Opera Omnia Luigi Einaudi

Come non si devono ristampare i nostri classici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1936

«Rivista di storia economica», I, 1936, pp. 75-80
Si confrontino le due edizioni di un brano delle prefazioni di Francesco Ferrara:

Edizione originale (1853)

Ristampa (1889)

dell’introduzione al vol. XIII della prima serie
(H.C. CAREY, Principii economia politica) della
“Biblioteca dell’economista” pagg. LIV a LVI:

Quale sarebbe la vera fra queste due teorie che
mirano a conseguenze così profondamente
diverse? – Sembrerà un paradosso, ma io non
saprei astenermi dal profferirlo: teoreticamente,
le due dottrine non sono che una; e la differenza
fra Carey e Ricardo non è di principio, ma
puramente di fatto.
…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto colla ipotesi di Ricardo,
o con quella di Carey? È la fame e la popolazione
crescente ciò che ne ha determinato l’estensione,
deteriorando sempre più la condizione de’
lavoranti, migliorando quella del proprietario?
o sono i progressi del sapere, e delle sue
applicazioni, ciò che, rendendo possibile
l’estensione della coltura, ha formato il benessere
di ambe le parti?

Carey ha, ne’ Principii che qui pubblichiamo, e
soprattutto nell’altra sua opera Il passato,
il presente e il futuro
, mirabilmente svolto
la quistione di fatto. Egli ha pienamente ragione.
Il fatto, preso in complesso, sta tutto in suo favore,
e mostra che l’ipotesi provvidenziale la fatalità che
evidentemente il Creatore ha preposto alle grandi
evoluzioni de’ secoli, è l’ipotesi sua non quella
della scuola inglese; è l’ipotesi del progresso e
dell’armonia, non quella del regresso e
dell’antagonismo. Il fatto, preso in complesso,
si è che, ognidove, nella parte del mondo che
siamo abituati a chiamare incivilita, la produzione
del suolo si è ingigantita coll’andare de’ secoli;
e due fenomeni si sono presentati ad un tempo.
Il lavoro ha esteso le sue conquiste sulla natura;
metodi, strumenti, capitale hanno di periodo
in periodo raddoppiato e triplicato la capacità
produttiva del suolo; la quantità delle superficie
coltivate si estese, a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile, si vestì di grano la rocca; e l’uomo,
lottando col sole e col ghiaccio, con la valle e
col monte, coll’alluvione e colla marea, penò
ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo fosse una
storica verità, è evidente che a quest’ora
il genere umano avrebbe dovuto indietreggiare
ben più, di quello che ha saputo avanzarsi;
e tutta questa estensione avvenuta nella
coltura del suolo, avrebbe dovuto affamare
le masse per ridurre la nostra specie a pochi
e stranamente doviziosi signori, attorniati
da una immensa massa di lavoranti estenuati.
La storia depone, tutta, in un senso
precisamente contrario. Questa desolante
condizione che, nella ipotesi di Ricardo,
sarebbe la funesta conclusione del progresso
dell’agricoltura, è quella invece da cui siamo
partiti; è la condizione della schiavitù,
della servitù, del ryot, del turco. Qui, la
quistione di fatto non lascia alcun dubbio.
Ogni tradizione ed ogni cronaca, d’ogni parte
incivilita del mondo, concorre a mostrarci che
noi siam venuti da un’epoca in cui la Rendita
era metà, un terzo, di ciò che è, e pur
nondimeno rappresentava allora il 50 o 60%
della produzione, nella quale adesso entrerà
appena per un 15 o 20%. Concorre a mostrarci
che, quando la Rendita era una metà od un
terzo di ciò che trovasi oggi allora appunto
il contadino, che oggi ha il suo pane, la sua
carne, la sua birra
, viveva d’una putrida aringa,
d’una manciata d’orzo ed avena e celebrava come
pubblica festa il giorno in cui si scannasse un vitello,
e salassava le capre per cibarsi del loro sangue coagulato,
e prevedeva nel suo calendario, come oggi prevediamo
l’eclisse, il ritorno periodico della fame. La coltura
si estese; dalle terre A, dalle terre più fertili,
passò su rocche e paludi.

