4 ottobre 1947 – Su tre mozioni di sfiducia al Governo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/10/1947
4 ottobre 1947 – Su tre mozioni di sfiducia al Governo
Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni
Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 695-733
Seguito della discussione di tre mozioni di sfiducia al governo presentati da membri dei gruppi socialista e comunista. L. EINAUDI prende la parola per primo, in qualità di ministro del Bilancio:
Onorevoli colleghi, consentitemi che prima di discorrere degli argomenti specificamente propri al mio assunto, e delle osservazioni che in questa assemblea sono state fatte sulla politica economico-finanziaria generale del governo, io dica che non intendo prolungarmi troppo sulle premesse generali delle critiche, fondate sul contrapposto fra liberismo e vincolismo, fra pianificazione e concorrenza. Le discussioni in proposito hanno un carattere molto generico e sono l’eco di altre dispute consimili più antiche, alle quali oggi sarebbe difficile attribuire un contenuto effettivo.
Spesso nella stampa e anche in questa assemblea sono designato come il prototipo dei liberisti, e le accuse, le critiche appaiono dedotte dalla qualificazione o classificazione in cui sono collocato, come se da questa qualificazione, e non dagli atti compiuti, dovesse dedursi la bontà e la malvagità delle disposizioni medesime.
Ogni qualvolta io qui a Roma passo dinanzi alla Chiesa di San Luigi de’ Francesi e ricordo che in quella chiesa è sepolto – essendo morto a Roma nel 1850 – colui che fu considerato nel secolo scorso come il massimo esponente del liberismo mondiale, l’economista francese Federico Bastiat, mi vien fatto di pensare che, se egli vivesse oggi, stupirebbe delle accuse che si fanno a quelli che si chiamano liberisti e di cui egli fu il massimo rappresentante nel secolo scorso.
Si meraviglierebbe che ai liberisti si attribuiscano idee che non hanno mai avuto, come se essi per definizione negassero qualunque azione dello stato, negassero qualunque vincolo, qualunque norma legislativa che venisse a regolare in un senso o in un altro l’economia privata. Stupirebbe maggiormente, come autore di scritti che rimangono immortali intorno ai danni dell’intervento mai compiuto da parte dello stato, come autore della celebre petizione dei fabbricanti di candele, di sego e di cera, di candelieri e lampade, di bugie e di tutto ciò che serve all’illuminazione pubblica, contro il nemico più acerrimo mai sorto a distruggerli, contro un tale nemico che lavorava sotto costo, anzi senza costo, e batteva senza fatica un’industria cosi vantaggiosa all’umanità. La famosa petizione contro la concorrenza sleale del sole, petizione che rimarrà negli annali dell’economia e che anche oggi potrebbe essere ristampata, non era diretta contro tutti gli interventi dello stato.
Bastiat, campione del liberismo del secolo XIX, combatteva gli interventi dannosi dello stato. Mai si sarebbe sognato di combattere quegli interventi necessari che sono l’essenza medesima dello stato. Lo stato deve intervenire tutte le volte che esso solo può compiere certe cose; deve intervenire tutte le volte che la sua azione è migliore di quella dei privati; non deve intervenire quando la sua azione è inutile o dannosa. La disputa non si svolge sulle parole, ma si svolge su quella che è la sostanza di ogni singolo problema, di quel problema che volta a volta è posto dinanzi all’opinione pubblica. Quando si parla di piani (che è un’altra parola che si usa invece di quella di vincoli o limiti che si usava un tempo) si dimentica che tutti facciamo dei piani. Si tratta di discutere se questo o quel piano sia buono o cattivo. Ogni massaia, ogni padre di famiglia fa dei piani.
E che cosa facciamo noi qui ogni anno se non discutere il piano per antonomasia, e cioè il bilancio dello stato?
Ed a questo proposito, vorrei ringraziare l’onorevole Nitti per l’accenno che ieri ha fatto intorno all’opportunità di migliorare quel tipico piano che è il nostro bilancio, aggiungendo alla classificazione in capitoli, la classificazione in articoli. Concordo con lui nel desiderio e me ne ero fatto eco nel discorso del 18 giugno quando avevo promesso all’Assemblea di occuparmi del problema della divisione del bilancio, oltreché in capitoli, in articoli, poiché la divisione in articoli è necessaria per impedire il mal uso del pubblico denaro, è necessaria per far sì che le spese siano contenute entro i limiti prestabiliti. Non mi sono dimenticato la promessa, e fin dal 27 agosto scorso la Ragioneria generale dello stato indirizzava una circolare a tutti i direttori capi delle ragionerie centrali dei ministeri per invitarli a preparare fin d’ora, entro e non oltre il 15 ottobre, gli elementi per il bilancio preventivo 1948/49, così che esso sia pronto per l’esame del legislatore entro il gennaio del 1948. In quella occasione si diceva che, ai fini di rendere meno gravosa l’applicazione della riforma in corso, che prevede la ripartizione in articoli, sarà opportuno che i capitoli sui quali gravano attualmente spese di natura diversa vengano quanto più è possibile suddivisi onde renderne omogenea la materia e ciò anche in omaggio al principio della specializzazione dei bilanci. Contemporaneamente un disegno di provvedimento legislativo veniva apprestato, allo scopo di modificare la legge generale per l’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello stato, coll’aggiunta di un articolo 38/bis il quale dice: «Prima dell’inizio di ogni esercizio ciascun ministro, d’intesa con quello del Tesoro, provvede a ripartire in articoli la somma stanziata sui singoli capitoli in relazione alla natura delle spese e all’ordinamento dei servizi». I trasporti di fondi da un articolo all’altro del medesimo capitolo devono essere disposti con decreti dei ministri competenti, di concerto con il ministro per il Tesoro, decreti da registrarsi alla Corte dei conti. Analogamente, l’articolo 144 del regolamento verrebbe modificato nel senso che, in seguito alla divisione in articoli dei capitoli di spesa, dovranno essere ripartite in articoli anche le nuove e maggiori somme che si stanziassero nel corso dell’esercizio, nonché dovranno distribuirsi fra i vari articoli le riduzioni disposte, durante l’esercizio medesimo, negli stanziamenti di bilancio. Questo schema di provvedimento legislativo fu inviato, come ne fa obbligo la legge sulla contabilità generale dello stato, alla Corte dei conti perché desse il suo parere; e la Corte dei conti già l’11 agosto in seduta plenaria discusse ampiamente la materia, dando parere favorevole ad esso.
Il 23 settembre lo stesso schema di provvedimento legislativo era sottoposto al Consiglio di stato per il suo parere. Non appena il Consiglio di stato avrà dato il parere, il disegno di legge verrà presentato al Consiglio dei ministri e poi inviato alla Commissione di Finanza e tesoro affinché anch’essa dia il suo giudizio su una materia che io reputo importantissima per il perfezionamento di quello che è un vero piano della nostra amministrazione pubblica.
Il principio regolatore della nostra azione non è dunque un piano a priori, non è un liberismo assoluto, ma è la considerazione di ogni singolo provvedimento sulla base di ciò che il ragionamento e l’esperienza del passato ci dicono. È ovvio che i singoli provvedimenti debbano essere coordinati; ma il coordinamento deve necessariamente aver luogo in ubbidienza alle esigenze del momento. Le quali oggi – e la discussione avvenuta in questa assemblea lo dimostra – toccano sovratutto due problemi: bilancio dello stato e restrizione del credito.
Per avere un’idea di quella che è l’importanza correlata di questi due aspetti del problema, bilancio dello stato e restrizione del credito, occorre dare qualche indicazione intorno al modo con cui è variata la circolazione dei biglietti negli ultimi mesi. Vi è un certo contrapposto fra i mesi dal febbraio al maggio e quelli dal maggio al settembre.
La circolazione è aumentata in tutti e due i periodi; ma nel primo periodo la responsabilità dell’aumento si poteva dire che fosse principalmente data dalle esigenze del tesoro. Su un aumento di 61,8 miliardi di lire lo stato poteva considerarsi responsabile per 54 miliardi di lire; e gli ammassi dei cereali, che sono un altro aspetto dell’azione dello stato, per 6 miliardi e 200 milioni di lire. In totale 60,2 miliardi di lire su 61,8 erano dovuti all’azione dello stato.
L’economia, ossia le esigenze dell’industria, del commercio e dell’agricoltura avevano chiesto agli istituti di emissione un aumento di circolazione di un miliardo e 600 milioni.
Nel quadrimestre dal giugno al settembre, invece, l’aumento totale di circa 110 miliardi si distribuisce così: esigenze del Tesoro dello stato 26 miliardi e 600 milioni invece di 54; ammassi: 26 miliardi e 200 milioni invece di sei (ma questa è l’epoca in cui cadono gli ammassi del grano del nuovo raccolto); e l’economia, che aveva chiesto soltanto miliardi 1,6, ha chiesto all’Istituto di emissione un contributo di miliardi 55,9. All’incirca si potrebbe dire che in questo secondo periodo le richieste del paese avrebbero avuto la prevalenza sulle richieste del Tesoro.
Forse è del resto superfluo andare alla ricerca di chi abbia in questo caso diritto alla precedenza: certi problemi sono simili a quello della precedenza dell’uovo o della gallina. Congiuntamente il Tesoro e l’economia, prima forse più il Tesoro che l’economia e poi forse più l’economia che il Tesoro, hanno avuto la responsabilità dell’aumento della circolazione.
Per potere avere un’idea precisa del fenomeno, sarebbe necessario guardarlo nel suo complesso. Ma qui non siamo in sede scientifica. Siamo qui per recitare ognuno di noi, uomo pubblico e uomo privato, il mea culpa.
Riconosciamo senza troppo discutere sulle proporzioni, che amendue, stato ed economia, hanno una responsabilità nell’aumento della circolazione.
Cominciamo dalla responsabilità del Tesoro. In che cosa consiste questa responsabilità? Essa non consiste, per quel che si riferisce al nuovo esercizio, in un mancamento o in una diminuzione di entrate. Il collega ministro delle Finanze Pella ha esposto ampiamente quali siano i risultati favorevoli e più che ottimistici i quali sono stati dati dal gettito delle entrate effettive dello stato.
