Opera Omnia Luigi Einaudi

5-11 gennaio 1946 – Sui profitti di regime

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/01/1946

5-11 gennaio 1946 – Sui profitti di regime

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 69-87

 

 

 

È all’ordine del giorno il seguito della discussione, iniziata il 4 gennaio, sullo schema di provvedimento legislativo «Norme integrative in materia di profitti di regime» (stampato n. 67). Questo provvedimento propone di inquadrare nell’ordinamento tributario dello stato le norme sulle sanzioni contro il fascismo, già contenute nel decreto legislativo luogotenenziale 31 maggio 1945, n. 364, per la parte relativa all’avocazione dei profitti di regime e la confisca dei beni.

 

 

La Commissione inizia, sotto la presidenza del consultore Siglienti, l’esame per articoli del provvedimento; intervengono il relatore, Molle, Gilardoni, Ferri, Visentini, Manes e Zoli; quindi L. Einaudi dichiara, a proposito dell’art. 3, che chiarirebbe la dizione dell’articolo in questo senso: «il cittadino che sia stato condannato per avere tradito la patria, ecc.».

 

 

Prendono la parola i consultori Zoli, Gilardoni, Molle, Boneschi, Siglienti, quindi la discussione sull’art. 3 è sospesa, in attesa di chiarimenti da parte del governo. Il dibattito prosegue sugli articoli successivi, con interventi di Gilardoni, Molle, Pesenti, Manes, Siglienti e Friggeri; L. Einaudi interviene nuovamente a proposito dell’art. 5 e afferma che ad evitare che si colpiscano i profitti di guerra come profitti di regime, crede opportuno precisare il termine a quo per l’applicazione dell’articolo in esame cioè l’8 settembre 1943.

 

 

Intervengono ancora, sullo stesso articolo, i consultori Siglienti, Molle, Fré, De Cataldo e Visentini, poi L. Einaudi domanda se per «negozi conclusi» s’intendano anche le requisizioni fatte dai tedeschi.

 

 

Il relatore, Molle, chiarisce che «la legge francese comprende tutte le operazioni col tedesco, quindi anche le requisizioni, perché non distingue se l’atto sia volontario o no, ma guarda soltanto il profitto che si è realizzato, qualunque ne sia il modo»; intervengono quindi Gilardoni, Fré, Li Causi e Manes poi L. Einaudi domanda se si vogliano considerare sopraprofitti anche quelli degli agricoltori che hanno dato i loro prodotti all’ammasso.

 

 

Gilardoni «crede che anche gli agricoltori debbano rientrare nella disposizione, purché vi sia il sopraprofitto»; Manes, Pesenti, Bresciani Turroni, Zambruno e Fré prendono ancora la parola, quindi l’art. 5 viene messo ai voti e approvato nella stesura ministeriale. La Commissione passa all’esame degli articoli successivi; intervengono Molle, Zoli, Gilardoni, Manes, Pesenti, Bresciani Turroni e Zoli; L. Einaudi osserva che si tratterebbe di distinguere due imposte, cioè quella prevista dal provvedimento in esame ed una nuova. Tutti coloro che rimanessero compresi nelle categorie di cui all’articolo 6 sarebbero sottoposti ad una imposta sull’intero patrimonio e non solo sui profitti di regime; coloro invece che fossero compresi nell’articolo 7 e successivi, sarebbero assoggettati alla sola imposta sui profitti di regime.

 

 

Zoli «conferma che in sostanza è così; ma giudica che la legge sia claudicante, perché, ad esempio, i primi articoli non hanno nulla a che vedere con i profitti di regime, poiché, pure usando questo termine, praticamente non ci si cura di sapere se siano veramente tali».

 

 

L. Einaudi esprime la persuasione che una delle cause per cui il nostro sistema tributario non funziona sia la mancanza di giustizia. Non esistono organi giudiziari i quali consentano di affermare, in piena coscienza, che siano giuste le decisioni alle quali sono arrivate le commissioni comunali, provinciali o centrali, perché non sono imposte da magistrati indipendenti, ma da membri nominati da una delle due parti, cioè dalla finanza, che vuole avere la sua quota di quei determinati beni. Questa è una delle sciagure del nostro sistema tributario ed uno dei fattori dello scarso gettito delle imposte. Occorre la consapevolezza che queste siano distribuite con giustizia, anche riguardo all’accertamento dell’imponibile.

