5 febbraio 1921 – Relazione dell’Ufficio centrale del Senato
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/02/1921
5 febbraio 1921 – Relazione dell’Ufficio centrale del Senato[1]
Atti Parlamentari – Senato del Regno – Documenti
Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 405-474
Signori senatori, dei sette disegni di legge sottoposti successivamente al nostro esame possono essere fatti due gruppi: il primo che va dal n. 1 al n. 4 e comprende disegni di legge, i quali hanno già esaurita la loro efficacia per virtù del trascorrere del tempo o furono trasfusi, per quel che di essi rimane vivo, nei disegni appartenenti al gruppo successivo.
L’Ufficio centrale vi propone perciò senz’altro l’approvazione di questi primi quattro disegni di legge portanti conversione in legge dei decreti luogotenenziali 27 marzo 1919, numero 320 (rectius 370), e 24 aprile 1919, n. 618 e dei decreti regi 15 agosto 1919, n. 1.514, 4 gennaio 1920, n. 1, 15 febbraio 1920, n. 147 e 18 aprile 1920, n. 475.
Un più ampio esame parve invece necessario per i disegni di legge appartenenti al secondo gruppo, i quali regolano oggi la materia dei fitti e seguiteranno a regolarla per qualche tempo ancora. Il primo (conversione del Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477) regola in generale la materia delle locazioni nel periodo di trapasso dai tempi straordinari di guerra a quello normale di pace; il secondo (conversione del Regio decreto-legge 16 gennaio 1921, n. 13) disciplina l’istituto dei commissari del governo alle abitazioni; il terzo (disegno di legge 28 dicembre 1920) dà norme particolari per i negozi. Tutti e tre i disegni di questo secondo gruppo concernono argomenti di grande interesse pubblico e meritano attento esame.
I.
Decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477, sugli affitti .
L’Ufficio si è trovato unanimemente concorde nell’accogliere sia il concetto sia le modalità di attuazione del medesimo concetto a cui si ispira il R. decreto-legge presentato dal governo per la sua conversione in legge. Esso non può non riconoscere la necessità assoluta di un graduale ritorno alle condizioni normali ed alla libera contrattazione per gli edifizi destinati ad uso di abitazione e di commercio.
Né può nel tempo stesso disconoscere che una situazione assai grave si preparerebbe per gli inquilini se ad un tratto fosse concessa libertà assoluta ai proprietari di aumentare i canoni d’affitto. Perciò dopo matura considerazione parve a noi che, astrazion fatta dei particolari di applicazione, altro principio non vi fosse per contemperare, nel modo migliore possibile, i diritti dei proprietari con i legittimi interessi degli inquilini, all’infuori di quello della gradualità che è accolto nel decreto-legge. L’Ufficio centrale esprime soltanto a questo riguardo il voto che effettivamente si ritorni alla normalità delle contrattazioni. La sicurezza di questo ritorno definitivo è la condizione prima ed assolutamente indispensabile affinché l’iniziativa sia privata che pubblica si rivolga alle costruzioni edilizie, risolvendo così, nell’unico modo efficace, la crisi, tuttora gravissima, delle abitazioni.
Le modificazioni, che l’Ufficio centrale ha l’onore di proporre al testo del decreto-legge governativo, hanno esclusivamente per scopo di chiarire in alcuni punti la dizione del decreto stesso, così da evitare qualsiasi occasione a dispute tra le due parti contraenti.
Una variante di qualche rilievo fu ritenuto opportuno apportare al testo dell’articolo 1 del decreto-legge, nella parte la quale si riferisce agli inquilini le cui case di abitazione diventavano libere a partire dall’1 luglio 1921, in relazione a circostanze personali relative agli inquilini medesimi. Il decreto-legge stabiliva infatti che fossero completamente svincolate, a partire da quella data, le case di abitazione in qualsiasi comune fossero situate e qualunque fosse stata la pigione attuale, se gli inquilini fossero, o dovessero essere iscritti nei ruoli dei sopraprofitti di guerra o dell’imposta sull’aumento di patrimonio derivante dalla guerra per una somma imponibile non inferiore a lire 100.000.
È accaduto che, dopo la data del 18 aprile 1920, a cui risale il decreto-legge sugli affitti, fu promulgata la legge 24 settembre 1920, la quale avoca allo stato interamente i sopraprofitti di guerra. La nuova situazione di fatto creata dalla legge del 24 settembre 1920, costringe a rivedere la disposizione contenuta nell’articolo 1. Ed invero sarebbe strano che gli inquilini che ottennero bensì guadagni di guerra, ma a cui questi guadagni di guerra debbono essere interamente confiscati, dovessero subire le conseguenze nocive di una ricchezza che non è più di loro proprietà.
Parve perciò all’Ufficio centrale necessario cancellare la disposizione ora indicata.
E poiché si era cominciato a rivedere le norme relative alle condizioni personali degli inquilini, fu d’uopo tener conto di un’altra contraddizione esistente fra il decreto-legge 18 aprile 1920 sui fitti e quello 22 aprile 1920 che statuiva intorno all’imposta patrimoniale. Secondo il primo diventano liberi gli appartamenti abitati da inquilini il cui patrimonio non sia inferiore ad un milione di lire denunciato o accertato agli effetti dell’imposta straordinaria sul patrimonio; mentre a norma del secondo decreto gli accertamenti patrimoniali debbono essere mantenuti segreti, né le agenzie delle imposte hanno facoltà di dare comunicazione a chicchessia dei dati che esse posseggono in argomento. A dirimere tale contraddizione, parve necessario di aggiungere una norma per cui le agenzie dell’imposte sono autorizzate a rilasciare una dichiarazione al proprietario il quale chiegga se un suo inquilino ha o non ha un patrimonio che raggiunga la cifra di un milione di lire. La dichiarazione dovrà essere semplicemente per si o per no; raggiungendosi in tal maniera il fine voluto dal decreto 18 aprile 1920 sui fitti, senza intaccare il segreto che giustamente il legislatore volle fosse mantenuto nell’interesse principale e grande della finanza su una condizione personale così gelosa quale è il patrimonio complessivo del contribuente.
Fu considerato ancora che l’imposta patrimoniale è la sola la quale investa completamente la fortuna del contribuente e sia indice della sua potenzialità contributiva e della sua capacità a pagare un fitto cresciuto. Quello del patrimonio è dunque un criterio corretto, il quale permette di far passare senza ingiustizia un inquilino dalla categoria dei vincolati a quella dei liberi. Con più maturo giudizio non altrettanto parve potesse dirsi dell’altro criterio contenuto nella medesima lettera b, del n. 6 dell’articolo 1, quello cioè del reddito netto non inferiore a lire 50.000. Se fosse già in vigore l’imposta complementare progressiva sul reddito voluta dal decreto-legge 24 novembre 1919, e recentemente prorogata all’1 gennaio 1922, quell’indice del reddito sarebbe stato anch’esso corretto. Oggi invece noi non abbiamo sventuratamente altri indici di reddito se non quelli indicati appunto nell’art. 1, ossia gli accertamenti agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile, dell’imposta complementare del decreto 17 novembre 1918 (7) e della tassa di famiglia.
Tutti e tre questi accertamenti patiscono dei difetti della parzialità, della incompiutezza e talvolta dell’errore più evidente. Le cifre di reddito accertate ai fini di quelle tre imposte, sono quanto mai lontane dal dare un’idea compiuta di quello che sia il reddito netto effettivamente goduto da una famiglia, né la finanza verrà in possesso di un dato congruo se non quando sia entrato in applicazione il decreto sopra citato 24 novembre 1919, ossia, al più presto e nella migliore della ipotesi della velocità, verso la fine del 1922, e, più probabilmente, nel primo semestre del 1923. Parve quindi opportuno consiglio di togliere ogni indicazione relativa al reddito come quella la quale non avrebbe potuto essere feconda se non di disparità stridenti e avrebbe arrecato forsanco un danno alla finanza, in quanto che i contribuenti avrebbero resistito agli accertamenti da farsi ogni anno con vigoria tanto più forte in quanto che da un maggiore accertamento essi si dovrebbero aspettare non solo un inasprimento d’imposte, ma anche un considerevole aumento di fitto. Il quale pericolo non esiste per l’imposta patrimoniale trattandosi di denuncie già accadute e di accertamenti che si riferiscono ad un’epoca fissa, l’1 gennaio 1920, ormai oltrepassato.
Nel medesimo articolo 1, fu osservato che sarebbe stato desiderabile espressamente indicare come gli studi o gli uffici per i quali, trattandosi di coloro che prestarono servizio militare almeno per un anno, la scadenza del fitto è prorogata fino all’1 luglio 1922, siano non solo gli studi di professionisti, ma anche di coloro i quali senza essere commercianti in senso proprio tengono in conduzione uno studio o ufficio a scopo di rappresentanza. Ma all’Ufficio centrale non parve necessario modificare il testo dell’articolo, risultando dal suo contesto abbastanza chiaro che la proroga all’1 luglio 1922 si applichi a coloro i quali abbiano prestato servizio militare almeno per un anno durante la guerra, sia che essi destinino lo studio o ufficio a scopo professionale in senso stretto, ovvero alla professione di rappresentanti.
Un chiarimento è proposto agli articoli 2, 4, 5 e 6. Il testo del decreto-legge consentiva un aumento di pigione non superiore ad un tanto per cento – a seconda dei casi il 40, il 20, il 15 ed il 10% – della pigione corrisposta in forza del contratto preesistente (articolo 2) o della pigione anteriore (articoli 4, 5 e 6). La relazione del ministro guardasigilli ricorda, a questo proposito, come la dizione, adoperata nel testo del decreto-legge, si discosta da quella proposta dalla Commissione governativa, secondo la quale gli aumenti dovevano prendere come base «la pigione corrisposta al 31 dicembre 1919».
Ma il rispetto alla volontà contrattuale, osserva il ministro, e la necessità di tenere conto anche dei contratti posteriori a quella data, hanno reso opportuno di non porre un limite preciso di tempo e di indicare, come base per l’aumento «la pigione corrisposta in forza del contratto preesistente», e cioè, definisce il ministro, «in forza del rapporto contrattuale che esiste tra le partì all’entrata in vigore del decreto-legge». È evidente che il legislatore ha ritenuto, con la dizione usata, di riferirsi alla pigione pagata in base al rapporto che esisteva tra le parti al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge.
Che il concetto del legislatore fosse quello dell’attualità, risulta altresì dal disposto dell’articolo 1, n. 6, dove, per la divisione delle case od appartamenti in categorie si fa riferimento alla pigione attuale e non a quella anteriore al decreto del 30 dicembre 1917. Non è ammissibile che si usino due misure differenti per il calcolo degli aumenti, l’uno della attualità per la classificazione delle pigioni in categorie e l’altro storico per la determinazione della base su cui deve cadere l’aumento. Categorie e base sono legate insieme indissolubilmente; poiché l’aumento dipende da ambi i fattori; e sarebbe contraddittorio l’uso di due criteri differenti per ottenere un unico risultato che è l’aumento effettivo.
Sebbene dal testo del decreto-legge e dalla relazione risulti dunque abbastanza chiara la intenzione del legislatore, non sono mancati nel frattempo aspri dibattiti tra le due parti intorno alla significazione precisa della norma contenuta nel decreto-legge.
Vogliono gli uni che l’aumento debba riferirsi, come a sua base, alla pigione effettivamente pagata al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge, poiché quella pigione è appunto la risultante del rapporto contrattuale, in quel momento esistente; ribattono gli altri che il rapporto contrattuale, a cui si deve riferire, è quello originario esistente prima del decreto 30 dicembre 1917, il quale vietava aumenti di pigione. Se tra le due parti furono convenuti aumenti di pigione, essi sono stati un’anticipazione di quelli i quali dovevano legalmente essere consentiti solo a partire dai due mesi dopo la conclusione della pace. Tanto è vero che il secondo comma dell’art. 18 afferma che gli aumenti di pigione consentiti dai precedenti decreti s’intendono sostituiti, per quanto ne riguarda la misura e la decorrenza, da quelli autorizzati col presente decreto.
L’Ufficio centrale credette suo dovere di risolvere questo punto, così che non rimanesse alcuna occasione a litigi tra proprietari e inquilini, litigi suscitatori di malanimo e di discordia di classe.
Per risolverlo nel modo più opportuno esso ritenne di dover rimontare all’intenzione del legislatore. Questi volle riferirsi evidentemente ad un’epoca fissa, o a quella del 31 dicembre 1919 o all’altra del momento dell’entrata in vigore del decreto-legge, senza preoccuparsi di ricercare le origini della pigione effettivamente corrisposta in quel momento. Gelosissima cosa sarebbe invero andare a ricercare quale, nei casi in cui la pigione risultò variata, anche durante l’impero dei decreti di vincolo, sia stata la intenzione delle partì, se di anticipare aumenti per allora legalmente non consentiti ovvero di tener conto di mutate circostanze che solo le parti contraenti erano in grado di apprezzare. Risulta altresì dai lavori della Commissione governativa, da cui ebbe origine il presente decreto-legge, che le percentuali di aumento furono tenute dalla maggioranza della Commissione assai più basse di ciò che era richiesto dalle associazioni dei proprietari e di ciò che economicamente sarebbe stato equo, appunto in contemplazione della data recente a cui si doveva fare riferimento nel calcolare gli aumenti medesimi. Che se gli aumenti si fossero dovuti calcolare sulla base della pigione esistente in un momento antecedente, le percentuali di aumento proposte sarebbero state maggiori.
Per questa ragione devesi ritenere che l’unica corretta interpretazione della intenzione del legislatore sia quella la quale riferisce gli aumenti di pigione a una base calcolata al tempo della entrata in vigore della legge.
Ed in questo senso si propone la modificazione degli articoli 2,4, 5 e 6.
Non può, per contrario, l’Ufficio centrale ammettere una interpretazione sofistica che alcune associazioni di proprietari darebbero ad un’altra norma contenuta negli articoli 4, 5 e 6, e precisamente a quella la quale stabilisce nel 25 e 35% gli aumenti di pigione della seconda categoria, nel 15 e 25% quelli della terza e nel 10 e 20% quelli della quarta. Pretendono costoro, ed anche su di ciò vivo e il dibattito tra le due parti, che il legislatore abbia consentito un aumento del 25% per il primo periodo, dall’1 novembre 1912 al 30 giugno 1921, e un secondo aumento del 35% per il successivo periodo della proroga e così in totale del 60% per le abitazioni della seconda classe. E così pure, mutate le cifre, per le altre due classi. Ma questa interpretazione è manifestamente erronea, risultando chiaro da tutti i lavori preparatori e dalla stessa dizione del decreto, che il legislatore ha voluto concedere un primo aumento del 25.% ed un secondo aumento del 10% ed in totale del 35%. Sebbene questa seconda interpretazione sia chiara e indiscussa, si è ritenuto opportuno, a tutela degli inquilini, di chiarire maggiormente la medesima con la modificazione proposta agli articoli 4, 5 e 6.
Le aggiunte le quali si propongono all’articolo. 6 hanno anch’esse lo scopo di evitare inutili controversie. Poiché il decreto-legge fa frequenti riferimenti alla popolazione della città per distinguerle in classi, era necessario stabilire il criterio con cui la popolazione delle città viene calcolato. Criterio normale sarebbe stato quello della popolazione esistente secondo l’ultimo censimento. Ma poiché questo risale al 1911 e dopo di allora molti rivolgimenti si sono verificati nella popolazione delle città italiane, fu giocoforza abbandonare quella data troppo antiquata ed attenersi alla data più recente dei registri anagrafici e cioè al 31 dicembre 1919. Apposite norme regolamentari stabiliranno uniformità di criteri nel tener conto dei dati dei registri anagrafici e specialmente indicheranno se debba o meno essere compresa la guarnigione, la quale, in questi ultimi tempi, ha subito variazioni notevoli. Noi saremmo d’avviso che debba farsi astrazione della guarnigione medesima nel calcolare la popolazione al 31 dicembre 1919, poiché la guarnigione non pesa sui locali destinati ad abitazione e non ha influenza nel determinare i dati del problema che qui si tratta di risolvere.
Un altro comma aggiunto al medesimo articolo 6, risolve un’altra questione già sorta in parecchie località; se debba o meno considerarsi come unica locazione il complesso dei locali che un inquilino abbia affittato con contratti separati nel medesimo stabile. La risposta affermativa parve derivante dalla logica stessa, poiché, se anche i contratti d’affitto sono separati, non cessano i locali, che una stessa persona ha affittato nello stesso stabile, dal costituire un unico appartamento destinato alla sua abitazione.
Ancora ed allo stesso art. 6, sempre a scopo di chiarimento, fu aggiunto un comma allo scopo di definire che cosa s’intenda per pigione, ed a tal uopo fu riprodotta testualmente la definizione contenuta in un altro dei decreti – legge sottoposti al vostro esame, quello 24 aprile 1919, n. 618, concernente le case di abitazione in Roma (art. 3).
All’art. 8 alla frase «s’intende prevalente l’uso di abitazione» fu sostituita quella «si ha riguardo all’uso prevalente». Anche qui si volle rendere omaggio alla realtà e non creare un uso fittizio senza corrispondenza nei fatti. Non basta invero che in un vasto locale commerciale del valore locativo di 20.000 lire all’anno una piccola parte, del valore locativo di forse nemmeno 1.000 lire, sia destinato ad uso di abitazione, per dare a tutto il locale l’impronta, che di fatto non ha, di abitazione. La realtà è quella che è e non può essere cambiata con una finzione legale. Giova perciò a quella riportarsi, affermando semplicemente che, in caso promiscuo, si debba aver riguardo all’uso prevalente. Volta per volta il magistrato competente stabilirà quale sia questo uso prevalente.
In conseguenza della variante introdotta nella dizione degli articoli 2, 4, 5 e 6 riguardante la base per gli aumenti di pigione, manca la ragione del secondo comma dell’art. 18 e perciò si propone di cancellarlo.
L’art. 19, relativo ai commissari del governo per le abitazioni era stato dall’Ufficio centrale primamente soppresso, come appare dalla relazione precedentemente presentata sotto la data del 21 giugno 1920, stampato n. 119/A., e 126/A. Ma poiché i commissari del governo non solo non furono soppressi, ma con successivo decreto ne furono estese le attribuzioni e oggi stesso dobbiamo discutere intorno all’ultimo di questi decreti, sembrò dannoso sopprimere questo articolo, cosicché si propone di conservarlo invariato nella dizione proposta dal governo. Esso ha d’altro canto una portata ben precisa, in quanto che messo in correlazione col recentissimo decreto-legge sui commissari per le abitazioni per cui si riferisce in questa medesima relazione, significa che le attribuzioni dei commissari stessi dovranno a grado a grado andar scomparendo limitandosi alle categorie di alloggi rimaste soggette a vincoli in conformità ed in esecuzione del presente decreto. Cosicché quando tutte le abitazioni saranno ridivenute libere dai vincoli cesseranno automaticamente le funzioni dei commissari del governo per le abitazioni e per altra via si otterrà egualmente l’intento che il decreto-legge 18 aprile 1920 si propone, ossia quello del passaggio graduale da un regime vincolistico ad un altro di libertà completa.
All’Ufficio centrale è parso che le modificazioni proposte fossero sufficienti per chiarire il concetto del legislatore così da evitare qualsiasi controversia.
È vero che istanze ulteriori erano state fatte presenti per chiedere chiarimenti ulteriori e così, per esempio, chiedevasi che all’art. 11 fosse specificato come i mutamenti nelle condizioni del locatore, in riguardo alla costituzione della sua famiglia riguardassero altresì le necessità sorgenti dall’accasamento dei figli del locatore e dall’ingrandirsi e quasi sdoppiarsi della famiglia originaria.
Parve però che non occorresse mutare il testo dell’art. 11, in quanto che chiaramente questo annovera tra le gravi circostanze, di cui il magistrato dovrà tener conto, appunto i mutamenti relativi alla costituzione della famiglia del locatore. E la necessità di allogare la famiglia cresciuta dei discendenti del locatore è uno dei più evidenti mutamenti che, in questo caso, debbono essere tenuti presenti.
Un’aggiunta rilevantissima ha introdotto l’Ufficio centrale nel testo primitivo del decreto-legge ed è quella contenuta nell’articolo 19 (aggiunto). Per spiegare l’origine e la ragione d’essere di tale aggiunta conviene ricordare il concetto fondamentale che ha inspirato il decreto-legge del 18 aprile 1920. Con esso si è voluto avviare il mercato delle case ad una graduale smobilitazione, cosicché si passasse dal regime dei prezzi di fitto vincolati o politici esistente a quella data, ad un regime di prezzi di mercato simile a quello esistente prima della guerra, da ripristinarsi ad una data futura.