L’incremento delle imposte ordinarie e straordinarie è stato tale da poterci far fondatamente asserire che se le previsioni all’inizio si aggiravano sui 520 miliardi di lire, oggi si possono ritenere aggirantisi sugli 800 miliardi di lire. Io vorrei aggiungere una piccola integrazione alle cifre che sono state così bene esposte dal ministro delle Finanze.
Per amore dell’arte, e per un po’ di quella predilezione per le cifre finanziarie derivante dal mio antico compito di insegnante della materia, ho manipolato le stesse cifre in un’altra maniera, mettendo insieme da una parte tutte le imposte che colpiscono i redditi ed i capitali, comprese in questa categoria anche certe imposte che amministrativamente sono messe in un’altra categoria, e cioè le imposte sugli affari, le imposte sulle eredità e sul registro e bollo, le quali possono essere considerate veramente come imposte che colpiscono in qualcuna delle loro fasi e mutazioni il reddito e il patrimonio; dall’altra parte ho collocato tutte le imposte che colpiscono invece i consumi. Il risultato complessivo – dirò soltanto poche cifre per non elencarne troppe – è questo che, a seconda delle risultanze consuntive dell’esercizio scorso 1946/1947, il primo gruppo di imposte (quelle su redditi e sui capitali) contribuiva per il 28,6% del totale gettito delle entrate effettive, laddove le imposte sui consumi contribuivano per il 63,4%. Nel mese di agosto 1947 le proporzioni sono ben diverse. Le imposte sul reddito e sui capitali, ordinarie e straordinarie, compresa l’imposta sulle eredità, contribuivano per il 46,7 e le imposte sui consumi contribuivano per il 49,3. Il resto è dato da entrare minori, patrimoniali e diverse, che non sono di carattere tributario. Siamo arrivati nel mese di agosto, su per giù, a quella che non è una regola di ragione ma una regola empirica di esperienza, cioè che all’incirca le due grosse fonti di entrate si equivalgono: 50 e 50. Questa dicevano i vecchi trattatisti essere la proporzione che deve essere serbata tra imposte sul reddito e sui capitali da una parte ed imposte sui consumi dall’altra.
Noi, per necessità di cose, per l’arrugginimento della macchina tributaria, ce ne eravamo distaccati. Oggi, grazie all’opera indefessa del ministro delle Finanze e dell’amministrazione, siamo tornati a quella che è la proporzione classica tradizionale, metà e metà dei due gruppi.
Voglio aggiungere ancora che il peso delle imposte che grava sul contribuente italiano non è un peso piccolo. Qualche volta gli stranieri, che oggi vengono abbastanza frequentemente a fare interrogatori, indagini, a curiosare nelle cose nostre, ci domandano: «Ma quanto pagate voi di imposta?» E se sono americani, siccome hanno in testa una certa proporzione delle imposte effettivamente pagate al reddito nazionale, proporzione che è su per giù del 25%, quando noi diciamo che al 25% forse stiamo soltanto per arrivare, dicono: «È bene che voi ci arriviate». Fa d’uopo replicare, ed abbiamo ripetutamente replicato e fatto osservare, che una proporzione in Italia del 20 o del 25% sul reddito nazionale è una proporzione la quale è di gran lunga superiore alla stessa proporzione del 25% sul reddito nazionale nord – americano o di altri paesi meglio provveduti del nostro.
Non bisogna mai dimenticare che i redditi nazionali per testa, che sono quelli che contano, variano moltissimo da paese a paese; e se negli Stati Uniti il reddito nazionale potrà essere considerato di circa 1.200 dollari all’anno a testa, in Italia il reddito medio non potrà essere certamente considerato (per quel poco che se ne sa attraverso indizi) superiore ad una cifra posta fra 160 e 200 dollari. Ora, portare via il 25% su 1.200 dollari vuol dire lasciarne ancora 900 a disposizione del contribuente, mentre invece il portar via, come noi facciamo, dal 20 al 25% di un reddito che è soltanto da 160 a 200 dollari, vuol dire lasciarci qualcosa che può andare da 130 a 160 dollari, ossia una somma la quale sarebbe oltre oceano considerata tale da essere senz’altro esentata da tutte le imposte.
Il nostro sacrificio comparativo nel pagamento delle imposte è dunque un sacrificio che è di gran lunga superiore a quello dei paesi con i quali tante volte si fa un ingiusto confronto.
E passo alle spese. Espongo le cose quali sono e non quali vorrei sperare che fossero. Le spese, purtroppo, sono aumentate, per provvedimenti già definiti, su per giù nella stessa misura delle entrate: le entrate cresciute probabilmente di 280 miliardi e le spese, per provvedimenti già definiti o in essere, di 264 miliardi; sicché debbo confessare – e non so se qui prevalga più la lode od il biasimo – che la sola meta alla quale siamo riusciti è quella di mantenere per ora invariato il disavanzo che preesisteva. Io vi dirò qualche cifra per spiegare in che cosa consiste l’aumento nella spesa. Ve ne sono alcune sulle quali non può darsi alcun dubbio sulla loro necessità. I servizi finanziari del Tesoro hanno richiesto, ad esempio, variazioni già definite per 9 miliardi e 750 milioni; ma l’aumento è dovuto per 550 milioni di lire alla assegnazione che si è dovuta fare per le quote dovute per legge ai comuni sul provento dei pubblici spettacoli, e per 8.000 milioni per il rimborso ai comuni dei diritti erariali sugli spettacoli cinematografici. Certo, lo stato avrebbe potuto tenersi per sé queste imposte invece di riversarle a favore dei comuni; ma non solo ciò è accaduto in virtù di legge, una delle quali a lungo dibattuta in quest’aula; ma dai comuni giungono lagnanze vive perché il rimborso, per le esigenze della contabilità, non sia ancora stato effettuato, sicché ci chiedono anticipi per sopperire alle loro urgenze di cassa.
I comuni non hanno ancora toccato i benefici di queste assegnazioni di cui affermano (e non ho dubbio sulla fondatezza della loro affermazione) avere estrema necessità non per colmare in tutto, ma in parte, il disavanzo necessario dei loro bilanci. Per questa partita, ad esempio, nulla si può obiettare all’incremento della spesa.
Beneficenza ed assistenza sociale: 24 miliardi 270 milioni. Egregia somma; ma per 7 miliardi 260 milioni dovuta al contributo dello stato per la costituzione del fondo di solidarietà sociale a carattere previdenziale in favore dei lavoratori. Trattasi di domande da lungo tempo presentate, le quali sono state soddisfatte non so se con completa soddisfazione di coloro, invalidi e vecchi, che chiedevano l’aumento di pensione, ma che sono parse necessarie in relazione all’aumento del costo della vita; 2 miliardi, soccorsi ai militari alle armi; un miliardo: contributo all’Opera maternità ed infanzia; 8 miliardi: contributo alle integrazioni salariali, anche questa resa necessaria dalla speranza di potere in questo modo riorganizzare le industrie in guisa da evitare che un troppo grande peso di salari a operai in eccedenza debba essere pagato; 3 miliardi e 10 milioni: assegno straordinario contingente ai pensionati delle assicurazioni obbligatorie a carico dello stato; 2 miliardi: assegno integrativo indennità disoccupazione; 1 miliardo: acquisto materiale sanitario dell’A.R.A.R.. Sono tutti aumenti di spese le quali sono dovute alla necessità di sovvenire alle esigenze di malati, di vecchi, di poveri in conseguenza del rincaro della vita.
Non vi tedierò più a lungo su questi aumenti; farò soltanto rilevare come il grosso dell’aumento totale di 264 miliardi di lire si deve riferire a due capitoli. A favore del fondo speciale a copertura di maggiori oneri del personale dello stato erano già impostati in bilancio 89 miliardi, in previsione degli aumenti degli stipendi e del caro-viveri al personale; si sono dovuti impostare altri 49 miliardi e 380 milioni di lire, per corrispondere alle esigenze degli impiegati e di tutti gli altri dipendenti dello stato che avevano diritto, in conseguenza del metodo della scala mobile, ad ottenere l’aumento di caro-viveri e chiesero di ottenere, come ottennero, anche un aumento di stipendio. Vuole l’Assemblea costituente ritornare indietro su questi aumenti di stipendio e di caro-viveri? Sarà un miracolo se potremo fermarci su questa strada. L’altra cifra, la più grossa fra quelle che contribuiscono all’incremento delle spese, è il mantenimento del prezzo politico del pane, il quale costa nuovamente 100 miliardi di lire all’anno.
Dopo che lo avevamo soppresso, il prezzo politico del pane e la conseguente perdita di 100 miliardi di lire è risorto in conseguenza dell’aumento dei prezzi internazionali e dei prezzi interni del frumento. Non è questo il momento di discutere il problema, basti ricordare che il prezzo politico del pane è davvero il fattore principale, il più importante di quell’aumento delle spese pubbliche che ha controbilanciato l’aumento delle entrate.
In sostanza abbiamo ubbidito se non alla speranza di diminuire il disavanzo, all’impegno preso di far sì che nessuna nuova spesa fosse deliberata senza che a questa nuova spesa corrispondesse un incremento di imposte, un incremento di gravami sui contribuenti. Naturalmente, le spese, come accade sempre sono desiderate da tutti, mentre le imposte sono oppugnate con uguale unanimità. Almeno si riconosca la necessità di far sì che quando le une aumentano, aumentino anche le altre.
Poiché mi sono state chieste notizie sull’ammontare dei residui – ancora ieri l’onorevole Nitti ha detto che questa doveva essere una delle fonti di preoccupazione maggiore del governo – dirò le cifre riassuntive dei residui passivi ed attivi, quest’ultimi molto inferiori ai primi. I residui passivi, ereditati dagli esercizi finanziari 1945/46 e precedenti, all’1 luglio 1946 ammontavano, nella parte effettiva (dirò solo di questa e non del movimento di capitali, che ha altra natura), ammontavano a 220 miliardi di lire. Durante l’esercizio 1946/1947 furono pagati 145 miliardi a valere su questi residui, cosicché l’eredità degli esercizi 1946/47 e precedenti al 30 giugno 1947, ammontava ancora a 75 miliardi di lire. Se ai residui antichi si aggiungono i residui presunti del 1946/47 in 374 miliardi di lire, il totale dei residui passivi, tra antichi e nuovi, ammonta a 449 miliardi di lire, da cui, deducendo i pochi 18 miliardi di residui attivi, risulta l’ammontare netto dei residui passivi in 431 miliardi di lire.