 

 

Dalla mancanza di questa consapevolezza è derivato l’andazzo generale in tutta l’Italia di contrattare in materia tributaria.

 

 

Per queste ragioni è persuaso che le commissioni istituite dal decreto in esame e che dovranno stabilire il debito del contribuente debbano essere tali da dare un affidamento di giustizia. Si potrà quindi discutere sul loro cambiamento; ma se si manterranno queste commissioni di parte, che non danno nessun affidamento, rimarrà sempre l’obiezione che non si agisce con giustizia.

 

 

Essendo politica la base di questa imposta, la sua determinazione deve essere affidata a organi che diano garanzia di giustizia. In tutti i giudizi ci deve essere l’accusatore, il quale dichiari che l’inquisito ha commesso quella tale colpa, ed un magistrato indipendente, il quale giudichi sulle prove fornite dall’accusatore e sulle controprove fornite dall’accusatore e sulle controprove fornite dal resistente. Se non si adempiano queste condizioni, l’opera sarà considerata dall’opinione pubblica come inficiata di ingiustizia.

 

 

Il relatore Molle «Si associa… alle osservazioni del senatore Einaudi e propone che i patrimoni di coloro che sono compresi nelle prime categorie (salvo un esame più preciso) siano soggetti ad un’avocazione pari ad una certa quota da stabilirsi, passando coloro, che non si crederà di colpire con tale avocazione, all’articolo successivo con una sanzione sui loro incrementi patrimoniali, salvo la prova del contrario». Dopo interventi di Zoli, Zambruno, Friggeri, Bresciani Turroni, Boneschi e Pesenti, il presidente nomina una Commissione che studi gli emendamenti all’art. 6, composta dai consultori Boneschi, Bresciani Turroni, Molle, Pesenti, Zambruno e Zoli.

 

 

A questo punto interviene il direttore generale della Finanza straordinaria, comm. Di Paolo e fornisce chiarimenti sull’art. 3, la cui discussione era stata sospesa in precedenza. L’art. 3 è quindi approvato, con qualche variante, dopo interventi di Manes, Boneschi e Molle e la discussione sullo schema di provvedimento n. 67 è rinviata.

 

 

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6 gennaio 1946

 

 

È all’ordine del giorno il seguito della discussione, interrotta il 5 gennaio, sullo schema di provvedimento legislativo «Norme integrative in materia di profitti di regime». Il presidente Siglienti invita il relatore Molle a riferire alla Commissione sulle conclusioni a cui è pervenuta la Sottocommissione nominata nella seduta precedente, per studiare gli emendamenti agli articoli 6 e 7 del provvedimento. Il relatore illustra le modifiche apportate agli articoli dalla Sottocommissione; quindi ha inizio il dibattito, con interventi dei consultori Ferri, Zambruno, Zoli, Pesenti, Scoca, Manes, Vanoni, Friggeri, Antonio Graziadei e Boneschi; a questo punto L. Einaudi consente col consultore Ferri che si tratta di una questione di coscienza, che ciascuno deve risolvere ubbidendo soltanto al proprio sentimento.

 

 

Non si sente di dare il voto a favore di un articolo nel quale sia ammesso un principio che costituirebbe una macchia indelebile per la nostra legislazione. Non si può ammettere che qualsiasi persona sia colpita da pena senza avere la possibilità di difendersi davanti ad un giudice. Questa è una condizione essenziale. Altrimenti si tornerebbe a forme di legislazione che si dicono medioevali, ma che piuttosto sono state proprie del regime fascista.