Divise le abitazioni in quattro categorie:
- I – Ricche, con fitti superiori a 6.000 lire a Roma ed a 4.000 nelle altre grandi città;
- II – Agiate, con fitti da 3.001 a 6.000 a Roma e da 2.401 a 4.000 nelle altre grandi città;
- III – Mediocri, con fitti da 1.501 a 3.000 a Roma e da 1.001 a 2.400 nelle altre grandi città;
- IV – Infine, con fitti non superiori a 1.500 a Roma ed a 1.000 nelle altre grandi città;
fu statuito che le abitazioni della prima categoria diventassero libere all’1 luglio 1921, quelle della seconda e della terza all’1 luglio 1922 e quelle della quarta all’1 luglio 1923.
Nel frattempo, e finché permaneva il regime di vincolo, furono sanciti aumenti graduali, così da avvicinare i fitti politici ai fitti liberi.
Il congegno aveva per iscopo di produrre una certa affluenza di abitazioni sul mercato, perché a poco a poco, ridiventando liberi i fitti e questi alzandosi, prima gli inquilini ricchi e poi quelli agiati dovendo pagare prezzi più alti, avrebbero dovuto restringere il numero di camere richieste. Cosicché, quando poi fosse ridivenuto libero all’1 luglio 1923 il grosso blocco di case, già si sarebbe prodotto un certo assestamento nelle categorie superiori e il passaggio dal regime vincolato al regime libero si sarebbe potuto operare senza sconquasso.
L’esperienza sta dimostrando che il tempo decorso dal 18 aprile 1920 non fu utilizzato e non fu potuto utilizzare a sufficienza per costruzione di case nuove. Questo era un coefficiente essenziale per il buon funzionamento del sistema; perché solo in seguito ad una abbondante offerta di nuove case, poteva la domanda nuova trovare la sua contropartita.
E la domanda nuova è o pare imponente: famiglie nuove che si costituiscono per matrimoni, famiglie emigrate dalla campagna alla città, o da città a città per ragioni d’impiego, professione, industria; desiderio dei nuovi ricchi e sovratutto delle masse di avere una casa migliore. Indice confortevolissimo, quest’ultimo, di cresciuto benessere; ma indice pure di cresciuta domanda.
Alla domanda non corrisponde sinora la offerta. Salvo le costruzioni delle cooperative favorite d’aiuto dallo stato e salvo alcune poche – in confronto al bisogno – costruzioni di case per vendite di appartamenti, finora la ripresa edilizia non ha avuto luogo.
E la scadenza dell’1 luglio 1921 (4 maggio a Napoli, 29 settembre a Milano) è alle porte per le case di prima categoria; népar lontana quella dell’1 luglio 1922 per la seconda e la terza categoria. Gli inquilini sono in grande orgasmo, non tanto per la paura di un aumento di fitto, quanto per quella di essere messi sulla strada, essi e le loro masserizie. Dicono questi inquilini: siamo disposti a pagare un fitto maggiore, anche il doppio, ai proprietari, perché riconosciamo che l’aumento delle imposte e sovrimposte e delle spese d’ogni sorta ha sminuito il reddito della proprietà edilizia.
Riconosciamo di dover di più, perché la lira con cui paghiamo il fitto, vale assai meno di quello con cui ci eravamo obbligati a pagare prima del 1918. Ma, se i fitti ridiventano liberi, noi dovremo sloggiare infallantemente e non sapremo dove collocarci, perché noi non potremo pagare le quattro e le cinque volte di prima, mentre c’è gente ben disposta a pagare tanto di più. Noi, inquilini antichi, rappresentiamo per ora e per le prime categorie di abitazioni (I, II e III che ridiverrebbero libere quest’anno e l’anno venturo) la borghesia antica, di redditieri a reddito fisso, di professionisti, di impiegati, i quali dovrebbero cedere il passo ai nuovi ricchi, che non guardano al triplo o quadruplo di prima. Colla sostituzione di costoro a noi, il problema delle case non si risolve, solo ci sposta. Saremo senza casa noi, che ci eravamo abituati ad averla; e la acquisteranno coloro a cui l’amore della casa è venuto di recente.
Queste lagnanze sono state così vive ed ,insistenti che l’Ufficio centrale si è deciso a proporre l’introduzione dell’art. 19, il quale concede una proroga straordinaria di un anno al di là delle scadenze dell’1 luglio 1921, 1 luglio 1922 e 1 luglio 1923, o date consuetudinarie a queste più vicine.
La nuova proroga è concessa per tutte le categorie, perché non si vedrebbe la ragione di negare agli uni ciò che si dà agli altri ed anche perché parve necessario conservare quel criterio di gradualità nella smobilitazione a cui si informa tutto il decreto-legge.
Essa è subordinata al pagamento di un’ulteriore percentuale di aumento di pigione. E poiché si tratta di un beneficio straordinario, e poiché giustizia vuole si riconosca che la lira ha una potenza di acquisto assai minore di prima, circa un quarto, è parso all’Ufficio centrale che la misura del doppio del fitto originario fosse equa. Pagando il doppio, l’inquilino pagherà sostanzialmente la metà e forse meno di quello che pagava prima della guerra. Si noti che il doppio non è su quel che si paga oggi, compresi gli aumenti del 40, 25, 15 e 10% disposti dal decreto-legge 18 aprile 1920, ma su quel che si pagava al 18 aprile medesimo, prima degli aumenti anzidetti.
Applicando la stessa regola per tutti, si tien conto delle istanze pervenute da quei numerosissimi proprietari di piccole case e di piccoli appartamenti, i quali non di rado conducono vita assai più stentata dei loro inquilini. Vi sono proprietari di casette, che le acquistarono per investimento dei loro risparmi e vivevano prima col reddito di 4.000 o 5.000 lire nette. Adesso il reddito, per l’aumentare delle spese ed imposte, è diminuito a 3.000 o 4.000 lire. Essi sono costretti a vivere nella loro tarda età con meno di 10 lire al giorno; e vedono famiglie d’inquilini portare a casa salari complessivi di 60, 70, 100 lire al giorno, ma rifiutarsi a pagare un aumento di pigione di 2 o 3 lire.
Trattandosi di un beneficio straordinario, ora quando già da quasi un anno è entrato in vigore il decreto 18 aprile 1920, non potevasi far astrazione dai rapporti giuridici già creati e dalle legittime aspettative già fondatesi sulla base di quel decreto; onde si spiegano le norme contenute:
- 1) nel secondo comma dell’articolo 19 medesimo, il quale dà facoltà al proprietario di abitare la sua casa o di farla abitare da persone di sua famiglia, senza i limiti che la prudente legislazione poneva all’esercizio di tal diritto;
- 2) nel terzo comma, nel quale si statuisce siano rispettati i contratti aventi data certa anteriore al 31 dicembre 1920 sia che siano intervenuti fra locatore e conduttore, sia che abbiano avuto luogo fra il locatore ed i terzi. Non possono i contratti in buona fede stipulati sulla base della legislazione vigente essere messi nel nulla da una legge posteriore. Cessate le ragioni di forza maggiore imposte dalla guerra, riprendono vigore le norme generali del diritto.
II.
Decreto-legge 16 gennaio 1921 sui commissari agli alloggi.
L’Ufficio centrale si sarebbe augurato che il governo si astenesse, conformandosi alla generica dichiarazione fatta dal governo riguardo ai decreti legge, dal promulgare un nuovo decreto legge nella materia dei fitti, ed avesse preferito invece ricorrere al metodo normale della presentazione di un disegno di legge. Questa è l’osservazione d’indole preliminare che l’Ufficio fa al Regio decreto-legge 16 gennaio 1921 sui commissari del governo per le abitazioni. L’Ufficio non si dissimula che per la risoluzione del problema delle abitazioni poco giovano, e forse potranno nuocere, i crescenti poteri attribuiti a codesti commissari per le abitazioni. I commissari furono un passo indietro nell’opera, che il decreto legge 18 aprile 1920 aveva iniziata, di passaggio graduale dal regime vincolistico al regime normale. La loro istituzione fu il portato di lagnanze venute da ogni parte, da coloro che si trovavano a disagio per mancanza di abitazioni e speravano che fosse possibile di far scomparire e di minorare il difetto di abitazioni, attribuendo nuovi poteri a funzionari governativi e comunali; illusione ingenua questa, in quantoché il problema delle abitazioni non può risolversi altrimenti che col crescere comparativo del numero delle abitazioni esistenti in confronto al numero di coloro che ne fanno domanda. Ma l’esistenza dei commissari governativi non giova affatto a raggiungere tale scopo, anzi, spaurendo quei pochi capitalisti i quali avrebbero intenzione di destinare i loro capitali alle costruzioni edilizie, sminuisce l’offerta futura di abitazioni e tende ad acuire nell’avvenire un problema la cui gravità non ha forse ancora raggiunto il suo punto culminante. L’altro grande fattore di disagio nelle abitazioni è dato dalla mancanza di mobilità degli inquilini vecchi, i quali fruiscono di fitti vincolati e stanno perciò tenacemente attaccati ai loro locali anche se questi sono diventati incomodi o esuberanti, o inferiori al bisogno, o magari lontani dalle località in cui l’inquilino esercita una professione od un mestiere, mentre cresce continuamente il numero di quegli inquilini i quali, essendosi dovuti a forza, per necessità famigliari o economiche, spostare dal luogo in cui prima abitavano, mal riescono a trovare abitazioni. Questo stato di cose, dovuto al regime vincolistico, non è affatto mutato dall’esistenza di commissari del governo. Essi invano si sforzano di smuovere l’inquilino che si trova in possesso di una abitazione, poiché l’interesse degli inquilini medesimi è ben più forte di qualsiasi disposizione, di qualsiasi minaccia legislativa, ed anzi la paura di essere frastornati dal commissario degli alloggi e di vedersi capitare in casa qualche mal gradito sub-inquilino, allontana molti, che pur vorrebbero ed avrebbero interesse a sub-affittare parte dei loro locali, dal farlo. È probabile che per alcuni pochi locali scovati e messi sul mercato dal commissario degli alloggi, ben più numerosi siano quei locali i quali sono tenuti accuratamente nascosti e indisponibili per la paura dei commissari medesimi.
Dopo aver manifestato nettamente la propria opinione negativa su l’utilità dei commissari del governo per le abitazioni, un altro problema si presenta innanzi a noi. Poiché i commissari del governo esistono, le loro funzioni debbono essere regolate in maniera tale che il nocumento derivante dalla loro esistenza diventi il minimo possibile e qualche vantaggio si possa pur dalla loro opera ritrarre. Con l’esclusivo intento appunto di rendere questo eventuale vantaggio il massimo possibile, sono stati compiuti gli studi dell’Ufficio centrale e compilati gli emendamenti di cui si dà adesso ragione.
Gioverà parlare delle questioni principali.
La prima di queste si incontra all’art. 1 . Parve all’Ufficio centrale che fosse necessario indicare partitamente i casi nei quali il commissario deve e non soltanto può, chiedere il parere della Commissione consultiva. A temperare l’arbitrio assoluto dei commissari agli alloggi assai opportuna si presenta la istituzione di una commissione consultiva, composta di rappresentanti delle due parti, quale il governo propone. Ma perché la istituzione stessa non rimanga puramente teorica, occorre, come l’Ufficio centrale vi propone, che in taluni casi gravi sia obbligatorio per il commissario sentire il parere ed in taluni casi gravissimi, debba il commissario conformarsi al parere medesimo. Appunto perciò fa d’uopo, affinché la Commissione possa dare il proprio avviso, che sia dato modo ad una maggioranza di formarsi. E si propone che i commissari nominino d’accordo un quinto membro tecnico o se accordo non vi è, il quinto membro sia scelto dal prefetto della provincia tra gli ingegneri che fanno parte del Genio civile.
Anche nella scelta dei suoi coadiutori parve opportuno togliere l’eccessivo arbitrio ora lasciato al commissario agli alloggi. La designazione di essi venga fatta dal prefetto, il quale naturalmente vorrà sentire all’uopo l’avviso del commissario.
L’art. 4, il quale disciplina le facoltà del commissario agli alloggi rispetto a coloro, i quali occupino più di una abitazione, sia nello stesso comune o in comuni diversi.
Il concetto che mosse il governo a dettare l’art. 4 fu quello di evitare che una persona tenga vuota o non permanentemente occupata un’abitazione la quale potrebbe tornare di sollievo ai numerosi senza tetto; ma nel legiferare in tal senso, parve che la lettera delle disposizioni andasse oltre il pensiero del governo e permettesse abusi e sopraffazioni da parte del commissario agli alloggi e soprattutto degli uffici da lui dipendenti, soggetti, come ogni umano istituto, ad essere fallibili.
L’Ufficio centrale ha cercato di limitare questi arbitrii sconfinati del commissario agli alloggi indicando alcune delle circostanze di cui il commissario deve tener conto per dichiarare disponibili per assegnazione le abitazioni le quali risultino non necessarie al denunciante e alla sua famiglia.
Il concetto della necessità che non era definito nel decreto-legge presentato alla nostra approvazione, fu chiarito affermandosi che il commissario dovesse, nel dare il suo giudizio, tener conto dei rapporti familiari e delle esigenze relative alla salute ed all’amministrazione del patrimonio dei membri della famiglia.
Accade non di rado che una famiglia, la quale, per ragioni di professione o di commercio o d’industria, abiti gran parte dell’anno in una città, tenga poi nel suburbio della città medesima e specialmente nel luogo di origine della famiglia, un’altra abitazione in cui per qualche tempo dell’anno la famiglia si reca.
Accade altresì che la stessa famiglia possa avere una seconda abitazione in luoghi di cura ovvero sul fondo posseduto. Queste seconde ed ulteriori abitazioni, sebbene non occupate permanentemente durante l’anno, parve opportuno di segnalare come quelle le quali eventualmente rispondono a necessità o di salute o di famiglia o di amministrazione, sicché il commissario non potesse senz’altro assegnarle ad altri.
Il chiarimento dell’Ufficio centrale è parso sovratutto necessario , in quanto la necessità di provvedere all’abitazione di coloro i quali non hanno casa, deve essere contemperato con l’interesse collettivo di molte città di cura e luoghi di montagna e di bagni, allo sviluppo dell’industria dei forestieri. Un certo numero, anche rilevante, di alloggi deve essere tenuto disponibile affine di consentire l’afflusso nelle città e villaggi di mare e di montagna ai forestieri durante la state.È una industria, la quale non può essere frastornata senza nocumento di intere regioni.
Col chiarimento dell’Ufficio centrale i commissari agli alloggi ed i delegati dei prefetti dovranno preoccuparsi di questo grande interesse collettivo innanzi di procedere all’assegnazione dei locali vuoti.
Una norma apposita si introdusse altresì per indicare che il commissario può disporre delle abitazioni vuote che siano comperate ed assegnate da cooperative od enti che fruiscono dei vantaggi della legge a pro delle case popolari ed economiche.
Nobilissimo è per fermo il compito che questa legge si propone; e giova sperare che il numero degli italiani provveduti, sua mercé, di case, cresca ognor più. Ma non giova alla collettività che l’assegnatario tenga vuota questa casa costruitagli con sacrificio dello stato e neppure l’altra che egli prima occupava.
Cautele opportune si rendono necessarie anche per tutto ciò che si riferisce alla conservazione del mobilio che il commissario agli alloggi dovesse far depositare in un luogo diverso dall’abitazione da lui assegnata ad altri.
L’Ufficio centrale ritenne che il commissario non soltanto dovesse in tal caso provvedere alla custodia del mobilio a spese dell’assegnatario dell’abitazione, ma altresì alla sua assicurazione, e buona conservazione, richiedendosi, ove egli lo creda opportuno, altresì una congrua cauzione dall’assegnatario. Venne riconosciuta ancora la facoltà dell’inquilino di collocare il mobilio di cui si tratta in quel numero di locali dell’appartamento occupato che il commissario ritenesse all’uopo opportuno.
Il trasporto e la conservazione invero del mobilio in altri locali, potrebbe essere di grave nocumento al proprietario del mobilio ed il modo più agevole di custodia sembra sia quello di restringere il mobilio stesso, in qualcheduno dei locali che il commissario ritenesse di dover occupare.
In questo stesso articolo l’Ufficio centrale ritenne di inserire una disposizione la quale consentisse al commissario degli alloggi di disporre delle abitazioni non necessarie, altresì nel caso in cui qualcuna di esse fosse occupata dal denunciante in qualità di assegnatario o di compratore o di inquilino di case popolari od economiche. Fu denunciata invero all’Ufficio centrale la tendenza di alcuni tra i soci delle cooperative o degli Istituti delle case popolari ed economiche, di non abitare essi medesimi le case ottenute a condizioni di favore e con grave dispendio dell’erario, ma di subaffittare o quelle o l’abitazione originaria, contravvenendo agli scopi a cui la cooperazione dovrebbe essere indirizzata. In tal caso non vi è ragione che queste abitazioni siano sottratte al regime comune.
Un altro punto importante è quello della scelta delle persone o famiglie bisognose di alloggi a cui il commissario del governo ha facoltà di assegnare case, appartamenti o stanze disponibili. Secondo l’articolo 6 del decreto-legge l’arbitrio del commissario del governo sarebbe pieno ed assoluto in questa scelta. Sembrò all’Ufficio centrale che qualche guarentigia dovesse essere data allo scopo di tutelare da un lato l’interesse del proprietario e dall’altro quello degli aspiranti ad ottenere una casa. Si propone perciò che il proprietario o l’inquilino subaffittante debbano sempre essere sentiti dal commissario degli alloggi innanzi che questi pronunci l’assegnazione e fu proposto altresì che innanzi di assegnare l’abitazione il commissario agli alloggi debba renderne nota la disponibilità in un apposito elenco, almeno quindici giorni prima dell’assegnazione; cosicché ogni persona bisognosa di casa possa essere edotta della disponibilità esistente e possa quindi concorrere a parità con ogni altro all’assegnazione. Quando i concorrenti all’assegnazione siano parecchi, non è bene che essa sia fatta a libito del commissario del governo, il che vorrebbe dire a libito di qualcheduno degli impiegati addetti al suo ufficio, con quali pericolose conseguenze morali è agevole immaginare. L’interesse pubblico in sostanza è perfettamente garantito quando il commissario provveda a non lasciare vuoto l’appartamento: l’occupazione dell’appartamento da parte di una famiglia è ciò che soltanto interessa la collettività. A questa invece è perfettamente indifferente quale sia la famiglia prescelta per l’assegnazione; e poiché sotto questo rispetto nessun interesse pubblico è in gioco, non vi è ragione che sia trascurato il legittimo diritto del proprietario alla disponibilità della cosa sua. Il proprietario della casa ha diritto a manifestare la sua preferenza a questa piuttosto che a quella famiglia: egli terrà conto di molteplici circostanze e poiché l’ammontare dell’affitto non è determinato da lui ma dal commissario del governo ed altre disposizioni vietano che egli possa ottenere mancie o diritti d’entrata sotto qualsiasi nome, è giusto che egli possa valutare tutti gli altri elementi morali ed economici che possono influire sulla scelta della famiglia in rapporto anche alla buona conservazione della casa. L’Ufficio centrale è venuto perciò nell’opinione che il commissario, in caso di gara tra parecchie famiglie, debba dare la preferenza a quella che sia meglio gradita al proprietario.
Nello stesso articolo 6 il decreto-legge stabilisce il diritto nel commissario degli alloggi a revocare una precedente destinazione di locali ad uso di riunioni, circoli di divertimento, sale di lettura, studi professionali, ed uffici privati, qualora la destinazione dei locali a questi usi non risalga ad una data abbastanza lontana. Pur consentendo nel principio, l’Ufficio centrale ridusse il decennio ad un quinquennio e volle che fosse chiaramente indicato che l’antichità della destinazione si riferiva non tanto al locale individualmente considerato, quanto all’ente o ditta che occupava quel locale. Potrebbe accadere altrimenti che un circolo di divertimento o di lettura, la cui vita risale forse anche a parecchi decenni ma che solo recentemente ha avuto occasione di trasferirsi da un locale ad un altro, potesse essere spossessato del suo locale per il motivo che quest’ultimo da poco tempo era stato destinato a quell’uso. Così pure non sarebbe equo che il cessionario di un ufficio professionale o commerciale, il quale è subentrato all’antico occupante, forse con grave sacrificio, corresse il rischio di essere espulso dal locale stesso solo perché egli individualmente da poco occupa il locale. Bisogna guardare alla continuità della ditta e non sacrificare inutilmente interessi rispettabili.
L’articolo 7 si occupa di un argomento di grande importanza che è quello dei restauri da arrecarsi a case dirute o altrimenti non abitabili, allo scopo di renderle adatte all’abitazione. Trattasi di un argomento gravissimo: quello di imporre sotto una forma o sotto un’altra al proprietario della casa riparazioni e restauri, nel momento presente assai dispendiosi, allo scopo di raggiungere un fine di interesse pubblico.
