Dannosa nella città bella l’imposta sulle aree fabbricabili
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 06/01/1961
Dannosa nella città bella l’imposta sulle aree fabbricabili
«Corriere della Sera», 6 gennaio 1961
Avevo posto la domanda: nella città ideale, nella città la quale cresce e prospera secondo il dettato di un piano regolatore razionale, rispettoso e restauratore e risanatore del centro antico, accanto e non sempre attorno al quale sorgono città satelliti ordinate secondo fini propri a ciascuna ed al tutto; nella città ideale, dove reggono la cosa pubblica amministratori attenti e previggenti, quale luogo ha l’imposta sulle aree fabbricabili? La risposta è: nessuno.
Non può invero aver luogo perché così comanda la giustizia tributaria.
Tutte le imposte che si possono elencare nel dizionario voluminoso delle invenzioni innumerevoli che si sono succedute nei secoli per cavar denaro ai contribuenti si riducono ad una sola ed è quella che, coi nomi più diversi, sui guadagni e sui consumi, sul capitale e sul reddito, sui trasferimenti della ricchezza a titolo oneroso ed a titolo gratuito, ha una sola, unica fonte: il flusso del reddito che di ora in ora, di giorno in giorno, di anno in anno entra nella economia del contribuente. Il reddito è la verità, le altre parole sono smorfie. La vera imposta sulle aree fabbricabili, con cui tutte le smorfie immaginabili fanno doppio, è la imposta sul reddito delle aree stesse, quando esse siano fabbricate.
Riformare l’imposta sul reddito dei fabbricati è l’esigenza vera posta dal canone della giustizia tributaria.
La imposta attuale può essere perfezionata; e deve perciò essere perfezionata, anche, se ciò non sia troppo costoso, nel senso di tener conto dell’apporto particolarmente pregiato che al reddito complessivo del fabbricato instrutto dà l’area. Ove l’imposta sul reddito del fabbricato sia razionale e sia equilibrata con le altre imposte vigenti nel nostro sistema tributario, alle aree fabbricabili si è chiesto tutto ciò che, in ragion comparativa con gli altri cespiti, si può chiedere. Il resto è un dippiù che fa doppio ed è per se stesso contennendo.
Poiché sarebbe contennendo, sarebbe dannoso alla cosa pubblica. Sia tollerato l’esempio di analogia dell’imposta sulle terre a foresta.
L’albero, che non dà frutto di olive, di pesche, di mele, di pere, di arance e limoni, da tuttavia, in aggiunta al pascolo sempre più scarso, al sottobosco ed alla ramaglia, tutta roba buona per pagare le spese della custodia e della pulizia, col suo stesso crescere il frutto di se stesso, del suo incremento legnoso.
Chi taglia l’albero, vede, contemplandone i cerchi concentrici, dai nuovissimi minimi di colore chiaro posti al centro, ai maggiori via via sempre più vicini alla corteccia e sempre più duri e scuri, disegnata la storia dell’albero. Ogni cerchio segna il trascorrere di un anno.
Gli anni sono molti, anche cinquanta e sessanta, per gli alberi maestosi della montagna, per le quercie ed il noce, sino a ridursi ai dieci ed ai quindici per i pioppi, da carta delle terre fresche ed umide della piana.
Ma v’ha un punto, che il foresticultore conosce, nel quale è raggiunta la maturità economica ottima. Quel punto è segnato dal saggio di interesse corrente nel paese per gli impieghi di capitale, i quali siano reputati egualmente sicuri e graditi come se fossero coltivati a foresta. Se si suppone che quel saggio sia del cinque per cento, l’albero, coltivato a foresta per fini economici, ha ragione di vivere sino al giorno nel quale il saggio di interesse del 5 per cento corrente sul mercato eguaglia il saggio di incremento legnoso dell’albero.
Dapprima, finché l’albero è giovane ed in fase di rapida crescita, il valore del cerchio legnoso che si aggiunge al primo nucleo centrale è comparativamente alto. Dapprima, il nuovo cerchio che si aggiunge al primo od ai primi vale persino più del valore del nucleo primitivo: ed il reddito dell’anno può essere calcolato anche più del capitale investito nel piantamento dell’esile arbusto messo in terra dal coltivatore.
