Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo I – La formazione dell’idea

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/12/1899

Capitolo I

La formazione dell’idea

Un principe mercante. Studio sull’espansione coloniale italiana, Ed. F.lli Bocca, Torino, 1900, pp. 21-28

 

 

 

Gli uomini i quali intendono aprire nuove strade alle scienze od alle arti sono di solito dei malcontenti. Essi disdegnano di seguire le vie già battute e conosciute e la loro mente è come un vulcano in continua eruzione. Le idee più svariate ed i disegni più nuovi ed apparentemente strani pel volgo, combattono nel cervello degli uomini innovatori una guerra continua, senza tregua. Ma non tutte le intime battaglie di idee meritano di essere ricordate. Di molte sparì persino il ricordo; esercizi logici destinati a divertire la mente che le creava per poi distruggerle, quelle idee rimasero sterili ed infeconde. Il mondo ricorda le battaglie d’idee che hanno condotto ad un risultato grande: un libro, un quadro, una statua, un tempio, un nuovo ordinamento sociale, una vittoria cruenta o pacifica.

 

 

Non sempre gli uomini i quali hanno compiuto un’opera grande, ci hanno lasciato in retaggio anche la descrizione del modo con cui la loro mente giunse ad intuire, a concepire ed a compiere l’idea geniale che rese celebre e venerato il loro nome. Allora gli storici devono compiere un’opera di ricostruzione faticosa la quale, pur troppo, spesso è coronata dall’insuccesso per la mancanza dei dati o per la insufficienza della loro mente a comprendere quelli esistenti. Perciò le autobiografie, le vite scritte dagli amici e conoscenti intimi, quantunque spesso, unilaterali o menzognere o reticenti hanno un grande pregio per gli studiosi della vita e delle opere degli uomini grandi.

 

 

Non altrimenti accadde nello studio delle battaglie e delle vittorie nel campo delle industrie e dei commerci. Non si conquista un mercato lontano e non si fa sorgere dal nulla un grandioso organismo produttivo se a capo dell’impresa non sta un uomo il quale, a guisa di un capitano di eserciti, non abbia lentamente elaborato nella propria mente tutto un complesso piano logistico, tattico e strategico, e non lo abbia saputo condurre a termine attraverso a numerosi ostacoli, alla diffidenza degli amici ed alla opposizione degli avversari. Per fortuna i documenti pubblicati in appendice e gli altri ricordati nella introduzione ci permettono di seguire dall’umile nascita alla gloriosa vittoria il filo delle idee e la trama delle opere genialmente concepite e coraggiosamente compiute da uno dei più tipici rappresentanti, nell’Italia nuova, di quella razza vigorosa di «principi mercanti» che creò la potenza e la ricchezza di Genova, di Firenze e di Venezia.

 

 

Enrico Dell’Acqua, industriale di Busto Arsizio, era insofferente dei guadagni cospicui, ma consuetudinari, sicuri ma poco faticosi che gli erano largiti dalla sua fabbrica di tessuti e dal commercio all’ingrosso che egli esercitava in Italia. E concepì un piano che nel 1885 pareva temerario: esportare all’estero i prodotti di quella industria tessile cotoniera, che appena allora aveva cominciato, bambina, a muovere i primi passi, e non ancora protetta dalle accresciute tariffe doganali del 1887, male si reggeva contro la concorrenza estera sullo stesso mercato nazionale. A questo egli era condotto da una convinzione profonda e tenace: la convinzione radicata in lui da lunghi studi e raffronti, che l’Italia cotoniera non solo poteva stare a paro ma andava innanzi, per l’eccellenza dei suoi prodotti, alla Germania ed all’Inghilterra medesima, la grande fornitrice del mondo intiero.

 

 

Per esportare fuori dell’Italia, bisognava prima scegliere un mercato; ed impiantarvisi solidamente con alcuni prodotti di grande smercio, per allargare a poco a poco la cerchia delle operazioni, adattando i prodotti delle fabbriche italiane ai gusti della piazza e nel tempo stesso trasformando le consuetudini del luogo in un senso favorevole alle provenienze dall’Italia.

 

 

The trade follows the flag; il traffico va dietro alla bandiera; è una massima che ha guidato molti commercianti alla fortuna e molti popoli alle conquiste coloniali intraprese per indurre la marina mercantile a seguire la via percorsa con successo dalla marina da guerra. Ma è una massima molte volte fallace; e per l’Italia foriera di sventure a quegli ingenui i quali avessero sperato di iniziare estesi traffici colle inospitali terre, abitate da barbari poco vestiti ed insensibili ai bisogni della civiltà moderna, dove sventolava la bandiera italiana. Enrico Dell’Acqua non pensò dunque all’Africa, o se ne ritrasse dopo alcuni primi e poco fortunati tentativi. Egli alla massima antica sostituì un’altra: «le correnti del traffico devono seguire le correnti della emigrazione dall’Italia. Le colonie libere e non le officiali devono attirare i commercianti desiderosi di creare uno sbocco ai prodotti dell’industria della madre patria».

