
Egli è che le «altre» circostanze, quelle dalle quali si fa astrazione nelle trattazioni condotte con la clausola del rebus sic stantibus, non mutano o mutano lentissimamente. L’animo umano, le passioni, i vizi e le virtù degli uomini, la distribuzione tra essi delle qualità morali sono oggi quali li descrissero i grandi scrittori dell’antichità. Mutano talvolta rapidamente le leggi legiferate, ma assai più lentamente le leggi osservate e le consuetudini. Per tener conto delle circostanze le quali mutano, in fondo basta spesso spostarsi dall’uno all’altro caso fra quelli che gli economisti considerano nei tanti loro schemi. Se nel costruire gli schemi, lo studioso ha astratto dalla realtà i casi tipici effettivamente verificabili, i varii tipi di offerta a costi costanti, crescenti o decrescenti, a domanda rigida od elastica, in regime di concorrenza pura o di monopolio o misti; se nel considerare le combinazioni dei diversi fattori si è attenuto a quelli più probabili, vi è quanto basta per conoscere la realtà. Questa è anzi spesso più semplice delle combinazioni complicate che ad arte e mossi dalla libido ratiocinandi immaginano gli studiosi puri.
Qualcosa muta, sì, nel frattempo. Stagioni avverse o stagioni propizie, guerre, pestilenze, romori di dogane le une contro le altre armate mutano i dati del problema. Ma sono mutazioni, il cui effetto è noto e calcolabile, delle quali si è già fatta esperienza, che spingono in su o in giù le curve individuali e collettive della domanda o dell’offerta, ed a destra o a sinistra i punti di intersezione delle curve medesime, in maniere che sono già state previste o possono nuovamente essere constatate. Si tratta di nuove fattispecie del medesimo eterno problema di trovare il nuovo punto di intersezione delle curve di domanda e di offerta.
Chi sa benissimo come si formino e variino e stiano in relazione vicendevole costi e prezzi dei beni da lui prodotti, scivola facilmente nel padreterno e detta leggi inapplicabili rispetto al modo che il governo dovrebbe tenere nel regolare i prezzi altrui. Chi vede chiarissimamente la impossibilità di fissare d’impero quel singolo prezzo che è il suo, ritiene «giusto» disciplinare i prezzi altrui. Nel primo caso parla l’economista d’intuito e d’istinto; nell’altro spunta il progettista che è incoercibilmente annidato nell’animo umano. Al luogo di chi descrive le leggi che sono, vien fuori l’apostolo delle leggi che dovrebbero essere. Ognuno è economista nelle cose da lui praticate, profeta e praticante nelle cose di tutti.
L’economista, esperto nel maneggiare lo strumento dei diagrammi cartesiani, traccia rapidamente la nuova figura adatta alla nuova posizione del problema; ed è emulato e spesso vinto in codesta rapidità solo dall’imprenditore o banchiere o speculatore pronto ad intuire da che parte spira il vento propizio o contrario e ad adattare a quello la sua azione. Il primo condiscende benevolmente che l’amico teorico fautore del metodo dell’equilibrio generale insista nel dire che il metodo degli equilibri parziali o della clausola del rebus sic stantibus o coeteris paribus è imperfetto perché non tiene conto di tutte le mutevoli possibili circostanze; ed il secondo lascia predicare coloro i quali vorrebbero mettere il mondo a segno e regolar dall’alto (ossia dalla lor mente limitata) guerre e pestilenze, stagioni e gusti, terremoti e dogane ecc. Le soluzioni teoriche alle quali è arrivato il primo e quelle concrete a cui giunge il secondo inspirano fiducia, sono approssimate alla realtà quanto più si può desiderare; ed i rivali nella teoria e nell’azione non offrono se non alternative di perfezione che stanno nel regno dei cieli. Un cielo del resto che non si sa se sia la dimora del dio della sapienza o il sogno di un progettista farneticante.
13. Qual è il tipo della circostanza variabile che si chiama «stato fattore produttivo»? Parrebbe che esso appartenga al novero di quelle circostanze, le quali per essere mescolate inscindibilmente con altre sono di difficilissima astrazione e perciò di ardua quasi impossibiie analisi quantitativa.
«Nessuno contesta che nel corso del tempo la società economicamente progredisca, e che questo progresso economico sia in parte dovuto all’azione dello stato, anche quando esso si avvicina al caso limite dello stato cooperativo. Ma nessuno può dire se e in quali limiti sia dovuto all’attività finanziaria e in quali limiti sia dovuto ad altre cause, come il progresso tecnico, l’avvicendamento pacifico o violento delle classi elette nel campo politico e nel campo industriale, gli stessi spostamenti di ricchezza dalle mani degli uni alle mani degli altri per effetto del fenomeno finanziario e delle infinite altre cause del movimento dinamico e così via» (Fasiani, II, 153).
Se è vero che questo sia ostacolo insormontabile all’indagine della parte dovuta nel progresso o regresso economico al fattore «stato» l’ostacolo impedirebbe qualunque indagine nel campo delle scienze sociali. Manca il mezzo di «isolare» i singoli fattori, qualunque essi siano; ed occorre contentarsi del mezzo, assai più imperfetto, dell’osservazione per approssimazioni successive.
Né lo «stato» appartiene al gruppo dei fattori morali i quali, se pur mutano, mutano lentissimamente ed il millennio è troppo breve periodo per osservare in essi variazioni significanti. La differenza fra un governo operoso ed uno inerte, fra quello inteso al bene generale e quello rivolto alla spogliazione dei cittadini, fra quello rivolto alle opere di pace o l’altro provocatore di guerra civile è così grande e gli effetti della mutazione da un tipo all’altro sono così immediati e profondi, che saltano agli occhi e vietano di prendere abbaglio sulla causa determinante del progresso o del regresso, osservabile nel flusso della nuova ricchezza.
