Abolizione o riforma dei dazi murati nelle grandi città?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/02/1912
Abolizione o riforma dei dazi murati nelle grandi città?
«Corriere della Sera», 7 febbraio 1912
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 386-393
Il problema tributario comunale è in questo momento di nuovo vivamente discusso a Torino. Non avendo osato risolverlo tre anni fa, ora esso è divenuto più grave. Come molte altre città, Torino non ha ancora trovato il suo stabile assetto tributario; premuta da sempre nuovi bisogni, incalzata dagli interessi dei debiti contratti per le grandi opere pubbliche rese necessarie dal moderno vivere civile e per le municipalizzazioni consigliate dalla moda, Torino si trova di fronte ad un bilancio che, ridotto alla sua espressione più semplice e tipica, si riassume in 22 milioni di entrate effettive e in 20 milioni di spese ordinarie. Il bilancio sarebbe in se stesso perfetto ed anzi concederebbe la possibilità di una riduzione di tributi, se Torino fosse una città stazionaria, giunta al punto di massimo sviluppo. Invece Torino, come molte altre città italiane, è una città progressiva, a causa dell’inurbarsi delle popolazioni rustiche. Di qui la necessità di nuove strade, nuovi ponti, nuovi edifici scolastici, dell’ampliamento della fognatura, dei servizi ospedalieri, ecc. Di più, le grandi città progrediscono non solo per l’incremento della popolazione, ma perché vogliono rendere ai propri abitanti servizi sempre più perfetti, vogliono gareggiare, con nobile spirito di emulazione, con le altre città nel diminuire la quota di mortalità e nel rendere più bella ed attraente la vita ai cittadini; epperciò Torino vuole il risanamento dei quartieri centrali vecchi e malsani, la costruzione di nuove e decorose sedi per gli stabilimenti di istruzione, per i musei, per le biblioteche, per le cliniche. Tutto sommato, l’amministrazione civica di Torino intende spendere nel decennio 1912 – 21 55 milioni di lire in opere straordinarie pubbliche, comprendendo in esse anche opere che ogni anno ricorreranno finché la città continui nel suo cammino ascendente. Poiché la spesa straordinaria annua è così fissata in 5 milioni e mezzo di lire e poiché il margine tra le entrate e le spese ordinarie è appena di 2 milioni, è manifesto che allo stabile assetto delle finanze torinesi mancano 3 milioni e mezzo, mettiamo 4 milioni, per tener conto di taluni incrementi cosidetti fatali nelle spese ordinarie. Il problema è chiaro, ed è all’incirca lo stesso che molti altri sindaci, giunte e consigli devono risolvere; epperciò l’esperienza torinese può essere interessante anche per altre città.
Dico subito che il problema è a Torino di soluzione meno difficile che altrove, perché in passato la città nostra fu per lunghi anni nel secolo scorso assai saviamente, assai prudentemente amministrata. Al primo gennaio 1912, Torino, se non avesse municipalizzato nulla, avrebbe un debito di soli 44 milioni; aggiungendo gli oneri delle municipalizzazioni arriva a poco più di 81 milioni, compreso il debito da contrarsi per opere già impegnate. Sono sempre troppi; ma una certa indulgenza si può consentire se si riflette alla corsa al palio combattuta tra le grandi città italiane per superare i 100 milioni e non contentarsi dei 200 milioni di debito. Avendo fatto debiti moderati, ha potuto mantenere imposte in genere moderate: non conosce né l’imposta di famiglia, né quella sul valor locativo, né le altre sul bestiame e sugli esercizi e rivendite; ha applicato solo 44 centesimi addizionali sulle sovrimposte fondiaria e fabbricati ed ha esteso il dazio murato ad appena tre quarti della popolazione, lasciando l’altro quarto sotto il più mite, sebbene più sperequato, regime del dazio sulla minuta vendita. Di questa mitezza dei tributi torinesi alcuni si disperano come se, per questo motivo, i saggi amministratori torinesi avessero fatto una politica di classe. Costoro si lagnano persino che non ci siano altre imposte oltre il dazio, col pretesto che esso frutta oltre i tre quarti delle entrate fiscali comunali. Il che non ha significato preciso ove si rifletta che in parecchie città italiane, deliziate da numerose altre imposte, il dazio non è di molto più lieve, e talvolta è più gravoso che a Torino. Onde si dovrebbe, secondo la nuova teoria, essere tanto più felici quante più imposte si pagano e quanto più ognuna di esse è gravosa! In realtà, salvo le eccezioni delle case sfitte, degli acquedotti che dovevano convogliare 500 litri e ne danno per una parte dell’anno appena 50, delle aziende elettriche con consuntivi doppi dei preventivi, ed altre simili allegrie, gli amministratori torinesi hanno sempre avuto il vanto di fornire ai loro concittadini servizi buoni ad un costo relativamente moderato. E questo mi pare il maggior elogio che possa farsi di una amministrazione pubblica.
