Approvvigionamenti e consorzi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/10/1919
Approvvigionamenti e consorzi
«Corriere della Sera», 28 ottobre[1] e 6 novembre 1919[2]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 495-502
I
Parole sagge e fatti incerti
Le dichiarazioni che l’on. Murialdi ha nuovamente fatto intorno alla nostra situazione alimentare sono degne di nota. Vi si osserva una lodevole preoccupazione per lo sbilancio non colmato e forse crescente fra la produzione ed il consumo, per le difficoltà in cui si dibatte lo stato per sovvenire al bisogno di alimenti della popolazione, per i debiti colossali che si devono contrarre per garantire ai cittadini la vita quotidiana. Vi è molto di vero in ciò che l’on. Murialdi osserva: la guerra ha cresciuto, non diminuito, i consumi, ha diffuso l’abitudine a certi alimenti fini o meno grossolani fra ceti i quali non vi erano abituati. A molti, i quali non fumavano, non mangiavano carne se non nelle feste solenni, bevevano assai moderatamente vino, poco conoscevano certi agi della vita, tutte queste novità sono state rese familiari e quasi necessarie dalla vita della trincea e delle retrovie, dai guadagni della fabbrica, dalla cresciuta mobilità la quale porta gli uomini ad appropriarsi costumi e bisogni prima ad essi estranei. Se ai cresciuti bisogni corrispondesse la voglia di lavorare più od almeno meglio, il bilancio si chiuderebbe in pareggio. Siccome, purtroppo, ciò non accade, esiste uno stacco tra la produzione ed il consumo, che il governo cerca affannosamente di colmare facendo debiti, acquistando provviste alimentari a babbo morto e vendendole al disotto del costo ai cittadini.
Ma è questo un provvedimento di pubblica sicurezza che non può durare. Bene ha fatto perciò il governo a mettersi sulla via di vendere senza perdita la più parte delle derrate di sua pertinenza e meglio farà se si deciderà a seguire tal via anche per il pane. Le vociferazioni dei giornali lo hanno indotto a soprassedere, per il timore di parere antidemocratico quando avesse cresciuto il prezzo del pane prima di stabilire imposte sul lusso e sui ricchi. I lettori sono testimoni che questo giornale non è tiepido fautore delle imposte bene e severamente assise sulla ricchezza. Ma il volere queste non ha nulla a che fare col prezzo del pane. L’aumento di questo fino a raggiungere il puro costo non ha per iscopo di pagare le spese della guerra. Queste restano quelle che sono. Si cessa soltanto di aumentare ulteriormente il debito pubblico per dare il pane ad un prezzo inferiore al costo. L’aumento fino al costo evidentemente non frutta un solo centesimo che possa applicarsi alla liquidazione delle spese di guerra. Queste dovranno essere coperte interamente con altri mezzi e cioè con altre imposte sulla ricchezza e sui consumi non necessari.
Se il governo deve essere incoraggiato a seguire la politica della vendita senza perdita, se su questo punto le parole dell’on. Murialdi meritano lode, su altri punti la sua parola riesce poco chiara e convincente.
La produzione diminuisce; burro e formaggio si producono in quantità appena uguale ad un terzo di prima; si denunciano appena 1.500 quintali settimanali di burro invece dei 2.500 quintali che si denunciavano prima. Fatti spiacevoli senza dubbio. Ma quale rimedio vi apporta l’on. Murialdi? Requisizioni, consorzi obbligatori, ecc. ecc. La solita organizzazione del tempo di guerra.
I comuni, le provincie, i consorzi imperversano per ottenere dal governo l’aumento nelle assegnazioni? Una sola provincia chiede l’aumento di 300.000 quintali all’anno nel suo contingente? Quale rimedio trova il governo a queste querimonie? Ristabilire i contingentamenti, creare un macchinoso sistema di consorzi obbligatori di importatori di cereali, di mugnai, di pastai, ecc. ecc., che riduca commercio ed industria alle dipendenze di alcuni gruppi di imprese semi-statizzate.
Si lagnano i consumatori di vino di pagare prezzi esorbitanti? E subito si crea un consorzio semi-governativo, apparentemente facoltativo, in realtà imposto con lo spauracchio di guai peggiori, per fabbricare un milione di ettolitri e venderlo a basso prezzo ai più pericolosi ed urlanti tra i bevitori di vino.