Si paragonino i tempi delle guerre di religione ed il decennio del governo pacifico di Enrico IV; gli anni dei torbidi rivoluzionari e quelli del consolato (non dell’impero) napoleonico; l’inerzia borbonica e lo slancio cavourriano nel decennio di preparazione. Si può avere un qualche dubbio sulla ragione prima, necessaria e sufficiente, del rifiorire della prosperità economica, del vigoreggiare di iniziative nei momenti politicamente felici in confronto alla miseria ed al ristagno dei periodi tristi che li precedettero o li accompagnarono? Possono dubitare taluni economisti, i quali non credono se non alle cose che essi sono capaci di vedere, toccare con mano e misurare in lire soldi e denari. Non ne dubita il popolo, il quale sente dove è la sorgente del bene e del male. Un cronista così descrive il gemissement universel che si udì in tutta la Francia quando nel 1610 si diffuse la notizia dell’assassinio di Enrico IV:
«Dire maintenant quel a été le deuil de Paris, c’est entreprendre de persuader une chose incroyable à qui ne l’a vu. Partout on voyait saillir des sources de pleurs; partout on entendait les cris et les gémissements du peuple: il semblait qu’on l’eut assommé, tant la violence de la douleur l’avait étourdi et éperdu. Si on demande d’où venait cet extrême regret, la réponse est prompte: de l’amour … Ces torrents de larmes inondèrent toute la campagne. C’était pitié de voir par toutes les provinces de France les pauvres gens de village s’amasser en troupes sur les grands chemins, étonnes, hagards, les bras croises, pour apprendre des passants cette désastreuse nouvelle; et, quand ils en étaient assures, on les voyait se débander comme brebis sans pasteur, ne pleurant pas simplement, mais criant et bramant comme forcenés à travers les champs.Ce regret venait du soin que ce prince avait eu de les faire vivre en paix».[9]
Non occorrono secoli, perché si manifestino evidenti gli effetti della sostituzione di un tipo di stato ad un altro. Bastano pochi anni per distruggere gli effetti di decenni di governo onesto, sensato, sollecito dell’interesse generale e basta un numero ancor minore di anni di buon governo per obliterare il danno di non brevi periodi di dilapidazioni e malversazioni finanziarie, di torbidi interni e di guerre disastrose.
14. Altra volta (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, pag. 206 e segg.) ho chiarito l’indole, inizialmente lenta e poi cumulativa delle spese pubbliche rivolte a crescere l’attrezzatura economica del paese, con la costruzione di strade ponti canali irrigatori bonifiche ferrovie o ad elevare la capacità professionale e tecnica delle nuove generazioni è uno dei tanti paradossi sociali che l’azione dello stato appaia tanto più lenta quanto più essa è intesa ad operare direttamente sui fattori economici della produzione; ma è paradosso apparente, ché quell’azione vorrebbe modificare l’animo umano in quel che esso ha di più conservatore e tenace.
Occorre gran tempo perché le nuove generazioni meglio educate sappiano trar frutto acconcio dalle nozioni apprese e rimaste a lungo inoperose ed appiccicaticce; occorre gran tempo affinché gli uomini sappiano trarre profitto dalle strade dalle ferrovie dalle comodità di irrigazione che sono ad essi offerte dallo stato. Pochi o pochissimi comprendono dapprima il vantaggio che ne possono trarre; e l’opera loro, in mezzo ad ignari e diffidenti, incontra grandi ostacoli ed ottiene successi contrastati parziali e lenti. A poco a poco l’esempio dei pochi giova ed è imitato ma tardi il gregge umano si decide ad inoltrarsi per la strada battuta e resa oramai piana e facile dai pionieri. Solo col trascorrere di una o due generazioni i risultati appaiono imponenti.
Là dove l’azione dello stato sul progresso o regresso economico appare invece indiretta e lontana, ivi per lo più essa è più efficace e pronta. Se lo stato, assumendo compiti che possono in un primo momento essere reputati secondari e nuovi e certo non sono tra quelli che si reputano universalmente suoi proprii di educazione tecnica e di opere pubbliche, intende ad agire direttamente sui fattori produttivi modificandoli e perfezionandoli, i risultati sono invisibili lenti e cumulativi. Se lo stato invece adempie ai compiti essenziali suoi proprii, a quelli senza i quali lo stato non è pensabile, di tutore della pace interna ed esterna e di restauratore della giustizia, allora l’azione sua ha risultati immediati e meravigliosi.
È errore gravissimo pensare che l’azione più efficace dello stato al fine dell’incremento del flusso della ricchezza si eserciti mirando direttamente a crescere la produttività dei soliti fattori considerati dagli economisti: terra capitale lavoro e loro sottospecie e varianti. Quell’azione può certamente essere efficace; ma viene tarda e forse ultima nella gerarchia della produttività dei varii modi di agire dello stato; ed i vecchi economisti l’avrebbero classificata tra i servizi di lusso. L’azione di ristabilimento del senso di sicurezza e di giustizia non agisce, no, sui fattori diretti di produzione; ma agisce su quel fattore invisibile della produzione, che dai più troppo si trascura, e si chiama «fiducia».
Terre case macchine scorte uomini sono inerti e dissociati e rabbiosamente discordi quando manca la fiducia; ma diventano d’un tratto operosi ed uniti e concordi quando gli uomini sanno di essere tutelati nella vita e negli averi, quando conoscono le leggi, qualunque siano, alle quali debbono ubbidire e quando sanno che esse non possono essere mutate arbitrariamente e improvvisamente, ma solo in seguito a matura discussione, durante la quale tutte le ragionevoli opinioni hanno modo di farsi valere. Federico List assai saviamente opinava quando ammoniva che le provvidenze statali (nel caso suo la protezione doganale) non sono chiamate in guisa principale ad agire in maniera specifica (a radicare in paese «quella» data industria): sibbene in maniera generale: a creare, ad esempio, l’ambiente industriale, un modo di pensare e di operare non agricolo, ma tecnico e mercantile; ambiente e modo di pensare ed operare che in seguito creeranno od agevoleranno nuove industrie, probabilmente in tutto diverse da quelle che i promotori dell’esperimento protezionistico avevano avuto di mira.
