Contro la svalutazione della vittoria
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/07/1919
Contro la svalutazione della vittoria
«Minerva», 16 luglio-1 agosto 1919, pp. 457-459
Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 331-339
Si è andato purtroppo determinando nella opinione pubblica italiana una tendenza a svalutare i risultati raggiunti colla guerra ed a trasformare una grande vittoria in una sconfitta. Peggio: si diffonde, anche per opera di giornali interventisti, l’impressione che l’Italia esca male dalla guerra, rimpicciolita in un mondo di giganti, senza alleati, senza colonie, senza possibilità di sviluppo economico. Coloro che non riuscirono a far sconfiggere l’Italia in campo dal nemico, oggi fanno ogni sforzo per persuadere gli Italiani che la vittoria degli alleati fu una grande sventura per noi. Si vuole ad ogni costo creare l’atmosfera della sconfitta, affinché da essa nascano il dissolvimento, la occasione di vendette personali e, per taluni, la palingenesi sociale.
Sovratutto la sconfitta della Germania e la vittoria del mondo anglosassone sembravano disastrose per gli antichi neutralisti e per i socialisti.
Come potrà – osserva taluno – essere ricostruito l’equilibrio europeo, il quale solo ci consentiva di fare una politica estera? Erano due imperialismi, quello tedesco e quello inglese, «per il conquisto dei mari e delle materie prime, gli è a dire per l’egemonia del mondo»; e noi commettemmo insanamente l’errore funesto di aiutare l’uno a sopprimere
l’altro, ed oggi noi siamo inermi di fronte a quell’uno che davvero, per la prima volta nella storia del mondo, domina il mondo. Altri, il quale pretende alle grandi visioni storiche, intona il finis Europae, la fine della civiltà dell’Europa moderna, quale era stata foggiata da Atene e da Roma, da Cristo e dai Germani. Ma neppure l’”alleanza atlantica”, conquistatrice oggi della signoria sul mondo, è sicura di sé. Ché le infinite moltitudini oppresse, dall’Irlanda, dall’Egitto, dall’India, domani dalla Cina e dalle terre musulmane, tendono l’orecchio alle voci di rinnovamento le quali vengono dalla Russia. Leviathano e Spartaco, barbarie dai denti d’oro e barbarie lacera, si apprestano, con i nervi tesi, all’ultimo conflitto, da cui nascerà il secondo medioevo dell’Europa. Né i nostri occhi hanno speranza di potere, uscendo dalla notte buia, contemplare l’alba di un nuovo rinascimento.
Ben a ragione avremmo dovuto gemere sotto l’incubo di simiglianti visioni apocalittiche se vittoria piena avesse arriso ad una Germania favorita dal nostro intervento ai suoi fianchi o dalla nostra neutralità; poiché avrebbe vinto un tipo di governo, al quale noi repugniamo e che i più veggenti tra i tedeschi consideravano, fin da prima della sconfitta, cagione della bassa educazione politica del loro popolo, della sua assoluta abdicazione in mano di una casta burocratica, della sua incapacità a creare in se stesso valori spirituali degni di reggere il mondo. Ahimè! perché dimentichiamo così presto le lezioni della esperienza e, appena usciti dal pericolo tremendo di diventare i vassalli di un impero fondato sulla esaltazione di una casta eletta, sul diritto divino di essa a guidare e ad organizzare le plebi del suo paese e quelle componenti i popoli forestieri, ci spaventiamo dei risultati necessari e sommamente benefici della vittoria? Di ciò han colpa, insieme ai fogli della borghesia neutralista, quelli della borghesia patriottica; i quali, perché a noi viene negato un nostro diritto, non si attardano ad indagare le cagioni particolari del rifiuto, e proclamano l’ignominia della pace di Versaglia e gridano alla nuova tirannia dei mari e delle materie prime, la quale sarà esercitata dalla santa alleanza dei popoli anglo-sassoni. Fanno il gioco, codesti patriottici, della stampa neutralista e comunista, la quale ha interesse a persuadere i popoli che la guerra fu iniziata per turpi motivi di dominio economico e si chiude con la appropriazione di beni materiali a prò del vincitore; e vuole convincere altresì gli italiani che per essi non vi ha salvezza fuorché nell’altalena tra Francia e Germania, tra alleanze anglo-russe e tedesco-magiare, fuorché nella contrapposizione a mano armata fra Inghilterra marinara ed Europa militare guidata dalla Germania. La parentela spirituale tra Bismarck, Marx e Lenin è più profonda assai che non si creda: credenti tutti e tre nella pura forza bruta del braccio, nella conquista del potere politico colla forza delle armi, nell’irrisione ai motivi spirituali d’azione, nell’ossequio al ventre. La guerra ci aveva fatti uscire, con la vittoria di parte inglese e nostra, da questa età buia, che ancor s’attarda sulla Russia, ed ora codesti laudatori dei tempi andati ci voglion far credere che noi abbiamo combattuto per una illusione, ed abbiamo invece ribadito su di noi le catene della servitù dei mari e delle materie prime.
