A chi è necessaria la protezione zuccheriera?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/09/1925
A chi è necessaria la protezione zuccheriera?
«Corriere della Sera», 23 settembre 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 480-485
Mentre durano gli studi annunciati tempo addietro dal ministro delle finanze intorno alla questione zuccheriera giova tener dietro alle manifestazioni in proposito dei competenti. L’ing. Guido Belardini in un opuscolo dal titolo La questione saccarifera nel 1924-1925 (Ferrara 1925) vorrebbe che stavolta i libero scambisti «lasciassero libero il governo di agire secondo giustizia» ed augura che l’Italia imiti l’esempio dei «paesi più progrediti del nostro, ove i governi hanno dei corpi tecnici che li illuminano sullo stato di fatto delle industrie e non si rimane in balia del giudizio degli economisti che, pur valentissimi, non possono portare nello studio dei problemi economici che il lato scientifico e teorico della questione». Ed altrove parla di «pressione» che gli economisti eserciterebbero sulla pubblica opinione. L’ing. Belardini si disinganni. È certo che gli economisti – salvo la parentesi dell’on. De Stefani, economista egli stesso e troppo profondamente imbevuto della scienza per potersela dimenticare a palazzo Quintino Sella – da quasi un cinquantennio non esercitano né poca né punta influenza sulla legislazione italiana; è certo che essi si sono rassegnati alla parte di predicatori tollerati per la loro innocuità; ma è certo altresì che essi non cesseranno, finché ne sia data loro facoltà, di esporre quello che ritengono essere il vero. Né ciò faranno solo nei riguardi dello zucchero, come sembra lamentare il Belardini, invocando dagli economisti, invece dell’accanimento particolare contro lo zucchero, «altrettante battaglie pel ferro, per le automobili, per i manufatti di canapa e per tutte le altre nostre industrie». Se Dio vuole, non abbiamo fatto altro, Giretti, io ed alcuni pochi altri. Le campagne siderurgiche nostre non si contano; seppure il costrutto ne sia stato scarsissimo. Come fu senza effetto la critica trentennale al dazio sul frumento, or ora ripristinato. Se, invece che i divulgatori di quelle che a noi paiono verità economiche, facessimo il mestiere di storici, potremmo andare illustrando le forze sociali e politiche e sentimentali le quali annullano gli effetti della propaganda economistica; ma poiché quello, pure lodevolissimo, è un mestiere diverso, bisogna rassegnarsi a lasciarci fare il nostro. Che è di dire semplicemente la nostra opinione sui problemi economici a mano a mano che si presentano dinanzi alla pubblica discussione.
L’ufficio degli economisti non è, del resto, tanto quello di manifestare opinioni proprie, quanto l’altro di chiarire come siano inconseguenti e arbitrarie le premesse da cui partono di solito i propugnatori di un dato provvedimento. Il meno che, infatti, si possa pretendere in tema di protezione doganale è che l’onere della prova spetti a coloro che la chiedono. «Protezione» invero significa imposizione di un dazio alla frontiera contro il prodotto estero concorrente con quello nazionale: per esempio, nel caso dello zucchero 9 lire-oro, uguali a circa 48 lire-carta per quintale, come stabilisce la legislazione vigente, ovvero 18 lire-oro, uguali a circa 96 lire-carta, come vorrebbe l’ing. Belardini. Se lo zucchero estero deve pagare, all’entrata, 48 o 96 lire per quintale, esso rincara d’altrettanto; e d’altrettanto tende ad aumentare e per lo più aumenta il prezzo dello zucchero nazionale, non potendosi merci eguali vendere a prezzi differenti. Dunque, gli zuccherieri, chiedendo protezione, chiedono che i consumatori paghino lo zucchero 50 o 100 centesimi di più al chilogrammo di quanto altrimenti non accadrebbe. Chiedono ciò per ragioni che essi ritengono ottime; ma, poiché essi chiedono ai cittadini in genere un sacrificio, uopo è che essi, e non altri, dimostrino che il sacrificio dei cittadini è giustificato o, come altrimenti si voglia dire, compensato o legittimato da qualche ottima ragione di interesse collettivo. Se essi mi dicessero e dimostrassero che il sacrificio è richiesto dalle esigenze della difesa nazionale, tutti chineremmo il capo; e gli economisti non aspettarono a chinarlo che fosse giunto il 1914; che nei loro scritti, a cominciare da quelli del loro gran padre, Adamo Smith, nel 1776, si incontrano continue