Principalissimo modo per agire sull’uomo economico è d’inspirare in lui fiducia in se stesso, nella propria attitudine ad operare. Non sarà mai abbastanza chiarito l’equivoco proprio dell’opinione secondo la quale lo stato agirebbe sul flusso della ricchezza usando i modi che sono proprii dei fattori economici della produzione. Se così facesse, non sarebbe stato; ed in quanto si industria, talora con risultati positivi, a ciò fare, l’azione sua è necessariamente lenta e pare incertamente efficace. Quando invece lo stato opera come puro organo di giustizia, quanto più si tien lungi dall’operare economico e quasi aborre dal sembrare intendere a fini materiali, tanto più la sua azione sull’economia è pronta e grandiosa. Verità, questa, semplice ed ovvia; ed appunto perciò essa sembra paradossale.
15. L’atto di accusa contro il concetto dello «stato fattore di produzione» non era, da parte di chi lo pronunciò, mosso dal bisogno di dimostrarlo per se stesso infondato – sebbene anche a tal fine la dimostrazione possa essere stata preordinata – quanto dalla necessità di raggiungere altra meta.
Così come la espone (Fasiani, II, 293-301) il medesimo autore, la seguente catena logica di proposizioni l’una all’altra indissolubilmente legate sarebbe dovuta al De Viti:
- I. I servizi resi dallo stato sono beni complementari di ogni produzione e di ogni consumo;
- II. Il che vuol dire che, in qualunque genere di trasformazione economica, se non si sopporti il costo di quei servizi non è possibile compiere nessun atto produttivo;
- III. Da ciò segue che per ottenere l’intervento, nelle trasformazioni economiche, degli indispensabili servizi produttivi resi dallo stato, bisogna ad essi pagare un compenso, equivalente alle retribuzioni che si corrispondono per i servizi del lavoro e degli altri agenti produttivi;
- IV. Quel compenso si chiama imposta;
- V. Quindi, ogni particella di reddito prodotto durante una qualsiasi trasformazione economica contiene la corrispondente quota del costo dei servizi pubblici resi dallo stato ed indispensabili alla trasformazione;
- VI. Ossia ogni particella di reddito nasce gravata dal relativo debito tributario;
- VII. Ossia, ancora, il debito d’imposta si riferisce al momento nel quale il reddito nasce, non a quello nel quale esso muore, al momento della produzione e non a quello del consumo per l’acquisto di beni presenti (consumo propriamente detto) o futuri (risparmio), all’origine e non alla destinazione del reddito;
- Quindi resta, secondo il De Viti, dimostrato che l’imposta colpisce l’intiero reddito prodotto, e non la sola sua parte consumata; resta dimostrato l’errore proprio della teoria secondo la quale si commette duplicazione quando si tassa la parte risparmiata del reddito. Se l’imposta, per sua natura, è quasi l’ombra di ogni particella di reddito sin dall’istante di tempo in cui nasce se, negando il suo vincolo col momento della nascita del reddito, si nega la caratteristica fondamentale dell’imposta, che è di essere il compenso dei servigi prestati dallo stato alla formazione del reddito, come si può dire che si debba distinguere fra particelle e particelle di reddito e le une (quelle trasformate in beni di consumo presenti) si debbano colpire e le altre (quelle trasformate in beni di consumo futuri) si debbano escludere dall’imposta?
16. Il Fasiani, al quale teoricamente repugna in tutto la conclusione dei punti VI e VII ed al quale la medesima conclusione repugna parzialmente anche nel concreto reale dei sistemi legislativi moderni reputò perciò necessario scrivere l’atto di accusa, che fu sopra discusso e respinto, contro il concetto dello «stato fattore di produzione». Siffatta presunta necessità è tuttavia infondata. Il teorema del doppio di tassazione della quota risparmiata del reddito rimane fermo anche se si accetta il concetto che lo stato sia un fattore di produzione. Accettare siffatto concetto non vuol dire menomamente che si accettino i connotati che altri volle ad esso attribuire.
Dire che lo stato è fattore di produzione non vuol dire che i servigi resi dallo stato siano beni complementari di ogni produzione e di ogni consumo; non vuol dire che, in qualsiasi genere di trasformazione economica, per compiere un qualsiasi atto produttivo sia necessario sopportare il costo di quei servigi; non vuol dire che per ottenere l’intervento, nelle trasformazioni economiche, dei necessari servigi produttivi resi dallo stato, bisogna pagare a questi un compenso, detto imposta, della stessa natura delle retribuzioni, salario interesse rendita profitto, che si corrispondono per ottenere i servizi specifici del lavoro e degli altri agenti produttivi.
Non vuol dire niente di tutto ciò, perché tutto ciò sarebbe contrario all’esperienza quotidiana oltreché al buon senso. Nessun imprenditore immagina che nel produrre un metro di panni lana, egli, oltre a consumare un dato numero di minuti del tempo di lavoro dell’operaio, dei sovrastanti, dei dirigenti, un dato peso di materia semilavorata e di combustibili, oltre a provocare una certa usura del macchinario degli strumenti e degli edilizi usati nella produzione, consumi inoltre necessariamente una certa quantità di servizi pubblici.
Non per trascurataggine egli non vi pone attenzione; ché se questa fosse richiamata sul punto l’imprenditore non mancherebbe di testimoniare per ciò la maggior sorpresa. Lo stato presente ad ogni suo atto e prestatore di servigi contemporanei o in assistenza od a complemento degli atti che egli od i suoi operai vanno compiendo! Lo stato il quale lo assiste mentre fila o tesse, o semina o miete o vendemmia! L’imprenditore od agricoltore, stupefatto, guarderebbe all’interlocutore come a chi pronunciasse farnetico. Lo stato ha ben altro da fare che guardar me; lo stato, riassumerebbe in breve il suo pensiero l’uomo semplice, attende al suo mestiere, che è diverso dal mio. Io non posso far a meno dello stato, come lo stato non avrebbe ragion d’essere se non esistessi io, e con me gli altri miei concittadini; ma ognuno a casa sua, ad attendere ai fatti proprii.
