Cresce la produzione agraria italiana?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/06/1925
Cresce la produzione agraria italiana?
«Corriere della Sera», 25 giugno 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 337-341
Il fervore di iniziative che di volta in volta assume il nome di «settimana del frumento» o di «campagna per il grano» o di «propaganda per i concimi azotati» dovrebbe far concludere che il progresso nell’agricoltura italiana sia stato grande. Di solito, quando la propaganda per ottenere qualcosa si accentua, ciò accade perché quella qualunque cosa è già per la strada. Un paese avverte la necessità di industrializzarsi, quando già lo spirito industriale è nell’aria ed industrie si impiantano e fioriscono. Si vuole far progredire l’agricoltura, crescere la produzione dei campi, far propaganda di macchine agrarie, di concimi chimici, quando già i contadini si sono risvegliati, la terra produce di più, si costruiscono nuove case coloniche, nuove culture sono tentate. È infatti impressione diffusa che oggi in Italia l’agricoltura attraversi un periodo di floridezza, di slancio, di voglia di fare e di lavorare.
Tuttavia, le statistiche non corroborano ancora l’impressione ottimistica. Nel 1862 il Maestri aveva calcolato il valore della produzione agraria e forestale italiana a 2.842 milioni di lire, che, ragguagliati alla superficie produttiva, equivarrebbero a 108 lire per ettaro. Verso il 1885 il valore crebbe a 5 miliardi, con una media di 190 lire per ettaro. Nel 1910 l’Ufficio di statistica agraria, fondato dal compianto Ghino Valenti e diretto dall’ing. Giuseppe Zattini, valutava la produzione agricola e forestale a circa 7 miliardi di lire, con una media di lire 290 per ettaro. Oggi, lo stesso Zattini in una sua bella monografia Valutazione della produzione lorda dell’agricoltura italiana calcola che la stessa produzione lorda sia oggi, valutata ai prezzi dell’immediato ante guerra e per le province dell’antico regno, di 7.972.600.000 lire e cioè di lire 302 per ettaro. Nel regno attuale il valore totale sarebbe di 8.245.700.000 e cioè di lire 290 per ettaro.
Sulla base di questi dati, noi avremmo, arrotondando, per l’antico regno, le seguenti pietre miliari: 1862: 2,8 miliardi; 1885: 5 miliardi; 1910: 7 miliardi; 1924: 8 miliardi. Il progresso pare indiscutibile dal 1862 al 1885 e dal 1885 al 1910. È meno sicuro negli ultimi quindici anni. Sebbene le cifre indichino un salto da 7 ad 8 miliardi,l’ing. Zattini dubita che tutta la differenza corrisposta ad un vero e proprio aumento reale di produzione. Invero i 7 miliardi del 1910 furono calcolati con un procedimento assai più sommario di quello che è a base degli 8 miliardi attuali. In secondo luogo, oggi si calcolò meglio la produzione zootecnica e il prodotto delle industrie agrarie. In terzo luogo, sebbene l’ufficio statistico abbia calcolato il valore della produzione attuale non in lire carta, ma ai prezzi dell’immediato anteguerra e cioè sostanzialmente in lire-oro, tuttavia i prezzi dell’immediato anteguerra, su cui si basò il calcolo degli 8 miliardi del 1924, sono più alti dei prezzi su cui si fondò il calcolo dei 7 miliardi del 1910. Il frumento valeva, ad esempio, 5 lire di più nel calcolo del 1924 che in quello del 1910; e da sola questa differenza produsse un aumento di 250 milioni. Tutto sommato, non sembra che gli 8 miliardi di lire-oro rappresentino masse di frumento, di granoturco, di vino, di bestiame più vistose di quelle corrispondenti ai 7 miliardi del 1910.
Si fa fatica però, bisogna confessare, a persuadersi di ciò che queste autorevolissime ed oggettive statistiche ci dicono. C’è una impressione diffusa che la terra frutti oggi di più che nell’anteguerra. Come conciliare le statistiche e la impressione?
In primo luogo, l’occhio dell’osservatore è guasto dall’illusione monetaria. Per quanto si dica e si sappia che la lira d’oggi è una cosa diversa dalla lira dell’anteguerra, rimane pur sempre latente la vecchia immagine o credenza della lira come qualcosa di fisso. Ricordo storico od aspirazione dell’avvenire: la lira antica influisce ancora sul pensiero, sui giudizi comparativi. L’ing. Zattini, dopo avere calcolato in 8,2 miliardi di lire il valore della produzione agricola attuale del nuovo regno ai prezzi dell’anteguerra, calcolò la stessa produzione attuale in 41,7 miliardi di lire ai prezzi correnti nel 1921-24. Il pubblico conosce quest’ultima cifra: 41,7 miliardi, che è quella a cui effettivamente si negoziarono i prodotti agricoli; e non quella di 8,2 miliardi, cifra teorica, usata solo a scopi di paragone nel tempo. Ed al pubblico pare impossibile che 41,7 miliardi del 1924 non valgano più dei 7 miliardi del 1910. Forse valgono meno; ma danno l’idea di una pioggia di ricchezza caduta sulla terra italiana. In realtà, non cadde nessuna pioggia d’oro sulle campagne italiane. Ci fu, invece, una trasposizione di ricchezza dai proprietari ai fittuari, dai vecchi proprietari che vendettero anzitempo ai nuovi proprietari che comprarono per tempo.
