18 giugno 1947 – Sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/06/1947
18 giugno 1947 – Sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio
Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni
Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 619-666
L’Assemblea costituente in adunanza plenaria prosegue la discussione, iniziata il 10 giugno 1947, a proposito delle comunicazioni fatte dall’on. De Gasperi il 9 giugno, in occasione della formazione del suo quarto ministero.
Prendono la parola i deputati Bianca Bianchi, Caso e Dugoni, poi interviene L. EINAUDI, in qualità di ministro del Bilancio:
Onorevoli colleghi, devo constatare che questa discussione economico-finanziaria ha assunto un tono assai elevato. Credo che essa faccia onore all’Assemblea e si conformi alle migliori tradizioni del Parlamento italiano.
Io non posso, per la necessaria brevità del tempo, rispondere distintamente a tutti gli oratori che si sono susseguiti e che tutti hanno dato un contributo notevole alla discussione.
Dall’amico onorevole Ruini, a Corbino, a Bertone, a Cappi, a Labriola, a Vicentini, a Tripepi, a Bonino, a Tremelloni, a Foa, a Morandi, a Scoccimarro, a Crispo, a Nitti, a Marina, oggi a Dugoni, tutti hanno fornito argomenti alla discussione, la quale è certamente feconda, perché se il Parlamento deve servire a qualche cosa, la sua funzione più elevata è quella di porre i problemi e di assoggettarli a una libera discussione nella quale tutte le opinioni possono manifestarsi.
All’onorevole Corbino, il quale ha proposto un blocco della circolazione, a voce ho già detto che il blocco della circolazione è qualche cosa che non può essere se concepito come norma assoluta e che neppure nella legge del 1893 era stato scompagnato da una opportuna elasticità. Questa elasticità potrà essere più o meno accentuata; ma è impossibile dare una regola assolutamente rigida, la quale fissi una cifra al di là della quale non si possa andare. Il meccanismo economico è qualche cosa di complesso, il quale non può essere soggetto ad una rottura immediata. Anche nel 1893 il legislatore aveva stabilito si potesse andare al di là di un certo livello purché si pagasse una tassa uguale a due terzi del saggio di sconto e al di là ancora purché si pagasse una tassa uguale a tutto lo sconto.
All’onorevole Bertone, senza soffermarmi su tutti i punti del suo discorso, dirò che gli do atto che il prestito della ricostruzione è riuscito così come meglio, secondo le previsioni fatte innanzi che esso avesse cominciamento, non poteva riuscire. Nessuno di noi che ha avuto parte in questo prestito aveva immaginato che si potesse andare al di là di quella percentuale del 12% sull’ammontare complessivo della circolazione e dei depositi che fu infatti raggiunta. E fu raggiunta anche con il contributo di coloro ai quali noi non avevamo sperato di poter fare appello, ossia dei piccoli sottoscrittori. Questi non diedero come cifra assoluta moltissimo ma diedero una dimostrazione solenne della loro decisione di contribuire alla salvezza dell’erario. Su 1631000 sottoscrittori ben 1003600 sottoscrissero per somme non superiori a 10000 lire e per una media di 4140 lire; chiara dimostrazione della partecipazione di tutte le classi sociali a quel prestito.
All’onorevole Ruini il quale, fra tante altre idee notabili esposte nel suo discorso, di alcune delle quali mi occuperò in seguito, ha anche avanzato preoccupazioni intorno al peso dei residui, dirò senz’altro che le sue preoccupazioni intorno alla pulizia da farsi sui residui sono da me condivise e che una pulizia del genere è in corso. Al 30 giugno 1946 vi erano 235 milioni di residui passivi.
(Una voce: «Miliardi, non milioni»). Miliardi, ha ragione: Nitti ed io sbagliamo spesso. Noi apparteniamo all’epoca in cui di miliardi non si parlava tanto spesso. Ricordo quel ministro delle Finanze francese del principio del secolo scorso, il quale, avendo presentato un bilancio che raggiungeva la cifra di un miliardo di lire, ai deputati che si scandalizzavano disse: «Salutate il miliardo, perché questa cifra non la rivedrete mai più»!
Dunque dicevo che dei 235 miliardi di residui passivi ben 43 si riconobbero puramente scritturali, privi cioè di contenuto attuale. Si riferivano ad erogazioni già materialmente effettuate e non ancora contabilmente regolate. E dei 192 miliardi di residui effettivi presumibilmente al 31 maggio 1947 soltanto 113 residuavano in essere. Tenendo conto dei residui attivi accertati, i residui passivi relativi agli esercizi anteriori al corrente si riducono a 105,5 miliardi di lire.
All’onorevole Nitti io faccio la promessa formale che le sue richieste intorno ad economie sui gabinetti, automobili e cose simili saranno tenute nella massima considerazione. E già in corso un censimento delle automobili in tutti i dicasteri, ed in seguito a questo censimento saranno presi i provvedimenti opportuni.
Ma la sua osservazione relativa alle automobili va al di là del punto particolare e si riconnette con una osservazione fatta dall’onorevole Dugoni rispetto al controllo delle spese e, in particolare, delle spese fuori bilancio. Essa si riferisce in sostanza all’essere venuta meno col tempo la suddivisione che si faceva, nei bilanci antichi, dei capitoli in articoli. La suddivisione dei capitoli in articoli era necessaria ed utile ai fini di una più adeguata possibilità di controllo delle facoltà di spesa dei singoli ministeri. È allo studio un provvedimento affinché l’inconveniente costituito dalla troppo vasta ed incontrollata possibilità di eseguire spese piuttosto od a preferenza di altre nell’ambito di singoli capitoli troppo vasti che abbracciano quantità di materia eccessiva venga ad essere eliminato. E così pure furono già iniziate pratiche allo scopo di ridurre, come ha proposto l’onorevole Dugoni, le spese fuori bilancio attinte a fondi speciali. È certamente questa una delle ragioni per cui si possono fare spese senza autorizzazione esplicita da parte del Parlamento.
Sarà nostra cura di far sì che alle spese fuori bilancio si ponga riparo il più rapidamente possibile. (Approvazioni al centro).
I colleghi che hanno parlato vorranno consentire (affinché il mio discorso non duri un paio di giorni e si riduca ad un minimo di tempo ragionevole) che io riassuma, senza riferimenti personali ai singoli oratori, le argomentazioni esposte e le mie risposte.