L’uomo semplice ha ragione. La teoria esposta nei punti da I a VI è esempio classico degli errori che si commettono traducendo dal linguaggio loro proprio in quello economico concetti non nati in seno alla scienza economica e che in questa possono acquistare diritto di cittadinanza solo con molte riserve. Lo stato è, sì, fattore di produzione, ma non è un fattore di produzione il quale operi nel modo medesimo degli altri fattori di produzione; ed è anzi tanto più, potente nel crescere rapidamente il flusso della produzione quanto meno esso opera nella stessa maniera e quanto meno esso è collegato e cooperante in modo diretto con gli altri fattori di produzione.
Appunto perché si chiama «stato» e non «lavoro umano» o «macchina» o «materia prima» o «terra» opera in maniera congrua e propria alla sua indole di stato e non alla maniera propria degli altri fattori di produzione. Opera in altra sede, legislatore soldato magistrato conservatore dell’ordine pubblico fomentatore di istruzione assicuratore della salute pubblica promotore di opere di bene vantaggiose alla collettività, anche se, forse, dannose ai singoli.
Dire che esso deve ricevere un «compenso» come gli altri fattori, vuol esprimere semplicemente la impossibilità che lo stato possa esistere senza i mezzi a ciò opportuni. Null’altro. Non vuol affatto significare che lo stato debba essere remunerato in questa o quella maniera; ad esempio, facendo gravare ogni particella di reddito, al suo nascere, con un corrispondente debito d’imposta. Questa è una sola fra le molte e variopinte maniere che si possono immaginare di distribuire la imposta fra i cittadini. Non v’ha alcuna connessione logica necessaria fra siffatta particolarissima maniera di ripartire imposte ed il concetto dello stato produttore.
Il fattore lavoro e gli altri fattori produttivi economici strictu sensu sono remunerati in ragione[10] della loro produttività marginale? Anche lo stato può darsi sia remunerato nella medesima ragione; ma i calcoli per mezzo di cui quella ragione viene determinata non sono affatto simili ai calcoli che determinano l’azione dell’imprenditore nell’acquistare sul mercato l’uso dei fattori produttivi. Una convenzione, sorta in regime di divisione del lavoro, fa sì che l’imprenditore remuneri il fattore lavoro partendo dall’ipotesi che le prestazioni dell’operaio siano continue, divisibili per unità di tempo, produttive di risultati economici calcolabili ad ora, a giornata, ad unità di lunghezza o di peso od altrimenti.
È un’ipotesi comoda, bastevolmente vicina alla realtà e che serve a regolare i rapporti fra le parti contraenti. Per le prestazioni dello stato nessuno potrebbe invece dire che esse operino di continuo uniformemente immediatamente, come accade per quelle dell’operaio se e finché lavora od invece in modo saltuario, a distanza di giorni o di anni o di secoli. Sembra anzi che, se veramente essenziali, esse operino in modo singolare invisibile, anticipando le esigenze dei cittadini e quasi spegnendole in sul nascere.
Come trarre da modi tanto peculiari di agire una norma intorno al modo unico logicamente necessario di distribuire le imposte? No: il principio che ogni particella di reddito nasce gravata dal relativo debito tributario, non è una constatazione storica o tratta dalla realtà di ciò che è lo stato. Esso è invece frutto di una raffigurazione: – la società di 5 persone, l’agricoltore che coltiva il terreno e ne ricava 100 quintali di frumento, il mugnaio che trasforma quei 100 quintali di frumento in 80 quintali di farina (e si abbandonino alla lor sorte i 20 quintali di crusca e di farinette), il fornaio il quale li ritrasforma in 100 quintali di pane, il fabbro o muratore il quale produce gli arnesi e i locali necessari all’agricoltore, al mugnaio ed al fornaio, ed il soldato il quale tutela ed assicura gli altri quattro e tutti cinque fraternamente si dividono i 100 quintali di pane, che sono il prodotto totale sociale – ed è una raffigurazione lecita onesta, che anch’io ho usata come strumento utile a dare una certa idea approssimativa della realtà. Ma quella raffigurazione, non so se nella mente del De Viti, certo nella mia, che dagli enunciati del De Viti partii altra volta per discettare in proposito, non può avere il valore di attribuire al soldato le medesime caratteristiche dell’agricoltore, del mugnaio, del fornaio e del fabbro muratore, per quant’è alla natura delle prestazioni fornite ed alla maniera della loro remunerazione.
Esiste una prestazione, e deve essere conseguita, se si vuole che le prestazioni durino e si rinnovino, la relativa remunerazione. Questo è tutto quanto si sa. Che la remunerazione debba essere proporzionata al prodotto che nasce è aggiunta gratuita, non dimostrata e non dimostrabile.
Non si sa nemmeno se dall’adempimento dei compiti proprii dello stato nasca in ogni caso un maggior prodotto. Se lo stato è del tipo di quelli che sono intesi a procacciare il vantaggio dei cittadini singoli e della collettività di essi, l’esperienza dice che la collettività ha grandissima probabilità di conseguire, spesso in misura notevolissima, un incremento complessivo di prodotto. Ma quel maggior prodotto non è ugualmente distribuito; ed anzi può essere una quantità negativa per talune imprese.
Chi afferma il concetto dello «stato fattore di produzione» per ciò stesso nega il nesso fra l’azione propria dello stato e la quantità della produzione economica dei singoli imprenditori. La catena delle proposizioni che va dalla prima all’ottava è dunque rotta in un certo punto. Dal concetto dello «stato fattore di produzione» nulla si può ricavare né pro né contro le opposte tesi che l’imposta debba colpire tutto il reddito prodotto ovvero solo la quota consumata [in beni presenti] del medesimo reddito.