La trasposizione impoverì gli uni ed arricchì gli altri. Per il momento essa non pare abbia ancora avuto per effetto di crescere la produzione agricola. Forse è troppo presto e forse è già stato un grandissimo risultato l’essere ritornati nel 1924 alla produzione del 1910. Oh! non si è sempre ripetuto che gli anni attorno al 1910 furono l’età dell’oro dell’economia italiana, l’età felice in cui, senza saperlo, gli uomini godevano di un’abbondanza mai più vista di cose utili alla vita? Si sono già dimenticate le strettezze, la difficoltà di produrre, di ottenere fertilizzanti e macchine agricole in cui allora ci si travagliava? Essere, in così pochi anni, risaliti dagli abissi del 1917 e del 1918 alle altezze del 1910 dovrebbe dunque essere reputato un buon auspicio per l’avvenire.
V’ha di più. Quella trasposizione di ricchezza – in che sostanzialmente consiste la pretesa pioggia d’oro sulle campagne – se per ora ha prodotto immeritata miseria nella classe degli antichi proprietari decaduti e grossolane ostentazioni di benessere presso i fittuari ed i rustici succeduti ai primi nel possesso della terra, sta già producendo ulteriori risultati, socialmente ben degni di nota. Ho l’impressione che, almeno nell’alta Italia, sorga finalmente una borghesia agricola. Scompare la vecchia «signoria» di campagna; i gentiluomini proprietari, che vivevano in città, senza far nulla o dedicandosi alla politica ed alle professioni liberali. Gente fina, colta ma un po’ sfiaccolata ed incapace di resistere alle tormente sociali. I nuovi proprietari, venuti su da ceti rozzi, da gente che sa la vanga ed ha rivoltato la terra con l’aratro, stanno diventando borghesi, con l’animo dell’industriale e del commerciante. C’è del «farmer» nord americano in questa gente nuova, che ha il conto corrente in banca, che va nella città in carrozzella o in automobile a fare i mercati, che si ricostruisce la casa e la adorna di mobili nuovi moderni, che conosce le macchine più moderne e non ha paura di comperare od affittare terre a prezzi che paiono pazzeschi ai vecchi. A me è capitato di ascoltare da uomini di questo ceto, ancor rustici nell’aspetto e col viso adusto dal sole, ragionamenti precisi, come da un banchiere di città. La reazione antibolscevica delle campagne deve avere avuto il suo fondamento sociale nell’affermarsi di questa nuova classe di dominatori della terra, ben diversa dall’antico ceto torpido ed assente di piccoli proprietari e di mezzadri. Poiché questa nuova classe, pur avendo l’animo industriante, non è una piccola oligarchia, ma è numerosa e destinata a crescere per figliuolanze non scarse, la società italiana acquisterà forse in essa un fattore di equilibrio tra i ceti ricchi industriali, quelli borghesi intellettuali e le masse agricole ed operaie. Uno dei problemi politici maggiori dell’avvenire consisterà nell’educazione del nuovo medio ceto.
Frattanto, io credo che non dovranno tardare molto a vedersi, anche nelle statistiche, i risultati della trasformazione sociale avveratasi. Qua e là, si vedono emergere dalla media della produzione attuale: 302 lire per ettaro in media generale; 169 nella media delle montagne, 298 nella media delle colline e 526 lire nella media delle pianure, alcune oasi mirabili. Non parlo della pianura subvesuviana della provincia di Napoli con 1.780 lire-oro di produzione media per ettaro, del piano campano con 1.352 lire, della Conca d’oro con 862. Quelle sono eccezioni antiche, per virtù di acque, di sole e di lavoro industre collaboranti insieme. Ma nell’alta Italia, il basso Monferrato dà 1.044 lire all’ettaro, il medio Astigiano 870, la bassa Langa di Alba 858, la pianura di Saluzzo 818, il basso Vercellese risicolo 1.149, il basso Cremonese 931, l’oltre Po Mantovano 862; il piano alto Parmense 815, il basso piano Parmense 810, l’alta e la bassa pianura Reggiana 888 e 900 lire rispettivamente. Basterebbe che queste zone dove l’alta produzione fu raggiunta per virtù di canali d’irrigazione, di livellazioni di terreno, di lavori profondi, di alte concimazioni, di culture specializzate e ricche, facessero macchia e si allargassero, perché a poco a poco la produzione totale notevolmente crescesse. Basterebbe poter crescere di 100 lire all’ettaro la produzione della pianura italiana per avere 578 milioni di lire-oro di maggior ricavo; e di 50 lire quella della collina (tralascio la montagna, dove pure tanto si può fare) per avere altri 560 milioni; in tutto 1.140 milioni di lire-oro, circa 6 miliardi di lire carta; quanto basta per acquistare, occorrendo, 50 milioni di quintali di frumento. Perciò bisogna costringere la terra a produrre di più secondo la linea del massimo tornaconto. Talvolta e in dati terreni, ciò può voler dire produrre maggior copia di frumento. Per lo più, nel clima italiano e con la fitta popolazione italiana, ciò significa coltivare, bene e con alti rendimenti, altri prodotti, atti a farci acquistare al minimo prezzo possibile il necessario frumento. Le 36 zone agrarie italiane, le quali vantano nelle statistiche governative una produzione superiore ad 800 lire-oro per ettaro, queste pioniere del progresso culturale non sono, parmi; zone tipicamente frumentifere.