In sostanza si è qui riprodotta, nelle grandi linee, una discussione non nuova al Parlamento italiano. Si è detto: con l’istituzione del Ministero del Bilancio, voi dimostrate di essere preoccupati soltanto del bilancio dello stato. Voi invece dovete preoccuparvi di qualcosa che va al di là, perché il bilancio dello stato può essere sano ed in equilibrio soltanto quando sana e prospera sia l’economia nazionale.
Antica controversia questa, tra la sanità del bilancio dello stato e la prosperità dell’economia nazionale. Antica controversia che si è ripetuta infinite volte in quest’aula e che ha avuto insigni protagonisti. Non è quindi meraviglia che essa, sotto altri nomi, si ripeta anche oggi e si ripetano richieste che in altri tempi furono già avanzate e furono attuate per la distinzione razionale del bilancio dello stato in parecchie categorie le quali raffigurassero la loro maggiore o minore ordinarietà, così da assegnare ad ogni categoria entrate corrispondenti, allo scopo di poter affermare che Il bilancio ordinario sia in pareggio anche quando si debbono fare spese straordinarie da sopperirsi con entrate straordinarie, di rado derivanti da imposte straordinarie, ma per lo più da varie forme di prestito.
Ricordo un’esposizione finanziaria di Agostino Magliani, fervidissimo fra i ministri delle Finanze e del Tesoro italiani, che, nelle sedute del 26 e del 27 febbraio del 1882, sosteneva la tesi fosse opportuno istituire, accanto al bilancio ordinario ed a quello straordinario, anche un «bilancio ultrastraordinario», allo scopo di tener conto di quelle spese che realmente fossero eccezionali, che si ripetessero a periodi lunghi di tempo. così fu fatto introducendosi la categoria delle spese ultrastraordinarie a cui corrispondeva, nella categoria movimento di capitali, una entrata per vendita di vecchie obbligazioni ecclesiastiche, che non erano state esaurite, sebbene deliberate fin dal 1870, ed erano sostenute dalla garanzia dei beni ecclesiastici non ancora venduti. Ma, come accade di solito, la distinzione assai sottile finì per obliterarsi, poiché nelle cose pubbliche, come nelle cose private, è spesso assai difficile poter distinguere ciò che sia ordinario da ciò che sia straordinario. Nella vita dello stato, come nella vita dell’individuo, si ripetono tutti gli anni spese le quali per loro natura singola sono straordinarie ma negli anni successivi trovano la loro riproduzione in altre spese straordinarie le quali, rispondendo ad altra situazione, di per sé sono anch’esse straordinarie. Tutti gli anni nella vita dello stato si riproducono situazioni che possono essere chiamate straordinarie, sicché la distinzione, a prima vista logica, nella realtà non corrisponde poi a quella che è la sostanza e sono le esigenze del bilancio dello stato.
È molto difficile poter fare una distinzione esatta fra quelle che sono spese ordinarie e quelle che sono spese straordinarie. Noi oggi dobbiamo far fronte alle spese della ricostruzione per tutto ciò che è stato distrutto dalla guerra; ma quando l’impresa della ricostruzione sarà conclusa, dovremo fare ben altre cose e ci saranno ben altre imprese a cui lo stato dovrà sobbarcarsi: ci saranno nuove ferrovie, nuove bonifiche, e mai finirà il periodo di spese straordinarie se si vorrà che lo stato italiano, via via nel tempo, adempia ai suoi nuovi uffici. La vita è moto, è trasformazione, è lotta, e gli stati non si sottraggono alla necessità continua del rinnovamento. Lo stato stabile, vivo non è lo stato immobile.
Tuttavia la distinzione è qualcosa che ricompare di tempo in tempo. Nel 1935, ad esempio, fu introdotta, sia pur soltanto nella Nota preliminare al bilancio di previsione, una classificazione nuova che si chiamò delle «spese per esigenze eccezionali». In sostanza, essa però non ha un significato diverso di quello che potrebbe avere qualunque altra categoria di spese semplicemente straordinarie.
In sostanza, la esigenza della costruzione di un bilancio il quale accanto alle spese ed entrate ordinarie raffiguri anche distintamente le spese e le entrate straordinarie è una esigenza vecchia che oggi si chiama del «piano». In verità, quando si dice che si fanno delle spese straordinarie, si dice che si fanno delle spese le quali vanno al di là dell’anno, i cui effetti sono tali da potersi ripercuotere anche negli anni successivi, ossia si dice che si vuol fare un piano il quale vada al di là dell’esercizio finanziario. E questa non è soltanto una esigenza di oggi: è stata una esigenza di tutti i tempi, in quanto la distinzione del tempo in anni e in esercizi finanziari è una distinzione astratta ed artificiosa. Nulla ci dice che l’anno solare debba proprio finire al 31 dicembre; nulla ci dice che l’esercizio finanziario debba realmente finire al 30 giugno. Tutte le spese le quali sono state incominciate in un anno hanno addentellati con le spese degli anni precedenti. Distinguere il tempo in anni è un artificio della nostra mente, artificio necessario senza del quale non si potrebbe vivere e fare i conti. Ma ricordiamolo bene, è un artificio; e ricordiamo essere logica l’esigenza di fare previsioni che vadano al di là dell’anno finanziario. Quando noi soddisfiamo all’esigenza di fare previsioni le quali vadano al di là dell’esercizio finanziario, senz’altro abbiamo fatto un piano.
L’onorevole Ruini ha citato molti di questi piani, ha citato soprattutto i libri bianchi inglesi. Li ho qui sott’occhio. Questi libri bianchi inglesi si distinguono sostanzialmente in due tipi: ce n’è uno, che si potrebbe chiamare «di conoscenza» ed uno che si potrebbe chiamare di «attuazione»; si è ritenuto cioè necessario, per poter fare un piano, per poter sapere quanto lo stato deve spendere, per poter sapere in che modo lo stato deve intervenire nelle cose economiche e finanziarie, per poter sapere quali siano gli stimoli che lo stato deve dare all’economia privata, si è ritenuto necessario, anzitutto, di conoscere i fatti. Questo è il libro bianco che si può chiamare «di conoscenza», che ha lo scopo di fornire la conoscenza dei fatti. E veramente quando noi lo apriamo abbiamo una impressione di grande soddisfazione, e questa sensazione soprattutto la riceve chi ha avuto per tutta la vita l’abitudine di guardare cifre e tabelle; soddisfazione poiché in queste pagine vediamo squadernate, non soltanto quelle che sono le entrate e le spese dello stato, ma quelle che sono le entrate e le spese generali della nazione, cioè le entrate e le spese dei cittadini appartenenti alla Gran Bretagna. E non solo ciò noi vediamo, ma abbiamo una visione del modo con cui i cittadini privati ricevono e amministrano il loro reddito, del modo col quale essi distribuiscono il loro reddito, una visione di quello che è il loro risparmio, di quelle che sono le spese che si fanno all’estero o all’interno, di quelle che sono le importazioni e le esportazioni; cioè un bilancio complessivo delle entrate e delle spese di tutta la nazione; ed è sulla base di questa conoscenza che il governo inglese – come dirò poi in fine del mio discorso – ha costruito il suo piano di azione.