Potendo, con maggior agio di altre grandi città, cercare le maniere di procacciare all’erario i 4 milioni mancanti, la giunta torinese si decise alle seguenti proposte:
1) Allargamento della cinta daziaria, con rimaneggiamento della tariffa, e sperato maggior provento netto di due milioni di lire.
2) Aumento della sovrimposta da 44 a 60 centesimi, con un provento in più di 800.000 lire.
3) Istituzione della tassa sul bestiame, per un reddito di 10.000 lire.
4) Istituzione della tassa di esercizio e rivendita, con uno sperato gettito di 900.000 lire. Sarebbero in tutto 3.700.000 lire, corrispondenti all’incirca al fabbisogno.
Contro alcune di queste proposte non sono state sollevate obiezioni di rilievo. La nuova tassa sul bestiame è lievissima, di 2 lire all’anno per i cavalli, muli, buoi e tori, 1 lira per le vacche, manzi, giovenche, vitelli, asini, lire 0,75 per i suini ed i caprini, e 0,25 per gli ovini. Si può dire che essa sia proposta per ottemperare ad una formalità della legge, che, senza quest’ombra di tassa, non consentirebbe altrimenti l’aumento della sovrimposta al di là dei 50 centesimi. Nemmeno quest’aumento, da 44 a 60 centesimi, ha provocato obiezioni notevoli, avendo la giunta fatto rilevare che esso si risolve in un aumento di sole lire 2 di imposta per ogni 100 lire di reddito imponibile, ossia per ogni stanza. Fu notato dai più che i proprietari di case – avvantaggiati in passato da notevoli aumenti di reddito – non potranno rivalersi di questa maggiore imposta sugli inquilini, perché in questo momento a Torino, come a Milano, a Roma, a Genova ed altrove, si accentua una sovrabbondanza di nuove case poste sul mercato dei fitti, che prelude piuttosto ad una diminuzione che ad un aumento di essi. L’argomento mi persuade solo in parte; perché, se pare certo che per ora l’imposta inciderà sui proprietari di case, non si sa che cosa potrà accadere fra qualche anno, quando sarà ristabilito l’equilibrio fra domanda ed offerta di case. Allora i costruttori di nuove case alla periferia non si decideranno a costruire se non quando gli affitti saranno cresciuti per modo da compensare anche il costo di tutti i 60 centesimi di sovrimposta; e per un automatico processo di livellamento, rialzeranno altresì i fitti di molte case vecchie.
Con discreta rassegnazione è stato accolto l’annuncio della tassa di esercizio e rivendita, per cui industriali, commercianti, artigiani, professionisti pagheranno, divisi in 25 classi, una imposta variabile da 10 a 1.000 lire. In un comune che si appresta ad aumentare l’imposta sulla proprietà fondiaria, con incidenza, almeno per un numero non precisato di anni, sui proprietari, era difficile sottrarsi all’obbligo di mettere qualche tributo sui percettori di redditi mobiliari e professionali.