Qualunque concezione si abbia dello stato come fattore produttivo in senso strettamente economico (che sarebbe la tesi della raffigurazione devitiana) o in senso appropriato alla natura dello stato (che sarebbe la mia tesi) o nel senso, inservibile a parere del suo espositore Fasiani nella investigazione scientifica, di «mera condizione per lo svolgimento e lo sviluppo dell’attività economica» essa non tocca dunque la discussione intorno al doppio d’imposte nella tassazione del risparmio.
17. Di fatto questa discussione si sviluppa secondo due direzioni. O si vuol costruire un sistema d’imposte il quale ubbidisca alla regola che tutte le lire di reddito paghino il medesimo tributo e si giunge ineluttabilmente alla conclusione che solo le lire consumate in beni presenti debbono essere tassate[11].
Ma è tesi astratta, la quale è basata unicamente sulla premessa che tutte le lire di reddito debbono essere ugualmente tassate; e sulla interpretazione di quel che siano le lire di reddito. Nessuno è obbligato ad accettare né la premessa né la interpretazione. I negatori, per far altra teoria astratta, dovrebbero però mettere innanzi altra diversa premessa ed altra interpretazione; il che sembra difficile fare e sinora non è riuscito a nessuno.
Ma non è tesi storica, nel senso che essa si trovi effettivamente applicata in concreto, in complessi sistemi tributari e per lunghi periodi di tempo. Chi oggi nega indole scientifica alle indagini le quali partono da un se e pretende riservare quel carattere alle indagini le quali registrino le uniformità dei rapporti tra fatti accaduti od accadibili (tale o tale classe dominante, tale o tale sistema o tipi d’imposte, tale o tale uso del gettito delle imposte) riterrà vane anche teoricamente le indagini dell’ordinario tipo astratto dedotte da una premessa arbitraria. Discussione frusta, ripetuta le mille volte, che un tempo i metodologisti economici risolvevano consigliando all’indagatore desideroso di non far opera vana di trarre la propria o le proprie premesse dalla esperienza ordinaria, dalla realtà concreta, od almeno di saggiare la portata della premessa assunta arbitrariamente alla cote della validità delle illazioni logicamente ricavate dalla premessa. In ossequio a siffatto canone tradizionale, lo scrivente è andato ricercando nella legislazione dei diversi paesi «prove» dell’accettazione del principio della esclusione del risparmio dall’imposta, a dimostrazione che sia la premessa come la illazione non erano del tutto campate in aria. E le prove gli piacquero tanto più, quanto meno esse erano esplicitamente dovute alla volontà del legislatore.
Quanto più il legislatore, pure repugnando alla dichiarazione espressa di consentire alla esclusione del risparmio dall’imposta, ed adducendo all’uopo mille pretestuose diverse e strane spiegazioni, si induce di fatto ad escludere il risparmio dall’imposta, tanto meglio la prova parve calzante. Altri dirà che in tal modo si giunge alla verità per via non logica. Poiché dubito forte che la distinzione tra il logico ed il non logico abbia recato alla sciagurata conseguenza di esimere gli studiosi dal ricercare le ragioni dei modi di agire più rilevanti degli uomini, che probabilmente sono modi apparentemente non logici ed abbia favorito la pigrizia intellettuale di chi non vuol uscire dal suo breve mondo nel quale si può raziocinare con sicurezza di risultati e con strumenti noti, dico che il modo non logico è probabilmente indice della necessità di guardare, al di là delle premesse e delle intenzioni espresse o consapute dai legislatori, ad altre premesse e condizioni e necessità che si impongono ad essi e li costringono ad agire in una data maniera. Una esclusione del risparmio dall’imposta che il legislatore dichiara dovuta ad altra qualsivoglia causa, è una «prova» assai più probante della conformità della tesi alla realtà di quanto non sia una esclusione che miracolosamente fosse decretata in ossequio alla tesi medesima.
Che il legislatore espressamente dichiari che «il» o «un» risparmio è escluso dall’imposta per evitare una doppia tassazione è fatto così improbabile, così estraneo alla mentalità di un qualunque legislatore passato presente e futuro, che, se accadesse, bisognerebbe incominciare ad insospettirsi ed a presumere che altri siano i motivi veri dell’inopinata ed inverosimile dichiarazione. Che se invece il legislatore esclude quella tassazione con qualcuno dei soliti innumeri pretesti che facilmente ed abbondantemente si accolgono nell’armamentario delle illusioni politiche e finanziarie, allora sì che ci si deve persuadere della necessità alla quale egli non si è potuto sottrarre e che lo ha tratto, nolente ed obtorto collo, a riconoscere lo splendore della verità.
Di questa necessità importa massimamente scrutare le ragioni, e sceverare quelle fondamentali e permanenti di tra le molte ragioni che possono spiegare il medesimo fatto.
18. Ovvero si vuol soltanto render conto dei sistemi tributari quali sono e dei ragionamenti addotti dai legislatori per costruirli così come sono; ed allora la premessa del discorso non è più se si vuole costruire un sistema tributario il quale ubbidisca alla regola che tutte le lire di reddito paghino il medesimo tributo, che è premessa generalissima e in base alla quale si costruisce un sistema astratto di imposte del quale solo qualche particolare si trova qua e là verificato nei sistemi tributari vigenti.
Si pongono invece tante premesse quali sono quelle che in guisa più o meno chiara e compiuta si veggono accolte dai legislatori. In tal caso la premessa più comunemente posta è: «se si vuole che i redditi temporanei da lavoro siano tassati alla medesima stregua dei redditi da capitale»; che è la premessa posta dal Mill in maniera sussidiaria al luogo di quella compiuta e generalissima sopra detta; ed ebbe grande fortuna di applicazioni legislative in Italia ed altrove. Alla fortuna storica di quella premessa non corrisponde certamente pari fortuna di illustrazioni teoriche. Dopo quella degli attuari inglesi[12] e la confutazione delloStuart Mill, il quale la sostituì con un espediente pratico (la diversificazione tra redditi di lavoro e quelli di capitale) inteso ad attuare quanto nella teorica della generale esclusione del risparmio dall’imposta, la sola da lui ammessa, vi era di concretamente applicabile senza nocumento della finanza, si giunge alle moderne dimostrazioni con le quali, diversamente ragionando, unanimemente si constata che i redditi di lavoro sono, a parità di somma, meno godibili dei redditi di capitale, perché dai primi occorre prelevare quote diverse intese a conseguire l’effetto, che ai redditi di capitale è di già connaturato, di perequarli e prolungarli nel tempo, contro i rischi di disoccupazione, malattie invalidità vecchiaia premorienza, rischi i quali affliggono i redditi di lavoro e non quelli di capitale.