Avrei anch’io desiderato di presentare all’Assemblea un piano il quale corrispondesse o arieggiasse a questo libro bianco inglese, il quale ci dicesse cioè come i cittadini italiani vivono, quale è il loro reddito, in quali categorie sociali si dividono, quanti sono coloro che hanno un reddito da zero a centomila lire, quanti hanno un reddito da cento a cinquecento mila lire ecc., ma purtroppo noi dobbiamo riconoscere – e tutti coloro che si sono occupati di questo argomento debbono riconoscerlo – che, nonostante i tentativi fatti dagli studiosi italiani per progredire su questa linea, siamo ben lungi dal poter costruire un siffatto piano. Col tempo raggiungeremo la meta; gli sforzi di molti studiosi sono appunto indirizzati a questo scopo. Sforzi non incominciati da oggi, sforzi che risalgono ad epoche passate, sforzi già tentati da quegli iniziatori della statistica italiana che si chiamavano Maestri e Bodio, nomi che ancora oggi onorano la scienza statistica ed economica italiana, i cui studi furono proseguiti poi da altri. Ma questi sforzi si urtano contro difficoltà grandi. Non è agevole conoscere ciò che accade veramente, per poter trarre dalla conoscenza le illazioni necessarie affinché la nostra condotta non abbia luogo alla cieca e non sia basata soltanto su impressioni. Qualche cosa si sa, qualche indizio abbiamo sulla linea di azione che si intende percorrere, ma non sono dati sicuri e precisi come quelli che oggi sono apprestati per l’Inghilterra e che si conoscono anche per gli Stati Uniti; sono puri indizi, gli uni dagli altri disgiunti, che non formano una materia compatta e non ci permettono di avere una visione unitaria di ciò che è la società economica italiana.
Noi sappiamo, per esempio – è una notizia che ci era fornita prima dell’altra guerra dal professor Gini – che il reddito nazionale italiano poteva calcoIarsi nel 1914 dai diciannove ai venti miliardi di lire nel complesso. E sappiamo anche, per le indagini compiute dal professor Vinci, che nel 1938 lo stesso reddito nazionale totale, ossia il reddito dei cittadini italiani sommati insieme poteva essere considerato uguale a 116-117 miliardi di lire; ossia, possiamo dire che erano stati necessari circa 24 anni affinché l’economia nazionale potesse ritornare alla vigilia dell’ultima guerra ad essere quella che era già nel 1914, perché i 116-117 miliardi del 1938 calcolati dal Vinci su per giù corrispondevano, come potenza d’acquisto, ai 19-20 miliardi calcolati per il 1914 dal Gini.
Dopo il 1938, non dico che ci sia il buio assoluto, ma c’è l’incertezza. All’incirca si sa che il reddito nazionale è diminuito; all’incirca si può intuire che se i prezzi fossero rimasti costanti, noi saremmo caduti da 116 miliardi di reddito nazionale – a prezzi 1938 – a circa 60-70, medesimamente a prezzi 1938, nel 1945.
Ma trattasi di cifre incerte dalle quali non è agevole trarre insegnamenti precisi. Statistici di grande nome hanno combattuto tra loro a lungo su queste cifre degli ultimi mesi e tutti voi sapete che le lotte tra gli studiosi sono lotte assai più cortesi – nella forma – delle lotte parlamentari ma sono, nel fondo, assai più acerbe delle lotte parlamentari e che, quando uno studioso dice ad un altro che ha commesso un errore, questa è un’offesa mortale che lo studioso cui il rimprovero è mosso non dimenticherà mai per tutta la vita, perché tutto si può perdonare, ma non l’accusa di aver commesso un errore di calcolo o un errore di ragionamento, accusa rivolta a chi dovrebbe conoscere il modo di calcolare e il modo di fare i ragionamenti.
Quindi, io non mi azzarderò a dire quello che sia il reddito nazionale attuale; dirò soltanto che esso è qualche cosa che è notevolmente minore in confronto a quello che era il reddito nazionale del 1938.
Qualche cosa di più si può dire a questo riguardo, ed è che il reddito nazionale, oltreché diminuito, si è anche contorto – e ciò ha un’importanza per la finanza pubblica – si è contorto, inquantoché alcuni redditi sono aumentati e altri sono diminuiti e la velocità della mutazione è stata tale che gli organi fiscali non hanno fatto in tempo a perseguire le variazioni.
Non bisogna, poi, fare agli organi della pubblica amministrazione rimproveri troppo acerbi, affermando che essi non sono stati in grado di accertare completamente i redditi. Essi, è vero, non sono stati in grado di accertare completamente i nuovi redditi, hanno conservato le cifre dei redditi antichi, le hanno moltiplicate con coefficienti empirici; ma l’impresa di tener dietro alle variazioni dei redditi che si sono verificate in questo tempo di variazioni monetarie è una impresa ardua e difficile, alla quale soltanto il tempo potrà consentire che le pubbliche amministrazioni possano soddisfare.
Per dare un’idea della variazione nella ripartizione dei redditi, osservo, ad esempio, che il reddito dominicale dei terreni si distingueva nel 1938 su per giù in queste grandi proporzioni: 40% andava ai lavoratori, 30% andava alle spese fatte fuori dell’azienda per acquisto di sementi, concimi chimici, macchine ecc., e il 30% andava per la rimunerazione dei capitali investiti nella terra e nell’industria agraria. Sappiamo noi se oggi le proporzioni siano le stesse? Eppure, per avere una guida nel determinare una politica della imposta, noi abbiamo bisogno di conoscere quale sia oggi la ripartizione dei redditi derivanti dalla terra. L’amministrazione del catasto è forse una di quelle che ha tenuto meglio dietro alle variazioni dei redditi e non ho alcun dubbio che, nell’applicazione prossima dell’imposta patrimoniale, i valori che saranno attribuiti ai terreni terranno conto delle variazioni che si sono verificate nei redditi a seconda delle varie culture.