Al disavanzo dell’esercizio corrente noi dobbiamo quindi aggiungere anche il debito del disavanzo nei residui, il quale però non avrà effetto, o non avrà effetto totale sulla cassa, inquantoché tutti gli anni, ad una eredità di residui del passato, corrisponde una eredità di residui nuovi che si lasciano all’esercizio avvenire, cosicché si può ritenere che le partite, alla fine dell’anno, possano per lo più contrapporsi ed uguagliarsi.
I disavanzi degli esercizi hanno un brutto effetto, che è conosciuto sotto il nome di «incremento del debito pubblico». Devo dire che l’incremento del debito pubblico continua. Dirò solo le cifre estreme; osservando che esse comprendono tutto il debito pubblico: consolidato, redimibile, fluttuante, per residui netti passivi, per valore attuale delle annualità differite.
Al 30 giugno 1939 il debito pubblico italiano ammontava a 178 miliardi e mezzo; al 30 giugno 1947 esso ammontava a 2.098 miliardi, con un incremento di 11,75 volte. Il debito pubblico, è dunque cresciuto quasi 12 volte in confronto all’anteguerra.
Il significato di questa variazione è socialmente più grave di quello che non appaia dalle cifre, contabilmente ed economicamente assai meno gravi. E ciò perché là dove prima della guerra, alla data del 30 giugno 1939, il debito totale – di 178,5 miliardi – si ripartiva in 7,1 miliardi di debito per i biglietti di stato e per le anticipazioni della Banca d’Italia per somministrazione di biglietti e 171,3 miliardi di altri debiti – cosicché i primi erano solo il 4% del totale – oggi invece, sui 2.098 miliardi di debito pubblico, 486 sono dovute alle amlire, alle anticipazioni della Banca d’Italia ed ai biglietti di stato; il resto – 1.611,7 miliardi – è costituito da tutte le altre partite.
Il 23%, dunque, del debito pubblico consiste in debito per creazione di biglietti. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che contabilmente il totale del debito vale oggi probabilmente meno del debito antico. Noi abbiamo un debito di 2.098 miliardi; ma questo debito, come potenza d’acquisto, come carico sui contribuenti, poiché la moneta si è svalutata ad una quarantesima, o cinquantesima che dir si voglia, parte del suo valore antebellico, vale soltanto una quarantesima parte del valore antico; cioè, sebbene sia aumentata di quasi dodici volte il suo ammontare, il suo peso a carico del contribuente è soltanto una quarantesima parte di 2.098 miliardi. Contro 178 miliardi del 1939 noi abbiamo un debito che vale, espresso nelle stesse lire del 1939, solo 52 miliardi circa; il peso economico è minore; esso costa in termini di sforzo molto meno, meno di un terzo, ai contribuenti di quanto non costasse nel 1939. Ma se questo è il significato contabile – economico, ben altro invece è il significato sociale. Qual è il significato sociale? Il significato sociale è che, in misura differente, i creditori dello stato sono stati privati di una parte di quello che avevano dato allo stato. Ciò vuol dire che, di mano in mano che procede la svalutazione monetaria, i creditori dello stato sono danneggiati, sono privati di una parte del valore del patrimonio che possedevano; essi sono rimborsati – in capitale ed interessi – con una moneta che vale una quarantesima parte di quello che valeva nel 1947.
Tanto più, quindi, è necessario, allo scopo di por termine a questa mala redistribuzione della ricchezza fra le diverse classi sociali che scoraggia i risparmiatori, tanto più, dicevo, è necessario tener bene in mente che quella del bilancio dello stato non è una parte secondaria del problema della ricostruzione del paese e del ristabilimento della nostra unità monetaria; ne è anzi la parte fondamentale, il punto di partenza.
Se si vuol fare qualche cosa, bisogna certamente incominciare dal bilancio dello stato. Non vale dire: incominciamo da qualche cosa d’altro e poi il bilancio dello stato si aggiusterà; promoviamo la produzione ed il bilancio dello stato rifiorirà. Non vale dir ciò, perché, finché il bilancio dello stato non sia tornato ad un relativo equilibrio, sarà vano sperare che si possa avere un risanamento dell’economia del paese. Il risanamento del bilancio è la premessa indispensabile per il ristabilimento della moneta; tutto il resto potrà essere, si, un coronamento, potrà essere un aiuto alla stabilizzazione: ma la premessa indispensabile è l’equilibrio del bilancio.
Vorrei ricordare, a conferma di questa che potrebbe essere considerata una mia opinione personale, un’opinione ben più autorevole della mia: quella del presidente del Fondo internazionale monetario, la massima autorità che in fatto di moneta oggi esista al mondo. Nella relazione alla recente riunione dei governatori del Fondo monetario internazionale a Londra, il signor Gutt, il belga che ha avuto il merito della riforma monetaria e finanziaria nel Belgio, disse queste parole: «In taluni paesi l’inflazione, e ciò significa una spesa eccessiva in consumi ed investimenti (questa è la definizione ch’egli dà dell’inflazione, definizione suggestiva, perché mette in chiaro che al disotto delle cifre monetarie, vi è una realtà di cose sostanziali), ha trovato origine in larghi disavanzi statali. Il punto di partenza per una riforma finanziaria ed economica interna sta, quindi, nel pareggio del bilancio statale. Questo deve essere un reale pareggio del bilancio, in cui le entrate effettive provenienti dal reddito corrente del pubblico coprano i pagamenti effettivi in favore del pubblico (stipendi, spese pubbliche, interessi del debito, ecc.). Deve essere un compiuto pareggio dell’intero bilancio, incluso tanto il bilancio ordinario che quello straordinario, come le operazioni delle aziende di stato. (Anche le aziende di stato devono dunque essere in pareggio). Le spese pubbliche per qualsiasi fine devono essere ridotte ad un ammontare che possa essere ricoperto con le imposte e le altre entrate correnti. In particolare né l’Istituto di emissione né le banche private devono fornire fondi per le spese pubbliche».
Lo stato non deve ricorrere, cioè, nell’opinione del presidente del Fondo internazionale, né ad anticipazioni dell’Istituto di emissione, né a prelevamenti sulle banche private, allo scopo di poter colmare il disavanzo del suo bilancio.
Forse questo che il signor Gutt esponeva nella seduta di Londra può essere considerato da noi quello che gli inglesi usano chiamare un consiglio di perfezione, il massimo di perfezione che può essere ottenuto. Forse noi ci possiamo contentare di qualche cosa di meno; noi potremmo anche considerarci contenti se il bilancio dello stato potesse essere equilibrato, oltrecché con le entrate effettive derivanti dalle imposte, con altre entrate, derivanti da prestiti, ma che siano prestiti effettivi sottoscritti dal pubblico, con emissione di titoli di debito pubblico e di buoni del Tesoro, a cui corrispondano biglietti versati dal pubblico al Tesoro, così da non aumentare la circolazione. Noi potremmo contentarci anche di questo grado minore di perfezione e ritenere di avere già raggiunto il nostro scopo.
L’on. Marina interrompe: «Ma per arrivare a questo, bisogna stabilizzare le paghe e i prezzi; altrimenti il bilancio dello stato continua a non quadrare».
L. EINAUDI riprende:
Ne parleremo.
Il signor Gutt aggiungeva un altro consiglio, che mi serve come ponte di passaggio alla seconda parte delle mie argomentazioni, quella che non si riferisce più al bilancio dello stato, ma invece all’economia del paese e alla questione controversa delle restrizioni del credito.
Egli aggiungeva:
«Stabilizzare la moneta, significa soprattutto che le spese, a qualsiasi titolo esse siano fatte, devono essere limitate all’ammontare di quei beni che possono essere acquistati a prezzi stabili».
E cioè, secondo il signor Gutt, è inutile aumentare la circolazione ed aumentare paghe perché ciò non serve a niente; serve soltanto a far aumentare i prezzi e ad impedire la stabilizzazione della moneta.
«In particolare – egli prosegue – le spese per ricostruzione ed impianto» (e quando egli parla di «spesa di ricostruzione ed impianto» si riferisce non soltanto alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dallo stato, ma anche alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dai privati) «non devono essere aumentate attraverso la creazione di credito bancario».
La creazione di credito bancario per fare opera di ricostruzione e di impianto è opera vana, la quale non raggiunge il suo risultato di creare qualcosa e di creare lavoro, ma raggiunge soltanto il risultato unico di aumentare la svalutazione monetaria ed aumentare ancora il disordine sociale che già esiste.
E vengo – attaccandomi a quest’ultima dichiarazione del presidente del Fondo monetario internazionale – all’argomento dell’economia del paese, la quale si concentra nella disputa relativa alla restrizione del credito.
A questo riguardo io vorrei essere il più chiaro possibile e i colleghi mi perdoneranno se forse mi dilungherò alquanto nella delucidazione dell’argomento.
Il problema, quale base – diremo così – di fatto ha? La base di fatto si può riassumere in queste cifre: durante il 1946 l’intero sistema bancario italiano (banche di ogni specie e casse di risparmio) ricevette dai depositanti, in più di quelli che c’erano già prima, 273 miliardi di lire di deposito. Ne impiegò 252. Un margine piccolissimo fra depositi e investimenti è la caratteristica del 1946. Praticamente tutto ciò che era stato ricevuto dalle banche fu impiegato.
Nei primi sette mesi di quest’anno 1947 l’intero sistema bancario italiano ricevette 188 miliardi di depositi di più di quelli che già aveva, 188 miliardi di nuovi depositi fatti in sette mesi dai risparmiatori, e ne impiegò 219. Il sistema bancario italiano impiegò, cioè, a favore dell’industria e del commercio, in sconti e anticipazioni e sovvenzioni di ogni specie, 219 miliardi di lire; quando i depositi, in quello stesso periodo di tempo, aumentavano soltanto di 188 miliardi.
È questa una situazione la quale possa essere considerata normale?
