Aspettando il prossimo decreto-legge
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/01/1922
Aspettando il prossimo decreto-legge
«Corriere della Sera», 10 gennaio 1922
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 510-514
Quale sarà il nuovo decreto legge che il dissesto della Banca italiana di sconto farà pubblicare sulla «Gazzetta ufficiale»? Anche se si deve dar lode ai ministri per i decreti legge che non firmano – a tanto siamo ridotti! – l’inquietudine non è fuor di posto, quando si rifletta alle cento proposte che ogni giorno vengono fuori dai soliti progettisti ed al pericolo che il clamore pubblico sia tale che ai ministri paia atto coraggioso cedere soltanto per una di quelle cento. Il grande vantaggio del sistema di legiferazione per mezzo del parlamento sta nell’ostruzionismo contro le leggi nuove. Fanno ridere quei pubblicisti, i quali si lamentano che la camera non lavori sul serio e per «lavorare sul serio» intendono «discutere e votare leggi nuove». Che sia lamentevole che non si discutano a fondo i bilanci e non si sorvegli l’andamento ordinario della pubblica amministrazione, è vero; ed ogni più aspra rampogna non sarà mai bastevole. Ma non lamentiamoci, per carità, che la camera non discuta e non voti abbastanza nuove leggi! Il suo compito principalissimo non è forse appunto di opporre l’inerzia dell’ostruzionismo parlamentare alle leggi nuove? Non è questo un merito indiscutibile, tale da farle perdonare molte sue colpe? Se la camera, sul serio, discutesse tutte le proposte di legge che l’opinione pubblica, ogni giorno sovreccitata da nuovi avvenimenti lieti o dolorosi, da nuove speranze di bene o timori di mali, ogni giorno reclama a gran voce, la vita sociale sarebbe resa impossibile. Diventerebbe permanente lo stato di cose stravagante iniziatosi durante la guerra e proseguito dopo l’armistizio, per cui, grazie al succedersi dei decreti-legge, non si sa più a qual norma attenersi; l’onesto cittadino in piena buona fede può essere cacciato in prigione, vita ed averi sono in balia di un qualsiasi impiegato romano o delle bizze di chiunque sappia tener la penna in mano ed invochi il suo bravo decreto per riparare ai malanni sociali e far rigar diritta l’umanità.
Per fortuna, se non si possono far decreti-legge, c’è la camera pronta ad insabbiare tutta questa roba. La proposta di legge è fatta, passa alle commissioni, ivi si addormenta e riposa i sonni del giusto. Frattanto, l’attenzione del pubblico è rivolta ad un altro fattaccio; e, dimentico delle proposte antiche, il pubblico o, meglio, i progettisti ed i salvatori del paese chiedono altre leggi. Ed il governo presenta nuovi disegni che seppelliscono quelli precedenti sotto una mora pesantissima. Quando, dopo mesi ed anni, i primi progetti ritornano alla luce, tutti gridano: «Ma che sciocchezza aveva proposto quel ministro, ora, per fortuna sua, caduto! Ben altro ci vuole! Il progetto buono è quello nuovo, non quell’antico, compilato da gente impervia alle necessità dell’ora che volge, alle trasformazioni profonde che la vita contemporanea e l’economia moderna subiscono febbrilmente di minuto in minuto ecc. ecc.». Frattanto, quel che è importante, le improvvisazioni, le immaturità cadono e sono dimenticate. Alla ribalta della pubblica discussione arrivano alcuni pochissimi disegni di legge; e di questi metà si arresta per via; e dell’altra metà una parte discreta si addormenta negli uffici del senato. Alla fine, solo una smilza proporzione delle proposte, per un giorno proclamate urgentissime e salvatrici dal clamore dei giornali e dei circoli politici, sempre agitati e mossi dal bisogno di novità inutili, riesce a penetrare nella raccolta ufficiale delle leggi. Guai a quel paese dove tale non fosse la vicenda legislativa! Esso cadrebbe ben presto preda dell’anarchia; nessuno potrebbe fare più calcoli sull’avvenire; si vivrebbe di giorno in giorno; la miseria travolgendo i ricchi e la disoccupazione affamando i poveri.
L’esperienza dovrebbe aver fatto persuasi, anche nell’occasione presente, i progettisti ed i ministri del danno di ricorrere a leggi speciali per risolvere un caso particolare. Dopo i primi giorni di attesa benevola, sono venuti fuori i competenti a giudicare severamente l’istituto della moratoria. Prima il prof. Sraffa e poi il prof. Navarrini ricordarono agli smemorati che la moratoria era stata a giusta ragione ammazzata, perché mai come ai suoi tempi truffe così sfacciate i commercianti in stato di fallimento avevano ordito rammostrando prima al tribunale un bilancio in pareggio e poi, dopo ottenuto di non pagare per sei mesi od un anno, mettendo alla disperazione i creditori con l’offerta di percentuali minime, sotto la minaccia di un fallimento disastroso, in caso di resistenza. Ed io non avevo ancora finito di scrivere sui danni che al nostro credito all’estero aveva recata la risurrezione di un istituto che ha un così brutto nome, che già ricevevo da un noto banchiere italiano all’estero copia di un telegramma da lui inviato al ministro del tesoro, in cui si deprecano «gli effetti disastrosi che avrebbe per il buon nome dell’Italia all’estero l’estensione dell’istituto della moratoria alle società commerciali, specie poi a quelle già da tempo notoriamente insolventi. L’intervento legislativo eccezionale inteso a sottrarre simili situazioni alle sanzioni della legge comune, avrebbe per conseguenza la sicura distruzione dell’economia italiana che ha ineluttabile bisogno dell’aiuto estero». Sono gravi parole e preoccupazioni fondate, le quali spero saranno meditate a fondo dal governo.