Citerò, a titolo di esempio, soltanto due culture: quella dei vigneti e quella dei seminativi. Si può calcolare che il reddito dominicale dei vigneti sia stato moltiplicato forse fino a cento, con punte di moltiplico persino di 166: là dove invece il reddito dei terreni seminativi si è moltiplicato in media solo per 20 e, in qualche caso, si è moltiplicato solo per 10.
Notizie, queste, frammentarie intorno alle variazioni del reddito; notizie che però ci sono di grande utilità, affinché l’amministrazione delle imposte sia equa nelle valutazioni, affinché l’imposta patrimoniale straordinaria riesca, per quanto è umanamente possibile, adeguata alle variazioni più recenti dei redditi.
Perché noi non possiamo costruire un libro bianco di conoscenza come quello che ha costruito l’Inghilterra? Le ragioni sono varie. Innanzi tutto noi non abbiamo un censimento industriale recente e le cifre del censimento industriale del 1935-1940 non ci sono di soccorso rilevante per il calcolo di quelle che siano le spese di produzione e per il calcolo delle quote di ammortamento.
Se non si sa quali sono le spese di produzione, quali sono le quote di ammortamento nelle varie industrie, come è possibile che si possa conoscere esattamente il reddito dei contribuenti? È necessario perciò che, se la pubblica finanza deve variare i suoi proventi in funzione delle variazioni dell’economia, è necessario, dicevo, che al più presto possibile si compiano censimenti non solo della popolazione, ma anche industriali ed agricoli; ed è necessario altresì che si perfezionino le statistiche che sono in corso – e che sono già tra le più perfezionate – sulla produzione agricola e sulle varie forme di attività inerenti alla terra. Ed è necessario anche che gli accertamenti compiuti a scopo fiscale siano accertamenti i quali tengano conto di tutto ciò che è necessario per la conoscenza del reddito.
Il libro bianco inglese dunque non avrebbe potuto essere pubblicato, non avrebbe potuto essere composto, se l’amministrazione finanziaria britannica non avesse tenuto una contabilità tecnicamente appropriata per le singole categorie di industrie, distintamente per ognuna delle spese di produzione.
Poiché dunque questi dati esistono là e non esistono qui, non è possibile compilare per ora un nostro bilancio del reddito nazionale. Deve essere questo, tuttavia, un augurio che possiamo formulare per l’avvenire.
Un buon accertamento tributario è dunque il punto di partenza per una buona conoscenza dei redditi; ed è quindi il punto di partenza per una consapevole politica economica. Per ora noi sappiamo soltanto che i calcoli fatti in passato debbono essere adeguati tenendo conto di tutte le variazioni grandissime che si sono verificate nel prezzo dei diversi generi, così agricoli come industriali, variazioni le quali hanno avuto una grande influenza sulla distribuzione del reddito fra le varie classi sociali. Un competente corpo di accertatori tributari sarà forse l’aiuto maggiore che l’amministrazione finanziaria italiana potrà dare ai compilatori di un qualsiasi piano economico. Senza buoni accertamenti noi navigheremo sempre nel buio. Seguiteremo a sapere qualcosa intorno alla quantità ed alla distribuzione dei redditi derivanti dalla terra, poco e male intorno a quello degli altri redditi industriali, commerciali, professionali.
Una cosa possiamo riconoscere e non siamo solo noi a doverne tener conto.
In tutti i paesi europei, a partire dall’inizio della guerra, quasi sempre quello che noi chiamiamo «reddito consumato» è stato superiore al reddito prodotto, al reddito guadagnato netto. Anche in Inghilterra, ancora quest’anno, il reddito nazionale consumato nel paese si accresce, per apporti stranieri, di circa 400 milioni di lire sterline in confronto al reddito prodotto nel paese stesso; ossia, anche l’Inghilterra vive in parte di apporti stranieri.
Noi dobbiamo porre a noi stessi la medesima domanda per l’Italia. E la risposta è degna di essere meditata. L’Italia nel 1946 può ritenersi abbia avuto un aiuto, o un concorso – se non vogliamo chiamarlo aiuto – al suo reddito; ossia ai consumi che gli italiani nel loro complesso hanno potuto fare, non inferiore a circa 800 milioni di dollari. Questi ottocento milioni di dollari, calcolando le merci di cui essi si compongono a prezzi eguali a quelli a cui si vendono i corrispondenti prodotti italiani, possono essere considerati uguali al 20% di ciò che è stato consumato in Italia.
La situazione del 1946 è stata questa: gli italiani sono vissuti per quattro quinti con la produzione nazionale, con quello che in Italia si è prodotto, e per un quinto con ci• che è stato importato dall’estero, senza che ci sia stata, nel medesimo periodo di tempo, una contropartita di pagamento. Non tutti questi 800 milioni di dollari furono, in verità, forniti gratuitamente: gratuiti furono i 380 milioni dell’U.N.R.R.A., gratuita qualche altra piccola partita; gli altri furono pagati prima o saranno pagati dopo. Si può asserire che durante l’anno 1946 questi 800 milioni di dollari sono venuti in Italia senza che gli italiani abbiano fatto uno sforzo corrispondente, abbiano pagato nello stesso tempo un prezzo, abbiano subito un sacrificio di lavoro corrispondente al valore dei beni introdotti e consumati nel paese. Da ciò la conclusione che nel 1946 la popolazione italiana è vissuta per quattro quinti su ciò che è stato prodotto nell’interno del paese e per un quinto su ciò che abbiamo ricevuto dall’estero.