In realtà, tra le parole sagge, le quali ammoniscono intorno alla necessità di produrre di più e consumare di meno, e gli atti, i quali seguono alle parole, non vi è nesso logico. Fa d’uopo, è vero, fare la dovuta parte alle necessità politiche, le quali consigliano di evitare tutto ciò che possa turbare la quiete pubblica, che possa eccitare un popolo eccitabile come l’italiano. Ma se la via che si percorre per ragioni di ordine pubblico è senza uscita, bisogna pure decidersi a proclamare la verità semplice, anche se sgradita. Gli italiani hanno dimostrato di sapere comprendere ed ascoltare la voce della verità.
Ora la verità è che lo sforzo di vendere a buon mercato la roba ad una massa di consumatori che si ostina a volere comprare molto, a qualunque prezzo, non può che esacerbare il malanno del distacco lamentato tra produzione e consumo. Chi fa aumentare tanto il prezzo del vino, se non i consumatori, i quali lo acquistano a qualunque prezzo, perché hanno voglia di spendere in quel modo i denari che essi guadagnano? Riducasi il prezzo del vino artificialmente ed aumenterete il consumo di questa o di qualche altra bevanda o derrata.
D’altro canto gli sforzi per regolare i prezzi ed i consumi delle carni, del burro, del latte, dei formaggi non sono forse una delle cause principali della scomparsa di questi alimenti? L’afta epizootica e la mancanza di foraggi hanno certamente fatto diminuire la produzione dei latticini; ma è grandemente probabile, per non dire certo, che una parte della produzione sfugga al controllo, per essere venduta a prezzi liberi o che il contingentamento produca il solito effetto di spingere il consumo fino a completare almeno la razione assegnata, mentre, in regime di libertà, ognuno adatterebbe i propri consumi alle esigenze ed ai mezzi particolari propri.
Volere che i consumi diminuiscano, mentre i guadagni di quasi tutte le classi sociali aumentano in moneta, è volere l’assurdo. Col contingentamento ed i calmieri altro effetto non si ottiene fuorché quello di spingere i consumatori:
- in primo luogo, a consumare tutta la razione, esaurendo il contingentamento;
- in secondo luogo, ad avere moneta disponibile, perché i prezzi sono stati tenuti più bassi di quanto comporterebbe la voglia di spendere di molti consumatori;
- in terzo luogo, a favorire il commercio clandestino della merce sottratta al contingentamento e su cui si riversa la moneta disponibile dei consumatori meglio provveduti;
- da ultimo, a chiedere l’aumento del contingente, allo scopo di poter avere a prezzo di calmiere anche il dippiù che si acquista di nascosto a prezzi alti.
Ma ciò contrasta con le necessità della produzione, la quale non può crescere quando i prezzi sono – sebbene alti – appena adeguati ai costi pure alti. Industriali ed agricoltori rifuggono, come dalla peste, dal produrre merci e derrate soggette a requisizione e calmieri e si rivolgono a produrre merci e derrate di lusso, non necessarie, il cui prezzo è libero e su cui lucrano di più. Proprio il contrario di quanto sarebbe necessario: produrre maggior copia di derrate di prima necessità e meno o niente di cose di lusso.
Che quello in cui si aggira l’azione governativa sia un circolo vizioso, lo veggono tutti, salvo, a quanto sembra, i ministri, commissari e funzionari addetti agli approvvigionamenti ed ai consumi. Dopo un breve tentativo, si sono affrettati a proclamare fallito l’esperimento della libertà e si sono messi a ripristinare tutto l’edificio bellico del vincolismo, sotto la maschera di consorzi obbligatori.
Per ragionare su fatti e su dati concreti sarebbe necessario conoscere fatti e dati che sono religiosamente tenuti segreti. Può darsi che noi avversari del vincolismo siamo teorici amanti delle astrazioni. Frattanto, noi poniamo alcune domande assai concrete e pratiche:
- Quali risultati finanziari hanno dato le varie iniziative che il governo si assunse in questi ultimi anni? Quanto ha guadagnato o quanto ha perso lo stato nella gestione dei servizi del frumento, del granoturco, delle carni, del lardo, dei grassi, delle scarpe, del panno, ecc. ecc.? È vano dire al consumatore di fare economie, finché non gli si dice apertamente e crudamente che ogni chilogrammo di pane, ogni paio di scarpe, ogni metro di stoffa vendutagli dal governo è costato tanti centesimi o tante lire di perdita che devono essere da lui stesso in altra sede pagate sotto forma di maggiori imposte. I conti devono essere precisi e ragionati; non consistere in una sola cifra grossa, come quella dei 3 miliardi di lire di perdita all’anno per il pane, a cui molti, parmi a torto, non credono perché i conti non furono mai resi in modo persuasivo.