L’Ufficio centrale ritenne che, mantenendosi fermo lo scopo voluto dal decreto-legge, dovesse stabilirsi qualche guarentigia per impedire che ingiustamente il proprietario della casa dovesse trovarsi menomato il suo patrimonio o gravemente diminuito il reddito senza sua colpa. Propone perciò che, innanzi di prendere qualsiasi provvedimento di restauro o di riparazione, il commissario agli alloggi debba sentire il parere della Commissione consultiva e che questa non debba soltanto accertare la necessità dei lavori in rapporto al bisogno di case, ma anche la loro convenienza economica. Sarebbe ingiusto che il proprietario di una casa dovesse essere assoggettato direttamente o indirettamente a spendere una forte somma, qualora non vi fosse alcuna possibilità di vedere quella somma remunerata.
L’articolo medesimo stabilisce che, nel caso in cui il restauro o la riparazione sia fatta a mezzo del’inquilino ovvero a mezzo di amministrazioni comunali, il rimborso delle spese sostenute debba ottenersi mediante trattenuta sull’ammontare della pigione dovuta al proprietario.
Qui fu dettato che l’annualità che l’inquilino o l’amministrazione comunale possono trattenere sulla pigione, non possa superare i tre quinti, invece che i quattro quinti della pigione stessa, come proponeva il governo. Fa d’uopo lasciare al proprietario un margine per pagare le imposte e le spese; e forse il margine dei due quinti è anch’esso insufficiente.
D’altro canto, sembra equo che, mentre l’inquilino o l’amministrazione comunale anticipante ha diritto di ottenere per tal modo il rimborso delle spese sostenute, il proprietario dal canto suo abbia diritto, sia che la spesa sia stata da lui sostenuta, sia che essa sia stata sostenuta da altri, a vedere stabilita dal commissario la pigione, non nell’ammontare precedentemente in corso o corrispondente a quello che avrebbe potuto essere ottenuto per la casa diruta, ma a questo, con l’aggiunta di un importo uguale al reddito ordinariamente fornito dal nuovo capitale impiegato nei lavori e nelle riparazioni. Suppongasi, ad esempio, che la pigione corrente per la casa bisognosa di riparazioni fosse in tutto di 5.000 lire all’anno: il proprietario già poteva ottenere quella pigione nelle condizioni in cui essa si trovava precedentemente ai lavori imposti dal commissario agli alloggi. I lavori costano 100.000 lire: è evidente che la pigione della casa passa da 5.000 ad un maggiore ammontare, corrispondente alle maggiori comodità che in seguito alle riparazioni e restauri la casa presenta. Ad esempio, da 5.000 lire a 10.000 all’anno: in questa cifra deve essere fissato l’ammontare della pigione. Se la spesa del restauro o riparazione fu sostenuta dal proprietario, nessun altro conteggio sarà necessario; ove invece la spesa sia stata sostenuta dall’inquilino o da un’amministrazione comunale, questi avranno diritto di ottenere il rimborso delle 100.000 lire spese sull’ammontare dell’intera pigione di 10.000 lire insino a rimborso completamente effettuato. Insomma, con la variante introdotta dall’Ufficio centrale, si vengono a separare nettamente i due fatti: da un lato la valutazione della pigione, la quale deve essere compiuta in ragione non delle condizioni dirute antiche della casa, ma in ragione delle condizioni attuali della casa restaurata, (ciò è conforme ad equità ed al costume corrente in tale materia); dall’altro lato si tien conto della spesa sostenuta dall’inquilino o da altri che non sia il proprietario e si dà all’anticipante il diritto ad ottenere il rimborso della somma anticipata sull’ammontare della pigione.
L’art. 8, insieme con quello successivo, dà luogo ai più gravi dubbi nel titolo primo del disegno di legge. Tratta l’art. 8 della facoltà del commissario di provvedere al frazionamento di un’unica abitazione in due o più abitazioni, allo scopo di crescere la disponibilità di case sul mercato. Il governo nello stendere quest’articolo si è fatto la eco di numerose istanze pervenute da inquilini e di discussioni avvenute nella pubblica stampa e provocate da alcuni casi di grandi appartamenti abitati da poche persone, mentre, nella medesima città, schiere di aspiranti non trovano da collocarsi nel più piccolo appartamento o si acconciano ad una ripugnante promiscuità in una sola stanza. Il fatto è certamente meritevole della più attenta meditazione, ma parve dubbio all’Ufficio centrale se la facoltà del commissario di suddividere gli appartamenti fosse un mezzo congruo per raggiungere il risultato di una maggiore disponibilità di case. Statistiche precise intorno agli alloggi così detti esuberanti mancano, e qualora esse potessero essere compiute e si facesse una analisi ragionata di ogni singolo caso, assai probabilmente si giungerebbe alla conclusione che o per un motivo o per un altro, l’esuberanza risponde a circostanze particolari di necessità, di convenienze economiche, di carattere storico od artistico della casa; così che il numero degli alloggi esuberanti, realmente divisibili, si ridurrebbe a ben poca cosa. Gioverebbe meglio a raggiungere l’intento, mettere in opera l’interesse degli stessi proprietari od inquilini occupanti vasti appartamenti; ma a ciò si oppone la legislazione vincolatrice medesima, inquantoché spesso l’inquilino, il quale occupa un vasto appartamento paga per esso un fitto notevolmente minore di quello che dovrebbe pagare qualora decidesse di trasferirsi ad un appartamento più piccolo. Il solo rimedio veramente efficace per provocare la divisione di appartamenti grandi in parecchi minori, è l’equilibrarsi progressivo del prezzo delle case al prezzo di tutte le altre cose. Quando quest’equilibrio sia raggiunto, molti saranno gli attuali occupanti di vasti appartamenti i quali, nel loro medesimo interesse, saranno spinti ad abbandonarli, non essendovi più alcun vantaggio comparativo a tenere piuttosto 15 stanze che non 5 o 6 soltanto, e le 15 stanze diverranno disponibili per coloro i quali abbiano maggior bisogno di casa per il più gran numero dei componenti la loro famiglia.
Altri propose che, a raggiungere il medesimo intento insino a che la libertà delle case non sia ritornata, si istituisse un’imposta speciale progressiva sui locali esuberanti; ma anche qui gravi obbiezioni si affacciano contro l’introduzione di un tributo avente uno scopo determinato, il quale si sovrapporrebbe ad altri tributi che il legislatore abbia creduto o creda in avvenire di istituire tenendo conto di elementi di giustizia tributaria oggettivi e soggettivi. È difficilissimo trovare una regola la quale si adatti a tutte le molteplici contingenze delle varie regioni e città italiane, delle città grandi e dei borghi piccoli, delle famiglie numerose o scarse di numero, di quelle le quali abbisognano di appartamenti grandi per ragioni di studio o per ragioni di conservazione di raccolte artistiche o di memorie famigliari, talvolta persino per impero della legge, la quale vincola a destinazioni artistiche certe determinate case o i loro ambienti, ecc. Qualunque regola empirica volesse stabilirsi al riguardo, darebbe luogo a recriminazioni infinite, ad ingiustizie stridenti e mai raggiungerebbe il suo scopo. Il relatore opina che se su questa via delle imposte qualche cosa possa ottenersi per indurre gli occupanti di appartamenti molto grandi a ridurre la loro domanda di case, ciò dovrebbe farsi senza abbandonare la via maestra delle imposte ordinarie equamente perequate: gioverebbe, come fu detto sopra, il metodo delle revisioni dell’imponibile dei fabbricati in relazione all’aumento progressivo dei fitti; e gioverebbe altresì moltissimo allo scopo l’antica tassa di famiglia qualora fosse opportunamente trasformata in guisa da tenere conto principalmente non del reddito della famiglia ma della spesa sostenuta dalla famiglia, considerando come indice principale della spesa l’occupazione di un appartamento. Qualora l’imposta di famiglia, così congegnata, fosse graduata in ragione progressiva della spesa sostenuta dalla famiglia, con opportune detrazioni per le famiglie numerose e per i primi scaglioni della spesa, ecco che automaticamente l’imposta, per sé stessa corrispondente a criteri di giustizia, verrebbe ad incidere la spesa esuberante sostenuta per l’occupazione di un appartamento troppo vasto; ed ecco che l’inquilino sarebbe indotto a minorare tale spesa allo scopo di ridurre l’imposta da lui pagata. Non occorre cioè creare un istituto apposito che condurrebbe a sperequazioni inevitabili; occorre soltanto migliorare l’assetto di una vecchia e pregevole imposta già esistente nel nostro sistema tributario.
Ma astrazione fatta da ciò e venendo a discorrere delle facoltà consentite dall’art. 8 al commissario degli alloggi, parve necessario stabilire alcune guarentigie per togliere la possibilità di abusi da parte dei funzionari incaricati di applicare la norma di legge. Propone perciò l’Ufficio centrale che, tenendosi conto della gravità del provvedimento, dell’intervento gelosissimo che esso autorizzerebbe nella vita famigliare, il commissario abbia obbligo di sentire il parere della Commissione paritetica e debba uniformarsi al responso di questa: e soltanto nel caso in cui il parere della Commissione sia dato ad unanimità di voti, possa ordinarsi la separazione in due o più parti di un’unica abitazione. La Commissione innanzi di emettere il suo parere debba sentire il proprietario della casa e l’attuale inquilino dell’abitazione affinché costoro abbiano agio di esporre le loro ragioni innanzi alla Commissione stessa. Il commissario e la Commissione paritetica, nell’emanare il provvedimento e nel dare il parere intorno ad esso debbano tener conto della convenienza economica della trasformazione, della possibilità del proprietario di sopportare la spesa occorrente e per l’inquilino di pagare l’aumento di pigione necessario a rimunerare l’ammontare delle spese occorse.
Talvolta invero può accadere che un dato appartamento vasto sia tecnicamente suscettibile di essere trasformato in due o più appartamenti; ma se, ad ottenere lo scopo, non basta aprire una seconda od una terza porta sulla scala comune ed occorra costruire una scala nuova o compiere altri lavori di adattamento per cucina, latrine, ecc., ed il costo diventi eccessivo, sarebbe ingiusto che il proprietario fosse obbligato, anche non avendo i mezzi, a sopportare la spesa. Il commissario dovrebbe per lo meno assicurarsi che l’inquilino sia in grado di pagare la maggior pigione occorrente per rimunerare tale spesa. L’Ufficio centrale ritenne inoltre che dovesse essere esclusa in ogni caso la possibilità di dividere gli appartamenti, quando questi fossero situati in edifici di pregio storico ed artistico: sarebbe un grave danno se, per momentanee ragioni, dovessero essere deturpati edifici che ci furono tramandati dalle generazioni passate e che è nostro dovere di riconsegnare alle generazioni future quale testimonianza di ciò che si seppe compiere di bello e di artistico nel nostro paese. E, pur fuori di questo caso evidente, l’Ufficio ritenne che il commissario dovesse anche nelle abitazioni usuali, non aventi carattere artistico o storico, tener conto della necessità di non deturpare l’insieme dell’unica abitazione preesistente, la quale spesso corrisponde ad un tutto unico che non può essere scisso in parecchie parti senza sminuirne grandemente il valore. Con le guarentigie ora indicate, è augurabile che la facoltà lasciata al commissario degli alloggi possa essere adoperata da esso senza troppo nocumento.
Un dubbio altrettanto grave fece sorgere altresì l’art. 9, il quale sancirebbe la facoltà nel commissario degli alloggi di togliere qualsiasi valore al divieto di subaffitto che fosse stato espressamente inserito nel contratto di locazione. In realtà questa norma lederebbe profondamente, e quasi abolirebbe, le ultime vestigia del diritto che ha il proprietario sulla cosa sua: il diritto di proprietà sarebbe trasferito dal proprietario nell’inquilino, il quale diventerebbe il vero proprietario della casa e ne potrebbe disporre a suo piacimento anche contro la volontà e con grave danno del proprietario. È interesse della collettività che il proprietario di una casa possa impedire che entrino nella casa stessa sub-inquilini, i quali tengono una cattiva condotta morale, o altrimenti siano cagione di scandalo per gli abitanti della casa, o rechino danni, con guasti e rumori, alla abitabilità della casa stessa. Il divieto di subaffitto sancito in molti contratti di locazioni ha appunto questo scopo di eliminare gli inquilini non desiderabili da una determinata casa, interesse questo rilevantissimo non solo del proprietario, ma altresì di tutti gli inquilini. Non basterebbe per raggiungere l’intento disporre che il proprietario debba motivare il suo rifiuto di permettere subaffitti, poiché nella più parte dei casi tale motivazione non può essere data apertamente, e se fosse data potrebbe dar luogo a querele pericolose per diffamazione e ingiurie. D’altro canto l’Ufficio centrale ritiene che o l’art. 9 debba essere completamente soppresso, ovvero, mantenendosi esso, non si possa dar diritto al proprietario di negare senz’altro il suo gradimento ai sub-inquilini che gli fossero presentati. Esso si attenne perciò a una via di mezzo il proprietario possa negare il suo gradimento, ma il commissario abbia facoltà di vagliare i motivi del mancato gradimento, e sia obbligato a mantenere, sui motivi espostigli dal proprietario, il segreto d’ufficio. Trattandosi di una questione essenzialmente morale, fa d’uopo rimettersi al giudizio insindacabile del commissario; ma è da augurare che il commissario proceda con la maggiore circospezione in questa materia così gelosa. In ogni modo quando il subaffitto sia concesso, parve equo all’Ufficio centrale che dovesse essere accordato al proprietario unindennizzo corrispondente alla maggiore spesa che egli è chiamato a subire, perché il suo appartamento invece di essere occupato da una famiglia sola, lo sarà d’ora innanzi da due o più; ed altresì una congrua partecipazione del supplemento di pigione a cui il suo affittante ha diritto in virtù dell’art. 14. Si disse ora che il subaffitto può essere cagione di «maggiori spese» al proprietario per più abbondante consumo di acqua potabile, per spurgo immondizie, per riparazioni più frequenti, ecc. ecc., inquantoché l’Ufficio centrale non ammise che. il subaffitto potesse essere esercitato per tutta l’intiera abitazione, ma soltanto per una parte di essa. Scopo di questa legislazione è invero quello di accrescere la disponibilità delle case. Se al vecchio inquilino si sostituisse soltanto, contro la volontà del proprietario, un nuovo sub – inquilino, non si aumenterebbe affatto il numero delle case disponibili, si cambierebbe soltanto la persona dell’occupante. E poiché soltanto questo scopo si ottiene, parve ragionevole che il vantaggio eventuale del mutamento non debba andare a profitto d’intermediari, com’è l’inquilino, ma del vero proprietario della casa. Sarà più facile che in un rapporto diretto tra proprietario e inquilino sub-entrante, ambe le parti abbiano ad essere avvantaggiate sia per l’ammontare dell’affitto, sia per le altre pattuizioni inerenti alla locazione. Il subaffitto deve perciò essere consentito solo quando esso sia parziale, perché soltanto in tale caso si raggiungerà l’intento che, invece di una, siano parecchie le famiglie che trovano da allogarvisi; e in questo senso l’articolo 9 è stato modificato.
All’articolo 11 furono arrecate modificazioni di forma, non di sostanza. Fu pensiero del governo di disciplinare con esso la materia delle sospensioni degli sfratti i quali avvengono innanzi che siano scaduti i termini di proroga concessi dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920. Ma il primo e l’ultimo capoverso si prestavano all’equivoco che il commissario potesse invece concedere un ulteriore periodo di proroga equivalente a quello sancito dal decreto 18 aprile 1920. Poiché ciò non si vuole, è meglio sia detto esplicitamente con dizione non suscettiva di interpretazioni diverse. E fu aggiunto che nessuna sospensione di sfratto può essere concessa a chi possa occupare un appartamento di sua proprietà, anche se acquistato od assegnato da società cooperative. Altrimenti verrebbe a mancare lo scopo della legge che è di non lasciare case vuote . Fu pure chiarito che la sospensione dello sfratto non possa equivalere di fatto alla possibilità per l’inquilino di sottrarsi bellamente – pretestando l’impossibilità di trovare altra casa – all’obbligo di pagare la pigione ed i relativi aumenti di legge.
All’articolo 12 l’Ufficio centrale osservò che la facoltà del commissario del governo di sospendere gli sfratti per i locali tenuti in fitto da pubbliche amministrazioni e destinati all’uso di servizi pubblici di interesse generale, potrebbe contrastare al raggiungimento dello scopo che il presente decreto-legge giustamente si propone all’articolo 18, di affrettare la smobilitazione dei locali occupati da uffici civili e militari che abbiano carattere provvisorio. Ed invero da un lato l’articolo 18 ordina lo sloggio degli uffici provvisori e il loro collocamento in baracche costruite appositamente, dall’altro l’articolo 12 dà facoltà al governo di impedire gli sfratti per i locali tenuti in fitto da pubbliche amministrazioni. Poiché lo scopo voluto dall’articolo 18 è grandemente lodevole, parve opportuno di limitare la facoltà del commissario del governo di sospendere gli sfratti ai locali tenuti in fitto da quelle pubbliche amministrazioni che li destinassero ad un servizio pubblico d’interesse permanente e generale, come le scuole, gli uffici giudiziari, gli uffici postali e fiscali, escluso qualsiasi servizio avente carattere occasionale o determinato dalle contingenze di guerra. In tal modo vien tolta la contraddizione che poteva vedersi fra gli articoli 12 e 18 e viene riaffermato il concetto che gli uffici straordinari debbano nel più breve tempo possibile essere disciolti, per lasciare i locali da essi occupati a vantaggio della popolazione bisognosa di case.
Parve giusto di definire, nei casi nei quali il commissario del governo può sospendere gli sfratti a pro delle pubbliche amministrazioni di carattere permanente per un altro anno oltre ai termini concessi dal decreto 18 aprile 1920, di determinare un po’ meglio che cosa si debba intendere per equo aumento di pigione. E a tale scopo l’Ufficio centrale non credette di poter trovare una formula migliore di quella che il governo stesso ha proposta nel disegno di legge 28 dicembre 1920 sulle locazioni dei negozi. Quella formula venne perciò trasfusa nel secondo comma dell’articolo 12. All’articolo 17 si propone la soppressione del secondo comma, il quale considererebbe pagate a conto pigione somme che un inquilino o subinquilino abbia pagato anche a terzi a titolo di buona uscita o buon ingresso. Sta bene che tali obblighi di pagamento siano da considerarsi nulli; ma è chiaro che se bastasse obbligarsi verso un terzo a pagargli una data somma a tal titolo per poterla imputare col fitto, troppi casi di frode a danno di proprietari si verificherebbero. Che colpa ha il proprietario se l’inquilino entrante ha dovuto pagare una mancia all’inquilino uscente o al portinaio o a un mezzano qualunque? Egli che ha già il danno di vedere i denari passare per mani altrui senza riscuoter nulla, subirebbe la beffa di vedersi decurtato il fitto che onestamente e giustamente gli spetta solo perché altri si è arricchito.
All’articolo 19 l’Ufficio ritenne di dover inserire una disposizione la quale sancisse il diritto del danneggiato da un provvedimento del commissario di gravarsi dinnanzi all’autorità giudiziaria competente per nullità, inosservanza delle forme in questa medesima legge indicate o per eccesso di potere. È un diritto che non può essere negato; e che poteva supporsi soppresso dal carattere discrezionale attribuito dalla legge ai commissari.
L’ultimo comma dello stesso art. 19 parve superfluo da un lato e consente dall’altro una inammissibile facoltà del commissario di passar sopra a qualunque norma di legge.