No. La servitù delle materie prime è una chimera la quale rende affannoso il sonno degli uomini nell’alba della pace, quando i vincoli creati della guerra ancor tardano ad essere infranti. Se il comunismo vincesse nel mondo, ferro e carbone, frumento e cotone, lana e pelli diventerebbero davvero oggetto di negoziati diplomatici; ed i Bismarck dell’avvenire potrebbero illudersi di costringere con quel mezzo le nazioni recalcitranti alla resa. Ma, sino a quando il trionfo della dominazione comunistica non accada, fino a quando di giorno in giorno la bardatura di guerra negli Stati Uniti rumorosamente cade a terra e gli Hoover annunciano il lor ritorno a vita privata, la paura di rimanere privi di materie prime resterà un fatto transitorio ed una chimera storica, della quale fra qualche anno noi rideremo. Per secoli, per millenni, popoli forniti solo delle loro braccia e della loro intelligenza, dimoranti in luoghi sterili, sprovveduti di miniere e di ampie praterie, ateniesi, cartaginesi, romani, veneziani, fiorentini, olandesi, seppero arricchire con le materie prime altrui. Sempre, in passato fin dove rimontano i ricordi storici, le materie corsero volontieri verso i popoli che dalla loro intelligenza e dalla loro perizia eran fatti abili ad acquistarle a più alto prezzo dai vicini incapaci e pigri: e vorremmo che d’un tratto, solo per far comodo a chi gioisce di proclamare la sconfitta di noi vittoriosi, il processo logico e ferreo dell’economia si capovolgesse? Ben fanno i nostri negoziatori, finché dura ancora il comunismo di guerra, ad assicurare al paese con trattati precisi la fornitura di alimenti, di carboni, di cotone, di lana. Ma assai più efficacemente opereranno ad assicurare agli italiani la libertà di poter contrattare liberamente con gli inglesi, con gli americani e con le genti di qualsiasi contrada, la facoltà di comprare, senza divieti di governi, senza disparità di trattamento, ciò di cui avremo bisogno. Basta questa sicurezza, per guardare fidenti all’avvenire. Poiché la vittoria, che fu nostra sui campi di battaglia per virtù di uomini, sarà nostra nelle gare della pace per la perizia dei nostri artefici. Facciasi valente il popolo nelle arti della pace; e le materie prime spontaneamente verranno a noi, invece che ai lidi di Francia, d’Inghilterra o di Germania, e le nostre navi correranno i mari, fatti sicuri dalla polizia esercitata dalle potenze marinare.
Sempre fu necessario che la polizia dei mari fosse esercitata da una sola potenza o da un gruppo di potenze alleate. Il mediterraneo fu libero ai naviganti, quando Roma ebbe distrutto i nidi di pirati, ed il suo naviglio dominò indisturbato dall’Ellesponto alle colonne d’Ercole. Di nuovo, dopo il primo tumulto delle invasioni barbariche, dal VI all’XI secolo, il mediterraneo fu sede di traffici perché ridivenuto un lago bizantino. Quando Bisanzio, dopo lotte secolari e grandiose, arretrò dinnanzi all’invasione araba e turca, Venezia e Genova discordi furono impotenti a mantenere la sicurezza dei mari; né meglio vi riuscirono Francia e Spagna, perennemente in lotta tra loro. Sol dopo la vittoria di Trafalgar, ed il dominio del mare conquistato dall’Inghilterra, ridivennero veramente liberi i mari ai naviganti; e ad uno ad uno i nidi barbareschi di pirati e quelli di corsari del Mar delle Antille furono schiacciati per sempre. Negare che il dominio dei mari da una sola o da un gruppo di potenze sia necessario per creare la vera libertà dei mari è ipocrisia stolida e vana. Che cosa sarebbe accaduto di noi, quando ancora eravamo neutrali, se davvero le flotte germaniche e franco inglesi si fossero tenute in rispetto, e nessuna avesse osato solcare tranquillamente i mari a spazzarli dalla bandiera nemica? I mari sarebbero stati aperti solo a corsari ed a sottomarini; e le navi mercantili sarebbero rimaste alla lor mercè senza difesa. Neppure una tonnellata di carbone avrebbe potuto salpare dai lidi d’Inghilterra per Genova e per Napoli; ed i noli altissimi del tempo della guerra che fu, sarebbero parsi un’inezia in confronto a quelli che per aver frumento dall’America avremmo dovuto pagare nella guerra da corsari, che non fu per merito della flotta britannica la quale rinchiuse le navi tedesche nei loro porti, e della flotta italo-franca che costrinse le navi austriache al riposo di Pola. Pura ipocrisia è questo vociferare delle gazzette contro il dominio dei mari delle potenze marinare; poiché in tempo di pace è urgente che a qualcuno sia affidata la polizia delle acque contro i malviventi, ed in tempo di guerra è infantile supporre che la potenza provveduta di naviglio più forte dell’avversario non si giovi della sua potenza per distruggere questo ed esercitare incontrastato il dominio dei mari. Dunque è cosa certa che gli odierni piagnoni sul conquisto dei mari operato dall’”alleanza atlantica” versan lagrime di coccodrillo ed avrebbero voluto il conquisto dei mari a prò della Germania. In tempo di pace il dominio britannico dei mari, come prima quello bizantino e romano, non ha mai impedito alle navi nostre di portar lungi la bandiera italiana, quando noi eravamo capaci di darle alimento di traffici lucrosi. In tempo di guerra, la scelta non è fra dominio e libertà dei mari, ma fra questo o quel dominio.