A mano a mano che il tronco si rafforza, l’aggiunta annua cresce di peso assoluto ma scema il valor relativo. Il decimo anello legnoso vale, ad esempio, solo più il dieci per cento del tronco; ed ancor conviene tenere in vita l’albero, perché un incremento legnoso del 10 per cento è maggiore dell’interesse del cinque per cento che si lucrerebbe abbattendo l’albero ed investendone il ricavo al saggio corrente del cinque per cento. Viene tuttavia il giorno che, aumentando il numero dei cerchi concentrici già formati, la proporzione del valore del nuovo cerchio nato nell’anno al valore del tronco già esistente, non supera il cinque per cento. Quello è il momento della morte economica dell’albero. Il foresticultore, il quale attende dalla terra il frutto ottimo, non può tardare ad abbattere l’albero.
Se lo abbattesse prima, quando l’incremento legnoso è ancora del 6, del 5,50, del 5,40, del 5,30, del 5,20, del 5,10 per cento errerebbe, perché rinuncerebbe al frutto maggiore che ancora può conseguire conservando in vita l’albero per quello minore, del 5 per cento, che otterrebbe abbattendolo e reinvestendo il ricavo. Ma sarebbe ugualmente erronea la condotta di chi conservasse l’albero oltre il momento della maturità economica.
Preferirebbe così un frutto decrescente del 4,90, del 4,80, del 4,70 e via via minore a quello del 5 per cento che potrebbe ottenere abbattendo e reinvestendo.
La condotta sua sarebbe irrazionale. S’intende che gli uomini per variabilissime regioni tengono talvolta una condotta irrazionale.
Posseggo due quercie maestose, secolari, le quali hanno trascorso da tempo la età economica. Mi duole che esse non siano vicine a casa; ma per nessuna ragione al mondo sinché io viva consentirò ad abbatterle.
Piace talvolta sedersi sotto l’albero e contemplare l’orizzonte, le case e le vigne dei vicini e, sulla pubblica strada discorrere alla loro ombra con i passanti. Potrà accadere alle due quercie quel che accadde ad una terza ancor più antica, che un uragano furioso abbatté ed allora si scoperse che era ormai guasta alla radice e perduta. Ma la condotta singolare economicamente irrazionale per ragioni di paesaggio, di sentimenti, di famiglia non toglie valore alla regola, che deve essere osservata in generale.
Perciò prediligo l’imposta calcolata sul taglio dell’albero, che vuol dire sul reddito giunto a maturità e pronto ad essere raccolto e goduto, all’imposta annua sull’incremento legnoso. I due tipi di imposta possono essere calcolati in guisa da essere equivalenti; ma il secondo, con la sua peridiocità anche negli anni nei quali la conservazione dell’albero costa e non frutta, irrita il foresticultore privo di reddito e lo persuade a tagli irriflessivi ed antieconomici. In pratica, il buon risultato finale si ottiene con le lunghe esenzioni iniziali e con il calcolo opportuno dei turni di taglio nelle terre a foresta.
Così è delle aree fabbricabili. Anche per esse vi è il momento della maturità economica; il quale giunge quando e non prima e dopo il saggio di incremento di valore dell’area fabbricabile in confronto al valore capitale già acquisito in passato cade al disotto del saggio di interesse corrente per gli investimenti di pari sicurezza ed appetibilità. Per anni e talvolta per lunghi anni, le prospettive di aumento di valore sono in via assoluta piccole, ma ancora proporzionalmente maggiori del saggio di interesse corrente.
Ai margini della città si insediano ortolani, i quali hanno acquistato od ereditato la terra ai prezzi agricoli, frutticultori delle culture ricche in terreni cintati, giardini di agrumi creati in luoghi adatti con la mina e col trasporto di terra. Conventi e monasteri, in fuga dal centro cittadino, dove le vecchie chiese e le antiche dimore sono bisognose di grosse riparazioni, vendono in città ed acquistano in campagna ampi terreni, dove possono essere collocati cortili e campi di ricreazione e di salutari esercizi per i membri della congregazione ed i loro giovani allievi. I proprietari dei dintorni non sentono il desiderio di vendere ai prezzi cresciuti, perché il lucro complessivo non sarebbe ancora vistoso e l’azienda agricola può ancora vivere, rallegrata dalla previsione di futuri aumenti di valore.