Io vorrei a questo riguardo fare qualche esempio quasi elementare. Se Un banchiere ha 100 di depositi e impiega 100, che giudizio daremo di lui? Il giudizio unanime e spontaneo è: costui è un pazzo e un delinquente! Perché, se egli impiega tutti i suoi depositi, è certo che domani non potrà rimborsare il primo depositante che si presenterà ai suoi sportelli per riavere il suo denaro; è certo che dovrà depositare i suoi libri in tribunale ed è certo che egli ha truffato i suoi depositanti.
Quindi costui è un pazzo e un delinquente! (Applausi al centro).
Se egli, che ha ricevuto 100, impiega 99, modificheremo il nostro giudizio? Lo attenueremo lievissimamente, ma il giudizio rimane tale e quale. E, discendendo grado a grado, mantenendo a 100 i depositi e diminuendo gli impieghi, fino a che punto dovremo discendere? Non c’è qui nessuna regola, non c’è nessun libro teorico il quale ci dica quale percentuale i banchieri possano onestamente impiegare. Essi maneggiano il denaro dei depositanti, essi sono fiduciari dei depositanti e devono mantener fede alla promessa fatta di restituire o a vista o a termine il denaro ricevuto in deposito.
Questo è il primo ed il massimo dovere, dinanzi a cui tutti gli altri doveri scompaiono.
L’esperienza del passato, che è l’unica maestra in materia, dice che il punto al di là del quale il banchiere diventa imprudente sta fra il 60 e il 70%. Occorre che il banchiere mantenga una riserva, o in denaro contante o in depositi ritirabili a vista attraverso l’Istituto di emissione nello stesso giorno, o in titoli facilmente realizzabili o che abbiano il diritto di essere presentati al risconto presso l’Istituto di emissione. Egli deve, cioè mantenere una certa riserva, in piccola parte in denaro contante, e per il resto in depositi, o in titoli, tale sempre che possa essere convertita rapidamente in denaro.
Se si supera questa percentuale dovremo dire che il limite di prudenza non è stato osservato.
Ora che cosa è accaduto? E accaduto che la percentuale impiegata nei depositi è andata via via crescendo: era del 42% al 31 maggio 1946, ed era così bassa, perché giustamente le banche durante il periodo della guerra e nel dopoguerra si erano mantenute entro limiti di grande prudenza, avevano cercato di conservare al massimo le loro liquidità, per evitare perdite.
A poco a poco la percentuale cresce: al 31 dicembre 1946 siamo arrivati al 61%: al 31 luglio 1947 essa è aumentata al 72%, cioè le banche hanno dato all’industria e al commercio crediti nella misura massima che la prudenza consente. Andare al di là sarebbe stato opera imprudente, sarebbe stato contravvenire, non dico alle norme della scienza, che deve conformarsi all’esperienza, ma alle norme insegnate dalla universale esperienza straniera e italiana.
L’on. La Malfa interrompe: «C’era già un coefficiente inflazionistico».
L. EINAUDI riprende:
C’era un coefficiente inflazionistico e si era infatti corso ai ripari fin da prima. Fin dal gennaio di quest’anno, l’Istituto di emissione vedeva che la percentuale d’impiego dei depositi andava crescendo e ha cercato di venire ai ripari d’accordo con il Tesoro per evitare che la percentuale seguitasse a crescere.
Purtroppo in passato, per non aver seguito i consigli della prudenza, abbiamo fatto ben tristi esperienze: dalla caduta della Banca italiana di sconto e di altre banche dell’Alta Italia nel 1921 e 1922, alle immobilizzazioni che si verificarono nel 1931-32, di cui tutti conoscono le conseguenze, come il passaggio delle tre grandi banche, Commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma, all’I. R. I. e quindi allo stato e cosi pure il trapasso delle partite immobilizzate all’I. R. I..
Vogliamo ripetere questa esperienza oggi? Il nostro dovere è di fare tutto il necessario perché essa non si ripeta.
Tutti i paesi, tutti indistintamente, hanno una politica a questo riguardo, una politica che per lo più è assai più restrittiva di quella blandissima che fu inaugurata nel 1936, modificata in seguito, e ripresa quest’anno.
In Inghilterra non c’è una regola precisa, perché tutti sappiamo che la Banca d’Inghilterra non usa mettere per iscritto le sue norme. Le norme si concretano durante conversazioni con i direttori delle grandi banche ordinarie; ma queste conversazioni conducono a risultati che per essere apparentemente volontari, non sono meno coattivi.
Si può ritenere che nel 1929 il 30% dei depositi delle banche inglesi venisse investito in titoli di stato. Nell’agosto del 1939 la percentuale era del 46%. Alla fine del 1946 la percentuale dei depositi bancari, la quale era investita in titoli di credito verso lo stato, si aggirava sul 70%, percentuale quindi di gran lunga superiore a quella esistente nel nostro paese.
In Olanda le cinque grandi banche commerciali avevano investito al 28 febbraio 1947, l’85% dei propri depositi in buoni del tesoro e titoli pubblici.
Negli Stati Uniti, dove esiste una legislazione precisa in proposito, per i depositi a vista le banche della città di riserva centrale sono obbligate a versare alla Banca federale di riserva il 20% dei depositi. Le banche delle città di riserva pure il 20%, le banche di provincia il 14%; per i depositi a termine l’obbligo di riserva è del 6%.
In Francia, le banche, al 31 dicembre 1946 avevano investito circa il 45% dei loro depositi in titoli pubblici.
Nel Belgio il rapporto di copertura, ossia il rapporto fra la cassa, più le somme disponibili a vista, più gli effetti pubblici ed il totale dei depositi deve essere del 50% per le banche regionali, del 60% per le banche di media circolazione e del 65% per le banche di grande circolazione.
Inoltre è obbligatorio che gli investimenti in titoli pubblici costituiscano almeno i quattro quinti della copertura.
Caratteristico è l’esempio svedese, dove, come sapete, l’Istituto di emissione è posto alla diretta dipendenza del Parlamento. Per quanto riguarda il rapporto fra depositi e patrimonio è stabilito che per le banche con patrimonio non superiore a cinque milioni di corone, l’ammontare dei depositi non deve essere superiore a cinque volte il patrimonio più il saldo creditore dei depositi a vista presso le altre banche; per le banche con patrimonio oltre i cinque milioni di corone, venticinque milioni di corone più nove volte l’eccedenza del patrimonio sui cinque milioni, purché l’ammontare complessivo non sia superiore a otto volte il patrimonio. Oltre a questi vincoli, concepibili in un paese, come la Svezia, a moneta stabile, è fatto obbligo alle banche di tenere una riserva liquida costituita da contanti o da valori facilmente realizzabili, non inferiore al 25% del totale e degli impieghi a vista.
Potrei continuare, ma questi esempi dimostrano già che le legislazioni straniere non han mancato di intervenire in questa materia poiché l’esperienza dimostra che ci sono banchieri prudenti, ma ci sono anche banchieri imprudenti, ed il sistema bancario è costituito in maniera tale che se ci sono banchieri imprudenti i quali cadono, la loro mala fine non si limita ad essi ma, per il panico di cui il pubblico è preso, si ripercuote su tutte le altre banche. È necessario quindi che vi sia qualche norma la quale induca tutti i banchieri, quelli prudenti e quelli non prudenti, ad osservare talune regole fondamentali.
Quali erano queste regole fondamentali in Italia fino a ieri? La legislazione del 1933/1936 stabiliva che le banche potessero tenere per sé ed investire liberamente 20 volte tanto (prima, e poi il multiplo fu aumentato a 30 volte) il loro patrimonio netto. Quindi, se una banca aveva un patrimonio netto di 100 milioni, poteva tenere per sé i propri depositi fino ad un ammontare di 30 volte i 100 milioni, cioè tre miliardi. Essa avrebbe dovuto depositare presso il Tesoro o presso l’Istituto di emissione od investire in titoli pubblici tutto l’eccesso oltre le 30 volte del patrimonio netto. La norma era stata adottata in un momento in cui esisteva veramente una correlazione fra patrimonio e depositi. Patrimonio e depositi erano espressi nella medesima moneta. Quando una banca aveva un patrimonio proprio di 100 milioni poteva essere ragionevole si dicesse: il supero, il di più dovrai depositarlo presso l’Istituto di emissione a garanzia del depositante. La norma funzionò discretamente bene per un certo periodo di tempo. Ma, venuta la guerra e cominciata la svalutazione monetaria, essa non funzionò più bene, poiché il patrimonio era espresso in una moneta ed i depositi in un’altra. Il patrimonio delle banche non crebbe o crebbe in misura così lenta che si poté dire che quasi non avesse importanza.
Quella banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni continuò ad avere lo stesso patrimonio. Ma i depositi crebbero, ed è naturale, perché i depositi sono espressi in una moneta che vale 40 volte meno di quello che valeva la moneta originaria; e toccano limiti più alti.
Col crescere dei depositi accadde che una banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni avrebbe dovuto depositare presso l’Istituto di emissione tutto l’eccesso dei depositi oltre i 3 miliardi; e se ne aveva 10 o 20, come accadde frequentemente dopo la guerra, avrebbe dovuto depositare tutto l’eccesso oltre i 3 miliardi presso l’Istituto di emissione.
Ciò voleva dire che la banca avrebbe dovuto fallire; ed invero la banca deve fare le spese per tutto il suo apparato; e soprattutto deve far fronte agli stipendi agli impiegati, stipendi che via via si sono moltiplicati prima per 10/20 ed ora, credo, per 25/30. Se si fosse osservata la regola del 1936, i depositi rimasti a libera disposizione della banca sarebbero stati invariati. Le banche, a cui il denaro costa dal 5 al 6%, specie per l’onere degli stipendi, avrebbero ricavato un buon frutto solo per una parte dei loro depositi, laddove per il sovrappiù, anzi per la più parte, avrebbero dovuto contentarsi del 3,50%, meno del costo. Quindi le banche violavano la legge. Il 29 gennaio di questo anno l’Istituto di emissione con una sua circolare ricordò alle banche l’obbligo che avevano secondo la legge. Nel ricordare l’obbligo, lo attenuò dicendo che nei depositi fatti presso l’Istituto di emissione si potevano anche includere certe partite che prima non vi erano incluse, con notabile attenuazione del rigore della legge. Ricordò però che la legge esisteva. Ma poiché questa era riconosciuta da tutti inapplicabile, in quanto avrebbe costretto le banche a depositare presso l’Istituto quasi tutti i loro depositi, tutto l’eccesso dei loro depositi oltre una cifra molto piccola, subito cominciarono le discussioni: cominciarono in febbraio e proseguirono fino ad agosto.