 

 

Intervengono ancora Zoli, Graziadei, Fré, Pesenti, Visentini, Siglienti, Reale, Bavaro, Zambruno, Molle e Manes; il consultore Boneschi propone il seguente ordine del giorno:

 

 

«La Commissione approva gli articoli 6 e 7 predisposti dalla Sottocommissione e si riserva di riesaminare nei detti articoli i seguenti tassativi punti:

 

 

  • 1) aliquote di patrimonio da avocare alle due categorie;
  • 2) discriminazione dei giudici del Tribunale speciale, che non abbiano partecipato alla decisione di processi politici;
  • 3) discriminazione a favore degli eredi discendenti;
  • 4) data di valutazione del patrimonio».

 

 

L. Einaudi domanda se respingendosi questo ordine del giorno ne discenderà che si debba approvare senz’altro l’articolo 6 dello schema.

 

 

Il presidente lo esclude. Intervengono i consultori Zoli e De CataIdo; poi l’ordine del giorno dell’on. Boneschi, messo ai voti, viene approvato, quindi la discussione del provvedimento è rinviata.

 

 

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8 gennaio 1946

 

 

La Commissione Finanze e Tesoro prosegue, sotto la presidenza del consultore Siglienti, la discussione sullo schema di provvedimento legislativo n. 67 cit., riguardante i profitti di regime, che aveva avuto inizio il 5 gennaio.

 

 

Il presidente mette ai voti gli art. 14-16, che sono approvati senza discussione; quindi anche l’art. 17 viene approvato, dopo un breve dibattito, a cui partecipano Molle, Zoli, Boneschi, Manes e Gilardoni. La discussione dell’art. 18 è invece rinviata, dopo interventi di Zoli, Visentini, Manes e Boneschi.

 

 

La Commissione passa quindi all’esame dell’art. 19, sul quale intervengono il comm. Di Paolo, direttore generale della Finanza straordinaria, e i consultori Molle, Pesenti, Zoli, Boneschi, Manes e L. Einaudi, che è d’opinione che il primo comma dell’articolo 19 debba essere studiato a fondo, perché introduce nelle funzioni dell’Ufficio distrettuale delle imposte dirette un compito nuovo che non gli è proprio. Questi uffici hanno avuto sinora il compito di formulare accertamenti di quantità e di qualità, campo tecnico in cui non entra nessun apprezzamento di carattere politico. Trattandosi però di profitti di regime, qualcuno dovrà fare questo apprezzamento politico e ciò spetterà al delegato provinciale per l’avocazione. A questo riguardo l’alto commissario, in una sua recente circolare avrebbe detto che al delegato provinciale spetta di segnalare i profitti di regime e agli uffici distrettuali delle imposte dirette di eseguire l’accertamento. Vi sarebbe quindi una netta distinzione di compiti, per cui potrebbe essere accolta la proposta del consultore Zoli, cioè che il delegato provinciale segnali all’Ufficio distrettuale i casi più gravi nei quali sia da applicarsi non l’aliquota normale, ma un’altra qualsiasi.

 

 

Perché questa divisione di compiti possa effettuarsi, bisognerebbe sostituire al comma 1 dell’articolo 19 le parole: «di intesa», con altra frase analoga a quella usata dal commissario per l’avocazione nella sua circolare, cioè: «su segnalazione», oppure: «su proposta del delegato provinciale».

 

 

Prendono la parola a questo punto Zoli, Manes, Molle, Boneschi e Pesenti. L. Einaudi chiede che si rifletta ancora se sia conveniente affidare agli uffici delle imposte un compito che egli crede sia loro per la prima volta assegnato.

 

 

Questi uffici sono infatti abituati a conoscere preventivamente le aliquote in relazione alle quali devono fare gli accertamenti, mentre ora si attribuisce loro la facoltà di stabilirle.

 

 

Il dibattito prosegue, con interventi di Zoli, Manes, Pesenti, Zambruno, Visentini, Molle, Di Paolo e Boneschi. Il presidente propone di premettere al primo comma dell’art. 19: «Nei casi dell’articolo 6 l’accertamento è demandato agli uffici distrettuali delle imposte dirette; congiuntamente all’accertamento è notificata l’eventuale proposta di aumento dell’aliquota». L. Einaudi osserva che, potendo mancare l’accordo, sarebbe meglio dire. «sentito il parere del delegato, ecc.».

