Opera Omnia Luigi Einaudi

Dazi doganali e sindacati fra industriali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/03/1914

Dazi doganali e sindacati fra industriali

«Corriere della Sera», 3 marzo 1914

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 385-394

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, 643-652

 

 

 

 

Taluni recenti avvenimenti, come la lotta fra l’Unione zuccheri ed alcuni industriali indipendenti, il dibattito tra un consorzio di filatori in cotone ed un gruppo di tessitori, la costituzione di leghe per la difesa del lavoro nazionale e di leghe antiprotezioniste, hanno fatto diventare d’attualità anche in Italia un problema che da tempo si discute altrove: voglio accennare ai rapporti fra protezione doganale e trusts o sindacati fra industriali.

 

 

Affermano, è vero, i promotori degli istituti o consorzi od unioni o sindacati italiani fra industriali che i loro fini sono profondamente diversi da quelli, che essi riconoscono dannosi all’universale, dei sindacati (trusts) americani. Ma poiché non fu mai con parole e concetti chiaramente comprensibili spiegato in che cosa consista questa differenza; poiché i capitani dei grandi consorzi americani (del resto è ben noto che negli Stati uniti più non esiste alcun trusts propriamente detto, essendo tutti stati sostituiti da companies o corporations, ossia società anonime pure e semplici sorte al posto degli antichi concorrenti) affermano le stessissime cose che in propria difesa adducono i promotori dei consorzi italiani; poiché il «ridare tonalità all’industria… efficienza ai dazi di protezione», il «riorganizzare armonicamente in un tutto complesso le imprese prima discordi» è precisamente ciò che i trusts o cartelli di tutto il mondo si propongono, così noi ragionevolmente dobbiamo supporre che i consorzi si costituiscano al fine precipuo e chiaro di stabilire un livello di prezzi superiore, per altezza, scadenze e metodi di pagamento, a quello che si sarebbe stabilito in condizioni di libera concorrenza; e constatiamo il fatto che per raggiungere il loro fine essi si giovano dell’esistenza di una tariffa doganale.

 

 

In un articolo non è possibile esaminare a fondo questo che è davvero un grave problema. I trusts o sindacati o consorzi o cartelli industriali sono dovuti sicuramente a cause molteplici, di cui la tariffa doganale è una sola. Ma è anche certo che l’esistenza di una tariffa doganale protettiva è quella, tra le cause dei sindacati industriali, che interessa, e giustamente, di più l’opinione pubblica.

 

 

Se invero, in una industria non protetta, un consorzio tra industriali è sorto perché questi si propongono di produrre e vendere più a buon mercato e ritengono di raggiungere meglio cotale intento riunendo le loro forze e riducendo così le spese generali, risparmiando nelle spese di pubblicità, ecc. ecc., la massa del pubblico non ha ragione di preoccuparsi e di chiedere provvedimenti per un fatto ad essa benefico. Ma se il consorzio si costituì solo perché in un dato paese gli industriali, messi dalla protezione doganale al sicuro contro la concorrenza estera, hanno creduto opportuno di accordarsi tra loro per rialzare i prezzi, è ragionevole che l’opinione pubblica si allarmi e discuta il problema, per vedere se non vi sia un mezzo per scongiurare la jattura che minaccia i consumatori in genere e le industrie consumatrici ed esportatrici in ispecie. Così il punto forse più interessante della controversia che recentemente si è dibattuta intorno all’industria zuccheriera, punto che forse non è ancora stato compiutamente lumeggiato, è: dato che gli industriali zuccherieri si erano riuniti in un consorzio, chiamato Unione zuccheri, il quale, fino a poco tempo fa dominava intieramente il mercato, e ritornerà a dominarlo prossimamente, se, come si annuncia, sia intervenuto un accordo fra il consorzio ed i dissidenti, si può affermare che, così operando, essi abbiano corrisposto alle speranze di coloro i quali, istituendo quasi un mezzo secolo fa i dazi protettori e conservandoli in seguito, avevano voluto promuovere la fondazione e l’incremento dell’industria italiana dello zucchero? I dazi protettori erano forse stati istituiti affinché gli industriali protetti si riunissero in consorzio e cercassero, sicuri dalla concorrenza estera, di tenere i prezzi elevati sino al massimo consentito dalla protezione?