Questa situazione non è certamente stabile, non è duratura. Non è immaginabile che un paese possa seguitare per sempre a vivere in parte su ciò che gli è dato, gratuitamente o con promessa di pagamento futuro, dall’estero. È una situazione la quale dovrà un certo giorno finire. Non potrà finire tanto presto. I dati della bilancia commerciale che sono stati ricordati da varie parti in quest’aula, ci dicono che non solo in questo anno 1947, ma anche per parecchi anni successivi la nostra bilancia dei pagamenti sarà deficitaria; e sarà deficitaria per una somma che a priori è impossibile calcolare, ma che non è possibile presumere possa scendere molto ad di sotto dei 600 milioni di dollari all’anno. La traduzione dei 600 milioni di dollari in lire italiane varia a seconda delle ipotesi che si fanno intorno al saggio. A 500 lire per ogni dollaro, cambio medio attuale, trattasi di un apporto dell’ordine di grandezza di 300 miliardi di lire all’anno. Per qualche anno ancora, questa è la situazione della nostra economia; ossia, ancora per qualche anno sarà necessario che si trovino i modi di importare merci e di ottenere servizi dall’estero per una somma di circa 600 milioni di dollari. Non sarà più il quinto, non sarà più il 20%, sarà augurabilmente meno del 20%, sarà una percentuale minore. A mano a mano che la produzione italiana aumenterà, noi discenderemo al 15, al 10, finché nell’anno 1950 o 1951 (non voglio fare precise previsioni al riguardo) noi giungeremo al momento in cui i beni che importeremo dall’estero saranno interamente pagati con beni e servizi che avremo esportato all’estero. Sarà nel 1950, o nel 1951, o nel 1952, ma deve venire il tempo in cui gli italiani torneranno a vivere esclusivamente con i propri mezzi. Se fosse altrimenti, dovremmo confessare a noi stessi di non essere in grado di vivere col frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi passati. Un popolo intero, consapevole di sé, non può rassegnarsi a vivere, neppure in piccola parte, permanentemente di concorsi stranieri. Noi non vogliamo vivere di elemosina.
Certamente noi dobbiamo tenere oggi però dinanzi agli occhi questo stato di fatto indiscutibile: che la produzione totale italiana non è sufficiente a far vivere gli italiani con quel tenor di vita a cui essi sono arrivati oggi; non solo è insufficiente a migliorarne il tenore di vita; ma è altresì incapace a tenere fermo il tenore di vita attuale. Fa d’uopo ricorrere perciò a concorsi da parte dell’estero.
Né possiamo illuderci di poter rimediare alla necessità di ricorrere al credito estero restringendo le nostre importazioni. Non possiamo illuderci di far ciò inquantoché, se riducessimo le nostre importazioni, la riduzione dovrebbe cadere esclusivamente sulle materie prime industriali.
Noi non possiamo invero in nessun caso fare a meno, con i mezzi che abbiamo, di importare il grano ed il carbone: di importare grano per far vivere la nostra popolazione e di importare carbone per far marciare la nostra industria, per non lasciare al buio le nostre città e al freddo gli abitanti. Se noi volessimo ridurre le nostre importazioni e il nostro indebitamento verso l’estero, la riduzione dovrebbe cadere sulle materie prime, ossia sulla possibilità di far marciare l’industria. Dovrebbe crescere quella disoccupazione che oggi si dice arrivi a 2 milioni di persone. Se vogliamo che la disoccupazione resti al massimo quella che è, e non cresca, bisogna tener fermo il punto che occorre non diminuire l’importazione delle materie prime. Non volendo e non potendo acconciarci alla diminuzione, il disavanzo nella bilancia dei pagamenti che oggi si stima di 600 milioni di dollari all’anno, e che speriamo possa andare diminuendo col crescere delle nostre esportazioni, quel divario non potrà essere colmato se non con crediti che ci siano forniti dall’estero. Ottener crediti dall’estero è una necessità assoluta della nostra situazione attuale! Potremo sperare che la situazione della bilancia dei pagamenti torni ad essere in equilibrio e magari, come accadde in altri tempi, torni a fare un saldo attivo. Fu tempo in cui l’Italia aveva nella bilancia dei pagamenti un saldo attivo e in cui l’Italia riuscì a rimborsare tutti i debiti contratti all’estero per la guerra d’indipendenza e per la costruzione del proprio assetto industriale. Noi, quando ci siamo formati a nazione, avevamo dovuto ricorrere a prestiti che ci furono concessi dalla Svizzera, dalla Francia, dall’Inghilterra, ma tutti questi prestiti noi li avevamo rimborsati fino all’ultimo centesimo nel 1914 e tutti i titoli (salvo una piccolissima quantità) emessi all’estero erano stati ricomprati dagli italiani. Il che voleva dire che l’Italia aveva una bilancia dei pagamenti attiva, la quale consentiva di rimborsare i debiti precedentemente contratti, e contratti per la causa sacrosanta dell’unificazione italiana! Dal 1914 in poi gli avvenimenti sono stati troppo colossali per poter di nuovo aspirare subito, nell’intervallo di due guerre, a rimborsare i debiti contratti durante la prima guerra mondiale. Se lo tentammo, lo tentammo invano: e fu pura apparenza. Dirò qualche cifra, rapidamente, su questo tentativo.
Nel 1914 i tre banchi di emissione – erano allora tre – avevano una riserva totale in oro effettivo, più il valore in oro delle valute auree possedute, di 463,2 tonnellate. A poco a poco noi aumentammo queste tonnellate d’oro a 958,7 tonnellate nel 1927 (360,1 tonnellate in oro effettivo e 598,6 in valute equiparate all’oro), epoca della cosiddetta stabilizzazione; epoca nella quale si volle fissare la quota 90, quota che era squilibrata in rapporto al livello interno dei prezzi ed alla situazione economica italiana. Dovemmo contrarre debiti per poter importare tutto quest’oro e queste divise e per poter dire che gli istituti di emissione italiani possedevano quasi 1.000 tonnellate d’oro. Fu pura illusione, perché a poco a poco quell’oro, così come era venuto in Italia con prestiti, se ne ritornò all’estero. Nel 1935, a furia di quote di ammortamento e di rimborso prestiti, le tonnellate d’oro erano ridotte a 268,8. Avevano cominciato a ridursi le divise equiparate a 29,1 tonnellate; ma anche l’oro effettivo si era ridotto a 259,7 tonnellate. Alla fine del 1943, in conseguenza delle spese della guerra etiopica e di Spagna, le tonnellate si erano ridotte a 104,6. Così, quando vennero i tedeschi e ci portarono via quello che ci rimaneva, essi portarono via la minor parte dell’oro che ci eravamo illusi di avere nel 1927. Ci eravamo illusi, dico. Sarebbe stato molto meglio che non ci fossimo montati la testa e che non avessimo mai posseduto quella quantità d’oro per avere la quale avevamo dovuto contrarre debiti. Forse ne avremmo avuto di più Non so se sarebbe stato meglio o peggio. Se la rimanenza fosse stata maggiore, i tedeschi ce ne avrebbero forse portato via una quantità maggiore, ma oggi avremmo anche la speranza che invece delle 24 tonnellate che ci sono state restituite sulle 104 portate via dai tedeschi, ne avremmo avuto, in restituzione sul mal tolto, una massa maggiore.
