Cambio e bilancia commerciale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/08/1925
Cambio e bilancia commerciale
«Corriere della Sera», 7 agosto 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 405-409
I sofismi monetari sono come le ciliege: uno tira l’altro. Anche gli zuccherieri si sono messi della partita e pronosticano finimondi se non si fa cessare il cosidetto esodo dell’oro per pagare i 200 milioni circa di lire carta di zucchero importato l’anno scorso. E vi ha chi annuncia la riduzione dei cambi, e chissà! fors’anco il ritorno della lira alla pari quando avremo cessato di importare frumento ed ogni altra derrata o merce producibile in paese, limitandoci ad importare le materie prime necessarie all’industria. Chi si fa banditore di queste belle teorie per lo più invoca altresì l’aumento della circolazione allo scopo di promuovere l’incremento della produzione nazionale e propugna dazi protettivi o proibitivi per vietare l’invasione delle merci straniere.
Non si può pretendere che coloro, i quali così divulgano spropositi, conoscano l’abicì della scienza economica; ché questa sarebbe pretesa esagerata. È naturale che nessuno parli fisica o chimica o matematica, pur essendo «pratico» di fatti di cui quelle scienze danno la spiegazione. Un certo rispetto per le scienze fisiche ed esatte si è ormai imposto; ed ognuno distingue in quelle materie i cerretani dagli scienziati. Il medesimo rispetto non esiste per le scienze morali e principalmente economiche, di cui tutti dissertano, senza essersi presa la minima briga di indagare se quei fatti non siano stati altra volta od infinite volte esaminati, discussi, approfonditi. Egli è che i fatti economici toccano la borsa dei singoli; e la verità, quando contrasta coll’interesse, dispiace ed è trattata come «teoria astratta», come «dogma», come «dottrinarismo»; quando non capita peggio. Lo studioso, il quale denuncia un pericolo certo indiscutibile, può reputarsi fortunato di cavarsela con l’imputazione di aver provocato lui quel danno, che egli si era industriato, meglio che poteva, ad allontanare.
Bisogna rassegnarsi e seguitare a compiere il proprio dovere, che è di dire che la verità è la verità e l’errore è errore; che il paese si danneggia commettendo e non denunciando l’errore; che l’errore è conosciuto subito come tale dagli interessati, i quali ne traggono le dannose fatali conseguenze; laddove tutti apprezzano la verità e ne ricavano immediatamente le benefiche illazioni.
Coloro i quali affermano che importa, per risanare la moneta, ridurre al minimo la importazione dall’estero, dimenticano molte verità acquisite:
- che le merci importate dall’estero non si pagano con oro, né con moneta cartacea; non con l’oro, di cui nessun paese possiede una scorta bastevole a pagare gli acquisti all’estero neppure per un anno e per lo più neppure per due o tre mesi; non con la carta moneta di cui all’estero nessuno sa cosa farsi;
- che le importazioni di merci si pagano con le esportazioni di merci, con i noli della marina mercantile, con le rimesse degli emigranti, con quelle dei forestieri, con gli interessi dei capitali impiegati all’estero. Eccezionalmente, si pagano con debiti; ma se debiti non si fanno, è evidente che non esiste sbilancio. Commercialmente, il traffico della nazione A con le nazioni B, C, D, ecc. ecc. si fa tra individui di A con individui di B, C, D, ecc. Non esiste traffico tra nazioni o tra stati; esiste traffico tra individui appartenenti a nazioni o stati diversi. Le eccezioni della Russia attuale, o degli stati belligeranti durante la guerra, quando davvero gli stati, come tali, commerciavano tra loro, pongono in rilievo che normalmente il commercio è tra individui. Or, come può esistere sbilancio della nazione, quando ognuno degli individui appartenenti a quella nazione, dopo aver comprato merci estere, le pagò e, presumibilmente, le aveva comprate e pagate perché riteneva di aver interesse a far ciò? In qual modo misterioso la nazione si sarebbe indebitata, quando nessuno dei suoi componenti sa di aver incontrato debiti? Ed in quale più che misteriosissimo modo, se ognuno pagò, la carta moneta del paese poté, per causa del pagamento – avvenuto, ripeto, con l’esportare altre merci, con il consegnare rimesse di emigranti od assegni bancari dei forestieri ecc. ecc. – deprezzarsi? Quale sarebbe la catena logica per cui il fatto di un pagamento avvenuto in maniere normalissime avrebbe potuto provocare un fenomeno così diverso come il deprezzamento della carta moneta circolante nel paese?
Dico di più. Supponiamo anche che, per importare, i singoli si indebitino. Da ciò non discende ancora la conseguenza che la carta moneta debba deprezzare. Sia un paese il quale in un dato anno, quando il cambio della sua lira o franco o corona è a 100 per ogni lira sterlina, importi 20 miliardi di merci ed esporti solo 15 miliardi di merci visibili ed invisibili (così si chiamano le rimesse degli emigranti, ecc.). Al cambio di 100, ciò vuol dire che le importazioni sono di 200 milioni di sterline e le esportazioni di 150 milioni. Rimangono 50 milioni di lire sterline in aria da pagare.