 

 

Mentre i consumatori in genere fanno questa domanda per l’Unione zuccheri, in altro campo gli agricoltori italiani chiedono: i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la “Super” cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione? E di recente sentimmo i tessitori di cotone piemontesi protestare energicamente in una adunanza tenuta alla camera di commercio di Torino contro l’Istituto cotoniero italiano od un gruppo di filatori consorziati, costituito tra i soci dell’istituto, il quale dicesi si proponga di sostenere il prezzo dei filati; e pare già di sentire chiedere: forseché il legislatore concesse a voi filatori italiani una protezione contro i filati esteri perché voi, riuniti in consorzio, poteste aumentare i prezzi dei filati italiani a nostro danno ed a danno quindi dei consumatori italiani? Ed altri ancora, in altre industrie protette, fa o sta per fare lo stesso discorso: nell’industria siderurgica, dominata da un sindacato chiamato «Ferro ed acciaio», nell’industria delle vetrerie, in alcuni rami dell’industria cartaria, ecc. ecc., i consumatori – e tra i consumatori principalissimi si noverano soventi altre grandi nostre industrie- pongono il problema dei rapporti fra consorzi e protezione doganale.

 

 

Per rispondere alla domanda, non mi porrò dal punto di vista che sarebbe il mio naturale, del liberismo doganale. Questo invero non è un problema di protezionismo o di liberismo, bensì di sviluppo interno del protezionismo. Il legislatore, il quale istituì un dazio doganale a favore dell’industria nazionale quale fine volle raggiungere? e tra questi fini vi era la costituzione di consorzi o sindacati tra gli industriali protetti? La trustizzazione di industrie protette è un fatto il quale possa da un protezionista sincero e spassionato essere considerato come utile al progresso dell’industria, conforme agli scopi propri della protezione doganale da lui voluta nell’interesse generale del paese? A questa domanda sono sicuro che i creatori del protezionismo italiano, ed i maggiori assertori suoi viventi avrebbero dovuto e dovrebbero rispondere di no. Si intende che io parlo dei veri protezionisti; ossia di coloro che, colla protezione doganale, vollero e vogliono acclimatare in paese industrie nuove od inusate, ma promettenti; e non accenno ai protezionisti volgari che vogliono i dazi come tali, al solo scopo di impedire alla merce estera di entrare in Italia ed all’oro italiano di uscire dal paese. Nessuno dei grandi costruttori del protezionismo italiano fece propri questi pregiudizi assurdi di isolamento del mercato italiano dal mercato mondiale. Il fine che si volle raggiungere fu ben altro. V’era, intorno al 1880, una Italia prevalentemente agricola, provvista però di energie naturali non piccole e di una abbondante potenzialmente abile mano d’opera. L’industria non si sviluppava abbastanza rapidamente, perché le imprese nuove dovevano lottare contro la concorrenza di imprese fondate da tempo all’estero, già fornite di maestranze abili, con clientela fida, con impianti perfetti. Diamo – dissero quei creatori del protezionismo italiano- una temporanea protezione doganale all’industria interna; assicuriamola per quindici, venti, venticinque anni contro l’importazione delle merci straniere, mercé un dazio protettivo alla frontiera. In tal modo i capitalisti italiani, ora timidi, acquisteranno coraggio ed investiranno capitali in cotonifici, lanifici, zuccherifici, stabilimenti siderurgici e meccanici e chimici, ecc. ecc. Sicuri di poter vendere per qualche tempo ad un prezzo uguale a quello estero di concorrenza, più l’ammontare del dazio doganale, essi supereranno il periodo iniziale di errori, di tentativi, di addestramento e formazione delle maestranze, di conquista della clientela. A poco a poco l’industria interna si fortificherà, ridurrà i propri costi; grazie alla concorrenza interna le imprese migliori vinceranno le meno bene organizzate e saranno costrette a ridurre i prezzi al livello del proprio costo; e poiché noi supponiamo di proteggere soltanto industrie vitali, capaci di svilupparsi in Italia, giungerà il giorno in cui le intraprese italiane, protette dalla concorrenza straniera, ma concorrenti tra di loro, saranno in grado di poter vendere la loro merce ai consumatori italiani allo stesso prezzo a cui la venderebbero i rivali stranieri. In quel giorno la protezione doganale potrà essere abolita, perché avrà raggiunto il suo fine; e noi saremo lieti di vedere compiuta la nostra opera.