Ho citato l’esempio per ribadire il concetto che la bilancia dei pagamenti non è tale da poterci far illudere di ricostituire rapidamente quella che è l’indice esteriore della ricchezza di un paese, cioè la riserva aurea. Ricostituire la riserva aurea è una delle nostre aspirazioni; ma non la dobbiamo soddisfare artificialmente; dovremo ancora lavorare a lungo, dovremo innanzi tutto ristabilire la nostra bilancia dei pagamenti, dovremo far sì che la bilancia sia in equilibrio. Ci arriveremo fra qualche anno ci arriveremo nel 1950, nel 1951 o nel 1952? Quando ci saremo arrivati, saremo anche arrivati a non vivere più sull’apporto dell’estero, saremo arrivati a far sì che tutti i cittadini italiani possano dire: noi viviamo su ciò che produciamo in Italia o che mandiamo all’estero in cambio di altri prodotti che dall’estero ci vengono.
In quel momento potremo proporci anche di ricostituire la nostra riserva aurea. Fino a quel momento il ricorso ai crediti esteri sarà necessario per soddisfare alle necessità della vita. Il paese, che è il solo in questo momento, come fu ricordato parecchie volte in questa aula, a poterci fornire credito, è non solo desideroso ma convinto di doverlo fornire per ragioni le quali io voglio ripetere qui con le parole del segretario agli esteri degli Stati Uniti signor Marshall. In un discorso tenuto all’Università di Harvard (Cambridge, Mass.) negli Stati Uniti il signor Marshall così espresse le ragioni della necessità assoluta per la quale gli Stati Uniti devono venire in soccorso dell’Europa (sono ragioni le quali stanno nella trasformazione che si è verificata nell’economia degli Stati Uniti e nell’economia europea): «Anche il contadino degli Stati Uniti ha sempre prodotto le materie alimentari che egli deve scambiare con gli abitanti della città per ottenere da questi le altre cose che a lui sono necessarie. La divisione del lavoro è la base della moderna civiltà. Oggi però il principio dello scambio fra la campagna e la città è minacciato di rottura. Le industrie della città non producono oggi beni in quantità adeguata per poterli scambiare con il contadino il quale produce derrate alimentari. Le materie prime ed i combustibili sono prodotti in quantità scarsa; il macchinario manca od è in molti paesi logoro. Il contadino non può quindi trovare sul mercato i beni che egli desidera di acquistare; cosicché per lui il vendere i suoi prodotti costituisce un affare che non è profittevole.
Perciò il contadino (non solo italiano ma degli Stati Uniti ed anche di molti altri paesi del mondo: Marshall parla in generale) ha sottratto molti campi alla coltivazione a cereali e li usa soltanto per pascolo. Egli ne ha abbastanza dei cereali che produce per alimentare se stesso, la sua famiglia ed il suo bestiame; e non è interessato a venderli perché non ottiene abbastanza vestiti od altre cose a lui necessarie.
Frattanto gli abitanti della città mancano di cibo e di combustibili, cosicché i governi sono costretti ad usare il credito che essi possono avere all’estero per comperare le derrate alimentari di cui hanno bisogno.
Questo sistema per cui i governi sono costretti a consumare le loro riserve per procacciarsi dall’estero ciò che il contadino non può comperare esaurisce i fondi di cui i governi hanno bisogno per la ricostruzione: cosicché nel mondo è sorta una situazione grave la quale non promette nulla di buono. Il sistema moderno di divisione del lavoro su cui è basato lo scambio dei prodotti minaccia di rompersi. La verità fondamentale che sta in fondo a tutto ciò è che i bisogni dell’Europa per i prossimi 3 o 4 anni (bisogni di materie alimentari e di altre cose necessarie da ottenersi principalmente dall’America) sono tanto maggiori della capacità degli europei a pagare, che l’Europa è in necessità assoluta di ottenere aiuti addizionali se non vuole andare incontro ad un abbassamento economico, sociale e politico molto grave».
Questa è la condizione di cose descritta da Marshall e che ci fa persuadere sia nell’interesse di tutti in Europa ed in America di riunire insieme gli sforzi affinché l’America dando crediti e l’Europa ricevendo crediti possano superare il presente periodo di transizione, un periodo che potrà durare tre-quattro-cinque anni, sicché l’economia europea possa non solo conservare il presente tenore di vita ma anche migliorarlo, senza ricorrere ad aiuti, pagando i beni di cui essa avrà all’uopo bisogno.
La necessità di ottenere credito per un certo spazio di tempo fa parte di quel piano, che tutti i paesi devono costruire. Anche noi dobbiamo conoscere l’entità del credito, di cui avremo bisogno, allo scopo di dimostrare a chi ci dovrà fornire credito la nostra attitudine a ridiventare economicamente indipendenti. Nessuno è disposto a far credito in perpetuo ad altri, se non vi sia la speranza che questi possa più o meno presto stare in piedi per conto proprio senza ricorrere al braccio altrui. Il bisogno di indipendenza del debitore non è particolare a questi; è comune a lui ed al creditore.
Parte essenziale del programma di indipendenza, che noi dobbiamo avere, è l’equilibrio del bilancio.
Io non sono d’accordo nel ritenere che l’equilibrio del bilancio si sia già ottenuto e non presenti ancora oggi delle incognite assai gravi. Ho ascoltato con molta attenzione le argomentazioni dell’onorevole Scoccimarro che del resto conoscevo già, perché ne avevamo fatto oggetto di colloquio.
Le sue argomentazioni sono esatte ad una condizione: che le previsioni che si fanno oggi siano quelle stesse che si potranno fare domani. Se noi potessimo supporre che, nella realtà, la spesa per il 1947-1948 sarà di 832 miliardi di lire e l’entrata di lire 521 miliardi; se dovessimo soltanto tener conto del fatto, di cui si può essere sicuri, che, per l’incremento delle entrate ordinarie e per il provento dell’imposta straordinaria patrimoniale proporzionale, le entrate aumenteranno, come aumenteranno sicuramente nel 1947-1948, al di là dei 600 miliardi di lire, mentre nel frattempo le spese rimarranno invariate in 832 miliardi di lire, direi anch’io che la situazione del bilancio italiano è buona e non presenta nessun grave problema nel momento attuale. Un disavanzo limitato a 230 miliardi di lire all’anno potrebbe essere coperto, non dico neppure dall’accensione di debiti all’interno e cioè dal ricorso al mercato italiano per emissione di prestiti, di buoni del tesoro e di altri mezzi di tesoreria; ma semplicemente con la vendita, a prezzo di mercato interno, dei beni che gli Stati Uniti vorranno fornirci coi loro crediti. Se gli Stati Uniti anticiperanno, supponiamo, 600 milioni di dollari nel 1948, ciò vuol dire che essi così ci daranno il mezzo di fornirci di beni comprati all’estero. Quei beni dovranno essere venduti in Italia, a profitto del tesoro italiano; e questo ne ricaverà tanto da coprire il suo disavanzo.