La lotta invece s’è già accesa vivacissima rispetto all’allargamento della cinta daziaria. I sobborghi sono in fiamme, industriali e commercianti protestano, alcuni giornali gridano e se ne sono fondati persino dei nuovi per combattere la buona battaglia contro le «odiose», «medievali» proposte della giunta. Le quali proposte sarebbero queste:
1) crescere la lunghezza della cinta da km 16,2 a km 34,5; il territorio entro cinta da ettari 1.705 ad ettari 5.989; la popolazione chiusa da 304.420 a 402.212, con un aumento di 97.792 abitanti. In cifre tonde, il dazio murato si esigerebbe su 400.000 abitanti invece che su 300.000; e poiché oggi rende per i 300.000 entro cinta lire 13.614.000 con una media di lire 45 per abitante, domani renderà 3.000.000 in più per i 100.000 nuovi abitanti tassati, anche supponendo che essi consumino minor quantità di vino e di carni, cosa oltremodo dubbia, e fruttino all’erario appena 30 lire a testa. Deducendo dai 3 milioni il mezzo milione già esatto ora col metodo del dazio forese e un altro mezzo milione per maggiori spese di esazione (la cinta sarebbe reale, in cemento armato e importerebbe minori spese d’esazione della cinta cosidetta simbolica), rimangono 2 milioni netti di maggior frutto;
2) rimaneggiare la tariffa in modo da compensare esattamente le perdite colle diminuzioni, in guisa da abolire o ridurre taluni dazi su generi di prima necessità, accrescere i gravami di consumi più fini e meglio favorire le industrie locali.
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Le critiche che si sono mosse contro la proposta di allargamento della cinta daziaria a Torino sono parecchie ed in parte sono quelle stesse che già esposi quando tre anni fa la questione s’era per la prima volta presentata. A volerle riassumere in pochi tratti, si potrebbero distinguere in tre categorie: quella degli esteti, che amano di mettere tutto a soqquadro, senza preoccuparsi delle conseguenze che di solito nascono dai soqquadri. Di questo genere sono le critiche di coloro che fanno appello alla «tendenza del legislatore italiano ad abolire il dazio murato», e vorrebbero abolire addirittura la cinta, esigere soltanto alcuni dazi sulla minuta vendita del vino, delle carni, ecc., istituire l’imposta di famiglia, aumentare i centesimi addizionali a 100, ecc. ecc. Trattandosi di discorsi campati in aria su ipotesi non valutabili, è fuor di luogo occuparsene. Come sperare di ricavare dal dazio forese sul vino e sulle carni quasi lo stesso reddito che si ottiene col dazio murato, quando l’esperienza dimostra la irrilevanza delle somme pagate colla minuta vendita nel territorio fuori dazio? Come credere di ricavare a Torino dall’imposta di famiglia 3 milioni e mezzo di lire, quando la stessa Milano sta al disotto di questa cifra? Cremona, Alessandria, Bergamo ed altre città hanno fatto la dolorosa esperienza dell’abolizione della cinta murata; e ricordo di aver letto sulla «Critica Sociale» dell’on. Turati parecchi giudiziosi articoli in cui si dimostrava, in base all’esperienza di Bergamo, come fosse, sinché non muti la legislazione tributaria italiana, pericolosa l’abolizione totale della cinta. È vero che i socialisti torinesi vorrebbero abolire la cinta allo scopo di costringere lo stato a venire con nuove leggi in aiuto ai comuni! Proposito discutibile soltanto da chi ammetta doversi dissestare la finanza di un grande comune nell’intento di costringere lo stato a modificare l’assetto tributario del paese.