Giunge però, nell’ipotesi della città ideale, dotata di piano regolatore razionale, il momento in che ortolani, frutticultori, monache e frati, proprietari di terreni vedono i geometri municipali tracciare sui loro terreni i limiti delle grandi strade e di arroccamento, dei viali e delle vie minori, delle piazze e degli edifici pubblici. Le offerte di acquisto da parte degli amministratori pubblici e dei costruttori privati diventano allettanti; e poiché la necessità di nuove aggiunte cittadine alla città vecchia per il crescere della popolazione, dei traffici e della ricchezza, non tollera dubbi, nasce la convenienza del vendere. Il prezzo delle aree fabbricabili cresce; ma è quello determinato dal sapiente piano regolatore.
Dove le zone riservate a parchi e giardini pubblici sono ampie; dove esistono vincoli di viali, strade, edifici pubblici, chiese, scuole, palestre: dove l’altezza delle case non è di regola consentita al di là di quel che è proprio dell’edificio pubblico, della scuola e della chiesa, dello stabilimento industriale e del laboratorio artigiano, dove non può andare, per le case di abitazione, oltre la convenienza della statura umana; dove sono consentite eccezionalmente, in zone appropriate a sé stanti gli edifici altissimi, anche di dieci o venti piani, ma questi hanno attorno a sé amplissimi spazi vuoti riservati al sole ed al verde ed ai servizi comuni.
I valori edilizi non possono andare, nella città ideale e bella, oltre un certo segno. è sofisma volgarissimo quello che dice doversi costruire case di molti piani ed orrendi grattacieli l’uno sull’altro ammonticchiati od incombenti con ombre nefaste sugli abitatori di più modeste dimore, perché le aree fabbricabili sono care e fa d’uopo, sotto pena di perdite, sfruttarne l’alto valore con il moltiplicare dei piani. Sofisma immondo!
Alla radice dell’altissimo valore c’è un atto creativo ed è la licenza di costruzione rilasciata da amministratori incapaci o da funzionari condiscendenti a sollecitazioni private. Se è vero, come qui si suppone, che esiste un piano regolatore razionale in una città ben governata, le licenze sono quelle che il buon piano consente; ed ivi nessuno paga per l’area; dove le case di abitazioni non possono superare i tre piani fuori terra, e dove quelle dai venti piani devono coattivamente insistere su un’area vuota di superficie almeno decupla di quella coperta, un prezzo neppure lontanamente paragonabile a quello che si pagherebbe per le aree dette in qualche nostrana città a sfruttamento intensivo.
In una città cosiffatta il valore delle aree edilizie è quello dato dal momento della maturità economica, ed è quello dato il quale l’area è sfruttata nel modo più adatto al tipo della zona, se con dotazione di edifici pubblici o destinata ad abitazioni di pregio o modeste o ad empori commerciali od a stabilimenti industriali. In una città cosiffatta, non occorre nessun stimolo di imposte speciali per promuovere le costruzioni. Che se l’area fosse costruita prima che essa consegua il livello del valore economico, ciò vorrebbe dire che l’area è stata malamente utilizzata, che si è costruito uno stabilimento industriale, laddove sarebbe stata ben collocata e più redditizia, per la comodità dei cittadini, casa di botteghe e di uffici, dove son sorte case operaie a buon mercato, invece di villini con giardino. Se si attende a costruire dopoché il momento dell’ottimo economico è tempo trascorso, vuol dire che il suolo cittadino non è stato bene utilizzato, e si sono perduti anni nell’aspettare l’aumento di valore che non è venuto.
Ma l’errore non è consentito dall’operare contemporaneo dell’interesse collettivo e di quello privato. Il fine del buon piano regolatore sarebbe mancato; e l’opinione pubblica sarebbe più o meno presto pronta a mutare gli amministratori pubblici i quali abbiano dimostrato di non possedere le attitudini necessarie al loro ufficio.
Nella città ideale, l’imposta sulle aree fabbricabili non ha luogo. Spingerebbe irrazionalmente a costruire anzi tempo, a trasformare la città brutta, odiosa agli abitatori e fuggita dai forestieri ansiosi di ammirare bellezze antiche e di plaudire alle nuove addizioni.
Purtroppo, se alla città ideale faticosamente alcuni amministratori, lentamente ognora più numerosi, si sforzano di giungere, la smania di imbruttire, col pretesto del moderno, la città antica, e la indulgenza verso il disordine nei sobborghi nuovi si veggono troppo spesso associati nel deturpare agglomerazioni urbane; ed al brutto ed al disordine può quindi darsi siano appropriate le novità tributarie ed in particolar guisa l’imposta sulle aree fabbricabili.