Discussioni, che cominciano in febbraio e durano fino all’agosto, non si può dire che abbiano portato, – come è stato detto in questa Camera – ad un provvedimento brusco. Non è improvviso né brusco ciò di cui si discusse per tanti mesi. Tutti ne erano a conoscenza; furono pubblicate in proposito memorie; le associazioni interessate, i competenti presero la parola e furono formulati voti. La questione fu dunque ampiamente dibattuta.
Quando il decreto che istituiva il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (e anche questo decreto fu oggetto di discussione presso la Commissione di Finanza e tesoro dell’Assemblea) entrò in attuazione, il Comitato, lo stesso giorno in cui il decreto veniva pubblicato il 2 agosto sulla «Gazzetta Ufficiale», si radunò e discusse per primo questo che era il problema più urgente della nostra situazione monetaria; e la conclusione fu quella che fu poi comunicata in una seduta del 20 agosto in una adunanza di banchieri in cui erano rappresentati tutti i principali banchieri italiani e le associazioni bancarie.
Il risultato delle deliberazioni del comitato interministeriale fu: dare maggiore elasticità, non restringere la legge antica, ma dare invece maggiore elasticità alla legge antica così che essa potesse adattarsi alle mutate circostanze. Si concluse, cioè concluse il Comitato interministeriale presieduto dal ministro del Tesoro e composto dai ministri dei Lavori pubblici, dell’Agricoltura, dell’Industria e commercio e del Commercio estero, che le nuove norme dovessero essere le seguenti: libere le banche di investire, a favore dell’industria e del commercio, sino a 10 volte il patrimonio netto. Si ridusse il multiplo da 30 a 10; ma in compenso della riduzione si disse: dell’eccesso dei depositi oltre il decuplo, voi banche potete tenere per voi ed investire l’80%.
Sarete obbligate a depositare, a garanzia dei depositi, soltanto il 20% dell’eccesso dei depositi oltre 10 volte il capitale sociale. Per maggiore larghezza si disse che in ogni caso però, tenuto conto del multiplo e della percentuale, le banche non fossero obbligate a depositare presso il Tesoro o l’Istituto di emissione o ad investire in titoli pubblici più del 15% dei depositi esistenti alla data del 30 settembre 1947. Quando in tutti gli altri paesi le percentuali sono maggiori e la prudenza consiglia alle banche di conservare un margine del 30%, più che meno, meno del 15% non poteva esser chiesto. E poiché l’inflazione si dà per l’incremento degli impieghi oltre il livello presente, fu disposto che se in avvenire a partire dal 30 settembre i depositi fossero aumentati oltre la cifra che avevano raggiunta alla stessa data, sull’aumento, ma solo sull’aumento, dovesse essere versata presso il Tesoro o l’Istituto di emissione una percentuale del 40%, ciò perché, come dissi or ora, l’inflazione creditizia può esser considerata già scontata per il passato, ma ciò a cui si deve rimediare è la nuova inflazione, quella ulteriore. Tuttavia fu attenuata la regola con la clausola che in ogni caso la riserva obbligatoria non potrà (tenuto conto del vecchio e del nuovo) superare un 25% dei depositi.
Questa è ciò che fu chiamata in questa assemblea la brusca, la improvvisa e la draconiana restrizione del credito. Dopo l’esposizione che gli onorevoli colleghi hanno ora ascoltata, è evidente che la restrizione non è stata né brusca, né improvvisa, né draconiana; è stata lenta, preavvertita e lungamente discussa. Può essere considerata, più che una restrizione del resto tenue, un avvertimento ed uno strumento del quale si possono servire le autorità di controllo allo scopo di controllare l’azione delle banche. Di per se stessa la nuova norma non è affatto feroce.
Sbarazzato, mi pare, il terreno dai rimproveri di eccesso, di brusco, di draconiano, resta l’altra obiezione fondamentale, e cioè che la restrizione del credito sarebbe soltanto quantitativa e non qualitativa. La osservazione è stata ripetuta da molti ed insigni membri di questa assemblea e merita la più attenta considerazione. Sono ben lieto che, dopo che questa obiezione era stata sollevata, si sia già riconosciuto da qualche oratore che in ogni caso il controllo qualitativo del credito non aveva un certo significato, cioè non aveva e non può avere il significato che l’Istituto di emissione, l’ente di controllo, debba controllare ad una ad una le operazioni di credito che sono fatte dalle singole banche. L’idea appena affacciata è subito apparsa non desiderata da nessuno.
E che non sia da desiderarsi da nessuno lo provano le osservazioni che l’amico e collega Merzagora ha fatto l’altro giorno intorno alle difficoltà in cui egli si trova per rispondere a diecimila domande al mese che gli pervengono per autorizzazione di esportazione ed importazione, che mettono in subbuglio e in imbarazzo tutti gli impiegati del suo Ministero, che fanno nascere problemi veramente angosciosi per una persona la quale abbia intendimento di fare tutto il suo dovere e di fare le cose come la coscienza gli detta. Egli ci ha parlato di centinaia di automobili le quali si trovano nel giardino prospiciente al suo Ministero, di gente che arriva da tutte le parti d’Italia per ottenere autorizzazioni e permessi. Ma se egli si trova imbarazzato di fronte a diecimila domande al mese, quanto più dovrebbe essere imbarazzato l’istituto di vigilanza se dovesse controllare tutte le operazioni di credito, per impedire che sia fatto questo o quel credito? Non diecimila, ma centinaia di migliaia di domande arriverebbero ogni mese. Non poche centinaia di automobili sarebbero ferme, come dinanzi al Ministero del Commercio estero, dinanzi al palazzo della Banca d’Italia in via Nazionale! Non basterebbe l’intera via Nazionale, da piazza Termini a Magnanapoli, per contenere tutte le automobili che arriverebbero per piatire la concessione di un credito, ottenere lo sconto di una cambiale!
Siamo tutti d’accordo – e sono lieto di averlo sentito qui – che questo non sia il controllo qualitativo che si desidera. Il controllo qualitativo che si desidera è qualcosa altro. Non l’ho sentito esporre con regole e norme molto precise. All’incirca, si è detto che si dovrebbe controllare la natura dell’operazione, almeno per categorie di operazioni, per categorie di industrie, o per localizzazione di quelle industrie, o per i fini a cui l’industria si rivolge.
Orbene, io devo dire che su questa via l’Italia ha già fatto dei grandi passi, e non so se ci sia un altro paese al mondo in cui esista già un controllo qualitativo quale esiste nel nostro paese. In Italia, in virtù delle leggi vigenti, gli istituti ordinari di credito, le banche, non possono fare crediti se non per operazioni di esercizio, non possono cioè concedere crediti se non per operazioni a breve termine, non per operazioni a medio o a lungo termine. Per le operazioni a medio e a lungo termine e per le operazioni di carattere speciale, sono istituiti, ed istituiti da tempo, qualche volta da tempo immemorabile, istituti specializzati: istituti di credito fondiario, istituti di credito agrario, istituti di credito edilizio, ognuno dei quali si occupa di branche particolari di credito ed è attrezzato in modo particolare per queste funzioni che esercita. Hanno uffici di periti e di legali esperti in materia che vegliano che le operazioni siano compiute secondo le regole più sicure. Vi sono istituti di credito peschereccio, di credito alberghiero, di credito cinematografico.
Ognuno di questi istituti è sottoposto alla vigilanza di organi governativi i quali esaminano le operazioni che devono essere fatte.
Le operazioni a medio termine sono compiute dall’Istituto Mobiliare Italiano, dall’IMI, il cui primo presidente è stato il senatore Mayer, il quale ha creato una tradizione, osservata anche oggi dall’attuale presidente onorevole Siglienti, tradizione la quale consiste nella severità dell’esame delle operazioni presentate; severità la quale ha consentito all’Istituto Mobiliare Italiano di ottenere credito, ossia di poter collocare al pubblico le obbligazioni che sono la sola fonte da cui esso ricava i mezzi per poter fare credito. Un istituto di banca non può dare i denari che non ha; i denari che ha sono quelli che riceve dal pubblico; ma per ricevere questi danari dal pubblico a medio e a lungo termine, occorre avere fiducia da parte dei risparmiatori e la fiducia si ottiene soltanto (come hanno fatto Mayer, Beneduce e Siglienti) dimostrando e persuadendo il pubblico che si fanno operazioni serie alla fine delle quali c’è il rimborso da parte dei debitori. Cosicché le obbligazioni dell’Istituto Mobiliare Italiano hanno credito e sono ben collocate. Accanto all’Istituto Mobiliare Italiano vi è il Consorzio sovvenzioni su valori industriali; vi è l’Istituto di credito per le opere pubbliche, tutti specializzati in certi determinati tipi di operazioni a medio e a lungo termine.
Alle banche ordinarie è riservato il credito a breve termine: il credito di esercizio, il credito commerciale, il credito cioè che non serve per impiantare una fabbrica, che non serve per comprare una macchina che si ammortizzi in 10/15 anni; ma serve per comprare materie prime, per pagare salari, operazioni che consentono di ricuperare i denari forniti a breve scadenza, a 2/3 mesi quando la merce fabbricata sia venduta.