 

 

Il presidente «fa notare che, stando al secondo comma, in caso di dissenso decide l’ispettore compartimentale delle imposte dirette, cioè lo specifico organo finanziario».

 

 

L’art. 19, con l’emendamento proposto dal consultore Siglienti, è quindi messo ai voti e viene approvato. La Commissione passa all’esame di un articolo aggiuntivo 6 bis, proposto dall’on. Zoli, sul quale la discussione viene sospesa, dopo un breve dibattito. Quindi l’art. 20 viene approvato senza discussione e ha inizio l’esame dell’art. 21; intervengono i consultori Molle, Zoli e Boneschi e il comm. Di Paolo; Zoli dichiara che «… L’applicazione della legge affidata ad organi, di cui non si possa sospettare la imparzialità, perché presieduti da magistrati o composti delle stesse categorie, che concorrono alla formazione della Commissione centrale delle imposte dirette, eliminerà ogni possibilità di dubbio.

 

 

Ritiene dunque che dare alla Commissione locale un presidente magistrato e richiamare la Commissione alla composizione naturale della Commissione centrale siano due principi, che discendano naturalmente dalle modifiche introdotte nel sistema della legge». L. Einaudi si associa pienamente a queste dichiarazioni.

 

 

In verità, richiamandosi a sue precedenti dichiarazioni, desidererebbe che le commissioni fossero composte esclusivamente di magistrati. Ma, poiché la Commissione centrale delle imposte è già composta, ritiene che sia veramente il minimo chiedere di richiamarsi a quella sua composizione. Per avere il massimo rendimento è necessario dare questo senso di ossequio alla giustizia ed il rispetto dell’ordinamento giudiziario anche nell’amministrazione delle imposte.

 

 

Intervengono ancora Di Paolo, Fré, Manes, Vanoni e Scoca; il relatore, Molle, propone il seguente testo del terzo comma: «… È ammesso appello della Commissione ad una sezione speciale centrale delle imposte, costituita a norma dell’articolo 32 del Regio decreto-legge del 7 agosto 1936, n. 1.639 e successive modificazioni, e integrata da due componenti scelti fra persone di riconosciuta competenza, nominate dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro delle Finanze». L’articolo, così emendato, viene messo ai voti e approvato; sono pure approvati senza dibattito gli articoli 22-26, quindi la discussione del disegno di legge è nuovamente rinviata.

 

 

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9 gennaio 1946

 

 

Prosegue la discussione, iniziata il 5 gennaio, sul disegno di legge n. 67 cit., riguardante «Norme integrative in materia di profitti di regime».

 

 

Sono all’esame della Commissione Finanze e Tesoro gli art. 27-29 del provvedimento.

 

 

Intervengono Siglienti, presidente, Molle, relatore, Di Paolo, direttore generale della Finanza straordinaria, Zoli, Lavatelli, Scoca e Boneschi. Il relatore propone la seguente aggiunta al primo comma dell’art. 29:

 

 

«L’amministrazione finanziaria ha facoltà di rinunciare al privilegio previsto nel comma precedente rispetto a determinati beni, quando constati che gli altri beni rappresentano una sufficiente garanzia per il suo credito».

 

 

Di Paolo osserva «che questa disposizione esisteva anche per l’imposta straordinaria sul patrimonio. Quando si comincia a delineare l’ammontare del debito di avocazione, se c’è un margine sufficiente, gli altri beni possono essere messi in libertà». Il presidente aggiunge che «il contribuente può aver bisogno di essere libero per fare una operazione di mutuo». L. Einaudi avverte che l’imposta straordinaria sul patrimonio del 1920, non comprendeva in origine questa clausola che fu poi introdotta in conseguenza degli inconvenienti gravissimi che si erano manifestati sul mercato. Data l’esperienza passata, crede convenga fare l’aggiunta proposta.