Perché mai? Per una pressione crescente? No;
la pressione ci fu, ma non avrebbe potuto che
distruggere la razza umana, se collo stimolo
della fame non si fosse aguzzato l’ingegno umano;
se l’aratro, che era un cono e squarciava appena
la terra, non si fosse convertito in una spirale
cilindrica che capovolge e stritola la zolla;
se non fosser venute le strade, le rotaie, i vapori,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo. Alla storia
possiamo aggiungere l’osservazione medesima
del presente. Le rendite sono, assolutamente,
più basse, e relativamente più alte, ove il lavoro
è men produttivo, e la condizione del coltivatore
più sciagurata. Sono in Asia dapprima, poi in
Polonia, in Russia, in Ispagna, in Sardegna, in Sicilia,
dove meno è produttivo il travaglio, non dove
le terre A non abbiano a soffrire la concorrenza
delle terre B. E quando la scuola Ricardiana si
è spaventata a vedere che il fitto delle terre
inglesi montava, e prese per una calamità
questa progressiva tendenza della Rendita,
confuse la quantità assoluta colla relativa,
non si accorse che l’aumento del proprietario lungi
di nuocere, rivelava un gran beneficio sopraggiunto
alle masse, era una rata minore di un maggior prodotto.
Teoreticamente adunque, il ripeto, le due dottrine
non sono che una; teoreticamente, niuno de’ due
valenti economisti può respingere la legge invocata
dall’altro, senza rinunziare a quella che invoca egli
stesso. La minaccia di una penuria crescente si può,
con Ricardo, vaticinare, come effetto di quello stesso
principio da cui si possono vaticinare le più liete
speranze contemplate da Carey. E se il fatto storico,
preso nelle sue grandi espressioni, finora depone
in favore dell’economista americano, perché mai
dal passato non potremmo presagire il futuro?
Da ciò che la coltivazione più estesa è stata sin
ora un fenomeno costantemente legato alla
cresciuta produttività del lavoro; – da ciò che
la risultante di tutte le contrarietà, in mezzo
alle quali il genere umano è passato, fu sempre
il progresso; M. Carey ha tutto il diritto di
argomentare che si debba aver fede nella
tendenza ascensionale dell’umanità, e sostenere
che la teoria della Rendita nulla in se stessa
presenti per lasciarci recare in dubbio una
sì lieta speranza; tutta anzi concorre a farcela
coltivare, con crescente fiducia nella bontà
ed onnipotenza del Creatore. Questa fiducia io la divido.

in Esame storico-critico di economisti e dottrine
economiche del secolo XVIII e prima metà del XIX
.
Vol. I, parte seconda, pagg. 688 a 690.

XXVIII. Or, qual’è la vera fra queste due teorie,
che riescono a conseguenze così diverse?
Sembrerà un paradosso, ma io la vedo così:
teoreticamente
, le due dottrine non sono
che una dottrina sola; e la differenza fra Carey
e Ricardo non è di principio, ma puramente di fatto.

…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto secondo l’ipotesi di Ricardo,
oppure secondo quella di Carey? Furono la fame
e la popolazione crescente che ne determinarono
l’estendimento
,deteriorando sempre più la
condizione dei lavoratori e migliorando di
continuo
quella dei proprietari? Oppure furono
i progressi del sapere e delle sue applicazioni,
di guisa
che, di pari passo coll’estendimento
della coltura, sia proceduto il benessere così
dei proprietari come dei lavoratori?