Infatti 600 milioni di dollari, al cambio medio, fra quello di esportazione ed ufficiale, di circa 500 lire, corrispondono precisamente a circa 300 miliardi di lire italiane, che è proprio la cifra di cui noi abbiamo bisogno all’ingrosso per colmare il nostro disavanzo. Un problema del bilancio italiano non sussisterebbe se la cifra della spesa rimanesse costante in 832 miliardi di lire e se le cifre delle entrate aumentassero come sono sicuro che aumenteranno, come aveva previsto l’onorevole Scoccimarro, al di là dei 600 miliardi di lire. Ma io devo fare subito una riserva alla suadente ottimistica deduzione; e la riserva è suggerita dall’esperienza del passato, esperienza del passato che, se anche non vogliamo imitare, dobbiamo però tenere d’occhio. La esperienza del passato ci fa dire che un problema del bilancio esiste, esiste anche solo nel proposito di tener ferma la cifra di 832 e sia pure 850 od anche 900 (le variazioni piccole non sono quelle che importano per la soluzione del problema). Per fare vedere come il problema esista, ricorderò le cifre dei due esercizi precedenti. Le cifre del 1945-1946 non hanno un grande rilievo, in quanto quello è stato un anno finanziario in cui si sono verificate troppe variazioni nel territorio soggetto all’amministrazione italiana, perché se ne possano trarre illazioni plausibili. Eravamo partiti da una previsione di 114 miliardi di lire: previsione iniziale. Ma le previsioni successive fatte nei singoli mesi successivi crebbero a poco a poco come segue: luglio 150 (da 114 eravamo saliti a 150), agosto 180, settembre 230, ottobre 290, novembre 330, dicembre 350, gennaio 420, febbraio 430, marzo 440, aprile 460, maggio 485, giugno 501. Cosicché le previsioni di spese le quali si erano iniziate con 114 miliardi di lire, all’ultimo momento erano salite a 501 miliardi di lire.
Dico che sull’esercizio 1945-1946 non mi soffermo, poiché, contemporaneamente alle variazioni delle spese, variano molte altre circostanze per cui potrebbe darsi (essendo sempre difficile, fra tante cause che producono un fatto, estrarre quella che è la vera causa) che la sola estensione di territorio nazionale soggetto all’amministrazione italiana abbia prodotto questa variazione. Ma l’esercizio 1946-1947 non soffre più di questa riserva. Ecco ora le previsioni successive: previsione iniziale 341, previsione di luglio 576, di agosto 600, di settembre 660, di ottobre 720, di novembre 745, del dicembre 806, del gennaio (1947) 890, del febbraio 896. A questo punto la progressione nell’ascesa delle previsioni della spesa diventa molto più lenta. Non dico che si arresti; ma è certo che durante l’amministrazione dell’onorevole Campilli, l’ascesa è più lenta; dal gennaio da 890, si passa al febbraio con 896, al marzo con 908, all’aprile con 920, al maggio con 932. In complesso le previsioni di spese che si erano iniziate, prima che l’esercizio cominciasse, con 341 miliardi, arrivati alla fine dell’esercizio, avevano finito per dover essere calcolate in 932 miliardi di lire.
Quale è dunque lo sforzo che noi dobbiamo fare? Lo sforza che noi dobbiamo fare è quello di cercare di far sì che le previsioni di spese iniziali che oggi sono calcolate in 832 miliardi di lire si fermino lì o, se dovranno aumentare, aumentino in proporzioni le quali siano in cifra assoluta non superiori all’aumento delle entrate, cosicché se spese maggiori dovessero farsi, l’incremento della spesa non superi l’incremento delle entrate.
Soltanto a questa condizione noi potremo dire che il problema del bilancio dello stato italiano, se non risoluto, non è un problema il quale presenti difficoltà insormontabili. Ma la difficoltà, ripeto, lo voglio dichiarare solennemente dinanzi all’Assemblea, la difficoltà sta nell’impedire che le previsioni di spesa crescano al di là di quelle iniziali più di quanto non cresceranno gli accertamenti di entrate in confronto alle previsioni di entrate fatte al principio dell’esercizio. Per ottenere questo risultato non sarà inutile lo sforzo non solo di tutti i colleghi del ministero, ma pur quello di tutti i colleghi dell’Assemblea, i quali dovranno cercare di aiutare colui il quale deve sobbarcarsi alla fatica di trattenere l’incremento delle spese, dovranno aiutare colui che ha questo ufficio col non presentare domande di aumento di spese. Anche le minime domande di aumento di spese, anche le domande che apparentemente appaiono più urgenti e più necessarie, sono domande che possono turbare un equilibrio il quale potrà essere faticosamente ottenuto soltanto se tutti i nostri sforzi ed i vostri saranno indirizzati a questo scopo.
(Applausi).
Fra i pericoli ai quali noi andiamo incontro nello sforzarci di mantenere l’equilibrio parziale che oggi, nelle previsioni, si è ottenuto, vorrei ricordarne soltanto uno, che sta nella inevitabilità di impostare nuove spese in conseguenza di spese già deliberate.