 

 

Intervengono quindi Molle, Zoli, Di Paolo e Vanoni. Quest’ultimo «rileva che la posizione non è identica fra l’imposta sul patrimonio e l’imposta o avocazione di crediti, prima di tutto perché nell’imposta sul patrimonio del 1920 si seguiva un certo criterio di realtà, per cui poteva essere sufficiente identificare il creditore ed il debitore perché tutta la materia fosse colpita, e perché si trattava di una imposta che colpiva una buona parte del patrimonio e quindi c’era sempre la sicurezza per il creditore di trovare un’altra parte del patrimonio su cui soddisfare le proprie ragioni. Invece di fronte ad un provvedimento come l’attuale, che in alcuni casi arriva all’avocazione totale, occorre proporsi la necessità di tutelare la normale fiducia del commercio. Un’azienda di credito che abbia finanziato nel 1941 o 1942 un imprenditore che operava normalmente sul mercato e non era allora sospettato, ed ha ancora vivo il suo credito, quando l’imprenditore stesso venga a perdere tutto il patrimonio perché avocato dallo stato, subisce un danno non giustificato da alcuna disposizione né di carattere politico né di carattere tecnico. È già eccessiva la limitazione ai soli crediti aventi data certa, perché è già dubbio se il rapporto di conto corrente abbia tale data. Non crede quindi opportuno escludere dai crediti quando non vi sia la certezza che essi sono crediti di comodo creati per mascherare il patrimonio del soggetto inquisito».

 

 

L. Einaudi si rende, in questa occasione, interprete di certe opinioni che sono molto radicate nel mondo bancario. Ogni giorno egli ha occasione di esaminare domande di credito a proposito delle quali risulta evidente che la maggiore preoccupazione degli istituti bancari è quella relativa ai profitti di regime, e qualora si presenti anche un lontanissimo dubbio la domanda è scartata. Perciò crede che sarebbe necessario liquidare al più presto la procedura dell’avocazione dei profitti di regime. Soltanto allora vi sarà il terreno sgombro e si potrà pensare ad una seria ripresa anche nel campo creditizio. Le banche, peraltro, hanno ripetutamente insistito perché fosse accettata qualche disposizione intesa a salvaguardare i loro crediti.

 

 

Vanoni «informa che a Ferrara è stato pubblicato un elenco di 5.000 individui sospetti di avocazione di profitti di regime. In quella provincia, da oltre sei mesi, le banche non fanno più nessuna operazione di credito, perché in quell’elenco figurano tutti gli operatori economici della provincia…». Di Paolo «non può fare a meno di osservare che qui bisogna tener conto di quei creditori che hanno fatto credito a persone che oggi si considerano profittatori e che anche in epoca anteriore al 25 luglio 1943 si erano improvvisati quali operatori economici, con l’intento di sfruttare la situazione del momento. Chi ha concesso il credito ha evidentemente operato male ed un tale elemento non si può trascurare».

 

 

L. Einaudi trova che questa argomentazione può aver valore solo per i dirigenti di istituti bancari che consapevolmente hanno fatto credito a quelle tali persone. Ma qui occorre tener presente che sono in giuoco i depositi a risparmio e la fiducia dei depositanti.

 

 

Seguono interventi di Vanoni, Molle, Zoli, Siglienti, Di Paolo, Fré e Manes. Il relatore Molle propone il seguente testo per il secondo comma dell’art. 29:

 

 

«Il privilegio dello stato è posposto ai crediti garantiti da ipoteca anteriore al 25 luglio 1943, quando questa non debba ritenersi priva di effetto ai sensi del successivo articolo 45, nonché ai crediti chirografari risultanti da scrittura di data certa anteriore al 25 luglio 1943»; propone quindi di sostituire l’ultimo comma con:

 

 

«I crediti assunti dai sequestratari in conformità dell’art. 1 del decreto legislativo luogotenenziale 31 agosto 1945, n. 538, nonché quelli assunti per i finanziamenti previsti nel terzo comma dell’articolo 32 del presente decreto e quelli che il sequestratario abbia utilizzato a seguito di precedenti concessioni sono soddisfatti con precedenza rispetto al credito dello stato». Il presidente «osserva che una formula vaga non risolverebbe la questione, e ricorda la legge 1 novembre 1944, n. 367, per il riassetto economico, dove è stabilito un contributo dello stato del 3 per cento, con garanzia di 4 anni, per determinati scopi; ed è previsto un controllo. C’è poi la legge del ministro Ricci relativa al capitale di ricostruzione, che prevede l’utilizzazione di tre miliardi. Si possono quindi richiamare le disposizioni tassative di queste leggi».