Carey ha, nei suoi Principii e sopratutto nell’altra
sua opera il passato, il presente e il futuro,
mirabilmente svolto la quistione di fatto.
Egli ha pienamente ragione. Il fatto, nelle
sue grandi linee, è quale egli lo pone
;
la fatalità, che evidentemente il Creatore
ha preposto alla grande evoluzione dell’umanità,
è l’ordine assunto
dall’ipotesi di Carey, non
quello della scuola inglese; è l’ipotesi del
progresso e dell’armonia, non quella del
regresso e dell’antagonismo. Il fatto,
preso in complesso, si è che, ognidove,
nella parte del mondo che siamo abituati
a chiamare incivilita, la produzione del
suolo si è andata attraverso i secoli
ingigantendo
; e due fenomeni si sono
prodotti
ad un tempo: il lavoro ha esteso le sue
conquiste sulla natura; metodi, strumenti,
capitale, hanno di periodo in periodo raddoppiato
e triplicato la capacità produttiva del suolo;
la
superficie della terra coltivata si andò
estendendo
a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile: l’arida roccia si vestì di grano;
e l’uomo, in dura lotta cogli ardori e col gelo,
con la valle e col monte, coll’alluvione e colla
marea, penò ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo
fosse la verità storica, è evidente che a
quest’ora il genere umano avrebbe dovuto
indietreggiare ben più di quanto non sia
progredito
; e quell’estendimento della coltura
del suolo avvenuto attraverso ai secoli,
ai millennii
, avrebbe dovuto affamare
l’umanità, riducendola
a pochi e stranamente
doviziosi signori, attorniati da un’immensa
massa di lavoratori estenuati. Ma la storia
depone, tutta,nel senso contrario. Questa
desolante condizione, che, nella ipotesi
di Ricardo, sarebbe quella, a cui dovrebbe
metter capo
il progresso dell’agricoltura,
è invece quella da cui siamo partiti: è
la condizione della schiavitù, della servitù,
del ryot, del turco. Qui, il punto di fatto
non lascia luogo a dubbio. Ogni tradizione
ed ogni cronaca, di ogni parte del mondo
ed incivilita, ci parla di un’epoca, in cui la
Rendita,pur essendo quantitativamente
la metà il terzo di ciò che è ora, si porta
via via 50-60% del prodotto, mentre ora
prende appena il 15-20
%; -concorre a
mostrarci come appunto quando la
Rendita era una metà od un terzo di
ciò che è ora, il contadino che oggi ha
il suo pane, la sua carne, il suo vino,
vivesse
di una putrida aringa, di una
manciata d’orzo e di avena, e prevedesse
nel suo calendario, come oggi prevediamo
le eclissi, il ritorno periodico della fame.
La coltura si estese; dalle terre miglior, passò
via via alle più cattive, alle roccie, alle paludi.
Perché mai? Per una pressura crescente? No;
la pressura ci fu, ma non avrebbe potuto
che distruggere la razza umana, se collo
stimolo della fame non si fosse aguzzato
l’ingegno umano; se l’aratro, che era un cono
e grattava a mala pena la terra, non
fosse diventata la spirale cilindrica che fende,
rivolta e rompe
la zolla; se non fossero venute
le strade, le rotaie, le macchine a vapore,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo.
Alla storia possiamo aggiungere l’osservazione
medesima del presente. Le rendite sono
assolutamente
, più basse, e relativamente
più alte ove il lavoro è men produttivo e la
condizione del coltivatore più disgraziata:
in Asia dapprima, poi in Polonia, in Russia,
nella
Spagna, in Sardegna, in Sicilia, dove
il lavoro
è meno produttivo. E quando la
scuola Ricardiana si è spaventata a vedere
il fitto delle terre inglesi crescere e prese
per una calamità questa progressiva tendenza
della Rendita, essa confuse la rendita come
quantità assoluta colla rendita come quantità
relativa o quota di prodotto; non vide come
tale
aumento, lungi dal nuocere alle masse,
dipendesse da un fatto ad esse benefico,
dall’essere cioè la rendita una quota minore
di un prodotto maggiore
.
Teoreticamente adunque, giova ripeterlo,
le sue dottrine non sono che una dottrina
sola
; teoreticamente niuno dei due valenti
economisti può respingere la legge posta
dall’altro, senza rinunziare a quella che pone
egli stesso. La minaccia di una penuria
crescente si può, con Ricardo, vaticinare
come effetto di quello stesso principio in
base al quale
si possono vaticinare le più
liete sorti contemplate da Carey. E se
il fatto storico, preso nelle sue grandi
linee
, finora depone in favore dell’economista
americano,perché dal passato non potremmo
trarre il presagio
del futuro? Da ciò che
l’estendimento della coltura fu finora
un
fenomeno costantemente legato alla cresciuta
produttività del lavoro; da ciò che la risultante
di tutte le prove, attraverso alle quali il genere
umano è passato, fu sempre il progresso; M. Carey
ha tutto il diritto di argomentare che si debba aver
fede nella tendenza ascensionale della umanità e
di sostenere che la teoria della Rendita nulla ha in
se stessa, che possa far vacillare in noi una sì
lieta speranza; che tutta, anzi, concorre a farcela
nudrire, con crescente fiducia nella bontà ed
onnipotenza del Creatore.
E
questa fiducia, io la sento.

In fondo le differenze sono minime. Piccole variazioni di parole. Minutaglie. Roba sulla quale lo studioso, il quale bada alla sostanza, non sente affatto bisogno di soffermarsi.