L’articolo 20 suscitò larghe discussioni nell’Ufficio centrale, in quanto che, dopo aver riaffermato il concetto che le attribuzioni conferite al commissario del governo non possono essere esercitate rispetto agli edifici dichiarati abitabili o costruiti dopo il 29 marzo 1919, in parte annulla l’efficacia di tale riaffermazione, dando facoltà al commissario del governo di occupare anche questi edifici con la sola cautela di prefiggere al proprietario un congruo termine per affittarli direttamente. Il punto si presenta gravissimo in quanto che tutta la legislazione di guerra relativa ai fitti ha finora evitato di creare vincoli per gli edifici dichiarati abitabili o costruiti dopo il 29 marzo 1919. Contro la obiezione sollevata da tutti coloro che si occuparono dell’argomento, che il sistema vincolistico costituiva un ostacolo gravissimo alle nuove costruzioni, perché nessun capitalista o risparmiatore si sarebbe azzardato ad investire i capitali suoi ancora liberi nella costruzione di case, qualora avesse temuto di venir soggetto a vincoli per l’ammontare della pigione e per altri motivi, così da non avere una remunerazione sufficiente al capitale investito, sempre fu risposto dal governo e dai difensori del sistema dei vincoli, che questi vincoli si riferivano soltanto alle case vecchie, ma non dovevano in alcun modo toccare le case nuove. E si aggiungeva che appunto la sicurezza assoluta di avere la disponibilità delle case nuove costruite, avrebbe indotto i risparmiatori e i capitalisti ad accorrere a questa industria e avrebbe facilitato la messa sul mercato di nuove abitazioni, rimedio unicamente riconosciuto da tutti efficace per la risoluzione del problema delle case. La libertà delle case nuove viene oggi dall’art. 20 grandemente scrollata, in quanto che il commissario del governo può, dopo aver prefisso al proprietario un termine che a lui paia congruo, disporre senz’altro dei locali a favore di persone da lui designate; può in secondo luogo far eseguire lavori complementari, che egli giudichi utili per la completa abitabilità della casa e può vietare finalmente al proprietario della casa nuova di adibirla ad uso diverso da quello di abitazione, salvo che da lui sia stata rilasciata apposita autorizzazione. Ecco risorto il sistema dei vincoli, se pure in una forma alquanto più attenuata di quella vigente per le abitazioni vecchie; ed ecco il pericolo che si attenui l’interesse da parte dei capitali liberi ad investirsi nell’industria edilizia. Non dubitò perciò l’Ufficio centrale che convenisse proporre la soppressione degli ultimi comma dell’art. 20; il costruttore deve essere lasciato libero di dedicare la sua costruzione a quel qualunque uso che a lui sembri più opportuno. Se anche quest’uso sia tutto o in parte diverso da quello di abitazione, è probabile che esso sia quello che corrisponde al bisogno più urgente del momento presente, ché se non fosse più urgente darebbe per fermo un reddito minore e non sarebbe preferito dal costruttore. Sicché si può affermare che l’uso scelto dal costruttore è quello che risponde al criterio della massima convenienza per la collettività. Del pari l’ipotesi che il costruttore, il quale abbia quasi ultimata la casa, non compia quei lavori complementari che ancora fanno d’uopo per renderla del tutto abitabile, non sembra che sia adeguata alla realtà; e per un’ipotesi così inverosimile non è opportuno di scrollare nell’anima dei costruttori la ferma persuasione di poter liberamente disporre della casa costruita e scemare per conseguenza l’interesse che possono avere a dedicare i propri capitali a tal ramo d’industria. Apparve esitante invece l’Ufficio centrale rispetto al contenuto principale dell’art. 20 ossia alla facoltà del commissario del governo d’impedire che siano tenuti vuoti gli edifici nuovi tutta volta che siano ultimati. In principio è utile lasciare, per le case nuove, la massima libertà; d’altro canto non si può disconoscere che, quando l’edificio nuovo sia tenuto vuoto per semplice capriccio del proprietario, vi sia un certo interesse del governo ad intervenire, perché tal danno non si verifichi. La norma, così come era proposta dal governo, appariva troppo arbitraria; l’Ufficio centrale ritenne di potere egualmente conseguire lo scopo d’impedire che siano tenuti vuoti i locali nuovi e nel tempo stesso salvaguardare la persuasione nei costruttori di essere liberi di disporre della casa costruita, stabilendo i termini precisi, dopo il trascorrere dei quali soltanto debba esser concessa al commissario del governo facoltà d’intervenire. E perciò si aggiunse che i nuovi edifici non solo debbano essere ultimati, ma debbano essere altresì dichiarati abitabili, in conformità dei regolamenti locali d’igiene ed edilizia e debba esser trascorso un periodo di sei mesi dal decreto di abitabilità e di tre mesi dalla notifica del commissario. Soltanto quando siano trascorsi questi termini esiste la presunzione che il proprietario mantenga vuoti cotali locali nuovi, non per motivi plausibili, ma per motivi contrari all’interesse generale e soltanto allora può ammettersi che il commissario del governo abbia facoltà d’intervenire. Fu aggiunto altresì che nell’assegnazione di locali disponibili il commissario debba comportarsi per i locali nuovi secondo le stesse regole che all’art. 6 furono stabilite per i locali antichi.
L’art. 20 bis fu aggiunto dall’Ufficio centrale per risolvere, in via equitativa, un vessato problema.
Il decreto-legge 18 aprile 1920, come del resto tutti i precedenti, si riferisce esclusivamente ai contratti i quali siano già scaduti o vengano a scadere entro i termini per i quali il decreto stabilisce una proroga delle scadenze delle locazioni.
La legislazione (13) vincolatrice finora non si è occupata dei contratti in corso, rispettando la volontà dichiarata delle parti. Fu osservato che in tal maniera vien ad essere gravemente leso l’interesse di quei proprietari i quali affittarono le loro case ed i loro appartamenti con contratti, stipulati prima che si pronunziasse e poi si accentuasse la svalutazione della moneta.
Il problema può essere posto alla seguente maniera.
Quei proprietari i quali locarono le loro case con contratti la cui data di stipulazione è posteriore al 31 dicembre 1917 ossia posteriore al primo decreto di vincolo di affitto, stipularono i loro contratti in un’epoca nella quale essi potevano fondatamente tener conto della circostanza che il fitto veniva stipulato in una moneta soggetta a violente oscillazioni nella potenza di acquisto. Essi corsero cotale rischio cogli occhi aperti e devono perciò subire le conseguenze buone o cattive dell’atto compiuto. È vero che essi affittarono la casa per una pigione di 10.000 lire e poi le 10.000 lire hanno un valore oggi notevolmente minore di quello che avevano all’epoca della conclusione del contratto, ma già si sapeva allora che la lira tendeva a svalutarsi ed è presumibile che essi si siano premuniti contro questo pericolo ed alla stipulazione del contratto abbiano chiesto una cifra adeguata di pigione.
La cosa sta diversamente per i proprietari i quali stipularono un contratto a lunga scadenza prima della data 1 gennaio 1918. Essi contrassero o rinnovarono in condizioni profondamente diverse da quelle attuali. Infatti la data dell’1 gennaio 1918 legalmente può essere considerata l’inizio della tendenza al rialzo dei fitti ossia della ripercussione, sul mercato delle case, della svalutazione monetaria.
Prima di allora non potevasi fondatamente prevedere quale sarebbe stata la variazione di valore della moneta. È vero che allora la lira sterlina aveva superato le 40 lire, ma nessuno prevedeva che sarebbe giunto il giorno in cui il valore avrebbe persino toccato le 110 lire, e tutti auspicavano ed auguravano un pronto ribasso dei cambi ed una completa e pronta rivalutazione della moneta italiana. Quindi le pigioni convenute prima dell’1 gennaio 1918, portano l’impronta di un’epoca monetaria profondamente diversa dall’attuale. I proprietari i quali stipularono una pigione di 10.000 lire, ritenevano di esser pagati in una moneta buona avente un dato valore di acquisto. E tale era altresì l’opinione dell’inquilino nel momento in cui il contratto venne stipulato.
In seguito le cose sono profondamente cambiate per ragioni alloraimprevedute e derivanti quasi da forza maggiore. Sono mutate lo basi del contratto, ed oggi in realtà, il locatore continuando a ricevere 10.000 lire di pigione, riceve una somma notevolmente inferiore a quella che egli e l’inquilino, nel tempo stesso, avevano in mente quando stipularono il contratto.
Giustizia vorrebbe perciò che per i contratti aventi una durata così lunga e scadenti dopo i termini dei periodi di proroga stabiliti dal decreto 18 aprile, fosse concessa una revisione dei canoni di affitto. Il legislatore si è già messo su questa via di equità per quel che riguarda gli affitti agrari, per cui i proprietari hanno diritto di chiedere un aumento di canone fino al 20%, anche durante le more del contratto.
Si tratta soltanto d’interpretare la vera volontà delle parti la quale se manifestatasi prima dell’1 gennaio 1918, si era affermata sul pagamento di una data quantità di moneta buona, non soggetta a rinvilio durevole.
Tuttavia nonostante questa ragione evidente di giustizia, la proposta di estendere ai contratti antichi gli aumenti di affitto portati per le diverse categorie di città e le diverse classi di ammontare di affitto dal decreto legge 18 aprile, sembrò non fosse compatibile con la economia del decreto, in quanto esso ha per scopo di vincolare i fitti nell’interesse degli inquilini, per impedire, alla scadenza dei contratti, aumenti che il legislatore ritenne troppo forti nelle pigioni.
Il concetto da cui muove la proposta è completamente diverso. Il legislatore dovrebbe intervenire per rivedere i contratti diventati ingiustamente troppo favorevoli agli inquilini e per dare un giusto risarcimento ai proprietari.
Se il decreto 18 aprile 1920 non era il luogo opportuno per operare questa revisione dei contratti in corso, parve lo fosse il decreto sui commissari agli alloggi, come quello che ha per scopo di introdurre nella materia un elemento prudenziale e non rigido. Di qui il nostro articolo 20 bis, il quale cerca di attuare il concetto contemperando le ragioni di ambe le parti.
Se era parso all’Ufficio centrale in quella sede che non si potesse discutere dell’argomento perché il decreto 18 aprile aveva esclusivamente per iscopo di regolare il trapasso dal regime vincolistico al regime della libera contrattazione, sembrò invece che l’occasione di regolare la materia fosse appunto quella del decreto-legge sui commissari degli alloggi.
L’azione del commissario degli alloggi non si restringe a regolare il passaggio dal vecchio al nuovo, ma ha un campo più largo e determinato, ed ha soprattutto per scopo di introdurre un elemento di equità nei rapporti fra le due classi sociali secondo il prudente arbitrio del commissario stesso. L’Ufficio centrale avvisò perciò che qui si potesse stabilire la facoltà nel commissario degli alloggi, per i contratti stipulati anteriormente ad una certa data, di consentire un equo aumento, ma mai superiore a quelli stabiliti dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920 per le corrispondenti classi di città e di valori. Trattandosi di una modificazione di contratti in corso, si dovette escludere la possibilità che ai canoni stipulati si applicasse altresì l’aumento portato dall’art. 19 (aggiunto) del R. decreto-legge 18 aprile 1920, in quanto esso è un aumento straordinario ordinato per dare un ultimo respiro agli inquilini. Così limitata, della facoltà concessagli il commissario degli alloggi farà uso quando riscontri essere evidentemente mutate le condizioni in base alle quali le due parti avevano contrattato prima di quella data.
S’intende che la facoltà del commissario degli alloggi non va oltre alla revisione dei canoni dei fitti nella misura massima stabilita dal decreto 18 aprile 1920; ma i termini convenuti debbano essere mantenuti fermi anche se vanno molto al di là di quelli stabiliti nel decreto 18 aprile 1920, per gli alloggi il cui contratto di locazione fosse già scaduto.
Dell’articolo 21 l’Ufficio centrale propone senz’altro la soppressione. Sarebbe invero singolare che un magistrato, come è in sostanza il commissario del governo, il quale emana provvedimenti e decide controversie, fosse difeso dalla Avvocatura erariale in giudizio. I contendenti hanno bisogno di difesa dinnanzi al giudice; non mai il giudice medesimo. Ed il commissario è sotto molti rispetti un vero giudice.
L’articolo 24 riproduce una norma di un decreto-legge precedente, secondo la quale gli edifici che servivano ad uso d’albergo prima della guerra e furono venduti con mutamento di destinazione, senz’essere stati convertiti in ordinaria abitazione, possono, con decreto del ministro dell’Industria, essere assoggettati al riscatto per il prezzo risultante dagli atti di vendita. La norma viene mantenuta anche dall’Ufficio centrale, ma con un’aggiunta determinata dal rilevante lasso di tempo trascorso dal momento nel quale il primitivo decreto in materia è stato emanato. Dare oggi diritto al riscatto per il prezzo risultante dagli atti di vendita significherebbe arricchire il venditore a danno del compratore, il quale pagò in una data moneta mentre oggi sarebbe rimborsato in una moneta assai più scadente. Si propone perciò che per i riscatti ancora da effettuarsi a partire dal giorno della pubblicazione della legge, debba tenersi conto della svalutazione della moneta intervenuta nel frattempo, cosicché la somma pagata per il riscatto, realmente equivalga alla somma che era stata ricevuta dal compratore.
Unanime fu l’avviso dell’Ufficio centrale nel proporre la soppressione dell’articolo 28.
Questo darebbe facoltà al Ministero dell’Industria o del commercio, su proposta o parere dell’Ente nazionale per industrie turistiche, di promuovere la costruzione, trasformazione e utilizzazione per uso di albergo di quei palazzi, ville o scuole attualmente inutilizzate o con destinazione prevalentemente voluttuaria, che per i pregi speciali della loro posizione, potrebbero con la destinazione ad albergo far rifiorire l’afflusso dei forestieri, facendo realizzare notevoli vantaggi alla economia nazionale.
Nella legislazione di guerra à difficile trovare una disposizione che, per mero interesse privato, sconvolga così profondamente i diritti della proprietà privata.
Un palazzo, una villa od una scuola potrebbero essere tolti all’attuale proprietario anche contro la sua volontà, solo perché piace ad un albergatore di appropriarsene, allo scopo di esercitare una industria la quale è da considerarsi benemerita, ma non lo è certamente più di una qualsiasi altra industria.
L’afflusso dei forestieri ed il vantaggio dell’economia nazionale non si ottengono per mezzo di simili attentati all’istituto della proprietà privata.
L’espropriazione per ragioni di pubblica utilità deve essere consentita soltanto nei casi in cui realmente sia in giuoco un interesse collettivo; ma non si può seriamente sostenere che sia un interesse collettivo distogliere ville e palazzi, forse anche di carattere storico, i quali in ogni modo costituiscono un elemento della bellezza naturale del nostro paese, per destinarli all’uso di una popolazione continuamente mutabile, la quale verrebbe a godere quasi a forza dei vantaggi che generazioni intere di famiglie italiane, hanno cercato di conseguire con investimenti di capitali e con dispendi rilevanti, che, non sarebbero probabilmente stati fatti qualora si fosse potuto, anche lontanamente, pensare che essi sarebbero stati devoluti a vantaggio della folla cosmopolita che visita l’Italia.
È utile che questa venga nel nostro paese, e lasci in compenso delle prestazioni di merci e di servizi da noi fatti un giusto guiderdone, ma è altresì giusto che se essa vuol godere di questi vantaggi, li paghi ad un prezzo liberamente dibattuto fra coloro che possono disporre di questi vantaggi e coloro che li vogliono godere.
Il dilemma è chiaro: o i forestieri sono disposti a pagare un prezzo sufficiente per godere le ville ed i palazzi di cui si tratta, ed allora non vi sarà proprietario il quale per mero capriccio, si ostini a negare la vendita della cosa sua; a meno che al palazzo o alla villa si annodino tali ricordi famigliari che facciano passare sopra alle offerte di prezzo le più rilevanti, ed in tal caso sembra che sia grandemente da lodarsi quel privato il quale antepone la conservazione di tradizioni storiche famigliari al godimento di vistose somme in denaro. Le famiglie che così operano dovrebbero essere lodate e non invece multate e perseguitate a libito di una qualsiasi società di albergatori.
Od invece il prezzo a cui gli albergatori pretendono di impadronirsi del palazzo o della villa altrui è insufficiente, ed in tal caso non si vede la ragione per la quale i proprietari di palazzi e ville debbano spogliarsene per un privato vantaggio degli albergatori e dei loro clienti.
L’Italia non ha affatto bisogno della clientela di forestieri i quali vogliono godere i benefici del nostro paese a sottoprezzo.
Che dire poi della norma contenuta nel comma terzo dello stesso articolo 28, con cui si predispone la costituzione di apposite società per l’eventuale costruzione o per l’esercizio degli alberghi negli immobili di cui è questione, corrispondendo al proprietario il prezzo in azioni della società, ovvero computando l’immobile come suo apporto nella società?
In tal modo il proprietario di un palazzo e di una villa verrebbe ad essere quasi costretto a trasformarsi in un azionista di società commerciali, anche quando egli non ha nessun desiderio di correre le alee di siffatte società, ed anche quando egli desideri conservare nel suo patrimonio la casa o villa come tale, e non vederla trasformata in azioni di una società la quale forse potrebbe fare dei cattivi affari, con suo grave nocumento.
Questa norma è anch’essa inaccettabile e contribuisce a rafforzare il convincimento dell’Ufficio centrale che l’art. 29 debba senz’altro essere soppresso.
Si propone altresì la soppressione dell’articolo 31. Che possano essere concentrati in un unico ed adatto fabbricato i ricoverati di varie istituzioni pubbliche di beneficienza allo scopo di far posto ai senza tetto, come dispone l’articolo 30, sta bene. Ma non parve ne discendesse la conseguenza di una procedura speciale rapidissima per il raggruppamento delle istituzioni pubbliche di beneficienza, come vorrebbe l’art. 31. La materia è grave, controversa e val meglio astenersi dal legiferare su di essa in occasione di un decreto-legge sui commissari agli alloggi.
L’aggiunta di un articolo 33 bis al testo del decreto-legge ha per scopo di ripetere la stessa norma che è già contenuta nel decreto 18 aprile 1920, secondo cui i poteri del commissario degli alloggi sono limitati alla categoria di alloggi soggetti a vincoli. Occorreva a scopo di euritmia che i due decreti legge venissero fra di loro coordinati e che come in quello del 18 aprile 1920, le facoltà del commissario degli alloggi vanno gradatamente morendo mano a mano che le diverse categorie di alloggi entrano nel circolo della libera contrattazione, così pure si affermasse nel decreto sui commissari degli alloggi.
III.
Disegno di legge 28 dicembre 1920 sui negozi.
Passando ora a studiare il disegno di legge 28 dicembre 1920, contenente provvedimenti per le controversie relative alle locazioni dei negozi, l’Ufficio centrale deve innanzi tutto dichiarare che il disegno di legge si compone di due parti sostanzialmente ben distinte, l’una che ha carattere transitorio, l’altra che ha carattere permanente. Di quest’ultima, la quale si riferisce alla lettera c dell’articolo 3 e all’articolo 6, si parlerà in appresso, come quella che merita maggior meditazione, trattandosi di norme le quali dovrebbero avere carattere permanente.
Il resto del disegno di legge ha invece carattere provvisorio e sotto questo punto di vista deve essere considerato. Il disegno di legge stesso in questa sua parte si rannoda ad una vivace agitazione sorta nella classe dei commercianti dopo la pubblicazione del Regio decreto-legge 18 aprile 1920.
Appena questo fu conosciuto, alte lagnanze vennero da parte dei negozianti e commercianti di ogni specie nonché, sebbene in minor misura, dai professionisti, i quali vedevano dichiarati liberi da ogni vincolo i loro locali a partire dalla data dell’1 luglio 1921.
Instarono invero le associazioni di commercianti affinché per i locali di commercio fosse concessa una proroga rispettivamente all’1 luglio 1922 e all’1 luglio 1923, in ragione di valore, così come il decreto-legge 18 aprile 1920 aveva fatto per le minori classi di appartamenti destinati ad uso di abitazione. Era parso tuttavia al l’Ufficio centrale così come al governo che le ragioni le quali avevano consigliata la proroga per le abitazioni non sussistessero affatto per i locali commerciali. Erano stati prorogati gli affitti delle abitazioni occupate dalle classi medie lavoratrici, in quanto sarebbe stato troppo grave l’aumento dei fitti che si sarebbe verificato ove tutti gli appartamenti fossero divenuti liberi al 30 luglio 1921, come prescriveva il decreto-legge precedente a quello 18 aprile 1920. Era stato perciò necessario, a fine d’entrare, senza danno eccessivo per l’economia famigliare, nel regime normale della libertà delle contrattazioni, che intercorresse un tempo sufficiente da un lato all’adattamento delle medesime economie al nuovo livello delle pigioni, dall’altro alla ripresa delle costruzioni edilizie.
La proroga fu un atto di tutela dell’economia privata delle classi sociali meno capaci di sopportare l’urto di un improvviso aumento di pigione. I locali invece destinati ad uso commerciale non cagionano una spesa ad una economia famigliare ma invece una spesa di esercizio per aziende commerciali, industriali e per intermediari o professionisti. La pigione di questi locali è dunque un elemento del costo di produzione, il quale segue le oscillazioni dei prezzi dei prodotti e dei servizi venduti da coloro che occupano questi locali. Le classi commercianti e anche in notevole parte quella dei professionisti, trassero notevoli vantaggi dall’aumento dei prezzi verificatosi negli ultimi anni. L’incremento dei prezzi non è stato la conseguenza di un aumento, non ancora verificatosi, nelle pigioni, ma precorse di gran lunga l’aumento che era soltanto preveduto a partire dall’1 luglio 1921. Né è probabile che nel momento attuale le classi commerciali abbiano il potere di aumentare per loro iniziativa i prezzi dei prodotti, soltanto perché la pigione dei locali occupati si adeguasse al livello generale dei prezzi; il distacco fra i prezzi cresciuti dei prodotti e il prezzo invariato dei locali costituisce un vero privilegio di coloro i quali si trovano ad occupare i locali stessi.