 

 

Così ragionarono coloro che vollero il protezionismo italiano; ed anche noi liberisti, che così profondamente discordiamo da essi, che siamo così profondamente scettici intorno alla possibilità pratica di attuare quegli ideali, dobbiamo ammettere che quello era un ideale logicamente ammissibile. Tanto più volentieri l’ammettiamo, in quanto ché i maggiori, anzi i soli teorici del protezionismo si trovano tra gli economisti; e fu lo Stuart Mill ad esporre il celebre teorema della protezione temporanea alle industrie giovani, sebbene egli vedesse in seguito e chiaramente denunciasse gli inconvenienti pratici del suo principio teorico. Ma sempre rimanendo entro i limiti dell’ideale protezionistico e non esorbitando in polemiche antiprotezionistiche, che qui sarebbero fuor di luogo, ed escludendo di proposito pure ogni accenno a questioni diverse e nuovissime, che qui non intendo pregiudicare, come la convenienza di mantenere temporaneamente certi dazi, divenuti in sé inutili, per opporsi a casi di svendite (dumping) estere, si deve subito aggiungere che quell’ideale protezionistico, per potersi tradurre in realtà supponeva inesorabilmente una condizione assoluta: la lotta, la concorrenza tra gli industriali interni. Il dazio doganale era stato imposto per difendere temporaneamente, durante il periodo della crescenza, l’industria nazionale contro la concorrenza estera. Ma a qual fine? Non mai perché il dazio giovasse a procacciare facili lucri agli industriali interni, bensì soltanto per consentir loro di superare quelle difficoltà e quei rischi i quali insidiano la vita delle industrie nascenti. I consumatori erano stati chiamati a pagare per venti o venticinque anni più care le merci consumate, affinché, trascorso quel tempo, l’industria nazionale, oramai agguerrita, potesse fornire ad essi quella merce allo stesso prezzo dell’industria straniera. Lo scopo non era già di sostituire in perpetuo la merce nazionale alla merce straniera, senza badare ai prezzi rispettivi. Nessuno dei fondatori del protezionismo volle dare all’industria interna una protezione perpetua uguale alla differenza tra i costi di produzione esteri ed interni, poiché la protezione fu anzi data solo per il caso e con la premessa che gli industriali interni sapessero far scomparire quella differenza di costi. Lo scopo del protezionismo era quello di riuscire – col mezzo di un temporaneo dazio protettivo – a produrre e vendere in Italia la merce a prezzo uguale e forse minore della merce straniera.

 

 

L’ideale – l’unico ammissibile dal punto di vista di un protezionismo serio e nazionale – non poteva e non potrebbe essere raggiunto se non in regime di libera concorrenza fra le imprese protette italiane. Poiché soltanto il sorgere di una concorrenza viva e senza limiti tra i produttori italiani può essere arra che essi faranno ogni possa per ridurre i costi e per portarsi all’altezza dei perfezionamenti tecnici dell’industria straniera. Soltanto la riduzione di prezzi, a poco a poco verificantesi sul mercato nazionale sotto la spinta della concorrenza interna, può dimostrare ai contribuenti che essi, col pagare la merce interna rincarata dal dazio, non hanno fatto inutilmente in passato sacrifici costosi; solo il ribasso progressivo dei prezzi verso il livello estero può dimostrare a chiare note che l’industria è riuscita a ridurre i costi al limite delle concorrenti straniere. Parecchi osservatori si erano compiaciuti di aver veduto nell’industria cotoniera italiana una fortunata applicazione del principio milliano della protezione alle industrie giovani perché era parso che, sotto la spinta della concorrenza interna, i prezzi fossero ribassati al livello di quelli esteri e fosse stata automaticamente elisa, come ragion voleva, la protezione doganale. Ma oggi essi ritornano dubbiosi poiché veggono i filatori di cotone costituire sindacati per rialzare i prezzi interni e ritornare a dare efficienza alla tariffa doganale; e li veggono, peggio, augurarsi di poter giungere a dare premi di esportazione onde vendere all’estero a miglior mercato dell’interno. Il che appare, dal punto di vista dell’interesse generale, un regresso ed un venir meno ai postulati logici del protezionismo.