Possono commettersi degli abusi, ma contro questo abusi esistono già opportuni freni. Uno di questi freni, reso assai più efficace dalla svalutazione monetaria, è quello che dice che nessuna banca può investire a favore di un solo cliente (ricordiamoci come talune banche piemontesi siano fallite perché avevano dato tutto ad un solo cliente) più di un quinto del suo patrimonio. C’era in origine una certa larghezza in questo quinto; poteva la banca investire un quinto del suo patrimonio netto, che era una cifra grossa, a favore di un solo cliente. La svalutazione monetaria che effetto ha prodotto? Ha prodotto l’effetto che i patrimoni delle banche sono rimasti, come osservai dianzi, tali e quali; sicché il quinto è diventato spesso una cifra assai piccola. Perciò per tutte le operazioni che si riferiscono ad un solo cliente e il cui ammontare superi il quinto del patrimonio sociale, la banca non può fare l’operazione se non ottiene l’autorizzazione esplicita, apposita dell’istituto di vigilanza. E queste operazioni, per cui è necessaria volta per volta l’autorizzazione della Banca d’Italia, dato il piccolo ammontare dei patrimoni netti delle banche, sono divenute assai numerose. Sotto questo rispetto il controllo qualitativo su ogni singola operazione è oggi assai più efficace di quello che non fosse una volta.
Sono decine e decine di autorizzazioni al giorno che l’ufficio di vigilanza deve dare, e dà o nega a seconda della natura dell’operazione per cui viene chiesta l’autorizzazione.
Vi è poi l’arma del risconto. Il risconto si fa dalle banche presso l’Istituto di emissione. Ora non è detto che l’Istituto di emissione debba accettare tutta la carta che gli è presentata senza un esame preventivo, e l’esame preventivo è accuratamente fatto non dalla sede centrale, ma in primo luogo, salvo revisione del centro, dai direttori delle singole filiali della Banca d’Italia, i quali devono esaminare la carta che le banche presentano al risconto. Sotto che profilo le istruzioni date dal centro dicono di esaminare questa carta? Di non riscontare le cambiali per le quali si vede che c’è dietro una immobilizzazione; di non riscontare le cambiali dietro le quali c’è una semplice operazione di conservazione di utili sovrabbondanti sotto forma di scorte eccessive. Non si può dire che non si debbano riscontare tutte le cambiali che servono per comperare scorte, perché ci sono scorte che sono necessarie giorno per giorno per la vita dell’azienda. È ovviamente affidato alla prudenza dei dirigenti di discriminare fra quelle che sono scorte necessarie per la vita dell’azienda e quelle che sono scorte eccessive. Le istruzioni, applicate, sono di non concedere risconto tutte le volte che la cambiale debba servire per operazioni di mera conservazione di scorte. E le norme puramente quantitative, di cui ho parlato prima, eserciteranno, sotto questo rispetto del risconto, una efficacia notevole, anche per ottenere un controllo qualitativo.
Faccio un esempio. Se una banca ha 100 milioni di depositi, deve, per le norme che ho ricordato, depositare presso l’Istituto di emissione 15 milioni di lire. Supponiamo ora che, per qualunque circostanza, i depositanti chiedano un rimborso di dieci milioni: la banca deve rimborsare i dieci milioni. Per rimborsarli può chiedere il rimborso di un decimo dei quindici milioni versati. Come dovrebbe trarre dagli 85 milioni rimasti a sua disposizione i mezzi per rimborsare 8,5 milioni, così trae anche dai 15 milioni che ha dato all’Istituto di emissione i mezzi per rimborsare 1,5 milioni; in totale i 10 milioni dei depositi da rimborsare ai depositanti.
Evidentemente il milione e mezzo che essa ha in restituzione dal Tesoro o dall’Istituto di emissione non basta da solo per rimborsare dieci milioni; per rimborsare dieci milioni ne mancano otto e mezzo. Se li ha in contanti presso di sé in un’ulteriore riserva prudenzialmente disponibile (dissi sopra che la riserva dovrebbe essere almeno del 30%), sta bene; altrimenti cosa dovrà fare? Portare una parte della sua carta o dei suoi titoli e chiedere risconto o anticipazione all’Istituto di emissione. E in quell’occasione l’Istituto di emissione farà lo scrutinio della carta presentata al risconto o dirà: «Questa si, perché corrisponde ad una operazione sana di credito; questa no perché serve soltanto per conservare scorte eccessive che il tuo cliente farebbe molto bene a vendere per procurarsi denaro».
Quindi, anche la forma istituita per il controllo quantitativo è un mezzo per rendere efficace il controllo qualitativo che già preesisteva. Un metodo automatico, che non implica obbligo di chiedere il consenso a Roma per ogni singola operazione, un metodo che agisce secondo le norme classiche e provate della pratica bancaria.
A che cosa, perciò, si riduce il clamore inusitato che è stato fatto intorno ad una restrizione del credito che è inesistente, ad una restrizione del credito che è quantitativa e qualitativa nel tempo stesso, che non è stata né improvvisa né ingiusta e neppure draconiana, anzi, assai tenue paragonata a quello che si fa altrove e paragonata a quello che è dovere ed usanza della maggior parte dei banchieri prudenti di fare spontaneamente?
Si riduce a qualcosa che è bene spiegare chiaramente. Il credito si fa e si può fare soltanto col mezzo dei risparmi, i quali sono formati dai risparmiatori e affluiscono alle banche. Se il risparmio non si forma, se le banche non ricevono i depositi, esse non possono fare credito, non possono dare denaro che non hanno a industriali o commercianti. Se questi chiedono denaro alle banche in aggiunta a quello che le banche non hanno e che, non avendo, non possono fornire, che cosa chiedono? Chiedono puramente e semplicemente che si fabbrichi carta moneta, che si dia credito fabbricando carta moneta, nell’illusione che in tal modo si possa sul serio dare lavoro e fare qualche cosa che sia utile per la collettività. Ora, è bene che io dica apertamente di non essere per nulla d’accordo con coloro i quali chiedono credito non sui risparmi che di giorno in giorno si vanno costituendo, ma chiedono credito attraverso la fabbricazione di carta moneta. (Vivi applausi al centro e a destra).
Si dice: oggi la quantità di circolazione è troppo bassa in confronto ai prezzi; la quantità della circolazione è aumentata trenta volte, mentre i prezzi sono aumentati cinquanta volte. Ne deriva che gli industriali e i commercianti hanno bisogno per pagare gli operai, per pagare le scorte, di una somma di denaro che sia cinquanta volte, e non soltanto trenta, quella che era nell’anteguerra. Da ciò conseguirebbe, secondo costoro, che si potrebbe emettere un po’ di carta moneta, così da provvedere ai bisogni dell’industria. Se 650 miliardi non bastano perché sono soltanto 30 volte l’anteguerra, portiamoli a 1.000, e così andranno alle 50 volte e saranno in equilibrio con i prezzi.
È un ragionamento questo che è stato ripetuto infinite volte e che non ha condotto ad alcun risultato. Nessuno può affermare infatti che quando la circolazione fosse ulteriormente aumentata da trenta a cinquanta volte, i prezzi permarrebbero al livello delle cinquanta volte: è probabilissimo invece che i prezzi da cinquanta volte salirebbero a cento. (Approvazioni al centro).
È questa un’esperienza universale; è un fatto sicuro, perché la fame di denaro dell’industria deriva dall’aumento dei prezzi e, quando è cominciata la spirale, quando è incominciata ad insinuarsi la sfiducia, il secondo aumento è molto più veloce di quanto non sia quello della circolazione.
Vana speranza dunque! noi non faremmo così se non incancrenire il male, se non renderlo più grave.
E bisogna dire ancora un’altra cosa molto chiara a coloro i quali chiedono denaro attraverso l’aumento della circolazione. Certamente, il perdere il risparmio accumulato è sempre qualche cosa di spiacevole e di dannoso: dannoso al singolo e dannoso alla collettività. Io sono quindi ben lungi dal proclamare, così alla leggera, che si debbano distruggere i capitali esistenti. Il mio concetto è un altro. Io dico che se vi sono industriali, se vi sono società le quali, in passato, hanno messo insieme utili notevoli – se hanno pagato le imposte, gli utili restanti sono di loro proprietà e non ci sono obiezioni da fare; – se dunque costoro hanno realizzato utili notevoli ed hanno investito questi utili in case, in terreni, nell’acquisto di pacchetti d’azioni di società, se li hanno investiti in aree fabbricabili o se, supponiamo, li hanno impiegati nell’acquisto di dollari tenuti da parte come riserva, allora io non dico che li debbano buttar via, ma dico che non devono ricorrere all’aumento della circolazione per conservare l’azienda bisognosa di credito. (Vivi applausi al centro e a destra).
È questo un gioco che deve finire. È troppo comodo conservare in beni reali il frutto dei propri utili e poi chiedere allo stato direttamente o indirettamente sovvenzioni in lire per l’esercizio della propria azienda principale. Il meccanismo è chiaro: chiedendo sovvenzioni, quando si sa che le sovvenzioni non possono essere date se non col mezzo dell’aumento della circolazione, si è praticamente certi che quella sovvenzione, quando sarà restituita, se era di un miliardo come potenza di acquisto, sarà restituita in un miliardo nominale, ma quel miliardo nominale varrà soltanto un mezzo o magari un terzo di miliardo come potenza d’acquisto. Si sarà verificata una trasposizione di fortune, da chi a chi?
Dalla povera gente che ha risparmiato, che ha depositato i denari (Applausi al centro e a destra), che ha comperato i titoli del debito pubblico (e abbiamo visto poco fa il loro crescere in cifre assolute ed il loro diminuire in potenza d’acquisto), a favore di coloro i quali hanno trovata la elegante maniera sovradescritta di sovvenire ai bisogni delle proprie aziende senza proprio sacrificio. A coloro che chiedono denari allo stato attraverso l’aumento della circolazione bisogna chiedere: Avete prima venduto le case che avete comprato? Avete venduto i terreni? Avete venduto i pacchetti di azioni di altre società? Avete venduto i dollari che avete comprato? (Applausi al centro). Questo è il discorso che deve essere fatto a coloro i quali si lamentano della restrizione del credito.
E non è esatto – è contrario al vero – affermare che vi sia stata una restrizione del credito. Le banche hanno dato tutto ciò che hanno ricevuto, e nei primi sette mesi dell’anno corrente hanno dato anche di più di quello che hanno ricevuto, attingendo ai depositi disponibili che avevano ricevuto prima. Non esiste in realtà alcuna restrizione di credito. Lo stato attraverso i suoi organi non è intervenuto se non per dire: «Qui c’è una regola alla quale tutti si devono uniformare; alla quale non solo noi dobbiamo supporre ma siamo certi che i banchieri prudenti si uniformavano già molto tempo prima». È un avvertimento per coloro che sono imprudenti, per evitare che, avendo alcuni commesso qualche atto imprudente, essi trascinino nella loro rovina, che non deve avvenire, anche gli innocenti, con danni universali. Le crisi creditizie rassomigliano alle crisi degli edifici di carte da gioco costruiti dai bambini. Se una carta cade tutto l’edificio rovina.