 

 

L’idea era brillata alla mente dell’uomo che sognava così di unire coi vincoli indissolubili degli interessi materiali l’Italia coi nuclei dei suoi connazionali sparsi in tutti i paesi del mondo. Era però soltanto un’idea grezza, un blocco informe che doveva essere finemente lavorato prima di potersi convertire in una norma che fosse impulso efficace all’azione. Egli vi giunse con un processo di eliminazione.

 

 

Dovevansi forse iniziare relazioni colle colonie temporanee e fluttuanti dei braccianti, muratori, scalpellini, merciai e suonatori ambulanti sparpagliati in tutta l’Europa per alcuni mesi dell’anno, o dediti ai lavori ferroviari nei Balcani, nel Caucaso o nell’Asia Minore? Era questa una base troppo poco solida per poter erigere un edificio duraturo; gli emigranti temporanei vanno fuori del loro paese collo scopo di risparmiare la maggior parte dei loro guadagni e di comprare la minor quantità di roba possibile. Degli avari e degli astinenti i commercianti non sanno che farsene. E poi il posto era già preso; a soddisfare i bisogni ordinari e comuni (che sono anche i soli) degli emigranti temporanei basta largamente il piccolo commercio sorretto dalla industria e dall’agricoltura locale.

 

 

Fuori d’Europa, l’America è l’unico continente dove si accentrino grandi masse di Italiani. Altrove, come nell’Africa e nell’Asia, vi sono nuclei abbastanza compatti ed agiati di nostri connazionali; ma sono nuclei vecchi, in gran parte composti di persone dedite esse stesse al piccolo od al grande traffico, aventi proprie consuetudini di vita e di relazioni economiche, risalenti ancora talvolta ai secoli scorsi. Nell’America stessa è d’uopo distinguere profondamente fra paese e paese. Nell’America del nord e sovratutto negli Stati Uniti sono numerosi gli italiani, ma sono come annegati e dispersi nella massa variopinta di un popolo di 70 milioni. Deboli ed ignoranti, i nostri connazionali sono sfruttati a sangue da dei vampiri che giovandosi della loro conoscenza delle lingue inglese ed italiana, assorbono una parte troppo cospicua dei guadagni dell’operaio. A Nuova York il quartiere italiano è sinonimo di povertà e di immondizie.

 

 

In mezzo a costoro il commerciante italiano non poteva lavorare, quando non si fosse rassegnato ad aprire bottega di rivendita al minuto e di strozzinaggio sulle senserie, sui cambi di moneta e sulle rimesse di risparmi alla madre patria. Ma all’ufficio di rivenditore al minuto e di usuraio si adatta la gente mediocre ed avida, non chi ha in mente un disegno bello e nuovo.

 

 

Negli Stati dell’interno, sovratutto nei distretti industriali e minerari sono numerosi gli italiani; ma diffusi in mezzo alla popolazione operaia anglosassone, tendono ad assumerne il tenor di vita e le consuetudini. Se i padri conservano il ricordo della madre patria e l’uso famigliare del dialetto natio, i figli diventano americani e disprezzano il paese d’origine, che i fogli locali descrivono come un paese di straccioni. Chi ha onta della madre patria, difficilmente ne compra i prodotti, e tenta di mantenere relazioni commerciali con essa. Di più, il mercato era già saturo anche qui dall’industria nazionale; e gli alti dazi protettori impedivano all’Europa di lottare vantaggiosamente colle industrie locali. Gli Italiani avrebbero potuto importare maccheroni e paste, che gli Americani non mangiano; ma subito le tariffe rialzate indussero i più intraprendenti dei nostri connazionali ad impiantare per il consumo degli immigrati nostri apposite fabbriche sul territorio americano. Avremmo anche potuto importare del vino, di cui gli italiani all’estero sentono acerbamente la mancanza. Lo vietarono i dazi; e per fortuna, di questa condizione di cose seppero giovarsi, a preferenza delle altre nazioni, alcuni coraggiosi piemontesi che impiantarono nella California la fiorentissima colonia Asti la quale fornisce vini buoni ed a modico prezzo a molte regioni degli Stati Uniti[1]. Se è da sperarsi che l’educazione del gusto americano operata da questi nostri connazionali faccia in parte abbandonare l’uso della birra e degli spiritosi ed accresca a poco a poco la domanda anche dei vini genuini italiani, sarebbe stato follia iniziare allora una forte esportazione dall’Italia di vini che gli Americani non erano usati a consumare e che gli Italiani per il caro prezzo non potevano comperare.