- Che cosa sono questi consorzi, a cui l’on. Murialdi vorrebbe affidare il commercio di tante cose in Italia, col dichiarato intento di rendere possibili e meno costosi gli approvvigionamenti? Molti ritengono che essi di fatto non producano altro effetto che di costituire monopoli in mano di pochi gruppi bancari ed industriali, a danno di moltissimi liberi industriali e commercianti, i quali chiedono solo di servire il pubblico in condizioni di concorrenza. Sono anch’io di questa opinione; e pare anche a me che la infatuazione per i consorzi obbligatori sia grandemente dannosa alla produzione ed ai consumatori. Per persuaderci del nostro torto, sarebbero necessarie ragioni ben più solide di quelle che si lessero fin qui nei comunicati ufficiosi.
- Sono davvero l’intervento governativo e la costituzione di consorzi condizioni necessarie perché l’Italia possa vivere? Dicono di sì i fautori dell’una e dell’altra cosa; ed affermano che l’Italia non potrebbe comprare né carbone, né grani, né carni, né altre materie prime od alimentari se a finanziare l’acquisto non intervenissero governo e consorzi. Affermano altri che tutto ciò è pura fantasia di chi si crede indispensabile; e che esistono negli Stati uniti, nell’Argentina, in Inghilterra gruppi bancari, industriali e commerciali estranei ed indipendenti dai governi locali, i quali sono dispostissimi a vendere a credito agli italiani purché non se ne immischino i governi di origine e di arrivo. Quale delle due affermazioni sia vera, non ardirei dire, trattandosi di materia su cui, quantunque la cosa paia incredibile, le notizie di fonti diverse, sebbene in ambi i casi autorevoli, sono nettamente contradittorie. Mi auguro almeno che sia vera anche la seconda affermazione o tendenza, per un motivo assai semplice e perentorio: i debiti fatti dai governi per scopo di approvvigionamento non si sa quando saranno pagati e fino a quando ci daranno fastidio coi loro interessi passivi; ma i debiti fatti dai privati per lo stesso scopo non preoccupano affatto. Un privato che acquista una qualsiasi merce negli Stati uniti si può essere sicuri che conosce i mezzi di venderla con utile e sa quando e come ne pagherà il prezzo al venditore, senza lasciare tracce di debiti. Il che sembrami, in tanto ragionar di debiti pubblici, un vantaggio apprezzabile.
II
Consorzi ibridi tra pubblici e privati
Le dichiarazioni dell’on. Murialdi intorno ai quesiti che erano stati posti su queste colonne sono interessanti sovratutto per la promessa esplicita di presentare al parlamento i risultati della gestione delle singole imprese annonarie o di approvvigionamento esercitate dallo stato. Malgrado le difficoltà di rendere i conti, bisogna insistere affinché questi siano resi di pubblica ragione al più presto possibile. Frattanto, sarebbe utilissimo che il governo pubblicasse una dimostrazione precisa dei 2 o 3 miliardi di perdita sul pane. Il rendiconto definitivo verrà poi. Ma intanto premerebbe sapere come si arriva a quella cifra, a cui molti non credono. Alcuni arrivano sino a dire che bastano i 45 milioni di produzione nazionale e ne avanzano; ma evidentemente sbagliano supponendo che gli italiani consumino solo i quantitativi di frumento che il governo assegnava come razione individuale negli anni di guerra. Sta di fatto che gli italiani invece consumano assai di più e che il consumo è cresciuto durante la guerra. Cifre precise gioverebbero. Altri suppone che il governo perda solo la differenza fra il prezzo interno del frumento, che ora è di 75 lire, ed il prezzo estero, calcolato in 120 lire, e concludono che una perdita di 45 lire moltiplicata per i 30 milioni di quintali non dà né i 2 né i 3 miliardi. Anche qui il calcolo è sbagliato, perché il governo ha venduto e vende la farina a prezzi notevolmente inferiori anche al costo del grano nazionale, e perde quindi sia sul grano nazionale sia su quello estero, sebbene più su questo che su quello. Gioverebbe però assai avere dati precisi al riguardo per i successivi periodi attraversati.