Non si deve creare credito fabbricando carta; con dei pezzi di carta, con delle cifre, con degli armeggii non si creano risparmi, merci, macchine. I pezzi di carta non sono macchine, non sono fabbricati, non sono scorte. Il che non vuol dire che il governo si sia rifiutato di intervenire sempre. È di nozione comune l’esistenza di un decreto, dell’8 settembre di quest’anno intitolato: Fondo per il finanziamento delle industrie navalmeccaniche. Che cos’è questo fondo? Le industrie navalmeccaniche costituiscono un qualche cosa a sé nel mondo industriale italiano. Lo costituiscono anche in quel grande complesso che si chiama IRI, Istituto di Ricostruzione Industriale. Se ne è parlato molto di questo IRI, se ne discuterà ancora in avvenire. Io vorrei soltanto far osservare che nella grande massa questo istituto abbraccia aziende sane, solide, le quali non hanno niente da temere. Su un patrimonio che può essere valutato oggi in 99 miliardi di lire, le partecipazioni bancarie figurano per 15, le siderurgiche per 5, le industrie marittime per 12, le telefoniche per 3,5, le elettriche per 11, la Montecatini per 6,5 (è il pacchetto di proprietà dell’IRI), le immobiliari, agricole, alberghiere per 5, le diverse aziende italiane per 6, le diverse aziende estere per 12.
Tutti questi investimenti sono in sostanza investimenti i quali possono essere considerati buoni. L’unico punto nero è quello delle partecipazioni che l’IRI ha nell’industria navalmeccanica, le quali partecipazioni hanno già dato luogo – secondo i criteri del commissario ingegnere Longo – ad una svalutazione di 20 miliardi su un attivo totale di 33,5 miliardi.
Perché esiste una situazione difficile nell’industria cantieristica meccanica? In fondo la difficoltà deriva dal fatto che questa è veramente la sola grande industria italiana la quale ha dovuto e deve procedere ad un processo costoso di riconversione dall’industria bellica all’industria di pace. Un’industria alberghiera, una banca, un’industria telefonica, un’industria elettrica, sono industrie le quali avranno bisogno di ricostruire le cose distrutte, ma non di riconvertirsi. Esse continuano su per giù ad adempiere i medesimi fini a cui adempivano prima. Invece, le industrie navalmeccaniche, che prima costruivano cannoni e navi da guerra, si trovano a dover attuare una profonda trasformazione; trasformazione che ebbe ed ha luogo in mezzo a difficoltà gravi in parte determinate dal fatto che il personale è divenuto esuberante. Già prima della liberazione esso era esuberante; esso crebbe anche dopo. L’aumento del personale oltre il necessario fa sì che non solo si debbono pagare salari a vuoto (si calcola che le industrie dell’IRI subiscano, ogni anno, una perdita in salari pagati a vuoto da 15 a 18 miliardi di lire); non solo – dicevo – vi sono salari pagati a vuoto, ma vi sono le difficoltà di trovar ordinazioni.
Spesso l’ansia di trovar nuovo lavoro conduce all’assunzione di commesse a perdita o alla creazione di reparti i quali, non essendo altro che doppioni di altre aziende già esistenti, non trovano se non difficilmente da poter collocare i propri prodotti. Tutto ciò rende necessario un lavoro complesso per risanare l’azienda.
Il male non è proprio delle aziende navalmeccaniche che appartengono all’IRI, ma anche di quelle analoghe che non appartengono all’IRI. Tutte sono sottoposte alla difficoltà di riconversione dell’industria di guerra in industria di pace. È naturale che in questo clima di difficoltà parecchi dirigenti si siano disgustati; in parecchie di queste aziende si è quindi verificata una fuga di tecnici, che sono passati ad altre aziende o sono emigrati all’estero per trovare altre vie più proficue e meno agitate di attività.
È certo dunque che l’industria navalmeccanica si trova in condizioni di difficoltà; ma non è una soluzione del problema far dare del denaro indiscriminatamente dallo stato soltanto perché talune imprese si trovano nella necessità di dovere aver denari di giorno in giorno, da un giorno all’altro, per poter fare la paga degli operai, o per pagare il carbone, o l’acciaio e il ferro di cui hanno bisogno. La soluzione deve essere ragionata.
Di qui la creazione del fondo per le industrie navalmeccaniche. In apparenza il fondo segue le tracce di due altre provvidenze che sono conosciute nel mondo degli industriali, coi numeri 367 e 449, i due decreti con cui furono concessi 38 miliardi di sovvenzioni.
Ma questa è solo l’apparenza. La realtà è diversa. La realtà si vede esaminando quali sono le caratteristiche con cui il fondo, secondo il decreto istitutivo, deve essere amministrato. Innanzitutto non è amministrato direttamente dal governo. I due decreti 367 e 449 presentavano lo svantaggio che coloro che avevano bisogno di denaro dovevano andare a tirar la giacca ai ministri del Tesoro e dell’Industria del tempo per cercare di strappar loro denaro.
Ma le persone di governo, i ministri non sono banchieri. Pur essendo ed essendo stati tutti persone degnissime, fa d’uopo riconoscere che essi non posseggono l’attrezzatura necessaria per poter giudicare se una domanda di credito sia legittima o no. Si è voluto perciò questa volta che, pur venendo in aiuto alle industrie navalmeccaniche, l’aiuto fosse concesso con gli stessi rigidi criteri che sono seguiti dalle banche. L’amministrazione del fondo, trattandosi di denaro dello stato, non poteva non essere pubblica. Ma in questa amministrazione non ci sono più ministri: c’è un Comitato Composto di 7 persone, di cui 4 funzionari che, per la loro natura, hanno un grado notevole d’indipendenza dalla politica – di questo io posso esser garante – e di altri tre esperti. Uno di essi è l’onorevole Tremelloni che tutti conosciamo per la diligenza che mette nello studio dei problemi che gli sono affidati.
Apprezzandolo ormai da un quarto di secolo, perché ho avuto l’onore di essere suo professore all’Università commerciale Bocconi di Milano, valuto grandemente lo scrupolo e la diligenza che egli pone nell’esame dei problemi che dovrà esaminare.
Un secondo membro del Comitato è il professor Ernesto Rossi, oggi presidente dell’A.R.A.R., e che, in questa qualità, si è procacciato molti odi che, a mio parere, gli fanno molto onore. L’A.R.A.R. è infatti la sola istituzione di quel tipo esistente in Europa la quale sia riuscita a dare decine di miliardi al Tesoro vendendo le merci che le erano state affidate.
In altri paesi istituzioni congeneri, sempre nell’ansia di sapere se si sarebbero regolate bene o male, se questo o quel residuato avrebbe dovuto essere venduto al più alto offerente o distribuito secondo criteri pubblici, hanno lasciato disperdere o guastare il materiale che era stato loro consegnato dagli alleati.
Invece l’A.R.A.R. ha dato decine di miliardi allo stato e ha permesso che corressero sulle strade d’Italia circa 200 mila automezzi, che sarebbero altrimenti rimasti ad arrugginire nei campi. Taluno avrebbe voluto distruggere o inutilizzare gli automezzi, per paura della concorrenza alle fabbriche italiane. Rossi non ha avuto questa paura, procacciando in definitiva grande vantaggio a consumatori ed a produttori. Quanto più numerosi sono infatti i veicoli che corrono per le strade d’Italia, tanto più aumenta la necessità di produrre pezzi di ricambio, ed alla fine, quando il veicolo straniero è logoro, si vede la convenienza di seguitare a servirsi di automezzi. Sicché coloro che hanno avuto la possibilità di acquistare dall’A.R.A.R. automezzi americani saranno poi costretti a ricorrere alla Fiat e alle altre fabbriche italiane per rinnovare il loro materiale.
Il professore Rossi è dunque il secondo degli uomini a cui è affidata la gestione del fondo.
Il terzo è il professore Ferrari Aggradi, che molti conoscono nella qualità di segretario generale del C.I.R. e relatore preciso sui problemi presentati all’esame di questo comitato interministeriale. Informatissimo dei problemi dell’industria italiana, è uno di coloro che hanno preparato i piani presentati nei consessi internazionali per i prestiti all’Italia.
Io confido che queste tre persone, insieme con i quattro alti funzionari ex ufficio, eserciteranno il loro compito come la legge lo dichiara. La legge che cosa dice? La legge, all’articolo 527, dice che per l’attuazione del fondo si potranno in primo luogo effettuare operazioni di finanziamento a favore delle imprese per i loro programmi di esportazioni mediante corresponsione di anticipi in moneta nazionale al cambio corrente e contro cessione totale o parziale dei crediti derivanti dalle forniture relative, con l’osservanza delle norme valutarie. Ciò vuol dire che se c’è un industriale che ha ricevuto commesse dall’estero, che perciò ha titolo per ricevere dollari, li potrà vendere al fondo al cambio corrente, anche se i dollari non sono ancora esigibili. Così la partita è chiusa. Se il dollaro, per esempio, aumentasse di prezzo, godrà il fondo del vantaggio dell’aumento dei prezzi. Quindi coloro che chiedono un credito non potranno speculare sulla svalutazione della lira e sull’aumento di prezzo del dollaro.
In secondo luogo il fondo potrà garantire l’aumento di capitale delle imprese e sottoscrivere ed acquistare nuove azioni. Il fondo può così rendersi acquirente di azioni, che la società emittente ha diritto di riacquistare contro un termine da fissarsi di comune accordo, ma non al prezzo di sottoscrizione. Se il fondo ha pagato le azioni cento, la società, che le voglia acquistare, le dovrà pagare quanto varranno al momento del riscatto. Se varranno 120 o 150 lire dovrà pagarle 120 o 150.