La seconda schiera di critici è quella di coloro che dichiarano il dazio consumo antiquato e contrario ai principii moderni della scienza e della legislazione finanziaria. Sono oramai diventato scettico intorno ai cosidetti principii della scienza; e mi contenterò perciò di esaminare se il dazio consumo contravvenga tanto rudemente contro una regola, che ignoro se sia consacrata dalla scienza, ma è dettata sicuramente dal buon senso, essere cioè opportuno che le imposte gravino su coloro che per confessione propria dichiarano di avere un reddito destinato a consumi superiori al minimo necessario per l’esistenza. Su 13.821.014 lire di diritti generali di consumo esatti nel 1909 (cito le cifre dell’ultimo annuario statistico torinese) ben 6.496.273 lire, ossia poco meno della metà, sono ricavate dalle bevande. Sono o non sono questi 6 milioni e mezzo di lire imposti su un reddito che può sopportare egregiamente il balzello, postoché il redditiero medesimo confessa di avere il reddito e di volerlo consumare, indulgendo alla abitudine di bere? Non sarebbe scandaloso se, instaurandosi il regime del comune aperto, tutti i proprietari di vigneti, che possono farsi venire il vino dalla campagna, tutti i signori che possono fare le provviste all’ingrosso, tutti gli amatori di vino e di liquori disposti a comprarne 25 o 50 litri per volta, sfuggissero al tributo, che dovrebbe inesorabilmente essere pagato dai consumatori al minuto? Altri 2.298.489 lire sono dati dai dazi sulle carni, di cui lire 1.557.347 ai dazi sui vitelli, ossia sulla carne fina. Pronto a plaudire alla abolizione dei dazi sulla carne salata, sullo strutto e lardo, sugli agnelli e capretti e sulle pecore che fruttano forse meno di 100 mila lire, non vedo la ragione per cui i consumatori di generi denotanti un reddito non infimo non debbano pagare imposta. Molti vogliono, è vero, risuscitare a favore del quarto stato le antiche immunità tributarie; ma deve ancora essere dimostrato che, così operando, si faccia opera diversa e migliore di quella che un giorno era compiuta a favore della nobiltà e del clero. Gli oli e il burro fruttano 552.896 lire, lo zucchero 425.557 lire, i commestibili diversi 1.027.653 lire, i combustibili, fra cui il gas e la luce elettrica, 2.008.339 lire, i foraggi 289.926 lire, i materiali da costruzione 436.691 lire, i mobili 70.676 lire, i saponi e le materie grasse 54.698 lire, il riso 55.934 lire, gli oggetti diversi I03.878 lire. Qui si dovrebbe fare un minuzioso lavoro di critica, voce per voce, per vedere quanta parte di questi 5 milioni di lire meriti di essere condannata al rogo. Notisi che per ora nessuno propone di abolire il dazio sul gas, che frutta da solo più di un milione di lire, e che è esatto all’origine, sulla base dei contatori; che parecchie delle derrate colpite sono di quelle che la opinione pubblica reputa di lusso; che i dazi sui materiali da costruzione sono esatti in gran parte mediante misurazione degli edifici già costruiti, in ugual maniera entro e fuori cinta e non entrano perciò nella discussione odierna; che forse 40 dei 400mila abitanti di Torino non pagano essi il dazio, ma l’hanno pagato, i militari dall’erario, da cui sono alimentati, i ragazzi convittori dagli istituti educativi presso cui dimorano, e che il più spesso hanno posti gratuiti o rette stabilite in cifre fisse, i carcerati dallo stato, gli ammalati e i ricoverati dagli ospedali ed ospizi, sicché il dazio non è sopportato da questi poveri ma da altri enti o persone caritatevoli, ecc. ecc. Si può concludere perciò che se si abolissero nelle attuali tariffe tante voci per 1 milione circa di lire di reddito si raggiungerebbe l’intento di esentare dai dazi consumo le persone che possono davvero chiamarsi miserabili, e di colpire molto moderatamente coloro che, vivendo di un modesto frutto del proprio lavoro, non amano indulgere al culto delle bevande alcooliche. il che mi sembra sarebbe un risultato altamente encomiabile ed inoltre, ciò che monta assai, praticamente attuabile.