L’on. Murialdi ha fatto inoltre una difesa dei consorzi, che io non posso giudicare non essendo riuscito a comprenderne il significato. I consorzi privati sarebbero necessari: 1) per liberare lo stato dalla gestione diretta della vendita delle merci. Benissimo. Perché non lasciare la vendita ai «privati» puri e semplici, senza l’imbroglio dei «consorzi», buoni solo a soffocare la concorrenza e a crescere i profitti dei grossi e dei furbi? 2) per ripartire equamente le merci fra le diverse regioni e classi. Anche qui non si capisce come ci possano riuscire i consorzi meglio della libera concorrenza. È uno dei misteri della psicologia burocratica della guerra, a cui dovremmo inchinarci, anche senza capire. Invece, l’opinione pubblica si va persuadendo che se stato, consorzi e decreti sfrattassero via, la distribuzione delle merci procederebbe meglio. Parmi che questa seconda opinione abbia maggior appoggio dall’esperienza.
Lo scetticismo mio intorno ai consorzi è dispiaciuto al Consorzio italiano vini, quello incaricato di produrre un milione di ettolitri ad un prezzo sensibilmente inferiore a quello attuale.
Il consorzio afferma in una lettera, che per brevità debbo riassumere, che esso ha avuto l’appoggio delle maggiori cooperative italiane; che il suo scopo è di vendere un vino sano e brillante a 9-10 gradi, per mezzo delle cooperative e degli istituti ed enti dei consumi; che esso vuole correggere i dannosi effetti della imposta straordinaria sul vino, la quale spinge a produrre vini concentrati ad alta gradazione alcoolica ed atti alla falsificazione.
E fin qui tutto bene. Se il consorzio riuscirà a trasformare 600.000 ettolitri di vino ad alta gradazione in 1 milione di ettolitri di vino a 9-10 gradi, pagando l’imposta su 1 milione, ne avranno giovamento la pubblica igiene e l’erario. Se il consorzio si alleerà inoltre coll’erario per scoprire tutti i suoi concorrenti che producono vini leggeri e far loro pagare l’imposta anche sull’acqua aggiunta, come si dovrebbe fare, le sue benemerenze cresceranno ancora.
La novità è dove il consorzio afferma di essere una «coraggiosa iniziativa privata» e di non avere alcun carattere di «coattività». Io avevo parlato del consorzio come di una emanazione semi-governativa sulla base di ripetuti comunicati ufficiosi i quali narravano dell’interessamento del governo per fondare un consorzio per la produzione di 1 milione di ettolitri di vino. Avevo letto rendiconti di adunanze, in cui oratori avevano accennato alla convenienza di fondare il consorzio per evitare pericoli di calmieri e vincoli, a cui il governo poteva essere costretto dal malcontento dei consumatori. Se tutti questi non si chiamano mezzi di coazione morale, se a provocare la prima idea del consorzio non entrò per nulla il clamore incomposto di coloro a cui un litro a pranzo ed uno a cena sembrano un’inezia, siamo d’accordo. Prendo atto della dichiarazione che il consorzio è un’iniziativa puramente privata; il che vuol dire che il sottosegretariato agli approvvigionamenti non se ne interessa né punto né poco; che il consorzio non gode favori di nessuna specie né di trasporti né di imposte; che esso paga o pagherà le imposte di ricchezza mobile, sul vino, di bollo, ecc. ecc., alla stregua dei suoi concorrenti; che non ha locali gratuiti o vantaggi diretti od indiretti di nessuna specie da stato o comuni. Un consorzio di questa specie è davvero un’iniziativa puramente privata; e la stampa non ha ragione di occuparsene perché esso non costa nulla ai contribuenti. Giova sperare che le cose stiano veramente così e che per una volta tanto la parola incitatrice del governo sia riuscita a dar vita ad un ente che al governo non chiede assolutamente nulla e vive soltanto della forza che gli viene dal vendere roba migliore ed a più buon mercato dei suoi concorrenti.