19. La discussione seconda, la quale parte dal minor se, è certo più concreta ed apprensibile all’universale di quella prima la quale parte dal maggior se. Questa è astratta, si muove nell’aere dei principii generali e giunge a conseguenze antipatiche nella sua universalità ai più; epperciò è invisa alla maggior parte dei teorici, i quali perciò hanno cercato di dimostrarne l’assurdo. Invece la prima incontra il favore delle masse, che sembra favorire, dei politici che vogliono secondar queste e dei teorici, i quali non vogliono rendersi conto, a scanso di fatica, delle premesse dei ragionamenti altrui e delle loro necessarie logiche illazioni. Ma solo la teoria più generale, la quale va oltre gli interessi ed i sentimenti degli uomini, e si contenta di affermare il teorema astratto, senza menomamente curarsi della applicabilità e della popolarità sue, è quella la quale presenta vero interesse scientifico. Ed è anche la guida ottima per la interpretazione dei sistemi tributari storicamente esistiti e dei loro effetti sull’avanzamento o sul regresso dei popoli.
[1] Mauro Fasiani, Principii di scienza delle finanze, Torino, 1941, vol. II, pagg. 299-301. Poiché mi accadrà di citare altre volte quest’opera insigne, si noti che i richiami di volume e pagina fatti tra parentesi nel testo si riferiscono ad essa. Quel che io penso dei Principii del Fasiani è detto in una mia rassegna Scienza e storia o dello stucco dello studioso dalla cosa studiata, in Rivista di storia economica, quaderno del marzo 1942, pag. 30 e seg. Poiché una esperienza oramai antica mi ha persuaso della difficoltà somma e quasi della impossibilità di riprodurre compiutamente il pensiero altrui, il quale si compone del contenuto dei brani citati e di quello di tutto il resto di un libro o saggio e delle illazioni implicite ed esplicite che da esso si possono trarre e che l’autore ragionevolmente sottintende, rinnovo, a proposito di questa e delle altre citazioni qui fatte dal libro del Fasiani, la dichiarazione fatta altre volte che la discussione critica contenuta nelle pagine seguenti si riferisce alle proposizioni quali furono da me ricostruite e ripensate; e le quali perciò possono, in se stesse ridotte, assumere un valore e un significato diverso da quello che forse hanno nel contesto di un’opera di lunga lena sistematicamente pensata.
[2] Veggansi gli scritti del Kendrick e del Buelhers in American Economic Review del 1937 e del 1938 da me già citati nei Principii di scienza delle finanze (seconda edizione del 1940, pag. 268 In nota) ed ivi brevissimamente discussi.
[3] Ad esempio ai fini della dimostrazione se sia lecito o non parlare di offerta complessiva a costi crescenti, per cui lo Sraffa ed il Fasiani hanno dato convincente dimostrazione dell’essere all’uopo necessario che le economie esterne siano tali rispetto ad ogni singola azienda, ma interne all’industria considerata, perché verrebbe altrimenti meno la clausola del rebus sic stantibus e le variazioni della produzione nell’industria considerata influirebbero sul prezzo dei fattori produttivi. Laddove invece il pensiero del Marshall viene oggi prevalentemente interpretato nel senso che le variazioni nelle economie esterne siano imputabili genericamente a tutta l’industria – e non già ad un determinato ramo d’industria; – precisamente come, aggiungasi, i benefizi derivanti dai servigi pubblici non sono applicabili a questa o quella impresa, a questo o quel ramo d’industria, ma a tutta l’industria, anzi a tutta l’attività economica nel suo complesso. Se il concetto delle economie esterne non è strumento adatto a dimostrare la verificabilità e la fecondità del concetto di offerta complessiva a costi decrescenti, dalla elegante dimostrazione dello Sraffa e del Fasiani (veggansi di questi i Principii, II, 217 ed il brano ivi citato di Piero Sraffa) non discende però che quel concetto non possa essere strumento alla interpretazione ed alla illuminazione di altri diversi fatti e concetti.
[4] Nelle Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e Teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, ora ripubblicate in Saggi sul risparmio e sull’imposta (Torino, 1941), pag. 199.
[5] Non si esclude che i soliti pedissequi di ogni metodo buono non trasportino diagrammi cartesiani ed equazioni complicate anche nella discussione di fatti scarsamente misurabili come sono lo stato le classi politiche governanti e quelle governate, la tradizione, la consuetudine, la famiglia e simili. O non si lessero saggi nei quali lo schema dell’equilibrio economico generale veniva di peso utilizzato per lo studio dell’equilibrio politico?; ma poi, stringi stringi, non si diceva nulla più: anzi qualcosa meno di quanto altri aveva prima osservato con parole comunissime.
[6] A conclusioni consimili era pervenuto nel 1919 lo scrivente nel saggio sopra citato. Cfr. Saggi sul risparmio e l’imposta, pag. 212 e segg.