 

 

Rimaneva dunque soltanto, dopo compiute le successive eliminazioni, l’America del Sud. E su questa fissò definitivamente il pensiero Enrico Dell’Acqua, come un generale sceglie sulla carta il punto migliore per dar battaglia, o la piazza, la cui caduta segnerà la conquista di una vasta regione. Gli mancavano però tutte le cognizioni necessarie ad intraprendere la conquista di un mercato così vasto. I libri, a cui egli si rivolse per aiuto, gli fornirono con gran lusso nozioni sulla altimetria delle varie regioni, sulla direzione delle giogaie, sul corso dei fiumi; ma non vi trovò nulla di quanto gli premeva di sapere. La sua fede non venne meno. Egli aveva qualche notizia sicura sull’America meridionale, notizia che gli era di sprone e di incoraggiamento nella sua impresa. Sapeva ad esempio che quelli erano paesi dediti alla pastorizia ed all’agricoltura e dipendenti perciò da altre nazioni per i prodotti industriali. Sapeva che si trattava di paesi nuovi, e ne deduceva che, come in tutti i paesi nuovi, qualche nazione doveva esercitarvi, per diritto di priorità nella conquista commerciale, una specie di monopolio e tenervi molto alti i prezzi. Sarebbe bastata una propaganda attiva ed intelligente per fare crollare questo monopolio riposante sulle basi di creta della ignoranza e della scarsa iniziativa delle nazioni concorrenti. E nella sua propaganda sapeva che sarebbe stato aiutato da due fattori importantissimi: la natura del suo commercio e la composizione della clientela sud americana. Egli voleva importare nell’America non oggetti di lusso, che richieggono un enorme capitale circolante, sono fonte di gravi rischi, e devono essere di una provenienza rinomata e conosciuta, ma oggetti di grande consumo, di poco prezzo ed in ispecie, articoli di cotone, provenienti da fabbriche italiane. Ora, di una numerosa clientela adatta ad assorbire tessuti di cotone italiani egli intuiva l’esistenza nell’Argentina e nel Brasile.

 

 

Le notizie dei giornali, le statistiche ufficiali, le relazioni dei viaggiatori parlavano dell’emigrazione di contadini e di braccianti italiani nell’America meridionale, come di un fiume immenso che si allarga su una sterminata pianura a fecondarla col suo limo prezioso. Laggiù, doveano esservi delle provincie intiere abitate e colonizzate da italiani; ed ivi il Dell’Acqua sognava di compiere i suoi maggiori trionfi. Molti furono i mezzi immaginati, vagliati ed abbandonati per riescire a precisare queste notizie vaghe e confuse. Finalmente, in mancanza di meglio, egli si decise a spedire una circolare a tutti i capi degli Uffici postali dell’America del Sud, con preghiera di rispondere alle domande scritte sulla circolare. Nelle circolari si chiedeva il numero degli abitanti della città o borgata, il clima, i prodotti del luogo, il mercato di spaccio, i mezzi di trasporto, il porto più vicino per le comunicazioni con l’Europa, le banche esistenti, il numero dei commercianti di tessuti, di generi alimentari, di prodotti del paese, di grossisti e di rivenditori al minuto, le case esportatrici, e il numero degli Italiani viventi nel paese. Le circolari furono spedite nel marzo del 1886 e le risposte cominciarono a piovere nel giugno.

 

 

Enrico Dell’Acqua comprese allora quanto la sua intuizione fosse stata giusta e geniale.

 

 

L’America latina era un vasto campo aperto alla colonizzazione italiana; e gli italiani vi si erano infiltrati, dove più e dove meno, dappertutto. Procuriamo anche noi di rappresentarci dinanzi alla mente, in un rapido quadro, la nuova Italia sorta nell’America latina, il cui studio decise il Dell’Acqua a passare dallo stadio della intuizione e della ideazione allo stadio dell’attuazione pratica. Dopo l’esame della formazione dell’idea, lo studio dell’ambiente in cui la idea dovrà trasformarsi in azione. Verrà poi, in seguito, il racconto degli inizi faticosi, delle lotte e delle cadute sofferte e del trionfo finale che trasformò il modesto industriale di Busto Arsizio in uno dei maggiori «principi mercanti» e «capitani dell’industria» dell’America latina.