Correrà esso il rischio che, se varranno di meno, verranno pagate di meno. Ad ogni modo il congegno è fatto in maniera che non sia possibile ottenere prestiti in lire che oggi valgono tot, e rimborsare i prestiti in lire che valgono meno. Le azioni sottoscritte dal fondo potranno essere riscattate, ma al prezzo che le azioni varranno quando saranno riacquistate dagli azionisti.
In terzo luogo il fondo potrà facilitare le imprese nella smobilitazione della loro partecipazione in altre imprese di diversi settori, sia acquistando direttamente tali partecipazioni per alienarle successivamente, sia assumendo il mandato di alienarle a determinate condizioni. Se qualcuno perciò andrà al fondo e dirà: sì, io avrei intenzione di vendere tale o tal’altro pacchetto di azioni che sta all’infuori della mia società, ma non mi è comodo o non mi è possibile venderle oggi; il fondo dirà: ti aiuto io a venderle. Le assumo io, per venderle poi; o mi incarico io di venderle per tuo conto alle condizioni da stabilirsi. Gli industriali non potranno più ottenere prestiti dallo stato a spese della circolazione, e al tempo stesso, tenere per sé i buoni investimenti fatti in passato. Se vogliono ottenere un prestito dal fondo dovranno anche essi contribuire al proprio salvamento.
Finalmente il Comitato ha il diritto (art. 6) di stabilire che le operazioni che esso farà siano subordinate alla prestazione di determinate garanzie ed alla attuazione di provvedimenti di riassetto economico industriale delle singole intraprese. Ciò vuol dire che non si darà la sovvenzione all’intrapresa che la chiede, soltanto perché promette di rimborsare – e magari rimborserà -, ma si dirà: «noi diamo la sovvenzione; ma tu hai cinque reparti di cui tre vanno bene ed hanno un avvenire, mentre due vanno male; chiudi quei due reparti a poco a poco, in modo da non perdere troppo, ma metti la tua industria in ordine».
L’aiuto che si dà all’industria meccanica è un aiuto condizionato al risanamento dell’industria stessa, ed è condizionato all’apporto che i proprietari delle intraprese danno al risanamento medesimo.
Quest’industria meritava di non morire. È una industria che presenta alcuni aspetti importantissimi; richiede molta mano d’opera specializzata, abile, per cui gli italiani hanno un genio particolare. È una industria la quale in passato ha ottenuto risultati notevoli. Vale la pena di fare un tentativo per risanarla e metterla in condizioni di vivere da sé. Non valeva la pena però di dare denari indiscriminatamente perché fossero consumati di giorno in giorno senza lasciare traccia.
Onorevoli colleghi! Riassumiamo ora, concludendo, i fatti susseguitisi in questi quattro ultimi mesi. Il bilancio ha sopportato, col gettito maggiore delle nuove imposte, l’aumento delle spese cagionate da provvedimenti imposti dalla necessità o da leggi vigenti. I prezzi sono aumentati, si, ma in proporzione minore dell’aumento della circolazione. Nel periodo dal maggio all’agosto la circolazione è aumentata del 5,05%. I prezzi sono aumentati solo del 4,60%; ed i salari dell’8,96%; cosicché la potenza di acquisto dei salari – secondo le statistiche dell’Istituto centrale nel mese di agosto può essere calcolata al 93% di quello che era la potenza di acquisto dei salari del 1938.
Vi sono differenze enormi fra categoria e categoria di lavoratori su cui qui sarebbe fuor di luogo dilungarsi. In media, il salario non è ancora arrivato ad avere la stessa potenza di acquisto del 1938; ma ricordiamo che la produzione, ossia la torta comune che deve essere divisa fra tutti i cittadini, non è arrivata al 93, sta bene al disotto. La torta comune sarà – poniamolo ottimisticamente – l’80% di quella che era nel 1938, sicché si può concludere che oggi la quota, che nella torta comune spetta ai lavoratori, è una quota proporzionalmente più alta di quella che era nel 1938. La speranza, si potrebbe quasi dire la certezza, di poter tornare di nuovo al tenore di vita del 1938 e di sorpassarlo è dunque una speranza ed una certezza che riposano esclusivamente sull’aumento della produzione.
Se la produzione aumenterà dall’80% al 90%, possiamo esser certi che la quota che spetterà alla parte lavoratrice non sarà soltanto una quota proporzionalmente superiore a quella che le spettava in confronto alle altre classi sociali nel 1938, ma anche tale, da consentire ai lavoratori di condurre una vita migliore di quella che conducevano nel 1938.
Un altro indice, che non dobbiamo dimenticare è quello del corso dei cambi.
So bene che esso è imperfetto ed è determinato anche dall’opera delle autorità governative. È un indice che tuttavia qualcosa ci dice: il dollaro di esportazione, che tra il gennaio ed il febbraio di quest’anno era di 538, e nella prima metà di maggio era salito a 900 ed il 13 maggio raggiunse 950, e questa fu la punta massima, nel giugno comincia a discendere: 830/850; il 7 luglio cade a 745; il 15 luglio a 700, il 10 settembre a 600, il 10 settembre a 650 ed ancora oggi il corso dei cambi è su 650. Ed il corso della cosiddetta borsa nera segna le stesse variazioni, dimostrando che l’apprezzamento del pubblico in genere è più favorevole di prima alla lira. Dipende da noi fare in modo che il corso dei cambi si stabilizzi, in guisa tale che la moneta non abbia più da subire né inflazioni né deflazioni. Sono questi due mali opposti che, per le conseguenze che producono, sono ugualmente gravi. L’inflazione produce, con l’arricchimento di pochi, la distruzione delle classi medie ed il disordine sociale; la deflazione produce le crisi economiche e la disoccupazione operaia. Quindi noi dobbiamo fare tutti gli sforzi possibili per evitare sia l’uno che l’altro dei due mali. I mezzi per raggiungere il risultato dipendono in parte dall’azione del governo; ma fortunatamente dipendono anche dagli italiani.
Io voglio qui tributare al risparmiatore italiano una parola di riconoscimento simile a quella che il collega Pella ha tributato l’altro giorno al contribuente italiano. Il ministro Pella ha detto che doveva ringraziare il contribuente italiano per la pazienza ed il sacrificio con cui si sottopone al duro aumento d’imposte che si va verificando oggi, e che è un aumento – come ho detto al principio del mio discorso – il quale non trova paragone in paesi in cui sembra si paghino imposte maggiori. In un paese povero pagare il 25% d’imposta è un sacrificio di gran lunga maggiore del pagare lo stesso 25% in un paese ricco. Accanto alla lode del contribuente italiano, debbo tributare una parola di elogio al risparmiatore italiano. Nonostante tutte le svalutazioni e nonostante lo scoraggiamento, che il vedersi diminuire fra le mani il valore reale dei risparmi compiuti produce in ogni persona, il risparmiatore italiano ha seguitato a risparmiare.
Intendo qui per risparmio soltanto una parte di esso, quella parte cioè che risulta da dati noti: aumento di depositi nelle banche e casse di risparmio, ordinarie e postali, aumento delle sottoscrizioni in buoni del Tesoro, aumento netto delle sottoscrizioni in titoli di debito pubblico e in cartelle ed obbligazioni, aumento netto del capitale delle società per azioni. Tengo conto solo di questi dati visibili, trascurando perciò quella parte di risparmio che i risparmiatori italiani fanno direttamente.
Ed i risparmiatori italiani fanno molti risparmi diretti. Quando un contadino nella sua stalla ricostituisce i capi di bestiame che aveva prima e che la guerra gli aveva portato via, costui fa un risparmio, che non risulta da nessuna statistica. Quando uno ha avuto una casa incendiata da qualche bomba e se la ricostruisce con i propri mezzi, questo è risparmio, anche se non figura in nessuna statistica.
Tenendo conto solo delle parti visibili, nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 11 miliardi e 582 milioni, nel 1939, 13 miliardi e 983 milioni; nel 1945, 354 miliardi; nel 1946, 521 e nel primo semestre del 1947, 241. Le cifre del risparmio nuovo degli ultimi anni in lire italiane sono però troppo grosse e procacciano illusioni, derivanti dal nominalismo monetario. Il confronto non si può fare in lire italiane, ché si tratta di lire non paragonabili. Ho perciò tradotto le cifre in dollari attuali 1947. Il risultato è il seguente: nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 938 milioni di dollari; nel 1939, 1.086; ma nel 1945, 1.405; nel 1946, 1.478, e nel primo semestre del 1947, 449 milioni di dollari. Il ritmo del risparmio sembra diminuire nel primo semestre del 1947, sia nominalmente in lire, sia in moneta stabile. È una diminuzione reale od è uno spostamento dal risparmio visibile a quello che non risulta dalle statistiche? Si può dire, ad ogni modo, che il risparmiatore italiano oggi, dopo tante distruzioni, non ha risparmiato meno di quello che risparmiava nell’ante – guerra. Il risparmiatore italiano, con i suoi mezzi, ha provveduto a che si ricostruissero le ferrovie, si rifacessero le strade; ha compiuto un’opera che, domani, quando sarà considerata nel suo complesso, dovrà essere definita grandiosa. Esso, bisogna riconoscerlo, non avrebbe potuto ricostruire – risparmiare vuol dire ricostruire, è la premessa e la sostanza medesima della ricostruzione – se non fosse stato aiutato nel frattempo a vivere, a mangiare e vestire, dai soccorsi americani. Ma gli italiani non si sono adagiati passivamente ai soccorsi altrui. Se non sono dimostrati degni, faticando a ricostruire, risparmiando, per potere in avvenire fare da sé. Se noi togliamo al risparmiatore italiano la paura di perdere il valore reale dei suoi risparmi, io ho fiducia che il risparmiatore italiano risparmierà ancor oggi e domani più di quello che abbia risparmiato in questi anni così difficili. E risparmiando ancora di più, dopo aver provveduto alla prima e più dura opera della ricostruzione, sarà in grado di ottenere due risultati: quello di permettere che si compiano con i nostri sforzi altre opere grandiose, le quali faranno si che l’Italia possa da qui a qualche anno vivere meglio di oggi, e di fornire agli stranieri la prova che noi, risparmiando, meritiamo di avere nel frattempo tutto quel credito che noi chiediamo e che ci è necessario per poter sormontare le difficoltà presenti. (Applausi a destra e al centro) (Molte congratulazioni).