le ammissioni e le invocazioni di dazi per ragioni di difesa dello stato. Nel caso dello zucchero non ha luogo, manifestamente, la difesa del territorio nazionale. Occorre cercare qualche altra ragione meno perentoria, seppure anche ottima. La migliore che ho rintracciato nell’opuscolo del Belardini si legge, per inciso, così: «Fissata una protezione sufficiente ad eliminare la differenza media di costo fra lo zucchero nazionale e quello estero; e questo è possibile determinare ed anzi il governo dovrebbe aver modo di conoscere con sufficiente esattezza in ogni momento il costo dello zucchero nazionale e quello dello zucchero estero». Dice questa ragione che il dazio protettivo deve avere per iscopo di compensare il maggior costo della merce nazionale in confronto a quella estera. Se invero lo zucchero estero posto a Trieste costasse, astrazion fatta dalle imposte interne italiane gravanti sull’uno e sull’altro, 240 lire per quintale ed al prezzo di 240 lire le fabbriche italiane potessero vendere, senza perdere anzi ottenendo il normale lucro di intrapresa, gli zuccherieri riconoscerebbero l’inutilità di una protezione. Questa è necessaria, dicono, perché lo zucchero estero, principalmente boemo, può essere con profitto venduto a 200 lire, a 190, a 180, laddove, se lo zucchero italiano non si vende almeno a 240 lire, le fabbriche perdono e si devono chiudere. Di qui disoccupazione operaia, 130.000 ettari obbligati a cambiar cultura, capitali perduti, ecc. ecc.
Gli economisti hanno parecchio da ridire sull’impostazione medesima del problema; la quale evidentemente è assurda, perché viene a concludere col consiglio ai produttori nazionali di produrre le merci le quali costano comparativamente care a produrre in confronto di quelle che costano meno. Se, in materia doganale e monetaria per lo più non si sragionasse, tutti vedrebbero subito quanto sia stravagante siffatto consiglio, equivalente a quello di abbandonare i metodi moderni, perfezionati di produrre per i metodi antiquati e costosi. Il buon senso, se non l’economia politica, dice invece che se una merce costa troppo cara a produrre, bisogna dedicarsi a produrre quella o quelle altre merci in cui i nostri costi sono relativamente minori; le quali merci sicuramente esistono, nessuno potendo sostenere che gli italiani siano inferiori in tutto, anzi essendo vero il contrario. Che, se, per dannata ipotesi, fosse vero che gli italiani sono inferiori in tutto, ci saranno pur delle industrie in cui gli stranieri sono bravissimi, pur essendo più bravi dappertutto; sicché ad essi converrà fabbricar solo quelle cose in cui eccellono così strepitosamente, lasciando produrre a noi quelle in cui sono un po’ meno famosi.
Assurda com’è, la impostazione del problema dei costi ha tuttavia una gran presa nell’opinione volgare; sicché giova, per via di semplice ipotesi, ammetterla provvisoriamente come vera. Si consenta, dunque, a proteggere, con un dazio, quelle industrie le quali lavorino a costo più alto della industria concorrente straniera; ed il dazio sia uguale alla differenza tra i due costi.
Perché la proposizione sia applicabile conviene supporre che sia possibile od agevole la conoscenza dei due costi: nazionale ed estero. Il Belardini afferma appunto che «il governo dovrebbe aver modo di conoscere con sufficiente esattezza in ogni momento il costo dello zucchero nazionale e quello dello zucchero estero». Gli economisti, anche qui, sono di difficile contentatura e chiedono: che cosa sono i costi? di quali costi si parla? Gli zuccherieri, ad analizzare bene, sono perfettamente consapevoli della impossibilità di paragonare costi in genere; perché, quando parlano di costo dello zucchero estero, non si riferiscono oggi al costo dello zucchero francese o belga od inglese o nordamericano. Questi costi poco li interessano, a quanto sembra; ché essi fanno, oggi, paragoni esclusivamente con il costo dello zucchero boemo; ossia con quel costo estero che oggi, rispetto all’Italia, è il più basso. E vi contrappongono un costo italiano, che non si sa che cosa sia, se un costo medio, o il più alto, o un costo normale, o giusto, o chissà che cosa altro. La verità è che non esiste un costo; bensì esistono molti costi, anzi tanti costi quante sono le fabbriche. Un mio allievo, il signor Alberto Ferrante, ha quest’anno presentato, come dissertazione di laurea all’Università commerciale Bocconi di Milano, un diligentissimo studio sull’industria dello zucchero, in cui ha analizzato, anno per anno dal 1905 al 1924, e fabbrica per fabbrica, i dati contenuti in quella preziosa miniera di notizie che sono le statistiche dell’imposta di fabbricazione pubblicate dal ministero delle finanze. Mi limito ad estrarre alcune poche cifre relative all’ultimo periodo considerato, che è il triennio 1921-24:
Minimo | Massimo | |
Tenore medio zuccherino delle bietole lavorate | 12,54 | 15,81 |
Bietole occorrenti per ottenere un quintale di zucchero | 7,62 | 11,55 |
Perdite di lavorazione | 1,44 | 5,57 |
Costo bietole per quintale di zucchero | 109,50 | 181,73 |
Notisi che i dati così esposti risultano da statistiche compilate dal ministero delle finanze nel suo proprio interesse, allo scopo di garantire all’erario la più precisa percezione dell’imposta sullo zucchero. A differenza dei dati presentatici dagli interessati, i quali non si sa mai a quali fabbriche si riferiscano, le cifre ufficiali sono cifre individuali, che riguardano nominativamente tutte le singole fabbriche esistenti, da 37 a 40 nel triennio considerato. Orbene, non una sola volta i dati di costo sono uguali da fabbrica a fabbrica. Tra i minimi ed i massimi indicati sopra, vi è una gamma variabilissima di valori. Il tenore medio zuccherino delle bietole effettivamente lavorate (non bietole teoriche, immaginate a scopo di dimostrazione protezionistica) varia dal 12,54 al 15,82 per cento; le bietole occorrenti per ottenere un quintale di zucchero non sono i soliti 10 quintali – contro i 6,50 cecoslovacchi -, ma variano da 7,62 ad 11,55. Variano le perdite di lavorazione; e varia grandemente il risultante costo unitario delle bietole per quintale di zucchero. Il Ferrante conclude che, a norma dei dati del triennio considerato, dal 1921-22 al 1923-24, la produzione media di quintali 2.600.000 di zucchero si può all’ingrosso dividere in tre quote: una prima quota, di oltre 1.100.000 quintali, prodotta con un costo bietole per quintale di zucchero compreso fra 109 e 135 lire; una seconda quota, di 840.000 quintali, con un costo variabile fra 135 e 150 lire; laddove per i restanti 600.000 quintali il costo risultò compreso fra 150 e 197 lire.
Il Belardini ed in generale gli zuccherieri sostengono che la colpa del maggior costo dello zucchero italiano in confronto a quello boemo è tutta delle bietole; non della lavorazione industriale che essi giustamente si vantano di effettuare ad un costo minore: 8,22 lire per quintale di bietole in Italia contro 11 lire in Boemia. Se così è, e non v’è ragione di negare agli zuccherieri un meritato titolo di vanto, a chi si deve dare la protezione? Non certo agli stabilimenti i quali producono i 1.100.000 quintali il cui costo bietole oscilla fra 109 e 135 lire; e forse neppure a quelli i cui 840.000 quintali denunciano un costo bietole fra 135 e 150 lire. Tra il costo bietole di questi stabilimenti ed il prezzo dello zucchero boemo a Trieste, anche supponendo abolito il dazio attuale di 9 lire oro, c’è margine sufficiente a coprire le spese industriali, compreso l’interesse al capitale impiegato. In bilico e bisognosi di una protezione per vivere, sono solo gli stabilimenti i quali producono i 600.000 quintali aventi un costo bietole fra 150 e 197 lire. Anche per la protezione attuale di 9 lire oro sembra sufficiente; ma sia dunque ben chiaro che questa protezione, ove si parta dalla «assurda» premessa che i dazii siano giustificati dalla differenza tra costi esteri e costi interni, è necessaria solo per far vivere una minoranza degli stabilimenti esistenti. Gli altri vivono da sé, senza dande protettive. Quelli che abbisognano dei dazii, sono gli stabilimenti che lavorano a costi più alti, in zone meno adatte alla coltura delle bietole. Gli altri stabilimenti trovano comodo di mettere sempre avanti questa minoranza di sciancati, per eccitare la pietà del pubblico ed ottenere quindi, anche per sé, quella protezione di cui non hanno bisogno. Esiste però qualche grave, importante interesse pubblico per far pesare sui consumatori un sacrificio valutabile col dazio attuale di 50 lire carta, a 130 milioni di lire all’anno, un dazio invocato di 100 lire carta, a 260 milioni, allo scopo di mantenere in vita non l’industria zuccheriera, ma quella minoranza di stabilimenti, la quale non è capace di lavorare a costi che l’esperienza dimostra possibili in Italia?