Nulla fa neppure lontanamente supporre che i negozianti abbiano fatto pagare ai consumatori prezzi minori di quelli che sarebbe stato possibile stabilire solo perché essi poterono fruire dei vincoli legislativi a proprio vantaggio. Tuttavia parve al governo, col disegno, di dover tenere in certo qual modo presenti le querele di quei commercianti e professionisti, i quali paventano rialzi enormi nelle pigioni alla scadenza fatale dell’1 luglio 1921.
Finché i rialzi di cui si ha notizia si fossero limitati a quelli che ragionevolmente potevano supporsi in funzione del diminuito potere di acquisto della moneta, non vi sarebbe stata ragione di preordinare un nuovo periodo di proroga; e sebbene nella maggior parte dei casi gli aumenti di cui si discorre non siano superiori alle misure ora denunciate, conviene riconoscere che talvolta gli aumenti stessi giungono a misura molto più elevata, fino a dieci e quindici volte l’affitto originale. Sono questi coefficienti di moltiplicazione che hanno impressionato la classe dei commercianti ed hanno altresì indotto il governo a proporvi l’estensione ad un ulteriore anno, a partire dall’1 luglio 1921, della proroga consentita nel decreto-legge 18 aprile 1920. Tuttavia il governo non propone senz’altro una proroga di diritto, né stabilisce quale sia la percentuale d’aumento che durante il nuovo anno di proroga dall’1 luglio 1921 al 30 giugno 1922 dovrà essere pagata dai commercianti o professionisti interessati. Il sistema escogitato nel presente disegno di legge è diverso: l’istituzione di una Commissione arbitrale paritetica presieduta dal pretore, la quale decide sulla convenienza della proroga e sull’ammontare dell’aumento della pigione. L’Ufficio centrale pur non nascondendosi che tale ulteriore proroga nuocerà al raggiungimento di quella normalità da cui soltanto potrà derivare la risoluzione del problema dei fitti e delle abitazioni, deve riconoscere che, ammesso il principio della proroga, il sistema escogitato dal governo contempera equamente gli interessi delle due parti. Da un lato stabilisce che la proroga debba essere consentita soltanto in determinate circostanze di impossibilità o di gravi difficoltà nel conduttore di procurarsi altro locale, ed anche in questo caso subordina la proroga alle contrarie imprescindibili necessità del proprietario. D’altra parte elenca i criteri di cui la Commissione arbitrale dovrà tener conto nello stabilire la misura della pigione, ed in primo luogo ordina alle commissioni stesse di tener conto dei mutamenti nella svalutazione della moneta in relazione all’inizio del contratto e alla sua durata successiva e in secondo luogo anche degli oneri – e l’Ufficio centrale specifica facendo menzione qui dei tributi – gravanti sulla proprietà fondiaria e dei cambiamenti seguiti nello stato, nella situazione e nel valore dei locali affittati. Le commissioni arbitrali avranno tuttavia un largo margine discretivo entro cui potranno muoversi. L’Ufficio centrale crede necessario di far voto espresso, allo scopo di restringere il margine di arbitrio delle commissioni, affinché il ministro del Commercio e dell’industria pubblichi nel regolamento per l’applicazione di questa legge criteri precisi intorno alla svalutazione della moneta a partire dall’inizio della guerra europea.
La svalutazione della moneta può essere misurata in diverse maniere, di cui la più esatta sarebbe quella di tener conto della potenza di acquisto della lira italiana nelle merci e nei servizi acquistati in Italia. Ma se il calcolo pare troppo complicato e non certo, una misura della svalutazione della moneta, sebbene inferiore al vero, può aversi confrontando, nei successivi momenti, il prezzo della lira con quello dell’oro sui mercati internazionali, ovvero del dollaro nord – americano che è la moneta la quale ha conservato durante tutti i periodi di guerra, e anche dopo, il rapporto più stretto con l’oro. Vedrà il governo quanta parte o se tutta la svalutazione della lira in confronto all’oro debba ritenersi come svalutazione in confronto alle merci nell’interno dello stato. L’indizio può essere considerato tollerabilmente approssimato in rapporto allo scopo di cui si tratta.
Non accade di tener nota in modo particolare di tutte le varianti che l’Ufficio centrale propone al disegno di legge del governo. Trattasi per lo più di varianti le quali hanno soltanto lo scopo della maggiore chiarezza e non mutano la sostanza delle proposte del governo. Di alcune solo va fatta menzione poiché si riferiscono appunto alla sostanza delle proposte governative.
Nell’articolo 1, accogliendosi il voto di molte associazioni commerciali si sostituì all’elencazione «botteghe, negozio, magazzino, studio, ufficio e simili», che aveva dato luogo a molte controversie, l’altro più generico di locali destinati ad uso di commercio, industria o professione. Fu pure tenuto conto che la data del 31 luglio 1921 non corrisponde spesso alle consuetudini locali e si ammise la sostituzione della data consuetudinaria a quella data fissa.
All’articolo 2 si previde la nomina di due commissari supplenti per ovviare agli eventuali impedimenti; e si provvide alla ricusa ed alla astensione dei commissari.
All’articolo 8 si sostituì alla data dell’1 gennaio 1921 quella del 15 dicembre 1920, per tener conto delle consuetudini locali e per evitare che interessati, venuti a cognizione subito della presentazione del presente disegno di legge, e della data 1 gennaio 1921 in esso scritta, stipulassero atti fittizi, antedatandoli e facendoli registrare tuttavia in tempo utile per conferire loro la data certa anteriore al 1 gennaio.
All’articolo 9 è ridotto ad un mese il termine utile per proporre l’azione dinnanzi alle commissioni, allo scopo di non renderla impossibile in rapporto all’epoca in cui probabilmente il presente disegno sarà convertito in legge.
Il termine di tre mesi, date le vicende parlamentari a cui è necessariamente sottoposta l’approvazione definitiva del presente disegno di legge, è manifestamente eccessivo e renderebbe frustranea l’opera del legislatore.
All’articolo 10 sono apportate due modificazioni: con la prima si estendono le disposizioni della presente legge oltre che ai contratti di locazione d’albergo, anche a quelli per la locazione di case di salute, e si diminuisce per ambedue, alberghi e case di salute, il termine di proroga da tre a due anni. L’estensione deliberata in seguito ad istanze numerose pervenute all’Ufficio centrale, parve opportuna ove si tenga conto del gran numero d’ammalati che sono ricoverati nelle case di salute private; la riduzione da tre a due anni fu consigliata dalla necessità di non prorogare eccessivamente il regime vincolistico a favore di una classe speciale di conduttori di locali, tenuto conto altresì che la libertà delle contrattazioni non nuocerebbe affatto alla destinazione ad albergo del locale occupato, esistendo nella legislazione presente norme particolari le quali vietano il mutamento di destinazione delle case a quel fine sino ad oggi dedicate. Ma per chiarezza, invece di parlare di due anni, si disse che la proroga poteva andare sino al 31 luglio 1923 od alla data consuetudinaria più vicina al 31 luglio 1923.
Ma il punto che attrasse maggiormente in questo disegno di legge l’attenzione dell’Ufficio centrale, fu quello di carattere permanente regolato, come sopra si disse, dalla lettera c dell’articolo 3 e dall’articolo 6. D’ambedue queste norme l’Ufficio centrale propone a maggioranza la soppressione e della sua proposta dà ora ragione.
In sostanza questi due articoli, in occasione di un disegno di legge, il quale ha scopo puramente temporaneo e intende al passaggio da una condizione di cose anormali ad un regime normale, condurrebbero alla creazione in guisa permanente di un nuovo istituto che la relazione governativa definisce della proprietà commerciale. La maggioranza dell’Ufficio centrale non vuole trattare a fondo questo gravissimo problema, né vuole menomamente muovere alcuna critica al governo in quanto si proponga di risolvere un problema che certamente si impone nel tempo stesso all’attenzione del mondo commerciale, della proprietà edilizia, e della scienza. Si tratterebbe in sostanza di riconoscere che nella proprietà di un negozio o di una bottega vi sono due elementi fondamentalmente distinti: l’uno che è la proprietà del locale come tale, proprietà di natura fondiaria, qualificata dalla situazione dell’area, dal pregio della costruzione e da tutto ciò che può essere considerato come indipendente da una attività specifica in un dato ramo di commercio del conduttore del locale: dall’altro lato si creerebbe il nuovo istituto della proprietà commerciale consistente nell’avviamento che il negoziante procura con l’opera sua, intelligenza, e con la sua attività ed intraprendendo il commercio di cui egli è titolare. Due proprietà distinte; di cui l’una, spettante al proprietario della casa, è di natura fondiaria; l’altra, spettante al commerciante, è di natura mobiliare.
Basta porre il problema per vedere quanto esso si presenti attraente, direi quasi affascinante per lo studioso della scienza economica e del diritto commerciale, ma altresì quanto esso sia gravido di problemi impensati e di difficoltà grandissime d’applicazione.
Il problema è certamente perciò degnissimo di studio, e degno altresì di formare oggetto di proposte legislative, ma la maggioranza dell’Ufficio centrale è stata d’avviso che opportunamente le due disposizioni in materia, potessero non essere respinte in principio, ma semplicemente stralciate dal presente disegno di legge per costituire la trama di un più ampio disegno di legge speciale, destinato a regolare in maniera particolare e bastevole la difficilissima materia. Non è per via quasi inavvertita, e incidentalmente in un disegno di legge di carattere puramente provvisorio, che può darsi cittadinanza ad un istituto così grave per le sue conseguenze, qual è quello della proprietà commerciale. L’Ufficio centrale aveva già osservato altra volta nella sua relazione del 21 giugno 1920 come il momento presente, di rapide oscillazioni nel valore della moneta, è il meno adatto che immaginare si possa ad una determinazione del valore d’avviamento dovuta all’operosità del negoziante, distintamente dal maggior valore che le pigioni dei locali commerciali devono assumere in conseguenza della svalutazione monetaria.
Se oggi un locale commerciale passa da 10.000 a 20.000 lire d’affitto, è ben difficile affermare recisamente che le 10.000 lire d’aumento siano dovute in tutto o in parte all’opera peculiare del commerciante: possono essere invece, anzi probabilmente sono, il semplice risultato della svalutazione della moneta, per cui il proprietario, ricevendo oggi 20.000 lire di pigione annua, riceve sostanzialmente meno delle 10.000 lire che riscuoteva prima della guerra. Aggiudicare in tale circostanza tutte o in parte le 10.000 lire d’aumento al commerciante a titolo d’avviamento da lui creato, sarebbe ingiustizia somma e sfregio evidente alla realtà.
Il dubbio potrebbe nascere soltanto quando l’aumento del canone d’affitto fosse di gran lunga superiore a quello che apparisse legittimato dalla svalutazione della moneta; e in conformità degli esempi già citati, se un locale passasse da 10.000 lire a 100.000 od a 150.000 lire d’affitto, potrebbe dubitarsi se una parte dell’aumento fosse dovuta appunto all’avviamento procurato dall’attuale conduttore al locale da lui occupato. Perciò l’Ufficio centrale, allo scopo di non pregiudicare menomamente gli interessi né dell’una né dell’altra parte, consente nel criterio voluto dal governo secondo cui nell’anno nuovo di proroga concesso dal presente disegno di legge, la Commissione arbitrale, nel calcolare la misura del fitto, dovrà avere cura di escludere ogni accrescimento del valore dell’ente derivante dall’avviamento industriale, commerciale e professionale dovuto all’opera del conduttore. In tal modo noi siamo sicuri che fino al 30 giugno 1922 i fitti non potranno, salvo che intervenga un diverso accorso fra le parti, essere aumentati in ragione di un avviamento procurato dal negoziante al suo locale. Abbiamo quindi innanzi a noi un anno e mezzo quasi di tempo nel quale discutere a fondo e risolvere a ragion veduta il gravissimo problema che ci si pone dinnanzi. Di questo lasso di tempo che, con la norma del penultimo comma dell’articolo 5, il disegno odierno lascia all’opera legislativa, noi dobbiamo dare lode al ministro proponente, e dobbiamo confidare che ove egli accetti la nostra proposta non di reiezione, ma di semplice stralcio, egli possa mettersi dinnanzi a un disegno organico che investa da tutti i punti di vista il momentoso problema.
E tanto più sarebbe utile questa dilazione, ed opportuno il conseguente stralcio, in quanto che la creazione del nuovo istituto della proprietà commerciale, potrà avere conseguenze tributarie non lievi di cui fa d’uopo rendersi preventivamente accurato cento. Tutta la legislazione vincolistica in materia ha avuto già, nel periodo cominciato dal principio della guerra una sciagurata conseguenza, ed è l’irrigidimento del reddito imponibile ai fini dell’imposta sui fabbricati.
Vincolati i fitti, le agenzie delle imposte non poterono più procedere a revisioni parziali dei redditi edilizi. La massa di redditi imponibili dei fabbricati italiani, continua ancora oggi ad aggirarsi intorno agli ottocento milioni di lire, così come accadeva prima della guerra. Se invece i fitti avessero potuto liberamente espandersi, il reddito imponibile avrebbe velocemente sorpassato questa cifra, ed avvicinandosi o anche superando i duemila milioni, avrebbe offerta ampia messe di tributi allo stato e soprattutto ai comuni e alle provincie. Se lo stato ha perduto e sta perdendo ogni anno a causa dei vincoli centinaia di milioni di lire d’imposta, i comuni e le provincie sono stati addirittura dissestati da questo irrigidimento.
Non è una esagerazione affermare che una delle cause più potenti, sebbene non la sola, dello stato angoscioso in cui si trovano le finanze locali, è il regime vincolistico dei fabbricati. L’interesse della finanza, e soprattutto della finanza locale, è strettamente connesso alla possibilità del ritorno graduale ad un regime normale in materia di fitti.
Questa premessa era opportuno di fare per mettere in luce l’importanza del problema che l’istituto nuovo della proprietà commerciale farebbe sorgere anche sotto l’aspetto tributario. I vincoli hanno prodotto un irrigidimento temporaneo nelle materie imponibili; l’istituto della proprietà commerciale produrrebbe conseguenze di carattere permanente che occorre maturamente ponderare a fine di non esser sorpresi da conseguenze spiacevoli e dannose per la pubblica finanza.
Giova recare un esempio per chiarire questo punto. Fino ad oggi, ove un locale destinato a negozio passi dal reddito imponibile di diecimila lire all’anno al reddito di ventimila lire all’anno, tanto il reddito originario quanto l’incremento di esso spettano al catasto dei fabbricati e sono soggetti all’imposta ed alle sovraimposte comunali e provinciali sui fabbricati. Non si discute quanta parte dell’aumento di diecimila lire sia dovuta alla situazione del locale, e quanta all’avviamento procurato dal commerciante. Tutto questo reddito goduto dal proprietario della casa è reddito edilizio ed è trattato fiscalmente come tale. L’imposta di ricchezza mobile colpisce una volta tanto il prezzo d’avviamento in mano del cedente; ma quando il reddito maggiore annuo del locale destinato a bottega sia stato accertato, esso fa parte del reddito edilizio e non del reddito commerciale.
Ove invece si crei l’istituto della proprietà commerciale, abbiamo veduto che il reddito e la valutazione del capitale relativo si distinguono in due parti: reddito fondiario e reddito commerciale. Se delle diecimila lire d’aumento di reddito le commissioni arbitrali giudicassero che soltanto cinquemila sono dovute alla bontà della situazione, alla svalutazione della moneta ed altri coefficienti di natura oggettiva, mentre le restanti cinquemila sono dovute all’avviamento procurato dal negoziante, ecco che il reddito nuovo complessivo dovrebbe distinguersi in due parti: l’una di quindicimila lire all’anno di natura fondiaria e edilizia; l’altra di cinquemila lire di natura commerciale. Ed ecco che soltanto le prime quindicimila lire potrebbero legittimamente essere assoggettate all’imposta fabbricati, mentre le restanti cinquemila lire dovrebbero andare sottoposte all’imposta di ricchezza mobile o alla categoria B della futura imposta normale, la quale entrerà in applicazione all’1 gennaio 1922. Basta porre il problema per vedere quanto gravi siano le conseguenze d’indole tributaria. È ben noto, invero, che la aliquota dell’imposta sui fabbricati è più elevata dell’aliquota dell’imposta di ricchezza mobile, e che tale diversità permane anche, come deve logicamente permanere, nell’assetto della nuova imposta. Ed è noto ancora e soprattutto, che mentre provincie e comuni hanno facoltà di sovra imposte accentuate in materie d’imposta sui fabbricati, invece le loro facoltà di sovra-imposizione sono assai più tenui e dovranno rimanere tali anche in avvenire per quel che si riferisce ai redditi commerciali.
Con la creazione dell’istituto della proprietà commerciale, noi veniamo a scindere un reddito che finora è unico ed è assoggettato ad imposte e sovra-imposte fabbricati, in due parti, di cui la seconda potrebbe essere assoggettata ad una imposta assai più tenue. Il relatore scrivente non afferma che la conseguenza non sia rispondente a giustizia: osserva soltanto che la questione merita di essere discussa ponderatamente, ed osserva ancora che in tale materia deve essere sentito l’avviso degli organi incaricati della ripartizione dell’imposte sia di stato che degli enti locali, affinché non si giunga a conseguenze importanti senza che quegli organi abbiano manifestato il loro ragionato avviso in merito, e senza che su queste conseguenze tributarie sia richiamata l’attenzione del Parlamento.
Se queste sono le ragioni le quali hanno indotto la maggioranza dell’Ufficio centrale a proporre lo stralcio delle sue disposizioni in discorso, la minoranza d’altro canto ha fatto osservare che esse non sono ragioni di merito, ma di tecnica legislativa. Sarebbe certo più opportuno, anche nel pensiero della minoranza, che questa materia fosse regolata da uno speciale disegno di legge; ma non perché la collocazione è impropria, esso si sente di rigettare una proposta che esso riconosce giusta e lungamente attesa. Il riconoscimento della proprietà commerciale non fa altro se non sancire in maniera particolare il principio di diritto che vieta a chicchesia di locupletarsi indebitamente a spese altrui. Che il proprietario dello stabile, il quale si appropria dell’avviamento creato dal negoziante, si rende colpevole di indebito arricchimento; e ben può sostenersi che anche oggi competa al negoziante spogliato azione di risarcimento. Onde le norme proposte dal governo avrebbero lo scopo di regolare meglio in casi specificatamente indicati la intricata materia.
Il relatore osserva che le ragioni di merito non sono siffattamente evidenti da rendere opportuna una improvvisazione di questo genere. Argomenti poderosi possono essere addotti, anche in merito, contro l’istituto medesimo della proprietà commerciale. E senza voler entrare a discutere il pro e il contro, pare alla maggioranza assolutamente necessario che il governo, per mezzo di dichiarazioni autorizzate dei ministri competenti, chiarisca che il danno temuto per la finanza o non sussiste o deve essere patito dal tesoro dello stato e dei comuni nel superiore interesse della collettività. Se così fosse, verrebbe a mancare una ragione di opposizione di merito al nuovo istituto, sussistendo solo più quelle che, ove si entri nel merito stesso, potrebbero essere addotte dalle due parti. E poiché non si dica che in questa sede si vuole fare opposizione a fondo al nuovo istituto, mentre si invoca solo un ponderato esame, piace al relatore ricordare un argomento in sua difesa, che non fu sinora esposto da coloro i quali si occuparono della questione. Il riconoscimento del diritto del commerciante alla cosidetta proprietà commerciale sarà un fattore di consolidamento delle due proprietà, edilizia e commerciale, in una sola, non più nelle mani del proprietario, ma in quelle del commerciante. Questi tenderà, a poco a poco, a divenire altresì proprietario della sua bottega, per la ripugnanza che i puri proprietari avranno a possedere, promiscuamente con altri, una cosa materialmente unita, sebbene idealmente divisa. Il «locale» commerciale rimarrà sopravalutato nelle mani della classe commerciale e sotto valutato nelle mani della classe proprietaria.
Risultato socialmente desiderabile per un doppio verso. In primo luogo perché crescerà il numero dei proprietari e saranno rafforzate le assise sociali; in secondo luogo perché la proprietà dei locali commerciali non sarà più scissa dall’uso dei locali stessi. La classe dei proprietari edilizi attraversa un momento poco favorevole perché si ritiene da molti che essa sia una classe parassitaria che vive a spalle altrui. L’opinione è, economicamente, erronea; ma conviene all’uomo politico dare il giusto peso ai sentimenti che la originano; e conviene fare in modo che quei sentimenti di odio si indeboliscano, cercando di aumentare il numero di coloro che sono proprietari della casa che abitano o del locale dove esercitano la loro industria o il loro negozio. Dal punto di vista economico si raggiunge il massimo vantaggio per la collettività, dividendo le funzioni, anche in questo campo, in tre varie categorie; sicché vi sia chi esercita unicamente l’industria del costruttore, altri che impiega i suoi capitali in case e finalmente altri che le usa a scopo di abitazione o di negozio. Grazie a questa divisione di lavoro fu possibile costruire le città moderne e produrre case ad un costo, che in sostanza è più basso, per lo più notevolmente più basso di quello che si sarebbe dovuto sopportare se ognuno avesse dovuto essere nel tempo stesso costruttore, proprietario ed inquilino della propria casa.