 

 

L. Einaudi si dichiara un po’ scettico su questa proposta. Quei fondi sono stati istituiti, in realtà, non per la ricostruzione, ma per venire in aiuto alle aziende.

 

 

Dopo interventi di Molle e Ricci, il presidente mette ai voti gli art. 28 e 29, con gli emendamenti proposti; gli articoli sono approvati. Si apre quindi la discussione sull’art. 30; il relatore fornisce chiarimenti a Manes, quindi Zoli «si richiama all’articolo 27 che la Commissione si è riservata di discutere insieme con l’articolo 30. L’articolo 27, messo in relazione con l’articolo 30, non ha nessuna giustificazione; infatti, se la finanza ha facoltà della iscrizione in ruolo subito dopo l’avviso di accertamento, non c’è ragione di stabilire l’obbligo di versamento del 50 per cento.

 

 

L’articolo 27 non si giustifica nemmeno considerando che il concordato si rende meno utile, o dannoso per il contribuente quando sia anticipato il 50 per cento e si possa attendere un rimborso da parte dello stato».

 

 

Il relatore, Molle, consente alla soppressione dell’art. 27; Zoli «avverte che ne resterebbe la prima parte. Aggiunge che trovandosi di fronte ad un esame analitico, caso per caso, non vi è una presunzione di esistenza del credito, per cui si possa senz’altro iscrivere a ruolo una somma pari al 50 per cento. Occorre preoccuparsi della gravità di questa tassa dal punto di vista della sua entità, e del fatto se i contribuenti possono pagarla; poiché l’imporla mentre ancora si discute sulla entità del debito, è attribuire a questa tassa una gravità superiore a quello che ne è il fondamento. È d’accordo col consultore Molle che si debba consentire un’iscrizione a ruolo; ma di una tassa proporzionata alla iscrizione di primo grado. Questo è il principio della iscrizione provvisoria delle sentenze, al di fuori del quale crede che non si dovrebbe andare».

 

 

L. Einaudi si è chiesto la ragione per cui la finanza desidera avere in mano quest’arma e la ravvisa nel pericolo che il contribuente sottragga la materia imponibile. Ma se questo pericolo non c’è e la materia è a disposizione della finanza o il patrimonio è costituito in maniera tale che sia facile stabilirne l’entità, non vede il motivo di obbligare il contribuente a pagare subito anticipatamente una qualsiasi percentuale.

 

 

Ciò specialmente se si tratta di proprietà immobiliare o di impianti industriali, per cui l’entità patrimoniale non potrebbe essere realizzata senza enormi perdite.

 

 

La discussione sugli articoli 27 e 30 del provvedimento prosegue con interventi di Bresciani Turroni, Manes, Pesenti, Scoca, Lavatelli, Di Paolo, Molle, Pesenti, Zoli, Vanoni, Boneschi, Siglienti e Ricci, quindi viene rinviata all’indomani.

 

 

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11 gennaio 1946

 

 

La Commissione Finanze e Tesoro prosegue l’esame dello schema di provvedimento legislativo n. 67 cit., relativo ai profitti di regime.

 

 

Vengono approvati, dopo ampio dibattito, gli articoli da 31 a 35 e l’art. 41 e, senza discussione, gli art. 38-40. Il presidente Siglienti dà quindi lettura di un articolo 6 bis aggiunto, sul quale intervengono i consultori Fré, Manes e Pesenti, il direttore generale della Finanza straordinaria, Di Paolo e il sottosegretario di stato per le Finanze, Visentini. L. Einaudi domanda se vi è una diversa valutazione tra il Nord e il Sud.

 

 

Il comm. Di Paolo «Lo esclude, perché la rivalutazione è fatta nel 1944 ed ha effetto per il triennio successivo».

 

 

L’articolo è approvato, con qualche variante, e così gli articoli successivi. Termina così la discussione di questo disegno di legge.

 

 

 

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