[7] Se si ammetta che la costruzione della scienza economica sulla base della teoria dell’equilibrio generale sia feconda sovratutto allo scopo di studiare le leggi delle variazioni nel tempo (dinamica economica) ci si trova di fronte a dubbi più gravi di quello relativo alla difficoltà, imponente di fatto ma superabile teoricamente, esistente per la costruzione di una teoria statica, di porre tutte le equazioni necessarie per determinare le innumerevoli incognite esistenti. F.S.C. Northrop in un saggio pubblicato nel quaderno di novembre 1941 di The Quarterly Journal of Economics col titolo The impossibility of a theoretical science of Economic Dynamics reputa impossibile la costruzione di una siffatta scienza per due ragioni: 1) Non si può formulare una teoria dinamica se non disponiamo di concetti capaci di definire lo stato di un sistema in un dato momento sia per quanto riguarda le sue proprietà generiche sia anche per quelle specifiche. Siccome la economica contemporanea assume a punto di partenza esclusivamente postulati relativi alle proprietà generiche della materia studiata, manca quella conoscenza delle proprietà specifiche la quale è indispensabile premessa della teoria dinamica. 2) Perché si possa costruire una teoria dinamica deve esistere un vincolo necessario fra lo stato specifico di un sistema in un dato momento ed un unico stato specifico in un momento successivo. La condizione si verificava nella meccanica newtoniana solo perché in questa scienza è empiricamente valida la legge della conservazione dell’energia. La meccanica newtoniana sarebbe del tutto incapace a dedurre dallo stato presente quello futuro se il momento totale del sistema fisico mutasse col tempo. Questa verità può essere estesa a qualunque teoria dinamica. Asseverare che una data scienza possiede una teoria dinamica equivale ad asseverare che per essa è valido il principio della causalità meccanica, principio il quale assevera che la conoscenza delle proprietà specifiche presenti dello stato di un determinato sistema mette in grado di dedurre tutti gli stati futuri. E ciò a sua volta presuppone che tutti gli effetti futuri sono il risultato di cause o proprietà della materia studiata attualmente presenti. Ma ciò si verifica soltanto se le proprietà della materia studiata da quella data scienza sono costanti nel tempo, ossia se in quel campo domina la legge di conservazione.
Il Northrop conclude che, nel quadro della teoria economica contemporanea, è impossibile una teoria dinamica perché: 1) il carattere subiettivo relativo delle valutazioni compiute dagli uomini impone di basare la validità generale della teoria economica soltanto sulle proprietà generiche delle valutazioni medesime, lasciando quindi lo stato del sistema in un dato momento qualsiasi non definito teoricamente con precisione; 2) il fatto che la quantità totale delle valutazioni non ubbidisce alla legge di conservazione vieta di predire uno stato futuro, anche se lo stato presente fosse specificamente noto.
[8] Non invece sugli affari altrui o sugli interessi generali. Chi parla, come un libro stampato, delle cose sue e del proprio mestiere, sragiona quasi sempre quando discorre di altri mestieri o di altri commerci e sovratutto delle connessioni fra un mestiere e l’altro e di interessi collettivi. Niuno è più propenso dell’industriale accorto o dell’agricoltore sperimentato a dettar piani bislacchi per il buon governo della cosa pubblica.
[9] La citazione è da C.A. Sainte Beuve, Causeries du lundi, T. XIII, pagg. 226-227.
[10] Badisi in ragione e non per mezzo o con una quota parte del loro prodotto marginale. Il loro prodotto marginale è il metro secondo il quale il mercato remunera i fattori economici produttivi: lavoro capitale terra imprenditore ecc. ecc., quanti se ne vogliono elencare secondo la classificazione che dei fattori medesimi si preferisca; ma il compenso viene prelevato talvolta da questo prodotto nuovo medesimo, talora, specie quando si tratti di fattori acquistati sul mercato a prezzo fisso (lavoro e capitale altrui) da un prodotto ottenuto in un momento passato, passato da breve o lungo tempo.
[11] È la tesi sostenuta dal Mill, dal Fisher e da me nei saggi citati, ora raccolti col titolo Saggi sul risparmio e l’imposta (Torino, 1941), nei Miti e paradossi della giustizia tributaria (Torino seconda edizione, 1940) e nel Contributo alla teoria dell’ottima imposta il quale sarà ripubblicato nella collezione degli Scritti. Ed è anche la tesi rigorosamente sostenuta con novità di argomentazioni in molteplici saggi del Fasiani.
[12] Sostenevano costoro che un reddito perpetuo di 50 lire, se il saggio di interesse è del 5%, vale oggi 1000 lire, laddove un reddito delle stesse 50 lire, che duri solo 10 anni, vale solo lire 382,10. Quindi essi sostenevano che se il primo reddito fosse colpito con 5 lire all’anno, il secondo avrebbe dovuto essere colpito con lire 1,91 annue. Ma lo Stuart Mill oppose che un reddito perpetuo di 50 lire annue pagando 5 lire l’anno d’imposta, paga in oggi il valore attuale di 100 lire, laddove il reddito di 50 lire duraturo per 10 anni pagando imposta di 5 lire l’anno ugualmente per soli 10 anni, paga in oggi il valore attuale di lire 38,21. Ma 100 e 38,21 lire sono ambedue il 10% di 1000 e 382,10; ossia l’equità è perfettamente osservata. Il Fasiani ritiene che gli attuari non avessero compiuto un ragionamento sbagliato in quanto essi partivano dalla premessa che i percettori dei due redditi perpetuo e temporaneo intendessero ugualmente ripartire il loro reddito su tutti gli anni del periodo economico assunto dai soggetti rappresentativi della collettività come normale; periodo che in pratica può ritenersi come illimitato. In tal caso, gli attuari chiedendo che i redditi temporanei fossero assunti a valore ridotto in ragione del loro diverso valore attuale avrebbero esposto il teorema corretto della esclusione dal risparmio dell’imposta. Lo Stuart Mill dal canto suo, avendo interpretato dineisamente il pensiero degli attuari, nel modo che sopra si è detto, non errò tuttavia, sulla base della sua interpretazione, nella critica. Quale sia la vera interpretazione da darsi al pensiero degli attuari se quella del Mill o l’altra del Fasiani, potrebbe