La parola d’ordine dovrebbe essere: bando alle leggi d’occasione! Si applichi severamente la legge vigente. Solo i deboli e gli inetti hanno bisogno di provvedimenti eccezionali per far giustizia. Certo, occorre un po’ di coraggio per resistere alle prime impressioni od alla vociferazione degli irresponsabili. Mi pare – tanto per rispondere con una ipotesi alla domanda posta in capo al presente articolo – di sentire lo scoppio di indignazione con cui molti pubblicisti hanno salutato la notizia secondo cui il fisco ha rifiutato nettamente di comunicare le cifre contenute nella denuncia del patrimonio fatta, a suo tempo, agli effetti dell’imposta patrimoniale, dagli amministratori della Banca italiana di sconto, senza un ordine espresso dell’autorità giudiziaria. Per poco non si lessero titoli come questo: «Il fisco complice degli svaligiatori della Banca di sconto».
In verità, il fisco ha fatto benissimo a rifiutare la chiesta comunicazione ed io mi auguro che mantenga il netto rifiuto, salvo l’ordine espresso e tassativo dell’autorità giudiziaria ed ai soli fini del sequestro del patrimonio degli amministratori, senza che della denuncia patrimoniale sia data notizia al pubblico. So bene, così scrivendo, di andar contro ad una impressione volgare corrente nel nostro paese. Duolmi che all’impressione volgare non abbia saputo sottrarsi neppure il partito nazionale fascista quando ha voluto porre nel suo programma i «capisaldi di politica finanziaria e di ricostruzione economica del paese». Quei «capisaldi» sono uno sforzo, degno di lode, di opporre affermazioni crude ed antipopolaresche alle vuote accozzaglie di luoghi comuni di cui fanno, unanimi, pompa i partiti cosidetti liberali, popolari, socialisti e comunisti. Sono quei «capisaldi» nient’altro che i vecchi principii immortali del liberalismo; ma fa sempre piacere, ad ogni modo, di vederli ripetuti da giovani baldanzosi. Eppure, anche questi giovani hanno reso omaggio ad uno dei peggiori ferravecchi del retoricume democratico, dichiarando di sperare la ricostruzione finanziaria del paese anche «dall’obbligo della pubblicità sui redditi imponibili e sui valori successori al fine di rendere possibile un controllo sugli obblighi finanziari di tutti i cittadini verso lo stato». Nella «relazione della commissione parlamentare per l’applicazione della legge sull’avocazione dei profitti di guerra allo stato» si leggono le ragioni per cui la pubblicità delle denunce e degli accertamenti tributari è pura retorica perniciosa alla finanza. Noi abbiamo in Italia da anni quella pubblicità e ne ottenemmo effetti dannosi. Essa servì solo ai contribuenti per cercare termini di confronto a sé favorevoli e per ottenere «minori» tassazioni. Essa ha instaurato il brutto andazzo di procedere negli accertamenti «per confronti» e non secondo la verità, la quale è individuale. Nei paesi dove le imposte sul reddito globale e sul patrimonio funzionano bene (Inghilterra e Stati uniti) od hanno funzionato benissimo (Germania) il segreto è di rigore. La finanza in quei paesi, in cui non si hanno per la testa stolte fisime di controllo del pubblico, ha presto imparato che se molto si vuole ottenere dai contribuenti, bisogna non mettere i loro affari in piazza, non screditarli, non additarli all’invidia ed all’animosità universale. Se si vuole che il contribuente confessi la verità o si avvicini a questa, occorre garantirlo contro il pericolo che la confessione, diventando pubblica, lo metta in dissapore con la moglie, i figli, i parenti e gli amici, a cui egli può avere mille ragioni, oneste e doverose, per tener celata la vera entità del suo patrimonio, ovvero gli cagioni imbarazzi di fronte ai concorrenti, agli impiegati, agli operai, ai banchieri sovventori. Egli può aver debiti che non ama far sapere, può aver subito rovesci che non vuole divulgare. In Inghilterra si è andati tant’oltre nella tutela religiosa del segreto, che ai contribuenti più importanti è dato assoluto diritto di ricusare «le commissioni locali» e di farsi tassare da commissari speciali residenti a Londra, rispetto ai quali è escluso qualsiasi sospetto di involontaria indiscrezione nelle chiacchiere da caffè. E, per venire ancor più al concreto, forseché le imposte dirette sui redditi e sui patrimoni hanno mai reso tanto dal giorno in cui per alcune di esse fu sancito l’obbligo del segreto? Forseché la novità più stupefacente dell’imposta patrimoniale non fu la mole enorme dei titoli al portatore denunciati, mole a parer mio superiore persino a quella dei terreni e dei fabbricati? E il successo da questo lato non deve forse fondatamente ascriversi in buona parte alla promessa del segreto; mentre l’insuccesso per altri lati non fu forse dovuto a tutt’altre cause?
Giova sperare dunque che non si emani in questa materia un nuovo decreto sovvertitore delle buone norme esistenti; pur dando al tribunale di Roma, con i vincoli più assoluti di riservatezza, quelle notizie che ad esso sono necessarie; nel caso particolare, per mettere il fermo sul patrimonio degli amministratori della Banca di sconto.