 

 

Perciò la trustificazione di talune industrie protette italiane deve essere guardata con sospetto e con rammarico da liberisti e da protezionisti insieme. Dai liberisti perché essa è indice di una tendenza ad un perdurante sfruttamento di tutta la protezione doganale; e dai protezionisti, i quali non siano dimentichi delle loro origini ideali e delle loro promesse più solenni, perché essa indica che gli industriali interni, invece di fare ogni sforzo per perfezionarsi e ridurre i costi, ed invece di far beneficiare i consumatori, lottando tra loro, di ogni successiva riduzione di costi, preferiscono accordarsi tra loro per trasformare il dazio, che doveva essere uno strumento di progresso tecnico, in un mezzo di dominazione e di incremento di profitti privati.

 

 

I difensori degli zuccherieri affermano che l’attuale protezione doganale, che è uguale alla differenza tra l’imposta interna di lire 73,15 ed il dazio doganale di lire 99 ossia è di 25,85 lire, è assolutamente necessaria all’industria per vivere, essendo il costo italiano di tanto superiore al costo estero, sì che sarebbe impossibile di poter vendere al prezzo di 30 lire circa al quintale -prezzo estero- più l’aggiunta della sola imposta di fabbricazione di lire 73,15 ossia a circa lire 103 ed è necessario di vendere, per non perdere, a lire 103 più la protezione di 25 lire ossia a 128 lire. Ed adducono cifre di costi per dimostrare che le cose stanno precisamente così.

 

 

Ora, è chiaro che l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti, delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza. Le cifre dei costi sono elastiche, incertissime, variabilissime. Mentre se, in condizioni di aperta lotta tra i produttori, vi sono fabbriche che vendono, come per qualche mese è accaduto, lo zucchero, a 117, ed anche a meno, a 115 e 110 e persino a 109-108 lire al quintale e se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero. Nell’interesse delle industrie protette, e nell’interesse nazionale, il protezionismo potrà dire di aver raggiunto il suo fine quando sarà diventato inutile, ossia quando vi saranno fabbriche italiane che, in lotta con altre fabbriche italiane e per strappare ad altre la clientela, venderanno ad un prezzo non superiore al prezzo estero di 30 lire od altro prezzo corrente, più l’imposta di fabbricazione di 73 lire, ossia a lire 103.

 

 

A questa meta non si arriva tuttavia coi sindacati. Perché i trusts o sindacati non si fondano in una industria protetta per diminuire i prezzi, bensì per aumentarli sino al massimo consentito dalla protezione doganale. L’Unione zuccheri, finché non sorsero concorrenti, aveva sempre cercato di mantenere i prezzi a 130 lire; ed un rialzo di prezzi vogliono gli altri sindacati sorti in Italia: fra industriali cotonieri, fra produttori di perfosfati e di solfato di rame, di vetri, di carta, di ferro ed acciaio, di lino e canapa, di macchine, ecc. ecc. La industria non cerca più di perfezionarsi e di lottare per ridurre i prezzi; bensì si coalizza per aumentare i prezzi all’ombra della protezione doganale. Nessun protezionista, consapevole del fine di interesse generale a cui il protezionismo intende, può voler siffatto risultato. Epperciò il momento in cui le industrie si trustizzano deve essere il momento in cui tutti e principalmente i protezionisti -ché i liberisti non hanno atteso che venisse questo momento per chiedere riduzioni di dazi- devono avvisare ai rimedi adatti ad impedire che la protezione diventi strumento di oppressione delle masse.