Una delle due o i singoli i quali hanno importato i 50 milioni di sterline di più godono credito e riescono a farsi concedere dai venditori esteri o da banchieri o da terzi, pure esteri, direttamente o per mezzo di intermediari, prestiti per l’ammontare di 50 milioni; ed in tal caso, per quell’anno, nel bilancio internazionale esiste il pareggio. Sui 200 milioni di sterline di debiti per merci importate se ne debbono pagare solo 150; perché gli altri 50 milioni sono acquistati a credito; ed ai 150 milioni che si pagano bastano i 150 milioni di sterline di crediti per merci visibili ed invisibili vendute. Perché mai, esistendo il pareggio, la carta moneta interna dovrebbe deprezzare? Forse perché certi individui hanno comprato 50 milioni di sterline di merci a credito? Ma ciò è privo di senso; perché tanto varrebbe dire che la firma di un negoziante, il quale gode tanto credito che tutti sono contenti di fornirgli merci contro promessa di pagamento futuro, si svaluti per il fatto del credito goduto. Nel commercio, e principalmente nel commercio internazionale, gode credito chi lo merita. Trova merci a credito colui per cui tale acquisto a credito è ritenuto ed è cagione di forza, di guadagno e quindi di capacità di rimborsare il prestito ricevuto. Se ciò è vero per ognuno dei nazionali che sono riusciti a comperare merci a credito; se tal fatto è per i singoli cagione di stima e di futuro arricchimento in qual modo il biglietto il quale riassume in sé il credito della nazione, potrebbe deprezzare?
Ovvero i singoli acquisitori di merci all’estero non trovano credito per i 50 milioni di sterline di merci che hanno acquistato a vuoto, senza contropartita di esportazioni visibili od invisibili; ed in tal caso io dico che il problema non esiste. Non esiste per il semplice intuitivo ovvio volgarissimo motivo che colui il quale non può pagare per contanti e neppure ha credito per acquistare a respiro, non può comperare. Nessuno gli consegna neppure un chilogrammo della merce la più vile.
A nessuno verrebbe in mente di immaginare una fantasia così comicamente assurda quanto è uno sbilancio di pagamenti non coperto da aperture di credito, se, parlando di commercio internazionale, non si facessero confusioni terribili tra individui e nazioni; e se non si creassero figure immaginarie di nazioni in lotta e in commercio tra di loro.
Non andiamo dunque ricercando il miglioramento della lira da una causa che non lo può dare. Se il ribasso del cambio dovesse essere la conseguenza di una diminuzione delle importazioni, dovremmo aspettare fino al giorno del giudizio universale. Ché, io spero, l’Italia fino a quel giorno vorrà continuare a progredire economicamente. Progresso economico in un paese di antica civiltà vuol dire eccedenza crescente delle importazioni sulle esportazioni visibili.
Tutti i grandi paesi moderni soffrono, secondo il linguaggio volgare, godono, secondo la terminologia corretta, di questa eccedenza, cosidetta passiva. Ed invero eccedenza passiva vuol dire: ricevere merci estere senza dare in cambio merci nazionali; riceverle in segno di riconoscimento delle nostre bellezze naturali o delle attrattive artificiali create in paese per i forestieri; riceverle in pagamento dei servigi resi dalla bandiera nazionale in tutti i mari del mondo; riceverle in pagamento degli interessi dovutici sui capitali esportati nei diversi paesi del mondo. È segno di forza ricevere merci straniere in cambio di merci nazionali fabbricate con abilità e sapienza. Ma è anche segno di forza riceverle senza dar oggi nulla in cambio – interessi di capitali impiegati all’estero – o consentendo graziosamente la contemplazione delle bellezze del nostro suolo o dei capolavori creati dalla nostra gente.
Per quanto io sappia, esiste una sola eccezione alla regola discorsa sopra: ed è quella delle merci acquistate a credito dallo stato per scopi non riproduttivi. È il caso dei debiti interalleati, contratti per ragioni sacre, e dipendenti sostanzialmente da acquisti di merci con promessa di pagamento futuro. Il soddisfacimento, sebbene non dovuto, di questa promessa pende sul nostro capo, minaccia il conseguito pareggio del bilancio dello stato, rende difficile la trasformazione del debito fluttuante e quindi mantiene alta la cifra dei buoni del tesoro brevi, che sono veri biglietti in potenza. Ecco scoperta, in questo caso, la catena logica che lega l’acquisto di merci estere con il deprezzamento della carta; ma nella catena uno degli anelli, indispensabile anello, è la minaccia di aumento della carta-moneta circolante. Questo è il punto finale di ogni discorso monetario: tengasi ferma la circolazione e la lira alla lunga non potrà non migliorare. Si tolgano i freni ed ogni limite al peggioramento scomparirà.