essere oggetto di erudita indagine, da condursi sulla base delle fonti originali. Non è forse escluso che il Fasiani abbia generosamente dato a mutuo gratuito agli attuari inglesi la sua geniale costruzione del «periodo economico normale dell’impiego del reddito» attribuendo ad essi ragionamenti che solo egli ha il merito di aver compiuto. Il riassunto che Emilio Broglio fa nella decimottava delle Lettere dell’imposta sulla rendita indirizzate al conte di Cavour (Torino, 1857, vol. II, pag. 56 e segg.) fa credere che gli attuari non siano andati oltre la mera constatazione del diverso valore attuale di redditi di diversa durata nel tempo. Non v’è, nel riassunto, cenno del concetto della ripartizione uguale del reddito su tutti gli anni di un periodo economico assunto come normale. Da una lettera, ufficialmente trasmessa da due vicepresidenti un socio e due segretari onorari dall’Institute of Actuaries di Londra al signor Hume, M. P. e presidente del Select Committee nominato nel 1851 per investigare i metodi di distribuire e riscuotere la Income and Property Tax e per segnalare la possibilità eventuale di prelevarla in modo più equo (Second Report, 22 giugno dei 1852, n. 510, pag. 471) si rileva quella che è probabilmente la espressione sintetica delle opinioni manifestate in proposito dagli attuari. Se noi supponiamo che P sia il valore attuale del patrimonio di un individuo; e che questo consista per Tizio di un’annualità N duratura per tre anni e composta di i interesse e c rata di ammortamento del capitale nei tre anni; ed invece per Caio di una annualità perpetua di i di puro interesse; e che l’imposta sia prelevata al saggio di 1/n per ogni lira di reddito od annualità, noi diremo che:
1 2 3 |
1/n (i + c) + (i + c) + (i + c) |
1 2 3 4 |
1/n i + i + i + i + etc.,= 1/n P |
Dalle eguaglianze si deduce che Tizio, pagando per tre anni 1/n dell’annualità intera N composta di i + c, paga una somma identica a quella versata da Caio, il quale paga ogni anno, per una serie infinita d’anni, 1/n di i. Ambi pagano una somma uguale ad 1/n di P, valore attuale delle due serie, triennale e perpetua di reddito. Secondo gli attuari tuttavia, con questo ragionamento che è del signor Warburton ed è lo stesso del Mill, non si dimostra però che sia corretto tassare al saggio 1/n per Tizio i + c (interesse più rata di ammortamento del capitale) e per Caio solo i (interesse). Ciò sarebbe esatto se ambi godessero del loro reddito e pagassero imposta al saggio invariato supposto, il primo per ogni anno di un triennio ed il secondo per ogni anno di un tempo infinito. Ma le cose possono andare assai diversamente. Il proprietario dell’annualità perpetua può perdere il suo patrimonio alla fine del triennio, nel qual caso egli avrebbe pagato solo 1 2 3 1/n (i + i + i ) laddove Caio avrebbe nell’identico triennio pagato 1 2 3 1/n (i + c) + (i + c) + (i + c).
Si può anche supporre che Caio reinvesta e così da percepire in ogni triennio successivo e cioè in perpetuo la medesima annualità N = (i + c). Egli in tal caso pagherebbe in perpetuo ogni anno l’imposta 1/n (i + c), laddove Caio pagherebbe in perpetuo ogni anno solo l’imposta 1/n i. Non pare che gli attuari si preoccupassero di considerare normale uno dei tanti metodi possibili di avere o godere o far durare il reddito; ma invece si industriassero a dimostrare che, nei vari casi considerati, vi era sempre disuguaglianza di trattamento di fronte all’imposta, salvo nel caso che Tizio considerasse come reddito annuale per un solo triennio N = i + c e Caio considerasse come tale in perpetuo i.
Il punto decisivo, per essi, per giudicare erroneo il ragionamento del signor Warburton sembra sia il momento del riferimento dell’imposta. Cito testualmente:
The error into which Mr. Warburton has fallen appears to arise from his losing sight of the fact that the tax being essentially one charged upon present value, the epochs of taxation and valuation must always be coincident with reference to all property taxed; that is to say, the present value as determined for the year 1850, for instance, cannot be made the true measure of contribution for any other time; Mr. Warburton assumes that it can, and hence the fallacy of his reasoning. He know ledges that the present value should measure the liability to contribution, whilst his system substitutes a present value; the essential requirement, which he has overlooked, being that, for the purposes in question, by present is to be understood the actual time of the tax for the year being levied and no other epoch whatever.
I signori Hardy, Nelson, Jellicoe, Brown e Williams, firmatari della lettera, furono, coll’Edmonds e collo Scott, gli attuari interrogati dal Comitato del 1851-52; e la loro testimonianza può essere considerata perciò come l’espressione dell’opinione del loro ceto. A leggere, parrebbe che essi fondassero le loro critiche sulla circostanza che l’imposta doveva dimostrare la sua equità ossia uguaglianza anno per anno, ogni anno considerato indipendentemente da ogni altro anno; in ogni anno essere una percentuale costante per tutti i contribuenti, qualunque fosse l’ammontare del reddito (i ovvero i + c), del valore attuale del reddito medesimo al principio dell’anno d’imposta.
Non pare dal documento riassuntivo citato che gli attuari ponessero altre premesse ai loro ragionamenti. Ad essi appariva cioè ovvio, quasi assioma da accettarsi senza discussione, che base dell’income tax non fosse l’ammontare del reddito, sì invece l’ammontare del valore attuale del reddito medesimo all’inizio dell’anno d’imposta. Quindi, cito il loro esempio, supponendo che Tizio goda di una annualità triennale di reddito di L.st. 3535 e Caio di una annualità perpetua di L.st. 300, ambe aventi il valore attuale di L.st. 10.000, ambi avrebbero dovuto pagare imposta uguale, suppongasi di L.st. 9 e non invece il primo, all’aliquota del 3% sull’annualità di reddito, L.st. 106 ed il secondo L.st. 9. Ma per chiarire esattamente il pensiero degli attuari e verificare se per avventura essi non ponessero qualche altra premessa al loro ragionamento, converrebbe rileggere accuratamente le intere deposizioni dei sette testimoni ora ricordati. Che sarebbe fatica forse non indarno spesa.