L’inquilino di se stesso paga di solito, sotto forma di interessi perduti sul capitale impiegato, di spese di amministrazione, di imposte, di riparazioni, sotto forma di immobilizzazione della casa propria anche quando per ragioni di famiglia o di lavoro, si vorrebbe andarsene, un fitto assai più elevato di colui che sta a pigione nelle case altrui.
Lo stesso si dice per il commerciante. Il regime vigente prima della guerra, senza diritto di avviamento e con negozi affittati a tempo, in sostanza consentiva ai nuovi negozianti di impiantarsi con il minimo di capitale, quello appena necessario all’esercizio del negozio. Il proprietario della casa, consolidando in sé la proprietà della casa come mura e della casa come negozio, provvedeva al resto del capitale, ed esigeva un puro fitto annuale dal suo inquilino, che costui pagava sugli incassi giornalieri. Era un sistema economico, che funzionava con il minimo costo e probabilmente con il vantaggio dei consumatori.
In avvenire, chi vorrà entrare in commercio, impiantare un negozio, non dovrà avere pronte solo le 100.000 lire per l’impianto del negozio, ma anche le 100.000 o 200.000 per pagare l’avviamento al negoziante uscente, forse anco altre 100.000 per comprare il negozio come edificio. Non diventerà negoziante più un uomo provveduto di buona volontà, ma solo colui che sarà provveduto di cospicui capitali. Sarà una nuova aristocrazia, contro cui elevano già le loro voci coloro che non hanno capitali. L’Ufficio centrale ha già ricevuto memoriali di negozianti smobilitati di Bologna, i quali vivacemente protestano contro il diritto di proroga e quello di avviamento riconosciuti nel presente disegno di legge, come quelli che impedirebbero ad essi, che sono senza negozio, di procurarsene uno e consacrerebbero il monopolio degli attuali negozianti i quali pretendono enormi prezzi di avviamento, perfino di mezzo milione o di ottocento mila lire per locali modestissimi.
Questo però è il solo aspetto economico del problema: ve ne sono altri da considerare. Vi è il piacere di stare in casa propria; vi è la sicurezza di non essere mandato via a piacere altrui. Dal punto di vista politico, vi è la moltiplicazione del numero dei proprietari edilizi. Val molto meglio, socialmente parlando, che i proprietari di una città siano 100.000 piuttostoché 10.000. Se il riconoscimento dell’avviamento commerciale fosse un passo su questa via, sarebbe perciò economicamente dannoso e forse causa di maggiori costi per le merci e derrate per i consumatori, ma politicamente e socialmente approvabile.
Addì 5 febbraio 1921
Einaudi, relatore
Disegno di legge n. 282:
CONVERSIONE IN LEGGE DEL R. DECRETO-LEGGE 16 GENNAIO 1921, N. 13, PORTANTE PROVVEDIMENTI SUI POTERI DEI COMMISSARI DEL GOVERNO AGLI ALLOGGI.
Disegno del Ministero:
articolo unico
È convertito in legge il Regio decreto-legge 16 gennaio 1921, n. 13 che reca provvedimenti per mitigare le difficoltà dei cittadini e dei viaggiatori riguardo agli alloggi.
Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia
udito il Consiglio dei ministri,
sulla proposta del presidente del Consiglio dei ministri, ministro del l’Interno, di concerto coi ministri per la Giustizia e gli affari del culto, per il Tesoro, per l’Industria e il commercio, per la Guerra, per la Marina e per i Lavori pubblici; abbiamo decretato e decretiamo:
TITOLO I.
Attribuzioni dei commissari per le abitazioni e disposizioni relative ai contratti in corso.
art. 1
I commissari del governo per le abitazioni esercitano le attribuzioni indicate negli articoli seguenti nelle città che al 31 dicembre 1919, secondo i dati dell’anagrafe municipale, avevano raggiunto o sorpassato i centomila abitanti, per le quali il governo abbia riconosciuto la necessità di istituirli.
Tali attribuzioni sono estese anche ai comuni prossimi alle dette città, i quali siano determinati dai prefetti, con ordinanza emessa di concerto coi commissari medesimi.
Le autorità politiche ed amministrative devono prestare il loro concorso e quello dei loro funzionari ed agenti della forza pubblica, se occorre, affinché il commissario possa adempiere efficacemente il suo ufficio.
Il commissario è assistito da una Commissione consultiva, composta in pari numero di proprietari ed inquilini, indicati dalle rispettive organizzazioni locali, ove esse esistano, ed in caso diverso, scelti dal commissario stesso, alla quale egli potrà chiedere parere nelle questioni che riterrà utile sottoporre al suo esame.
Il commissario ha anche facoltà di farsi coadiuvare da cittadini di sua personale fiducia per gli scopi attinenti al suo ufficio.
art. 2
La nomina dei commissari del governo, la durata delle loro funzioni e la loro sostituzione quando occorra, è deliberata dal presidente del Consiglio dei ministri, d’accordo col ministro dell’Industria e del commercio.
I commissari del governo sono alla dipendenza della Presidenza del Consiglio, con la quale sono autorizzati a corrispondere direttamente per tutto quanto concerne l’adempimento del loro ufficio.
Essi corrispondono anche direttamente col ministro per l’Industria ed il commercio per ciò che riguarda alberghi e pensioni.
art. 3
Il commissario cura di raccogliere precise notizie delle case e degli appartamenti e stanze destinate ad affitto o subaffitto che si trovano disponibili ed in generale di tutti quegli altri locali disponibili nel comune, che siano adatti o facilmente adattabili ad uso di abitazione, anche se non destinati ad affitto o subaffitto. Raccoglierà inoltre notizie del numero delle persone o famiglie che hanno bisogno di alloggio, con l’indicazione del rispettivo stato sociale ed economico e del motivo per il quale devono risiedere nella città, accertando in ogni caso la situazione di ciascuno in relazione alle precedenti condizioni di famiglia e di provenienza.
All’uopo è autorizzato a istituire un registro di iscrizione presso il proprio ufficio, ovvero presso l’ufficio comunale, e ad ordinare convenienti mezzi di controllo sulle dichiarazioni degli interessati.
Potrà anche disporre, nei termini e con le modalità che riterrà più opportune allo scopo, il censimento delle persone o famiglie che abbiano bisogno di alloggio.
Egli dà notizia alle autorità di pubblica sicurezza del risultato delle proprie indagini, in quanto si riferiscono a disoccupati che non diano affidamento di prossimo impiego o non abbiano speciali motivi per rimanere nella città.
La denunzia delle abitazioni destinate ad affitto o a subaffitto e degli altri locali indicati nella prima parte del presente articolo, se non sia obbligatoria a norma dei regolamenti locali, può essere imposta dal commissario del governo.
In base al censimento di cui al presente articolo il commissario avviserà agli opportuni provvedimenti per determinare la disponibilità massima degli alloggi in relazione alla entità della domanda.
art. 4
Chi abbia più di una abitazione ,nello stesso comune, o in comuni diversi, deve fare denunzia di quello non occupato permanentemente dalla propria famiglia o dai propri congiunti, che tiene in affitto o subaffitto nei comuni compresi nella circoscrizione del commissario.
L’obbligo della denuncia sussiste anche quando alcune o tutte le abitazioni siano di proprietà del denunciante. Verificate le circostanze del caso, il commissario può iscrivere fra quelle disponibili per l’assegnazione le abitazioni che risultino non necessarie al denunciante e alla sua famiglia a norma dell’articolo 6.
Qualora queste abitazioni siano in comune non compreso nella propria circoscrizione, il commissario ne dà notizia al suo collega competente ovvero al prefetto della provincia, qualora il detto comune non sia compreso nella circoscrizione di alcun commissario.
Egualmente può disporre per le abitazioni che da molto tempo non siano occupate dall’inquilino e dalla sua famiglia, notoriamente dimorante in altro comune ovvero all’estero. In simili casi provvede per la custodia del mobilio a spese dell’assegnatario dell’abitazione, il quale non è tenuto a pagare al proprietario una pigione superiore a quella in corso.
L’abitazione potrà essere assegnata con il mobilio qualora il proprietario di questo vi consenta e in tal caso il commissario determinerà il prezzo che l’assegnatario dovrà corrispondere a titolo di affitto del mobilio.
art. 5
Coloro, che abbiano notizia di locali disponibili adatti o facilmente adattabili ad uso di abitazione propria o di altri, possono farne denuncia al commissario del governo, il quale, verificate le circostanze, emette i provvedimenti opportuni per l’utilizzazione dei detti locali, in conformità delle disposizioni del presente decreto.
art. 6
Il commissario del governo ha facoltà di assegnare le case, gli appartamenti e le stanze destinate ad affitto o subaffitto che si trovano disponibili, a persone od a famiglie che hanno bisogno di alloggio, tenendo conto del rispettivo stato sociale ed economico. Egli ha pure facoltà di vietare che siano tenuti vuoti e non destinati ad abitazione i locali adatti o facilmente adattabili per questo uso esistenti nel comune, compresi i locali adibiti a sanatori o a case di cura, che non siano occupati o in esercizio, anche quando i locali medesimi non siano stati precedentemente dati in affitto, e può anche, in caso di necessità, disporre di questi locali per assegnarli come abitazioni a persone o famiglie che hanno bisogno di alloggio.
Il commissario non può revocare la destinazione ad uso di studio o banco professionale o commerciale, o di ufficio pubblico o privato, che i locali abbiano ricevuto prima della entrata in vigore del Regio decreto 4 gennaio 1920, n. 1.
La revoca della precedente destinazione, per adibire ad uso di abitazione i locali adatti a tale uso, potrà tuttavia essere disposta quando si tratti:
- a) di locali adibiti ad uso di deposito di merci, quando il deposito si trovi in un edificio diverso da quello ove ha sede l’esercizio commerciale e non costituisca una necessaria dipendenza di questo;
- b) di locali destinati a riunioni, circoli di divertimento, sale di lettura e simili, qualora tale destinazione non risalga, ininterrottamente, almeno ad un decennio, ovvero il commissario non riconosca la necessità e l’utilità della destinazione;
- c) di locali destinati ad uso di studio, banco professionale o commerciale o di ufficio privato, qualora la ditta o l’ufficio che attualmente occupa i locali li dimetta per qualsiasi motivo.
art. 7
Qualora si alleghi il bisogno di restauri e riparazioni ai locali disponibili per abitazioni, o all’edificio in cui essi si trovano, il commissario, accertata la necessità dei lavori, può prefiggere un congruo termine al loro compimento. Decorso inutilmente il termine assegnato, potrà disporre d’ufficio l’esecuzione dei lavori, alla quale provvederà a mezzo dell’inquilino che se ne assuma l’onere, e il relativo importo si intenderà anticipato in conto di pigione.
Se il commissario non ravvisa urgenti i lavori, o se questi non sono di natura tale da impedire l’abitabilità immediata, può assegnare l’abitazione all’inquilino che non ne pretenda la esecuzione o che assuma di farli eseguire ai sensi del precedente comma.
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche per i lavori che siano necessari per adattare ad uso di abitazione i locali indicati nel primo capoverso dell’articolo precedente e in qualunque altro caso il proprietario rifiuti di eseguire i lavori, la mancanza dei quali renderebbe inabitabili i locali che sono già destinati o possono essere destinati ad uso di abitazione.
Le amministrazioni comunali possono essere autorizzate dalla Giunta provinciale amministrativa a fare eseguire a loro cure e spese i lavori indispensabili a rendere abitabili i locali di cui ai precedenti comma, quando non vi provvedano il proprietario o l’inquilino. Il rimborso di tali spese, con i relativi interessi legali, sarà effettuato nel numero di annualità da stabilirsi di accordo fra l’amministrazione e il proprietario, o, in mancanza di tale accordo, dal prefetto con provvedimento definitivo.
In quest’ultimo caso l’ammontare di ciascuna annualità non potrà superare i quattro quinti della pigione annua relativa ai detti locali.
Per la riscossione di ciascuna annualità sono applicabili le disposizioni della legge 14 aprile 1910, n. 639 (Testo unico).
art. 8
La facoltà del commissario di disporre, a norma dell’articolo 4, delle abitazioni che risultino non necessarie all’inquilino e alla sua famiglia può essere esercitata, in caso di assoluta necessità, anche quando trattisi di unica abitazione che risulti manifestamente esuberante ai bisogni del conduttore e possa essere facilmente trasformata in più abitazioni, del tutto indipendenti tra loro, avuto speciale riguardo alle condizioni di edilità, di igiene e di convenienza e a tutte le altre circostanze del caso. Il provvedimento deve essere preceduto dal parere della Commissione indicata nell’articolo 1, alla quale si aggiungerà un tecnico, nominato, di volta in volta, dalla Commissione medesima.
art. 9
Il commissario del governo ha facoltà di permettere che l’inquilino dia in subaffitto, con mobili o senza, in tutto o in parte, la sua abitazione, anche quando nel contratto di locazione sia espressamente vietato il subaffitto. Nel fare uso di tale facoltà, il commissario deve accertarsi che non ostino ragioni speciali di convenienza, in rapporto alle condizioni dell’edificio e allo stato sociale di coloro che lo abitano, e può prescrivere le cautele del caso per evitare inconvenienti e molestie.
art. 10
Chi subaffitta case, appartamenti o stanze, con o senza mobili, deve giustificare la qualità di conduttore e il prezzo della locazione con contratto iscritto, di data certa; in mancanza è tenuto a sgombrare i locali non necessari alla sua personale abitazione, dei quali il commissario disporrà a norma dell’art. 6.
art. 11
Il commissario del governo è investito del potere di regolare in via provvisoria, con disposizioni di massima o relative ai casi particolari, gli sfratti degli inquilini.
Nel decidere sulle sospensioni degli sfratti il commissario, dati, se occorrono, provvedimenti provvisori di urgenza, deve accertare la necessità morale e sociale della sospensione, esaminando in particolare:
- a) se l’inquilino abbia contravvenuto agli obblighi principali imposti dal contratto o dalla legge;
- b) se egli si sia già procurato o possa procurarsi, senza grave danno economico, un altro alloggio, con maggiore spesa;
- c) se giustifichi i motivi per continuare a risiedere nel comune, qualora non vi appartenga per nascita o per domicilio;
- d) quale sia la situazione comparativa dell’inquilino sfrattato e della persona o famiglia che dovrebbe subentrare nell’abitazione, avendo particolare riguardo al caso che vi debbano subentrare il proprietario, il locatore, ovvero prossimi congiunti di costoro, quando specialmente l’acquisto dell’abitazione per l’epoca a cui risalga e le altre circostanze del caso, non risulti preordinato allo scopo di eludere le disposizioni eccezionali vigenti circa le proroghe delle locazioni.
La proroga, decretata per effetto della sospensione dello sfratto, non può in verun caso essere concessa per un termine che oltrepassi quelli generali di proroga stabiliti per le varie categorie di abitazioni dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477.
art. 12
La facoltà del commissario del governo di sospendere gli sfratti a norma dell’articolo precedente può essere da lui esercitata anche per i locali tenuti in fitto da pubbliche amministrazioni e destinati ad uso di servizi pubblici di interesse generale.
In questi casi, il commissario del governo, quando i locali risultino effettivamente indispensabili al pubblico servizio, può accordare la proroga di un altro anno a decorrere dal termine stabilito per la cessazione di quella obbligatoria ai sensi del R. decreto 18 aprile 1920, n. 477, determinando, secondo le circostanze, un equo aumento di pigione da corrispondersi durante il periodo della nuova proroga.
La sospensione degli sfratti non può essere ordinata rispetto alle abitazioni costruite per uso esclusivo di determinate classi o organizzazioni di impiegati o cittadini, quando si trovino attualmente occupati da chi non appartiene, o ha cessato di appartenere alla classe o organizzazione. Tale disposizione si applica alle case dei ferrovieri e a quelle che presentano analoghe caratteristiche.
art. 13
Nella ipotesi di vendita di case, anche ad appartamenti separati, il commissario del governo per le abitazioni può sospendere a favore dell’inquilino, secondo i criteri stabiliti nell’art. 11, l’esercizio della facoltà che spetterebbe al nuovo acquirente, di adibire la casa o l’appartamento per abitazione propria, fino alla scadenza delle proroghe concesse dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477.
art. 14
Quando il commissario assegna una abitazione in affitto o subaffitto e quando provvede sulla sospensione dello sfratto dell’inquilino, fissando il periodo della proroga della locazione, determina anche, se occorre, l’equa misura della pigione che dovrà essere corrisposta dall’inquilino.
Tale facoltà compete al commissario in qualsiasi altro caso, sia che si tratti di appartamento vuoto o ammobiliato e di nuovo contratto o di rinnovazione o di proroga di affitto o di subaffitto, in cui, essendovi dissenso fra le parti, secondo le disposizioni in vigore, debba farsi luogo all’equa determinazione della pigione.
Nel determinare l’equa misura della pigione in tutti i casi suindicati, il commissario degli alloggi deve osservare le disposizioni contenute nel Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477.
art. 15
Chi subaffitta appartamenti o stanze, con o senza mobili, non può percepire una mercede superiore al 25% della pigione che egli paga, se il subaffitto è senza mobili, né del doppio di tale pigione, se è con mobili e servizio.
Se sorge controversia sulla determinazione del prezzo di affitto in relazione ai locali subaffittati, il commissario la decide senza formalità di procedura, anche oralmente, sentite le parti, e visitati i locali, se lo reputa necessario. Non è ammesso alcun reclamo.
La presente disposizione si applica anche agli affitti in corso. Essa riguarda gli alberghi e le pensioni, a meno che la destinazione a pensione, posteriore all’entrata in vigore del Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 475, risulti fatta allo scopo di sfuggire alle disposizioni contenute nel decreto medesimo.
I limiti di mercede indicati nel comma precedente sono da osservare quando si tratti di ammobiliamento comune e di servizi conformi alle consuetudini.
Un aumento oltre i detti limiti a carico del subaffittuario è legittimo e può essere stabilito dal commissario, per i servizi e le comodità speciali, come la fornitura di biancheria in misura eccedente quella normale, l’illuminazione, il riscaldamento, la lavatura e la stiratura di biancheria personale, l’uso del bagno, della cucina, di altre stanze, anche se promiscuo col sub – locatore o con altri sub – inquilini, l’arredamento con mobili di lusso e simili.
art. 16
Il provvedimento, col quale il commissario assegna una abitazione in affitto o in subaffitto o proroga un contratto e determina l’equa misura dell’affitto, deve essere redatto in iscritto e sostituisce il titolo convenzionale: in esso si deve enunciare la durata dell’assegno o della proroga, l’importo della pigione e le altre principali condizioni stabilite dal commissario. Le parti hanno diritto di averne copia autentica dall’ufficio.
I provvedimenti del commissario sono soggetti alle tasse di bollo e di registrazione quando ne sia fatto uso in giudizio.
art. 17
Qualunque obbligo di pagamento imposto all’inquilino o sub-inquilino a titolo di «buono ingresso» o di «buona uscita» o con analoga denominazione, a favore di chiunque, è nullo di diritto.
Le somme indebitamente sborsate per siffatte cause si considerano pagate in conto di pigione anche se versate a terzi.
Ugualmente è nullo di diritto l’obbligo imposto sotto qualsiasi forma e da chiunque, all’inquilino o sub – inquilino, per l’acquisto di mobili, anche come condizione per la cessazione di un contratto di affitto in corso.
Il commissario può in questi casi assegnare l’abitazione medesima secondo le regole ordinarie, disponendo per la rimozione dei mobili, ove occorra.
art. 18
Le autorità civili e militari devono dare notizia al commissario del governo, entro un mese dalla pubblicazione del decreto, degli uffici civili e militari che hanno carattere provvisorio in quanto sono stati istituiti a causa della guerra, i quali fossero tuttora esistenti in locali prima destinati per abitazioni private o per alberghi.
Tale denuncia entro il termine prescritto deve essere rinnovata quando fosse stata già fatta precedentemente alla pubblicazione del presente decreto.
Gli uffici anzidetti devono nel termine più breve essere alloggiati in baracche costruite a tale scopo dal governo su aree fornite gratuitamente dalle amministrazioni comunali, lasciando disponibili i locali occupati, dei quali il commissario del governo curerà lo sgombero e la utilizzazione per alloggio ai privati e per la restituzione all’uso di alberghi cui fossero stati prima destinati.