Ebbene, no. Quel bravo laboriosissimo uomo, che si chiamò Ludovico Eusebio e curò la ristampa delle prefazioni del Ferrara, non ebbe certamente sentore dei suoi misfatti. Era l’andazzo dei tempi. Il barone Custodi, assai più benemerito uomo, fece altrettanto e peggio nei suoi 50 volumi degli scrittori italiani classici di economia politica. Aggiustare lo stile era ed è ancora per taluno peccato assai veniale. Custodi aggiustava anche il pensiero tagliando via od attenuando quelle frasi che più offendevano il sentire dei tempi. Dall’aggiustare lo stile all’aggiustare il pensiero il passo è brevissimo.

Oggi siamo divenuti più rigorosi. Una ristampa come quella procurata fra l’89 ed il ’90 dall’U.T.E.T. delle prefazioni del Ferrara sarebbe intollerabile. Intollerabile in tutti i sensi: per le aggiunte, a scopo di ingrossamento, di roba altrui alle prefazioni proprie dell’autore, per la eliminazione di appendici di questo – perché sostituire alla bibliografia sulla moneta e sui banchi di Ferrara, fatica in se stessa singolare e di valor superiore, entro i suoi limiti, a quelle, più note, del Jevons e del Soetbeer ed alla «notizia sui banchi degli stati sardi», primo saggio di storia dei banchi che poi diedero luogo alla Banca d’Italia, la riproduzione di alcune pagine del Messedaglia e del Fauchille? – per l’arbitraria divisione del testo in paragrafi inesistenti nell’originale, per la disposizione delle prefazioni in ordine diverso da quello cronologico delle pubblicazioni ed infine e sovratutto per le correzioni stilistiche. Alle quali confesso non avevo ancora prestato attenzione quando, (vedi sopra, nei paragrafi 8 e 9 della prima parte del presente saggio, pp. 21 e segg.) mi ero già lamentato delle malefatte dell’Eusebio. Poi, mi accadde un giorno di invitare uno studente a leggermi il brano riportato sopra, che io dovevo commentare. Egli leggeva nell’originale; ed io avevo sott’occhio la ristampa eusebiana. Per un po’ immaginai lo studente si arrogasse una certa libertà di lettura; ma poi dovetti inorridire sul serio.

Più o meno, in quasi tutte le pagine della ristampa, il curatore od il correttore delle bozze del Ferrara o amendue d’accordo hanno sostituito la propria fantasia stilistica alla scrupolosa fedeltà al testo originale. L’unica giustificazione lecita sarebbe stato il consenso del Ferrara. Ma, sebbene questi fosse sempre (vedi la lettera del 16 luglio 1890 al Bodio nella ristampa delle Memorie di statistica) tenacemente avverso alla proprietà letteraria e dichiarasse inutile chiedere a lui autorizzazione a ripubblicare suoi scritti, non credo la sua avversione al diritto di proprietà su di essi giungesse sino al punto di dar facoltà ai nuovi editori di rimaneggiarne a lor talento il testo. Di siffatta facoltà e neppure di un rimaneggiamento suo non v’ha traccia; anzi il rifiuto, ricordato dal Bertolini, ad accettare compenso per la ristampa, pare indizio che a questa egli non ebbe parte.

Un giorno accadrà – auguriamolo – che le opere del Ferrara saranno ristampate. Speriamo che allora il curatore vorrà rispettare le regole elementari insegnate dai filologi per la riproduzione dei testi passati, fra cui principalissima è la fedeltà al testo originario. Se qualche variante di carattere tipografico (i soliti u in v, lo scioglimento delle abbreviazioni ecc.) o di punteggiatura, è introdotta, devono indicarsene i casi e i limiti.

È lecito mutare l’ordine della materia o ricomporre ad unità quelle che al curatore paiono membra disiecta di un tutto? È il caso, per il Ferrara medesimo, delle Lezioni di economia politica ricomposte recentemente (Bologna, Zanichelli, 1935) ed amorosamente dalla dott. Gilda de Mauro-Tesoro. Siccome si volle offrire al pubblico qualcosa che fosse come la summa sistematica del pensiero ferrariano e poiché in apposita appendice fu dato il mezzo al lettore di ricostruire il processo di compilazione, riterrei il rimaneggiamento spiegabile ai fini suoi. In una edizione critica delle opere del Ferrara, anche questo rimaneggiamento sarebbe però del tutto illecito. Ogni scritto ferrariano dovrà essere stampato nella sua integrità e forma originaria: niente frazionamento in capitoli e paragrafi non segnati dall’autore; niente soppressione di frasi iniziali o terminali rivolte a studenti ed uditori; niente mutazione delle citazioni e dei riferimenti originari. Citazioni e riferimenti vanno integrati fra parentesi quadre in calce alla pagina, cosicché si distingua senz’altro quel che è dell’autore da quel che il curatore aggiunse.