Che la giunta torinese si sia proposta chiaramente di raggiungere quest’intento, debbo senz’altro escludere. Essa, è vero, ha esentato totalmente dalla tassa il riso, gli oli concreti animali e minerali, lo strutto bianco, il sego, i formaggi ed i pesci freschi e preparati di terza categoria, ha ridotto i dazi sugli agnelli e capretti e il lardo fresco e salato, e per obbedire alla legge ha ridotto altresì la tassa sul gas da 30 a 28 millesimi per mc ed ha unificato, attenuandoli, i dazi sul vino. Ma in compenso ha commesso la piccineria di aumentare di lire 1,50 per quintale il dazio sulla carne macellata forse per cavarne sole 5.500 lire di più, ha cresciuto i dazi sul caffè, le conserve, i formaggi, i pesci preparati, le acque gasose, il carbone coke, i mobili, la carta, il sughero lavorato, diversi materiali da costruzione.
Tutti questi aumenti e diminuzioni non sono ispirati a nessun concetto ragionato, fuorché a quello meramente contabile di conservare immutato il gettito complessivo del dazio. Se si avesse avuta l’audacia (non grande del resto) di allargare la cinta, riducendo nel tempo stesso la tariffa, sbarazzandola di molte voci che ora fruttano poco e pur gravano sui consumatori più poveri e sul commercio, forse l’allargamento avrebbe fruttato subito un aumento netto di un milione invece che di due; ma avrebbe preparato la via ad una espansione tale dei consumi e dei commerci da compensare in breve volgere di anni l’erario per la rinuncia iniziale e da fruttare assai di più dei due milioni netti che la giunta presume di ottenere.
Perciò non rimprovero alla giunta l’allargamento della cinta; ché anzi ritengo l’ampliamento improrogabile e utilissimo. Rimprovero ad essa di non avere osato usufruire di questa grande opera per innestarvi sopra un piano, modesto bensì (essendoché i piani grandiosi mi sono odiosissimi) ma efficace di riforma tributaria ed economica. Dico che la riforma deve essere economica, per tener conto del terzo gruppo di obiezioni che a Torino si vanno facendo alla nuova cinta e provengono dall’industria e dal commercio.
Dicono costoro: è vero che è necessario togliere lo sconcio di una disparità di carichi fiscali fra i 300.000 abitanti entro la cinta, che pagano 45 lire a testa, e i 100.000 abitanti fuori cinta, che ne pagano 5 sole, pur godendo di servizi pubblici non molto inferiori a quelli di parecchie zone interne. È vero che il trasporto della cinta a distanza maggiore dal centro si impone per evitare che, come dal 1901 al 1911 gli abitanti del centro murato aumentarono appena da 277.121 a 304.420, ossia di 27.299 persone, circa il 10%, mentre gli abitanti del suburbio extra muros crescevano da 52.570 a 114.246, ossia di 61.676 persone, circa il 120%, altrettanto accada nei prossimi 10 anni, col risultato che al prossimo censimento metà della popolazione si sottragga a tributi che sono pagati dall’altra metà. È vero che l’allargamento della cinta è necessario per consentire alla città un normale sviluppo edilizio, per non strozzare vie, corsi, piano regolatore, per coordinare i sobborghi armonicamente col concentrico, per rimediare all’inconveniente che ampi spazi liberi rimangano vuoti entro cinta, mentre grossi abitati sorgono come funghi alle porte della città, in apparenza per godere dell’esenzione del dazio, in realtà per trasferire il vantaggio dell’esenzione dall’erario cittadino ai proprietari di case e di terreni fabbricabili del suburbio.