A questo scopo la derequisizione di qualsiasi locale occupato da uffici pubblici civili o militari deve essere preventivamente notificata al commissario del governo, che ha diritto d’intervenire o di farsi rappresentare in tale atto.
La determinazione degli uffici compresi nelle disposizioni precedenti è proposta dal commissario e deliberata dal Consiglio dei ministri. A questo scopo il commissario, in base alle comunicazioni ufficiali disposte nella prima parte del presente articolo ed agli accertamenti che egli abbia creduto utile di eseguire direttamente o di fare eseguire, farà rapporto al presidente del Consiglio degli uffici che si trovano nelle condizioni indicate.
art. 19
Il commissario del governo vigila alla osservanza delle disposizioni contenute negli articoli precedenti e può dare tutti i provvedimenti necessari per tale esecuzione.
Egli può impartire nei casi particolari, non contemplati nei precedenti articoli, i provvedimenti adatti a conseguire gli scopi della istituzione del suo ufficio e può chiedere direttamente istruzioni al presidente del Consiglio dei ministri, per le eventuali difficoltà, che consideri di carattere eccezionale.
I suoi provvedimenti possono essere da lui stesso revocati o modificati, in base a nuovi elementi, ad istanza di chi vi abbia interesse, o anche di ufficio.
Essi hanno carattere definitivo e non ne è ammessa la sospensione. Il commissario dà anche le disposizioni che reputa opportune per l’esecuzione dei suoi provvedimenti, richiedendo, se occorra, l’opera degli ufficiali giudiziari, i quali sono tenuti a prestare il loro ministero e ad eseguire le richieste del commissario.
Per assicurare l’esecuzione delle sue ordinanze, il commissario provvede, anche in deroga alle norme vigenti, su tutte le difficoltà che incontri l’esecuzione dei provvedimenti adottati.
art. 20
Le attribuzioni conferite al commissario del governo non possono essere esercitate rispetto agli edifici dichiarati abitabili o costruiti dopo il 29 marzo 1919.
Tuttavia anche per tali edifici, allorché siano ultimati, il commissario del governo ha facoltà di impedire che siano tenuti vuoti: e può a tale scopo prefiggere al proprietario un congruo termine, trascorso il quale, ha facoltà di assegnare direttamente i vari locali disponibili a persone o a famiglie sprovviste di alloggio, secondo le norme ordinarie, determinandone l’equa misura della pigione in corrispondenza al valore locativo delle case e al costo di costruzione, tenendo presente che trattasi di edifici sottratti alle limitazioni di pigioni stabilite dagli eccezionali provvedimenti in vigore.
La disposizione dell’articolo 7 può essere applicata anche per i lavori complementari, che fossero ancora da eseguire.
Nessun locale di nuova costruzione può essere adibito ad uso diverso da quello di abitazione, se non sia stata rilasciata all’uopo regolare autorizzazione dal commissario per le abitazioni.
art. 21
I commissari del governo, qualora debbano sostenere azioni o difese innanzi le autorità giudiziarie o le giurisdizioni speciali, sono assistiti e difesi dalia Regia Avvocatura erariale a norma della legge (testo unico) 24 novembre 1913, n. 1.303, e del relativo regolamento approvato con Regio decreto di pari data n. 1.304.
art. 22
Gli atti di violenza sulle proprietà pubbliche o private o contro le persone, per procurare coattivamente a sé o ad altri l’abitazione, commessi nelle forme prevedute dall’articolo 248 del Codice penale, sono puniti in conformità dello stesso articolo e dei successivi.
Si applicano, in relazione a questo delitto, le disposizioni degli articoli 246 e 247 dello stesso codice per i delitti di istigazione e di apologia.
Contro i colpevoli deve essere spedito il mandato di cattura.
TITOLO II
Disposizioni speciali relative agli alberghi.
art. 23
Gli edifici, che attualmente sono destinati ad uso di alberghi, non possono essere venduti o dati in locazione a nuovi conduttori, senza l’autorizzazione del Ministero dell’Industria e commercio, il quale deve assicurarsi che la destinazione non ne sarà mutata. In caso contrario il Ministero ha diritto di esercitare prelazione a giusto prezzo a favore dell’ente o della persona, che assuma di mantenere, per dieci anni almeno, la detta destinazione, fissando all’uopo convenienti garanzie.
I contratti fatti in contravvenzione a questo articolo sono nulli di diritto. I notai, i ricevitori del registro, i conservatori delle ipoteche devono astenersi dal prestare ai medesimi l’opera del rispettivo ufficio.
L’azione di nullità può essere proposta in qualsiasi tempo dal Ministero dell’Industria e commercio.
L’autorizzazione per l’affitto e la rinnovazione di fitto degli edifici o loro parti attualmente destinati ad uso di albergo o pensione può essere data dal commissario quando sia evidente che tale destinazione viene conservata. Negli altri casi l’autorizzazione è chiesa direttamente al Ministero dell’Industria e commercio, in conformità delle disposizioni contenute nella parte prima del presente articolo.
art. 24
Gli edifici che servivano ad uso di albergo prima della guerra, e sono stati venduti con mutamento di destinazione, ma non sono stati convertiti in ordinarie abitazioni, potranno essere assoggettati, con decreto del ministro dell’Industria e commercio, a riscatto per il prezzo risultante dagli atti di vendita, senza ulteriori compensi o indennizzi, per trasferirli ad enti o persone che vi ripristineranno l’esercizio di albergo, dando garanzia di continuarlo per non meno di dieci anni.
Il riscatto non potrà essere esercitato dopo che siano trascorsi due anni dalla pubblicazione del presente decreto.
art. 25
Le disposizioni degli articoli 24 e 25 si applicano a tutti i comuni, ove si verifica affluenza di viaggiatori, indipendentemente cioè dal numero degli abitanti. Le disposizioni stesse si applicano anche alle locande e alle pensioni, e riguardano tutto o parte di un fabbricato, a seconda che tutto o parte del fabbricato sia destinato ad uso di albergo, pensione o locanda.
art. 26
L’autorizzazione ministeriale richiesta dall’articolo 24, per il trapasso di proprietà degli alberghi e per la loro locazione a nuovi conduttori, è necessaria anche nel caso in cui all’attuale esercente si sostituisca nell’eserciozio stesso il proprietario dell’immobile.
art. 27
Spetta esclusivamente al Ministero dell’Industria e commercio autorizzare il cambiamento di destinazione di stabili adibiti ad alberghi, pensioni e locande, nel caso in cui questo mutamento risulti conveniente.
art. 28
Il Ministero d’Industria e commercio, su proposta o parere dell’Ente nazionale industrie turistiche, ha facoltà di promuovere la costruzione, trasformazione o utilizzazione, per uso albergo, di quei palazzi, ville o scuole attualmente inutilizzati, o con destinazione prevalentemente voluttuaria, che per i pregi speciali della loro posizione, potrebbero, con la destinazione alberghiera, favorire l’afflusso dei forestieri e realizzare notevoli vantaggi alla economia nazionale.
Agli effetti di cui sopra saranno prospettate ai proprietari le combinazioni, che, secondo i casi, parranno più vantaggiose per determinare la loro adesione consensuale.
Potrà anche essere promossa, per l’eventuale costruzione o per l’esercizio dell’albergo negli immobili di cui sopra, la costituzione di una apposita società, e in tal caso al proprietario il prezzo degli immobili potrà essere corrisposto in azioni della società, ovvero computato come apporto sociale. Con le stesse modalità, l’impresa potrà essere assunta da una società preesistente.
Quando il proprietario rifiuti il suo consenso, si può procedere ad espropriazione degli immobili, con le norme contenute nella legge 25 giugno 1865, n. 2.359.
DISPOSIZIONI FINALI
art. 29
Le disposizioni del presente decreto si applicano per tutti i comuni compresi nella circoscrizione rispettiva dei singoli commissari.
Le attribuzioni conferite dalle precedenti disposizioni al commissario del governo potranno essere affidate, in parte o totalmente, ad un delegato del prefetto della provincia, quando la difficoltà della ricerca degli alloggi assuma carattere di speciale gravità in comuni diversi da quelli indicati nell’articolo 1. All’uopo il delegato potrà recarsi sui luoghi ogni qualvolta il bisogno lo richieda.
Il provvedimento sarà adottato con ordinanza del prefetto della provincia, in seguito a speciale autorizzazione della Presidenza del Consiglio. L’ordinanza dovrà indicare le disposizioni del presente decreto, l’applicazione delle quali sia estesa nei singoli comuni e dovrà essere pubblicata nei comuni medesimi.
art. 30
Il ministro dell’Interno, sentite le amministrazioni interessate, può disporre, d’ufficio, l’accentramento in adatti fabbricati dei ricoverati di varie istituzioni pubbliche di beneficienza esistenti nello stesso comune, che abbiano affinità di scopi.
Tale facoltà può essere delegata ai prefetti.
Il provvedimento del ministro ha carattere definitivo e non ne è ammessa la sospensione.
Alla costruzione, all’ampliamento e all’adattamento dei detti fabbricati sono estese le agevolazioni concesse dalla legge sulle costruzioni di case popolari ed economiche.
art. 31
Il raggruppamento delle istituzioni pubbliche di beneficienza, aventi scopo di ricovero, può essere disposto anche d’ufficio, con la procedura appresso indicata.
Le relative proposte sono comunicate contemporaneamente a tutte le amministrazioni delle istituzioni da raggruppare, con invito a pronunciarsi in un termine non maggiore di un mese. Sulle eventuali opposizioni deve essere sentita la Commissione provinciale di beneficienza.
Il provvedimento è adottato con decreto reale, promosso dal ministro dell’Interno, udito il Consiglio superiore di assistenza e beneficienza.
Ai raggruppamenti disposti in base al presente articolo sono applicabili il capoverso dell’articolo 2 e l’articolo 4 della legge 2 agosto 1897, n. 348, intendendosi sostituita alla Giunta provinciale amministrativa la Commissione provinciale di assistenza e beneficienza pubblica.
art. 32
Le facoltà accordate dall’articolo 54 del Testo unico 30 novembre 1919, n. 2.318, all’Unione edilizia nazionale per costruzioni nel comune di Roma sono estese a quello di Napoli.
Per provvedere alle costruzioni in quest’ultimo comune ed in conto dei mutui da accordarsi alle cooperative costituite o da costituirsi, aventi diritto ai mutui di favore, la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a fare una ulteriore anticipazione di lire dieci milioni all’Unione edilizia nazionale, nei modi e termini di cui all’articolo 55 del Testo unico citato.
art. 33
Al Consiglio di amministrazione dell’azienda separata dell’Unione edilizia nazionale per il comune di Messina, costituito a norma dell’articolo 60 del decreto luogotenenziale 19 agosto 1917, n. 1.542, è aggregato il commissario governativo agli alloggi, finché sia mantenuto tale ufficio.
I componenti elettivi del detto Consiglio durano in carica due anni e sono rieleggibili.
Con l’entrata in vigore del presente decreto si procederà alla rinnovazione di essi.
art. 34
In aggiunta a quella di cui all’articolo 12 del decreto legge 4 gennaio 1920, n. 1, verrà stanziata nel bilancio del Ministero dell’Interno, per l’attuazione del presente decreto, la somma di lire 500.000.
Con decreti del ministro del Tesoro saranno introdotte in bilancio le variazioni all’uopo necessarie.
art. 35
Il presente decreto sostituisce i decreti 4 gennaio 1920, n. 1, 15 febbraio 1920, n. 147, e 18 aprile 1920, n. 475. Esso entrerà in vigore il giorno della sua pubblicazione nella «Gazzetta Ufficiale» e sarà presentata al Parlamento per la conversione in legge.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello stato, sia inserto nella raccolta ufficiale delle legge e dei decreti del Regno d’Italia mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Disegno dell’Ufficio centrale:
articolo unico
È convertito in legge il Regio decreto-legge 16 gennaio 1921, n. 13 che reca provvedimenti per mitigare le difficoltà dei cittadini e dei viaggiatori riguardo agli alloggi, con le modificazioni risultanti dal testo seguente:
Tali attribuzioni sono estese anche ai comuni circostanti alle dette città e tali da potersi considerare come zona suburbana. L’elenco di tali comuni sarà compilato dai prefetti, con ordinanza emessa di concerto coi commissari medesimi.
art. 1
(Primo capoverso: identico.
Secondo capoverso: identico.)
Il commissario è assistito da una Commissione consultiva composta in pari numero di proprietari ed inquilini, indicati dalle rispettive organizzazioni locali, ove esse esistano: ed in caso diverso, scelti dal prefetto della provincia. Fa parte altresì della Commissione un ingegnere architetto scelto di comune accordo dagli altri quattro membri dalla Commissione; od in difetto di accordo dal prefetto della provincia, tra gli ingegneri del Genio civile. Il commissario potrà chiedere alla Commissione un parere nelle questioni che riterrà utile sottoporre al suo esame, oltre quelle previste dal presente decreto. Tale parere dovrà essere chiesto ogni qualvolta almeno due componenti la Commissione stessa ne facciano domanda.
Il commissario ha anche facoltà di farsi coadiuvare da cittadini designati dal prefetto per gli scopi attinenti al suo ufficio.
art. 2
La nomina dei commissari del governo e la loro sostituzione quando occorra è deliberata dal presidente del Consiglio dei ministri, d’accordo col ministro dell’Industria e del commercio.
(Secondo capoverso: identico.
Terzo capoverso: identico.)
art. 3
(Identico.)
art. 4
Chi abbia più di una abitazione nello stesso comune, ed in comuni circostanti considerati come zona suburbana a termini dell’articolo 1, ovvero in comuni diversi con popolazione superiore ai 50.000 abitanti, deve fare denunzia di quello o di quelli non occupati permanentemente dalla propria famiglia o dai propri congiunti, che tiene in affitto o subaffitto nei comuni compresi nella circoscrizione del commissario.
L’obbligo della denuncia sussiste anche quando alcune o tutte le abitazioni siano di proprietà del denunciante. Verificate le circostanze del caso, su parere conforme della Commissione consuntiva di cui all’articolo 1, il commissario può iscrivere fra quelle disponibili per l’assegnazione le abitazioni che, tenuto conto dei rapporti famigliari e delle esigenze relative alla salute ed alla amministrazione del patrimonio dei membri della famiglia, risultino non necessarie al denunciante e alla sua famiglia a norma dell’articolo 6.
Il commissario può disporre, subordinatamente al disposto dell’articolo 20, delle abitazioni non necessarie come sopra, anche quando una o parecchie di esse siano occupate dal denunciante in qualità di assegnatario o compratore od inquilino di case costruite in virtù e colle agevolazioni della speciale legislazione sulle case popolari ed economiche. Il commissario può all’uopo chiedere alle cooperative edilizie ed agli istituti per la costruzione di case popolari ed economiche, gli elenchi dei compratori ed assegnatari.
(Terzo capoverso: identico.)
Il commissario può disporre delle abitazioni, di cui nel primo comma del presente articolo, le quali da almeno due anni non siano occupate dall’inquilino o dalla sua famiglia, notoriamente dimorante in altro comune ovvero all’estero. In simili casi sentito il parere della Commissione di cui all’art. 1 provvede per la custodia, per l’assicurazione e per la buona conservazione del mobilio a spese dell’assegnatario dell’abitazione, chiedendo, ove lo creda opportuno, congrua cauzione all’assegnatario. Il proprietario del mobilio, ove il commissario ne riconosca il bisogno, avrà facoltà di collocare il mobilio stesso in uno, o più locali dell’alloggio stesso da lui prima occupato, salvo sempre al nuovo assegnatario di sopperire alle spese ed alla cauzione come sopra.
L’assegnatario non è tenuto a pagare al proprietario una pigione superiore a quella in corso, o se una pigione non era prima fissata, a quella in corso per i viciniori ed equivalenti appartamenti.
(Ultimo capoverso: identico.)
art. 5
(Identico.)
art. 6
Il commissario del governo ha facoltà, sentito il proprietario e l’inquilino subaffittante, di assegnare le case, gli appartamenti e le stanze destinate ad affitto o subaffitto che si trovano disponibili, a persone od a famiglie che hanno bisogno di alloggio, tenendo conto del rispettivo stato sociale ed economico. Prima di assegnare l’abitazione, il commissario deve renderne nota la disponibilità in un apposito elenco almeno 15 giorni prima dell’assegnazione; e qualora ad essa concorrano parecchie persone o famiglie, dovrà dare la preferenza a quella meglio gradita al proprietario. Egli ha pure facoltà di vietare che siano tenuti vuoti e non destinati ad abitazioni i locali adatti o facilmente adattabili per questo uso esistenti nel comune, compresi i locali adibiti a sanatori o a case di cura che non siano occupati o in esercizio, anche quando i locali medesimi non siano stati precedentemente dati in affitto, e può anche, in caso di necessità, disporre di questi locali per assegnarli come abitazioni a persone o famiglie che hanno bisogno di alloggio.
(Ultimo capoverso: identico.)
La revoca della precedente destinazione, per adibire ad uso di abitazione i locali adatti a tale uso, potrà tuttavia essere disposta, su parere conforme della Commissione consultiva, quando si tratti:
- a) di locali adibiti ad uso di deposito di merci, quando il deposito si trovi in un edificio diverso da quello ove ha sede l’esercizio commerciale e non costituisca un necessario complemento di questo;
- b) di locali destinati a riunioni, circoli di divertimento, sale di letture e simili, qualora tale destinazione non risalga, ininterrottamente, almeno ad un quinquennio od il locale non sia stato sostituito ad altro già occupato per lo stesso scopo, cosicché la destinazione cumulativa dei due o più locali non sia inferiore al quinquennio, ovvero il commissario, su parere conforme della Commissione consultiva di cui all’art. 1, non riconosca la necessità e l’utilità della destinazione;
- c) di locali destinati ad uso di studio, banco professionale o commerciale o di ufficio privato, qualora la ditta o l’ufficio che attualmente occupa i locali li dimetta per qualsiasi motivo ed il locale non sia occupato da altra ditta od ufficio per il medesimo scopo.
art. 7
Qualora si alleghi il bisogno di restauri e riparazioni ai locali disponibili per abitazioni, e all’edificio in cui essi si trovano, il commissario, accertata la necessità dei lavori e la loro convenienza economica, può prefiggere un congruo termine al loro compimento. Decorso inutilmente il termine assegnato, potrà disporre d’ufficio l’esecuzione dei lavori, alla quale provvederà a mezzo dell’inquilino che se ne assuma l’onere, e il relativo importo si intenderà anticipato in conto di pigione.
Restano ferme le disposizioni del Codice civile per quanto riguarda le piccole riparazioni.
(Secondo capoverso: identico.
Terzo capoverso: identico.)
Il commissario dovrà innanzi di prendere qualsiasi provvedimento a norma del presente articolo, sentire il parere della Commissione consultiva di cui all’articolo 1.
Le amministrazioni comunali possono essere autorizzate dalla Giunta provinciale amministrativa a fare eseguire a loro cure e spese i lavori indispensabili a rendere abitabili i locali di cui ai precedenti comma, quando non provvedano il proprietario o l’inquilino. Il rimborso di tali spese, con i relativi interessi legali, sarà effettuato nel numero di annualità da stabilirsi di accordo fra l’amministrazione e il proprietario, o, in mancanza di tale accordo, dal prefetto con provvedimento definitivo. In quest’ultimo caso, come pure nel caso che i lavori siano stati eseguiti a spese dell’inquilino, l’ammontare di ciascuna delle annualità con cui si effettua dal proprietario il rimborso non potrà superare i tre quinti della pigione annua relativa ai detti locali.
(Ultimo capoverso: identico.)
Salvo sempre, il diritto al rimborso, della somma anticipata a favore dell’amministrazione o dell’inquilino che abbia eseguito i lavori, il commissario dovrà stabilire la pigione nella misura indicata al quinto comma dell’articolo 4, con l’aggiunta di un importo uguale al provento ordinario sul capitale nuovamente impiegato nell’edificio.
art. 8
La facoltà del commissario di disporre a norma dell’articolo 4 delle abitazioni che risultino non necessarie all’inquilino e alla sua famiglia può essere esercitata, in caso di assoluta necessità, anche quando trattisi di unica abitazione che risulti manifestamente esuberante ai bisogni del conduttore e possa essere facilmente trasformata in più abitazioni, del tutto indipendenti tra loro.
Il commissario dovrà, nell’emanare il suo provvedimento, tener conto:
- a) della convenienza economica della trasformazione e della possibilità pel proprietario di sopportare la spesa occorrente e per l’inquilino nuovo di pagare la maggior pigione necessaria, in conformità dell’ultimo comma dell’articolo precedente, a rimunerare il capitale impiegato nella trasformazione;
- b) della possibilità di eseguire la trasformazione senza alterare l’armonia o diminuire il valore dell’abitazione unica preesistente, esclusi in ogni caso da tale possibilità gli edifici o gli appartamenti di pregio storico ed artistico.