 

 

Quali possono essere questi rimedi è controverso. Nel paese dove cotal problema fu più a lungo dibattuto, e sono gli Stati uniti, il legislatore seguì due vie nella lotta contro i sindacati; di cui l’una si potrebbe intitolare a Roosevelt ed a Taft e l’altra a Wilson, dal nome dei presidenti che ne furono gli antesignani. Roosevelt e Taft non vollero toccare la tariffa doganale, poiché ritenevano che questa fosse messa a difesa del mercato interno contro le merci estere e tentarono di fiaccare la potenza dei consorzi (trusts) con leggi proibitive e con processi giudiziari. Fecero dichiarare illegali i trusts, li fecero sciogliere dai tribunali, condannare a multe colossali. Invano; ché i sindacati provveduti di avvocati finissimi, schermidori assai abili dei più sapienti legislatori, si sciolsero per ricomporsi e si risero dei fulmini della legge.

 

 

Diverso fu il metodo tenuto dal Wilson, il quale essendosi persuaso che i sindacati signoreggiavano il mercato interno perché la tariffa doganale impediva la concorrenza estera, a sua volta convinse popolo e congresso che, a questo punto, i dazi protettivi non dovevano più, neppure agli occhi dei protezionisti, essere considerati giovevoli all’interesse generale; e grandemente li ridusse. Già gli effetti di questa politica si cominciano a vedere; la porta, non ancora aperta del tutto, ma largamente socchiusa alla concorrenza estera, modera le pretese dei sindacati e tende a ridurre i prezzi.

 

 

In un punto le due opposte politiche, di Roosevelt-Taft e di Wilson, concordano: nella richiesta di una grande pubblicità negli affari dei sindacati. Il giorno in cui in una industria si forma un sindacato o consorzio, quella industria ha cessato di essere un affare privato e diventa un affare pubblico. Dico che diventa un affare pubblico, quando quella industria ha chiesto o chiede al legislatore favori o protezioni o premi, i quali siano pagati dalla generalità. Ad un‘industria vivente in regime di concorrenza il legislatore può, quando lo creda opportuno, concedere una protezione doganale, senza pretendere di rivederne i conti, perché il meccanismo stesso della concorrenza porta per se medesimo a ridurre costi e prezzi.

 

 

Ma quando, in una industria protetta o favorita – per esempio con la preferenza del 5% negli appalti pubblici – si forma un sindacato, qual garanzia ha ancora il legislatore che la protezione o la preferenza vengano adoperate a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico dei consumatori e dello stato stesso? Nessuna. In tal caso, ragionarono i presidenti americani, poiché lo stato concede protezioni, sussidi o favori all’industria, ha diritto di vedere come essi siano utilizzati. Di qui numerose indagini, istituite dall’ufficio delle società (bureau of corporations) intorno ai principali sindacati (trusts) americani. Ho, fra gli altri, sott’occhio un volume di questo ufficio sulla International Harvester Co., il grande consorzio delle macchine agricole, ben noto anche ai nostri agricoltori italiani, per le macchine perfezionate che invia in Italia. Sono 384 pagine di fitta stampa, ricchissime di dati, di estratti di conti, di interrogatori, i quali denudano al vivo la situazione intrinseca del consorzio: i suoi conti, i suoi profitti, i suoi metodi di lotta contro i concorrenti, i suoi rapporti con la clientela e mettono in grado il pubblico di giudicare se le conclusioni, severe ma imparziali, del commissario siano fondate sui fatti. In ogni industria protetta, i sindacati si debbono rassegnare al regime di pubblicità dei loro affari. Il quale non implica il diritto di continuare a godere l’antica protezione, ove l’inchiesta abbia dimostrato che essi ne fanno cattivo uso. Il Wilson ridusse i dazi senza attendere i risultati delle iniziate indagini; ed ora afferma che il regime di pubblicità dovrà diventare permanente e che da essa gli stessi sindacati trarranno grande vantaggio. Non a torto, poiché chi opera alla luce del sole, è tratto ad operare puramente, sì da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico.

Torna su