Se tutto questo è vero, è vero però anche che l’allargamento della cinta nuocerà allo sviluppo delle industrie e del commercio che fin qui liberamente si erano sviluppati fuor delle mura. Non il dazio è in giuoco; è tutto il complesso delle fastidiose disposizioni regolamentari, le quali, a scopo di doverosa tutela del fisco, incepperanno il lavoro libero delle industrie. Ogni grande città, e Torino forse più delle altre, provvede in notevole parte al commercio della regione circostante. Industriali e grossisti hanno bisogno di importare e riesportare liberamente, senza impacci, senza sospettose vigilanze daziarie, materie prime e prodotti finiti. Sinora nel fuoricinta avvenivano tutte queste manipolazioni e trasformazioni industriali, e importantissime case grossiste mantenevano depositi per l’approvvigionamento della regione piemontese. Allargata la cinta, quale sorte sarà riserbata a questi fecondi traffici? Dovranno industriali e commercianti trasportare stabilimenti e depositi in luoghi lontanissimi, privi spesso di mezzi di comunicazione rapidi? Sarebbe mettere Torino in condizioni manifeste di inferiorità commerciale di fronte alle altre città. I commercianti di sugheri lavorati hanno in questi giorni divulgata una memoria, nella quale dimostrano come per ottenere un lieve lucro di 10.000 lire si metta in pericolo un traffico che a Torino provvede soli 500 quintali annui, mentre ne provvede molte migliaia alla provincia.
A rimediare a questi danni i magazzini fiduciari ed i punti franchi proposti dalla giunta non sono sufficienti. Sarebbero necessarie due o tre zone franche, abbastanza ampie da consentire liberamente lo sviluppo delle industrie e dei commerci che lavorano per la provincia. Sarebbe necessario rivedere, con criteri tecnici, il percorso della nuova cinta per vedere se non convenga di avvicinarsi alla cinta proposta dall’ex sindaco Frola, preferita dal commercio. Sarebbe necessaria sovratutto una riforma della tariffa daziaria, la quale senza arrivare alle audaci riduzioni e semplificazioni della tariffa milanese, vi si avvicinasse nei limiti del possibile. Occorre fare scomparire tutte quelle voci che nel loro complesso non rendono più di un milione di lire l’anno e per così meschino risultato gravano su consumi popolari o frastornano commerci e industrie importanti. La riduzione dovrebbe essere fatta altresì nell’intento di far scomparire ogni vestigio di quel protezionismo daziario municipale, che io denunciai invano il 24 gennaio 1910 su queste colonne. Giunta e consiglio inasprirono allora questa grottesca protezione concessa agli industriali intra muros contro i loro concorrenti forestieri; e si capisce che per concorrenti forestieri s’intendono gl’industriali di Pinerolo, Susa, Moncalieri, Milano, Monza, ecc. Contro questi barbari residui di un mercantilismo davvero antiquato si elevò in una monografia esauriente su Le dogane interne nel secolo XX (Torino 1911, supplemento al fascicolo di marzo – aprile 1911 de «La Riforma Sociale») e di nuovo in un acuto articolo sul Regime daziario a Torino nel fascicolo ultimo di gennaio – febbraio 1912 della medesima rivista, l’amico Giuseppe Prato. Tutto è stato invano. Anzi, con una ingenuità meravigliosa, la giunta torinese vien fuori fresca fresca a proporre riduzioni ed aumenti di dazi che sono un regalo gratuito e pernicioso ad industriali già privilegiati. Vien fuori, per citare solo alcuni esempi tra i parecchi, a proporre l’abolizione del dazio di 10 lire per quintale sulla cera greggia, sulla cera vegetale, la stearina, la paraffina, e gli acidi grassi, mantenendo però intatto il dazio di lire 15 sulle candele. I consumatori seguiteranno a pagare le candele aumentate di tutte le 15 lire ed i fabbricanti intascheranno le 10 lire fin qui incassate dal fisco sulle materie prime. Le arenarie lavorate sono portate da lire 1,50 a lire 2, quelle gregge da lire 0,40 a lire 0,60, i lavori in terracotta da lire 2 a 2,50, i marmi lavorati da lire 2 a lire 2,50, quelli greggi da lire 0,50 a lire 0,60, le pietre da taglio lavorate da lire 0,40 a lire 0,60 e quelle gregge da lire 0,20 a lire 0,30.