Il provvedimento deve essere preceduto dal parere conforme ed unanime della Commissione indicata nell’articolo 1, alla quale si aggiungerà un tecnico nominato di volta in volta dalla Commissione medesima. La Commissione, innanzi di emettere il suo parere, dovrà sentire il proprietario della casa e l’attuale inquilino della abitazione.
art. 9
Il commissario del governo ha facoltà, sentito il proprietario e la Commissione di cui all’articolo 1, di permettere che l’inquilino dia parzialmente in subaffitto, con mobili o senza, la sua abitazione, anche quando nel contratto di locazione sia espressamente vietato il subaffitto.
Dovrà essere accordato al proprietario un equo indennizzo per le maggiori spese, come acqua potabile e simili, a cui il subaffitto dia origine, oltre ad una congrua partecipazione al supplemento di pigione a cui il subaffittante ha diritto in virtù dell’articolo 14.
Nel fare uso di tale facoltà il commissario deve accertarsi che non ostino ragioni speciali di convenienza in rapporto alle condizioni dell’edificio e allo stato sociale di coloro che lo abitano, e deve prescrivere le cautele del caso per evitare inconvenienti e molestie. Il proprietario potrà negare il suo gradimento al subinquilino che gli sia presentato dall’inquilino. In tal caso il commissario dovrà vagliare riservatamente e coll’obbligo del segreto d’ufficio le ragioni del diniego innanzi di emettere il suo provvedimento.
art. 10
(Identico.)
art. 11
Quando, per qualsiasi ragione, un inquilino venga sfrattato prima che sia trascorso il termine di proroga al quale ha diritto a termini del Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477, il commissario del governo è investito del potere di regolare in via provvisoria con disposizioni di massima o relative ai casi particolari gli sfratti degli inquilini.
Nel decidere sulle disposizioni degli sfratti il Commissario, dati, se occorrono, provvedimenti provvisori di urgenza, deve accertare la necessità morale e sociale della sospensione, esaminando in particolare:
- a) se l’inquilino abbia contravvenuto agli obblighi principali imposti dal contratto o dalla legge;
- b) se egli già si sia procurata o possa procurarsi senza grave danno economico un altro alloggio con maggiore spesa;
- c) se giustifichi i motivi per continuare a risiedere nel comune, qualora non vi appartenga per nascita o per domicilio;
- d) quale sia la situazione comparativa dell’inquilino sfrattato e della persona o famiglia che dovrebbe subentrare nell’abitazione, avendo particolare riguardo al caso che vi debbano subentrare il proprietario, il locatore, ovvero prossimi congiunti di costoro, quando specialmente l’acquisto dell’abitazione, per l’epoca a cui risalga e le altre circostanze del caso, non risulti preordinato allo scopo di eludere le disposizioni eccezionali vigenti circa le proroghe delle locazioni.
La proroga decretata per effetto della sospensione dello sfratto, non può in verun caso andare al di là dei termini generali di proroga stabiliti per le varie categorie di abitazioni dal R. decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477; né può essere concessa, ove l’inquilino sfrattato per inadempienza non dia garanzia di corrispondere per l’avvenire il canone pattuito di affitto insieme con gli aumenti stabiliti dal predetto decreto.
Nessuna proroga o sospensione di sfratto, può essere concessa a chi potrebbe occupare un appartamento di sua proprietà, anche se acquistato od assegnato da società cooperative.
art. 12
La facoltà del commissario del governo di sospendere gli sfratti a norma dell’articolo precedente può essere da lui esercitata anche per i locali tenuti in fitto da pubbliche amministrazioni e destinati ad uso di servizi pubblici di interesse permanente e generale, come scuole, uffici giudiziari, uffici postali e fiscali, escluso qualsiasi servizio avente carattere occasionale e determinato dalle contingenze di guerra.
In questi casi il commissario del governo, quando i locali risultino effettivamente indispensabili al pubblico servizio può accordare la proroga di un altro anno a decorrere dal termine stabilito per le diverse categorie di case per la cessazione di quella obbligatoria a sensi del Regio decreto 18 aprile 1920, n. 477. Inoltre, secondo le circostanze e tenuto conto dei mutamenti nella svalutazione della moneta in relazione all’inizio del contratto e alla sua durata successiva, dell’importanza degli oneri che gravano sulla proprietà fondiaria e dei cangiamenti seguito nello stato dei locali affittati, il commissario del governo dovrà determinare un ulteriore aumento di pigione da corrispondersi durante il periodo della nuova proroga.
(Ultimo capoverso: identico)
art. 13
Nella ipotesi di vendita di case, anche ad appartamenti separati, il commissario del governo per le abitazioni, sentito il parere della Commissione di cui all’art. 1, può sospendere a favore dell’inquilino, secondo i criteri stabiliti nell’art. 11, l’esercizio della facoltà che spetterebbe al nuovo acquirente di adibire la casa o l’appartamento per abitazione propria, fino alla scadenza delle proroghe concesse dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477, esclusa in ogni caso da questa facoltà di sospensione la proroga concessa in virtù dell’art. 19 dello stesso decreto.
art. 14
(Identico)
art. 15
Chi subaffitta appartamenti o stanze, con o senza mobili, non può percepire una mercede superiore del 25% della pigione che egli paga, se il subaffitto è senza mobili, né del doppio di tale pigione se è con mobili e servizio.
(Secondo capoverso: identico.
Terzo capoverso: identico.
Quarto capoverso: identico.)
art. 16
(Identico.)
art. 17
(Primo capoverso: identico.
Secondo capoverso: soppresso.
Terzo capoverso: identico.)
Il commissario può in questi casi assegnare l’abitazione medesima secondo le regole ordinarie, disponendo per la rimozione dei mobili, ove occorra, a spese dell’inquilino subentrante.
art. 18
(Identico.)
art. 19
(Primo capoverso: identico.)
Possono però essere impugnati per nullità, per inosservanza delle forme in questa legge indicate o per eccesso di potere davanti all’autorità giudiziaria competente.
Il commissario dà anche le disposizioni che reputa opportune per l’esecuzione dei suoi provvedimenti, richiedendo, se occorra, l’opera degli ufficiali giudiziari, territorialmente competenti, i quali sono tenuti a prestare il loro ministero e ad eseguire le richieste del commissario.
(Ultimo capoverso: soppresso.)
art. 20
(Primo capoverso: soppresso.)
Tuttavia anche per tali edifici; allorché siano ultimati e dichiarati abitabili in conformità dei regolamenti locali d’igiene ed edilizia, il commissario del governo ha facoltà di impedire che siano tenuti vuoti: e può a tale scopo prefiggere al proprietario, un congruo termine, non minore mai di tre mesi dalla notifica del commissario e di sei mesi dal decreto di abitabilità, trascorso il quale ha facoltà di assegnare direttamente i vari locali disponibili a persone o a famiglie sprovviste di alloggio secondo le norme indicate dal primo comma dell’art. 6, determinandone l’equa misura della pigione in corrispondenza al valore locativo delle case e al costo di costruzione, tenendo presente che trattasi di edifici sottratti alle limitazioni di pigioni stabilite negli eccezionali provvedimenti in vigore.
(Terzo capoverso: identico.
Quarto capoverso: soppresso.)
art. 20 bis aggiunto
Sul parere conforme della Commissione consultiva di cui all’art. 1, il commissario agli alloggi può, su richiesta del proprietario e sentito l’inquilino, estendere, ferma restando la scadenza contrattuale, gli aumenti di pigione portati dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477, escluso quello di cui all’art. 19 dello stesso decreto-legge anche alle case a qualunque uso destinate, la cui locazione dipenda da un contratto in corso stipulato anteriormente all’1 gennaio 1918 e con scadenza posteriore ai termini di proroga portati dal predetto decreto. L’aumento potrà essere concesso nei casi nei quali la pigione convenuta sia manifestamente inferiore a quella che sarebbe stata stipulata se le parti avessero preveduto le mutate circostanze determinatesi dopo il 31 dicembre 1917. Questa disposizione si applica anche ai locali adibiti ad uso di commercio, industria e professione.
L’aumento del canone non potrà prendere inizio se non dopo sei mesi dalla data della relativa richiesta del proprietario. Il conduttore, ove non intenda accettare l’aumento, ha sempre facoltà di chiedere lo scioglimento del contratto alla scadenza consuetudinaria più vicina.
art. 21
(Soppresso)
art. 22
Gli atti di violenza nulle proprietà pubbliche o private o contro le persone, per procurare coattivamente a sé o ad altri l’abitazione sono puniti rispettivamente in conformità degli articoli 147, 248 e successivi e 423 del Codice penale.
Si applicano in relazione al delitto di cui all’articolo 248, le disposizioni degli articoli 246 e 247 dello stesso codice per i delitti di istigazione e di apologia.
Contro i colpevoli deve essere spedito il mandato di cattura.
art. 23
(Primo capoverso: identico)
Secondo Capoverso: identico.
Terzo capoverso: identico.)
L’autorizzazione per l’affitto degli edifici o loro parti attualmente destinati ad uso di albergo o pensione può essere data dal commissario quando sia evidente che tale destinazione viene conservata. Negli altri casi l’autorizzazione è chiesta direttamente al Ministero dell’Industria e commercio, in conformità delle disposizioni contenute nella parte prima del presente articolo.
art. 24
Gli edifici che servivano ad uso di albergo prima della guerra, e sono stati venduti con mutamento di destinazione, ma non sono stati convertiti in ordinarie abitazioni, potranno essere assoggettati con decreto del Ministero dell’Industria e commercio, a riscatto per il prezzo risultante dagli atti di vendita, tenuto conto, per i riscatti da effettuarsi a partire dal giorno della pubblicazione della presente legge, della svalutazione della moneta intervenuta nel frattempo, col solo compenso della minor somma fra la spesa ed il migliorato, per trasferirli ad enti o persone che vi ripristineranno l’esercizio di albergo, dando garanzia di continuarlo per non meno di dieci anni.
(Secondo capoverso: identico.)
art. 25
(Identico.)
art. 26
(Identico.)
art. 27
(Identico.)
art. 28
(Soppresso.)
art. 29
(Primo capoverso: identico.
Secondo Capoverso: identico.)
Il provvedimento sarà adottato con ordinanza del prefetto della provincia. L’ordinanza dovrà indicare le disposizioni del presente decreto, l’applicazione delle quali sia estesa nei singoli comuni e dovrà essere pubblicata nei comuni medesimi.
art. 30
(Identico.)
art. 31
(Soppresso.)
art. 32
(Identico.)
art. 33
(Identico.)
art. 33 bis
Ove non sia espressamente stabilito in modo diverso nel presente decreto, i poteri del commissario agli alloggi sono limitati alle categorie di alloggi ancora soggetti a vincoli, in conformità all’articolo 19 del Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477.
art. 34
(Identico.)
art. 35
La presente legge sostituisce i decreti convertiti in legge 4 gennaio 1920 n. 1, 15 febbraio 1920, n. 147 e 18 aprile 1920, n. 475.
(Secondo capoverso: soppresso.)
Disegno di legge n. 273:
PROVVEDIMENTI PER LE CONTROVERSIE RELATIVE ALLE LOCAZIONI DEI NEGOZI.
Disegno del Ministero:
art. 1
Ferme le disposizioni relative alle locazioni di locali ad uso di bottega, negozio, magazzino, studio, ufficio e simili, contenute nei Regi decreti 15 agosto 1919, n. 1.514 e 18 aprile 1920, n. 477, il conduttore, alla scadenza del contratto, quando questa si verifichi o contrattualmente o per forza di legge entro il 31 luglio 1921, potrà adire la Commissione di cui all’articolo seguente, in relazione alle controversie contemplate dalla presente legge.
art. 2
In ogni capoluogo di mandamento sarà costituita, a cura del prefetto della provincia, una Commissione arbitrale presieduta dal pretore locale o, in mancanza, dal pretore viciniore e della quale faranno parte due proprietari di case e due conduttori di locali ad uso di bottega, negozio, magazzino e simili.
Nei centri ove esistano associazioni di proprietari di case, i due proprietari verranno designati al prefetto dalle associazioni medesime; negli altri luoghi, o qualora manchi tale designazione, essi saranno da lui nominati.
La designazione dei due membri negozianti o industriali spetterà alla Camera di commercio e, qualora questa non provveda, la nomina sarà fatta dal prefetto.
Nei comuni divisi in mandamenti si costituiranno altrettante Commissioni quanti sono i mandamenti.
art. 3
Le controversie relative ai rapporti di locazione – conduzione, cui può estendersi il giudizio della Commissione arbitrale, comprendono:
- a) la concessione di una proroga al contratto di locazione;
- b) la determinazione della misura della pigione, sia nel caso che, decisa la proroga, le parti non riescano a concordarsi sul fitto, sia nel caso che il proprietario non neghi la proroga ma richieda un corrispettivo, che il conduttore sostenga eccessivo;
- c) gli eventuali compensi da assegnarsi al conduttore dal proprietario nell’ipotesi che questi o direttamente o con diverso conduttore riesca a trar profitto dell’avviamento procurato al negozio dal primo conduttore.
art. 4
La Commissione decide in modo inappellabile e con criteri di equità.
Nei riguardi della proroga essa non può consentirla che per un altro ed ultimo anno, al fine che il conduttore possa procurarsi nuovi locali per l’esercizio del negozio.
art. 5
La Commissione arbitrale deve tener giusto conto delle ragioni sostenute da entrambe le parti. In conseguenza:
- a) nei riguardi della proroga dovrà considerare: rispetto al conduttore, se egli abbia dimostrato l’impossibilità materiale o quanto meno la notevole difficoltà di procurarsi altro negozio, studio od ufficio; rispetto al proprietario, se, avuto riguardo alle sue condizioni personali o di famiglia, alle esigenze del conduttore debbano prevalere le imprescindibili necessità del proprietario;
- b) nei riguardi della misura della pigione converrà tener presenti i mutamenti nella svalutazione della moneta in relazione all’inizio del contratto e alla sua durata successiva, l’importanza degli oneri che gravano sulla proprietà fondiaria, i cangiamenti seguiti nello stato, nella situazione e in conseguenza nel valore dei locali affittati ed ogni altro elemento inteso ad accrescerne o a ridurne il profitto.
La Commissione dovrà altresì usare particolari riguardi per quegli istituti ed esercizi che, rispondendo a necessità d’ordine generale, sieno soggetti a speciali norme che ne determinino la ubicazione o influiscano sul loro reddito.
Nel calcolare la misura del fitto la Commissione dovrà aver cura di escludere ogni accrescimento del valore dell’ente derivante dall’avviamento industriale, commerciale e professionale dovuto all’opera del conduttore.
In quanto le parti non concordino diversamente, la determinazione dell’equa misura della pigione da parte della Commissione non avrà valore oltre l’anno dalla scadenza, di cui all’art. 1.
art. 6
Il conduttore cessato non avrà diritto a compenso di fronte al proprietario che riesca a trar profitto dell’avviamento da quegli procurato al negozio se non in quanto il predetto proprietario o il nuovo conduttore eserciti l’industria del cessato inquilino.
art. 7
Nell’eventualità di una rinnovazione del contratto di locazione da parte del proprietario o in seguito a giudizio della Commissione arbitrale, è nullo di diritto qualunque contratto di cessione o di subaffitto di negozio da parte del conduttore, che avvenga senza consenso del proprietario. In tal caso questi potrà ottenere dal pretore competente immediato provvedimento esecutivo per il rilascio.
art. 8
Le disposizioni degli articoli precedenti non potranno in alcun caso infirmare i contratti stipulati anteriormente all’1 gennaio 1921 fra il locatore e il conduttore ovvero fra il locatore e i terzi.
art. 9
Ogni azione da svolgersi avanti le commissioni è fatta per biglietto a norma dell’articolo 132 Codice di procedura civile.
Il termine per proporla è di tre mesi anteriori alla scadenza indicata all’art. 1.
Uguale termine è consentito per le domande in giudizio che abbiano per oggetto le controversie, a cui si riferisce la presente legge, ove, a termini delle consuetudini locali, il preavviso per la rinnovazione del contratto fosse spirato anteriormente alla data di presentazione di questa legge o in seguito, a tutto il 30 aprile 1921.
art. 10
Le prescrizioni della presente legge sono estese anche ai contratti di locazione d’alberghi, in quanto risultino applicabili, prorogandosi a tre anni il termine contemplato dall’articolo 4.
Disegno dell’Ufficio centrale:
art. 1
Ferme restando le disposizioni relative alle locazioni di locali adibiti ad uso di industria, commerci o professione, contenute nei Regi decreti 15 agosto 1912, n. 1.514 e 18 aprile 1920, n. 477, il conduttore, alle scadenze, del contratto, quando questa si verifichi o contrattualmente o per forza di legge entro il 31 luglio 1921, potrà udire la Commissione di cui all’articolo seguente, in relazione alle controversie contemplate dalla presente legge.
Dove esiste consuetudine di scadenza fissa annuale o semestrale per i suddetti contratti, la data come sopra stabilita è sostituita dalla scadenza semestrale più vicina al 31 luglio 1921.
art. 2
In ogni capoluogo di mandamento sarà costituita, a cura del prefetto della provincia, una Commissione arbitrale presieduta dal pretore locale o, in mancanza, dal pretore viciniore e della quale faranno parte due proprietari di case e due conduttori di locali indicati nell’articolo precedente.
Nei centri ove esistano associazioni di proprietari di case, i due proprietari verranno designati al prefetto dalle associazioni medesime; negli altri luoghi, o qualora manchi tale designazione, essi saranno da lui nominati tra i proprietari di case che non siano conduttori di locali ad uso d’industria, commercio e professione.
La designazione degli altri due membri commercianti o professionisti spetterà alla Camera di commercio e, qualora questa non provveda, la nomina sarà fatta dal prefetto.
Colle modalità di cui sopra saranno pure nominati due membri supplenti, un proprietario ed un conduttore, i quali sostituiranno gli effettivi in caso di impedimento.
(Quarto capoverso: identico.)
I membri della Commissione arbitrale possono venire ricusati dalle parti nei casi Previsti dall’articolo 116 del Codice di procedura civile, ed è ad essi applicabile il disposto dell’articolo 119 dello stesso codice.
Sulla ricusazione ed astensione delibera immediatamente e definitivamente ilpresidente della Commissione.
art. 3.
(Identico.)
art. 4
(Identico.)
art. 5
(Primo capoverso: identico.)
- a) nei riguardi della proroga dovrà considerare: rispetto al conduttore, se egli abbia dimostrato l’impossibilità o quanto meno la grave difficoltà di procurarsi altro locale che possa essere adibito all’uso di cui all’art. 1.
(Ultimo capoverso del comma a: identico.)
- b) nei riguardi della misura della pigione converrà tener presenti i mutamenti nella svalutazione della moneta in relazione all’inizio del contratto e alla sua durata successiva, l’importanza dei tributi ed oneri di ogni specie che gravano sulla proprietà fondiaria, i cangiamenti seguiti nello stato, nella situazione e in conseguenza nel valore dei locali affittati ed in ogni altro elemento inteso ad accrescerne o a ridurne il profitto.
(Secondo capoverso: identico.
Terzo capoverso: identico.
Quarto capoverso: identico.)
art. 6
(Soppresso.)
art. 7
Nell’eventualità di una rinnovazione del contratto di locazione in seguito a giudizio della Commissione arbitrale, è nullo di diritto qualunque contratto di cessione o di subaffitto di negozio da parte del conduttore, che avvenga senza consenso del proprietario. In tal caso questi potrà ottenere dal pretore competente l’applicazione delle norme di cui all’art. 154 del Codice di procedura civile.
art. 8
Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano in alcun caso ai contratti registrati aventi data certa anteriore al 15 dicembre 1920 fra il locatore e il conduttore ovvero fra il locatore e i terzi.
art. 9
(Primo capoverso: identico.)
Il termine per proporla è di un mese anteriore alla scadenza indicata all’art. 1.
Uguale termine è consentito per le domande in giudizio che abbiano per oggetto le controversie, a cui si riferisce la presente legge, ove, a termini delle consuetudini locali, il preavviso per la rinnovazione del contratto fosse spirato anteriormente al 15 dicembre 1920.
Le commissioni arbitrali procedono con le norme stabilite nella legge sui probiviri 15 giugno 1893, n. 225 e relativi regolamenti in quanto esse siano applicabili.
art. 10
Le prescrizioni della presente legge sono estese anche ai contratti di locazione d’alberghi e case di salute attualmente in esercizio.
Tali contatti, qualunque sia l’epoca della loro scadenza, potranno essere prorogati dalle commissioni arbitrali, di cui all’art. 1, al 31 luglio 1923 o alla data consuetudinaria più vicina al 31 luglio 1923.
La discussione in aula di questi disegni di legge avrà inizio nella tornata del 14 febbraio.