Sicché si torna al medesimo punto: la pace di Versaglia, la quale non toglierà a nessuno, che se le sappia meritare, le materie prime utili alla sua operosità e darà il dominio dei mari alla bandiera anglo-sassone, è migliore o peggiore della pace di Berlino, la quale avrebbe dato i mari e le materie prime ad un’Europa organizzata dalla classe governante tedesca? Qui è il vero, il grande problema. La guerra non fu combattuta per la vittoria di una o di un’altra avidità di ricchezze e di dominio. Avremmo potuto dinanzi ad essa rimanere indifferenti. Fu combattuta invece tra due principi, tra due metodi di usare le ricchezze del mondo di convertirle a beneficio economico e a vantaggio spirituale dei popoli.
L’un metodo, che nacque modernamente in Inghilterra ed a fatica si estese nella parte del mondo governata dalla razza anglo-sassone – né dappertutto ha potuto ancora affermarsi, – dice che le ricchezze della terra sono dei popoli che l’abitano, di quelli che vi possono giungere e dimostrino maggior capacità di utilizzarle, e di quanti altri sul mondo ne facciano, pagandone il valsente, seria richiesta. Sono i popoli stessi, che attraverso alla dura scuola della esperienza e dei liberi dibattiti, ubbidendo alla legge che essi medesimi si sono creata, esaltando ai sommi fastigi ed a volta a volta buttando nella polvere gli uomini che ne incarnano le passioni e le aspirazioni, si rendono via via capaci a governar se stessi, a lavorare, ad arricchirsi, a grandeggiar nel pensiero.
L’altro metodo, che non è tedesco per indole sua connaturata, ma era diventato tedesco nella Germania militare comunista forgiata da Bismarck e da Marx, proclama la incapacità dei popoli a governare liberamente se stessi, sbagliando ed inciampando, rizzandosi e correggendosi; ed affida il compito ad alcuni eletti, unti del Signore, come l’imperatore, il cancelliere e la schiera dotta e perita dei funzionari, dei professori, dei capi dello stato maggiore, dei grandi proprietari della Pomerania e della Prussia orientale e degli imprenditori dell’industria pesante; ovvero dittatori in nome del proletariato, nella repubblica che Marx auspicava per la Germania e Lenin creò nella Russia. Terribile sarebbe invero stata la sorte dei popoli “inferiori”, come era riguardato l’italiano, se codesto tipo di governo fosse rimasto vittorioso; perché essi avrebbero avuto non i beni materiali ed i cibi spirituali, molti o pochi, che avessero saputo procurarsi coi loro meriti, ma quelli soltanto che la classe governante, i saggi dell’areopago mondiale avrebbero ritenuto giusto concedere loro. Non un libero acquisto sarebbe stato, ma una largizione a norma di meriti valutati da altri.
Perciò io dico che non invano combatterono la guerra, e che il principio della ripartizione comunista dei beni della terra, comunistica perché deliberata in seguito a consigli di sapienti, giustamente fu sconfitto. Non la Germania giacque vinta in questa guerra, ma i falsi principi in cui essa s’era irretita, per esaltazione satanica d’orgoglio, contro le grandi tradizioni del suo pensiero. Non l’Inghilterra vinse, ma il principio da essa bandito dell’auto-educazione degli uomini, di tutti gli uomini, a governare se stessi, a creare lo Stato entro di sé, entro il proprio spirito, e ad ubbidire alla propria creazione, invece che al verbo della sapienza esterna.
Or questa è vittoria non dell’Inghilterra, ma del mondo intiero e della vera Germania medesima. Ben può darsi che nella febbre della lotta, nei torbidi sogni di paventate rivincite, nella collera del sangue innocente sparso, talvolta si passi il segno, ed il vincitore per un istante faccia suo il pensiero del vinto. Ma son parvenze fuggitive. Il morto principio non ritorna. Invano i corifei della dittatura proletaria piangono sulla vittoria conseguita. Questa rimane. I nostri figli, noi stessi ne assaporeremo i frutti divini.