Dubito molto che codesti aumenti abbiano a dare un maggior provento all’erario; ma gioveranno sicuramente a crescere la scandalosa protezione a favore dei fabbricanti di pietre artificiali, la quale ha fatto sì che Torino sia una delle città d’Italia dove sono più in onore bruttissime costruzioni in cementi e pietre artificiali, del resto assai costose; e dove sono più rare le scale e le facciate in marmi e pietre vive, pure abbondanti e stupende nelle vicine montagne. In tal modo non si favoriscono il consumo popolare e l’industria paesana. Si fanno regali gratuiti a taluni piccoli ed irrilevanti gruppi di accorti industriali (tra cui si devono noverare altresì i fabbricanti di carta, di confetti e cioccolata, di mobili, ecc.) a spese dell’erario e dei consumatori.
Concludendo, parmi che il programma della giunta sarebbe, nelle attuali contingenze, il più conveniente che si potesse proporre, se non fosse guasto dal mantenimento di molte voci daziarie di scarso reddito e dannose: 1) ai consumi popolari e 2) alle industrie ed al commercio di esportazione verso la provincia; mentre 3) tornano di ingiusto vantaggio a pochi produttori interni, protetti – ciò che in buona sostanza va contro lo spirito delle medesime leggi vigenti – contro gli industriali esterni. Le proposte della giunta, per diventare accettabili, dovrebbero essere modificate in guisa da evitare questi malanni. So bene che, almeno per qualche anno, l’allargamento della cinta frutterebbe 1 milione invece dei 2 voluti dalla giunta. Non per questo sarebbe d’uopo ricorrere subito (ed, aspettando, è probabilissimo che l’aumento nei proventi daziari semplificati risolva definitivamente il problema) ad altre imposte a larga base. Qualche centinaio di migliaia di lire non pare impossibile ottenerlo inasprendo le tasse sui cani, cavalli, vetture (automobili), domestici che nel 1910 fruttarono appena 280.000 lire. Dirò cosa antiquata, ma non ho vergogna di affermare che a me queste paiono ottime imposte, degne di prendere un ben maggior sviluppo di quello attuale. Qualche altro centinaio di migliaia di lire non pare nemmeno assurdo di poterlo ricavare dall’applicazione più larga dell’istituto dei contributi di migliorie, su cui il consigliere comunale Alberto Geisser ha ripetutamente ed invano richiamato l’attenzione dei suoi colleghi. Perché proprietari di case e di terreni debbono godere dei vantaggi dell’apertura di strade, selciatura, pavimentazione, illuminazione, senza essere chiamati a pagare adeguati contributi uguali al minimo al 50% del vantaggio reale ottenuto dall’esecuzione dell’opera pubblica? Negli Stati uniti vi sono città che ricavano metà dei loro proventi da questi contributi. Perché a Torino non dovrebbero ricavarsene almeno parecchie centinaia di migliaia di lire? Il disavanzo sarebbe ridotto così, sì e no, a mezzo milione di lire. Se anche si dovrà per qualche anno ricorrere ad una operazione finanziaria per coprirlo, non vi sarà nulla di male. Debiti, in verità, non sarà agevole farne a mite interesse, perché se ne sono già fatti troppi finora ed il saggio dell’interesse va dappertutto salendo. Il comune potrà, invece di far debiti, alienare una parte dell’ingente patrimonio di aree e di edifici improduttivi, di cui s’è venuto caricando per attuare la cosidetta politica municipale delle aree. È una politica che costa per interessi correnti, mentre il frutto degli immobili tenuti per speculazione è nullo. Non sarebbe male cominciare a liquidare con prudenza, a poco a poco, quando si presenti l’opportunità favorevole. Se poi gli amministratori del comune, di fronte ad un piccolo disavanzo perdurante, saranno indotti a moderare le spese, a scrutare colla lente dell’avaro le perdite di denaro, sempre pullulanti in una grande azienda, sarà tanto di guadagnato. Non vi è nulla che insegni, meglio delle difficoltà finanziarie, la prudenza agli amministratori della cosa pubblica e garantisca ai cittadini buoni servizi a basso costo.