È lecito mutare l’ordine cronologico degli scritti? Qui il problema è complesso. Delle opere del Turgot si hanno tre edizioni; il primo curatore (Dupont de Nemours) ed il terzo (Schelle) seguirono un ordine cronologico; laddove il secondo (Daire) impaziente della “confusione” dell’altro metodo, preferì l’ordine sistematico. In principio, deve essere adottato l’ordine cronologico, perché consente al lettore di seguire via via lo sviluppo del pensiero dell’autore è di rendersi ragione del suo mutare ed arricchirsi. Non si possono però ignorare gli inconvenienti pratici del sistema: un trattato di 500 pagine sui principii della scienza fa una figura buffa, se incastrato fra due lettere di carattere prevalentemente famigliare, o fra due sonetti. Una classificazione a grandi linee può dunque essere consigliabile: i libri stampati a sé dall’A., i quali hanno acquistato una individualità storica propria, possono continuare a conservarla, beninteso ponendoli, gli uni rispetto agli altri, in ordine cronologico. Le memorie di economia possono formare un gruppo distinto da quelle filosofiche o storiche. La corrispondenza può stare a sé. Nel caso di Ferrara una classificazione opportuna potrebbe essere: I) Prefazioni ed altre memorie di teoria e di storia economica statistica e finanziaria; II) Lezioni e prolusioni, stampate, litografate e manoscritte; III) Relazioni e discorsi parlamentari, ministeriali ed elettorali; IV) Minori articoli su giornali quotidiani o settimanali, politici economici varii, ai quali potrebbe aggiungersi il carteggio tra il Ferrara ed i suoi corrispondenti. Le lezioni e prolusioni dovrebbero seguire le prefazioni e memorie, perché nell’ordine ideologico ne sono la derivazione. In ognuna delle quattro parti l’ordine dovrebbe essere, a costo di qualche ripetizione e di qualche apparente incongruenza – i “principii” messi in coda a qualche “applicazione” -, rigorosamente ed esclusivamente quello cronologico.

Bisogna aggiungere introduzioni, note, illustrazioni ai testi pubblicati? Sì, se si tratta di introduzioni e note atte ad illustrare il testo (sue edizioni, suoi manoscritti, autografi o non, e controversie relative; relazioni anche ideologiche del testo pubblicato con altri dello stesso o di altri autori, illustrazioni del “significato” delle tesi sostenute dall’autore o delle parole e frasi da lui adottate); no, assolutamente no, se si tratta di un attaccapanni a cui appendere una teoria, anche magnifica, del curatore, o un’indagine storica propria intorno ad un argomento suppergiù già trattato dall’autore. Il curatore delle Opera omnia di Ferrara avrebbe già così grandi benemerenze da acquistare in questo campo, che nulla guadagnerebbe, ad es. se volesse aggiungere alla illustrazione dei testi anche la ricostruzione critica del pensiero teorico di lui. Non che Ferrara non lo meriti, e che non sia urgente di studiare oggi quel che è vivo e quel che è morto del suo pensiero. Ma non è ufficio del curatore, come tale, della edizione che sarebbe doveroso consacrar all’economista italiano principe del secolo XIX.

Tuttociò è elementare per i curatori di classici letterari e storici; e chi fa diversamente è guardato con compatimento, come uno che fa un mestiere diverso dal suo. C’è qualche buona ragione perché gli economisti debbano seguire altre regole? Se interrogo Schelle per Turgot, Cannan per Smith, Harsin per Dutot e per Law, De Bernardi per Dupuit, mi pare rispondano di no. Io stesso, pubblicando taluni scritti inediti di Verri ed ora di Malestroit, ho cercato di seguire le regole pacifiche tra i filologi. E poiché, a proposito di Malestroit, mi vennero fatte certe considerazioni sulla moneta immaginaria, per non intrufolarle nella introduzione al volume, le pubblicai a parte in questo medesimo fascicolo della rivista.

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