 

 



[1] Su questa fiorentissima colonia amiamo riportare, perché grandemente istruttiva, la motivazione al Diploma d’onore conferitole dalla Giuria dell’Esposizione di Torino (cfr. pag. 9 dell’Elenco dei premi conferiti agli espositori della Divisione IX, Italiani all’estero, Torino, Pozzo 1898).

«Colonia Agricola Italo Svizzera di Asti (California).

Quest’azienda dovuta ad iniziativa di capitali italiani, anzi piemontesi per la massima parte, è per l’eccellenza sua, tecnica e commerciale, una delle dimostrazioni più insigni dell’operosità dei nostri connazionali all’estero.

Costituitasi nel 1881, con un capitale nominale di Dollari 300.000, stati versati in progresso di tempo, questa Società creò nel contado di Sonoma un centro agricolo cui impose il nome di Asti a ricordo ed onore della patria dei fondatori.

Oggidì la Colonia possiede: ad Asti 700 ettari piantati a vigna con una cantina della capacità di ettolitri 120.000; a Madera (nel contado omonimo) altri 300 ettari di vigna destinata alla produzione di vini dolci o da dessert, con cantina della capacità di ettolitri 80.000; due distillerie capaci di distillare ogni 24 ore oltre 1000 ettolitri di vino ciascuna, nonché una distilleria per le vinacce e un grandioso deposito a San Francisco, della capacità di 40.000 ettolitri e con perfetto impianto per imbottigliamento.

Notevoli per importanza e abilità di disposizioni un tino in cemento della capacità di 20.000 ettolitri e i vastissimi serbatoi della capacità media di 200.000 bottiglie bordolesi che assicurano la uniformità dei vini per lo smercio.

La Colonia produce ben 34 qualità di vini, cioè i tipi più noti di Spagna, Francia, Germania ed Italia (Barolo, Barbera, tipo Chianti, Marsala, Moscato spumante) cognac e grappa.

Della bontà di questi prodotti presentati in modo perfetto, fanno fede i Diplomi d’onore e le medaglie d’oro riportate alle Esposizioni Colombiane, di Dublino, Chicago, S. Francisco, Bordeaux (1895) e quello conseguito testé nella nostra Asti.

Nella vendemmia 1897 che fu in verità eccezionale per la California, la Colonia Asti convertì oltre 14,000 tonnellate d’uva in circa 2.000.000 di galloni di vino.

Essa, oltre il prodotto dei proprii vigneti, può, coi suoi impianti, manipolare grandi quantità di uve che acquista nella circostante regione, lavorare e smerciare buona parte dei vini dei circostanti produttori, e rappresenta così 1/6 della totale produzione enologica della California.

Né meno degna di lode è l’organizzazione commerciale, perché la Colonia ha 9 Agenzie negli Stati Uniti, 1 nel Messico, 1 nelle Repubbliche dell’America Centrale, 1 nelle isole Sandwich, 2 nella Gran Bretagna, 1 a Ginevra, 2 al Giappone, 1 a Shanghai, 1 a Sidney, ed ha saputo in una lunga e coraggiosa lotta tener testa a monopolizzatori i quali aspiravano ad accapparrare a prezzi vilissimi tutta la produzione vinicola della California, rivendendola poi al pubblico a prezzi troppo alti e dannosi perciò alla diffusione del consumo del vino.

La direzione sì tecnica che amministrativa è stata opera d’italiani, fra cui ricordiamo a titolo il presidente C.P. Rossi, il vice presidente dottor G. Ollino, il dottor P. De Vecchi, il segretario A. Sbarbaro.

Italiano è il personale dirigente ed italiani per la massima parte i coltivatori. La Colonia, anziché criteri meramente speculativi, ha avuto in mira il creare e assodare un’azienda importante e vitale, come è provato dal fatto che dopo la fondazione (1881) solo negli ultimi 3 anni fu distribuito agli azionisti un tenue interesse del 3%, rivolgendo la massima parte degli utili ad estendere e rafforzare l’azienda.

Circa la concorrenza che la Asti possa fare ai vini italiani, la Giuria richiama quanto ha svolto nelle premesse generali della sua Relazione e si limita ad assodare che, mercé gli sforzi dei nostri connazionali, non solo l’uso del vino va facendosi strada nel vastissimo mercato nord americano, o meglio ancora anglosassone, ma per essi soltanto sono diventati conosciuti, accanto ai vini di Francia, del Reno e della Penisola iberica i più reputati tipi italiani (Barolo, ecc.), giovandosi così anche al consumo ed all’esportazione dei vini oriundi d’Italia.

Nell’assegnare alla Colonia Asti la più alta ricompensa, la Giuria esprime il voto che così luminoso esempio di spirito d’unione, di costanza, di capacità organizzatrice trovi imitatori ed emuli nella Patria italiana».

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