Vi è una disposizione la quale per i pubblici appalti ha stabilito la regola della revisione dei prezzi. Gli appalti pubblici non sono più fatti per cifre certe, assolute. Essi portano tutti una clausola che si chiama «della revisione dei prezzi», secondo regole in base alle quali, variando i salari, variando i prezzi del ferro e del cemento, variando altri coefficienti di costo, variano anche gli importi da pagare agli appaltatori. Orbene, è stato calcolato che soltanto per gli appalti del Ministero dei Lavori pubblici le revisioni di prezzi relative ad appalti già concessi potranno importare una spesa fino a 150-200 miliardi di lire. È una previsione soltanto. La previsione è probabile che non sia seguita totalmente dai fatti, poiché non tutti gli appalti sono stati eseguiti o saranno eseguiti nell’esercizio che sta per chiudersi, non tutti gli appalti daranno luogo a revisioni di prezzi e non tutte le richieste degli appaltatori saranno accolte. assai probabile che ]a clausola importi un incremento ulteriore delle impostazioni di spesa, oltre ai 932 miliardi previsti a tutto il mese di giugno, minore dei ricordati 150-200 miliardi di lire. Il rischio derivante della clausola della revisione dei prezzi dobbiamo tuttavia pur sempre averlo dinnanzi agli occhi. Si imposta una certa cifra per i lavori pubblici e poi la cifra impostata deve essere necessariamente variata in conseguenza di una clausola contrattuale conforme a legge; clausola, che in tempo di grandi imprevedibili variazioni di prezzi, è inevitabile, se non si vuole allontanare dagli appalti gli appaltatori solidi ed onesti.
Finché la legge esiste è difficile mutare la clausola e finché la lira non sia stabilizzata pare difficile sottrarsi alla eventualità di incremento di spese per revisione di prezzi. Pur passando sopra ad altre possibilità di incremento di spese che possono verificarsi, credo mi sarà consentito di affermare che tutta la vigilanza nostra e vostra sarà necessaria affinché le spese siano contenute in modo tale da non dar luogo a pericolo per la pubblica finanza.
Il problema del pubblico bilancio non è dunque ancora risoluto; e, non essendo ancora risoluto, è necessario che i contribuenti italiani, pure con quelle cautele e con quelle eventuali modificazioni che l’Assemblea vorrà deliberare, comprendano la necessità degli incrementi di imposta.
Questi incrementi di entrate, a primo aspetto, non paiono possibili, perché la pressione tributaria nominale è arrivata a un punto tale da rasentare l’assurdo. Noi possiamo dire, anticipando le conclusioni a cui arriveranno gli statistici italiani i quali compileranno il futuro libro bianco di conoscenza, noi possiamo dire che la pressione tributaria italiana è tale che, se le leggi fossero osservate, più del cento per cento del reddito nazionale dovrebbe essere assorbito dalle imposte. Le cifre che addurrò sono calcolate sulla base della legislazione vigente nel momento attuale, senza tener conto dei provvedimenti che si trovano attualmente dinnanzi alla Assemblea od alle sue commissioni. Le cifre includono, come si deve, le imposte erariali, le sovraimposte comunali e provinciali, le varie addizionali minori e gli aggi esattoriali medi. Tenendo conto soltanto di un gruppo di imposte che, come ha rilevato l’onorevole Dugoni e come dirò subito anch’io, rappresenta soltanto una parte della pressione tributaria italiana, tenendo conto cioè solo delle imposte reali sui terreni, sui redditi agrari, sui fabbricati, e sui redditi di ricchezza mobile, dell’imposta complementare sui redditi e di quella ordinaria patrimoniale, vale a dire, di quella del 0,40% sul patrimonio; tenendo conto soltanto di queste imposte, i contribuenti, percettori di redditi fondiarl, avrebbero dovuto pagare sul loro reddito una percentuale la quale partiva da un minimo del 43,4% per i redditi di 20.000 lire all’anno, ed andava al 47% per i redditi di 500.000 al 49,1 per i redditi di 1 milione, ed arrivava fino ad un’aliquota del 68,5% del reddito per i redditi di 10.000.000 di lire. Anche la minima aliquota, quella del 43,4% per i redditi di 20.000 lire all’anno – non so davvero cosa possa significare ora un reddito, se fosse attuale, di 20.000 lire all’anno – , è un’aliquota enorme.
I redditi agrari sono assoggettati, nel loro complesso, ad un’imposta che va dal 30% per redditi di 20000 lire, ad un massimo di aliquota del 38,6% per redditi di 1.000.000 di lire.
I redditi dei fabbricati sono assoggettati ad una imposta complessiva dal 52,1% per i redditi di 20.000 lire all’anno, fino al 57% per i redditi di un milione.
I redditi di capitale puro (interessi di mutui, tassati in categoria A della ricchezza mobile) vanno fra questi due estremi: dal 43,4 al 49,1%; i redditi degli industriali e commercianti (categoria B) vanno dal 39,7 al 49,1%; i redditi dei professionisti (categoria C1) vanno dal 17,7 al 32,2%; quelli degli impiegati (categoria C2) incominciano ad essere tassati da 100000 lire in su col 4%, per arrivare, per i redditi di un milione, al 21%.
Dico che queste aliquote sono assurde, comprendendo esse soltanto il 17% delle imposte esatte nel nostro paese. Rimangono fuori da queste aliquote, pur così alte, tutte le altre imposte, che pure giungono all’83% del totale gettito tributario; ossia rimangono fuori tutte le imposte sugli utili di guerra, di regime, di contingenza; rimangono fuori le imposte sulle patenti, sui dividendi, le imposte di famiglia, le imposte sui consumi non necessari, l’imposta sul bestiame e quella sulle fognature. Restano fuori sovratutto le tasse sugli affari e sulle successioni, le imposte sulla dogana e sui consumi e le imposte di monopolio. Di che cosa dovrebbe vivere il contribuente italiano se, su questa base delle aliquote legali, egli dovesse sul serio più del 100% del suo reddito allo stato?
Evidentemente, abbiamo un sistema tributario il quale è basato sull’assurdo. L’assurdo in che cosa consiste? Consiste nella acquiescenza da parte dell’amministrazione ad accertamenti i quali non corrispondono alla realtà. Se gli accertamenti corrispondessero alla realtà, tutte le imposte esistenti, senza tener conto dell’imposta patrimoniale straordinaria, proporzionale e progressiva, tutte queste imposte ucciderebbero il contribuente e lo costringerebbero a morire di fame. È necessario che le aliquote siano ridotte a livelli umanamente sopportabili e che i contribuenti si adattino in compenso a pagare imposte maggiori collaborando con l’amministrazione finanziaria nella grande intrapresa che dovrà essere compiuta negli anni prossimi e che è quella di aggiornare gli accertamenti delle imposte ordinarie, base di qualunque buon sistema finanziario.
Oggi – ripeterò cose già accennate dall’onorevole Dugoni, ma le ripeterò sulla base dei dati più recenti che mi son potuto procurare -oggi certamente il sistema tributario italiano non è equilibrato e le imposte sui redditi e sulla ricchezza non giungono a quell’altezza alla quale dovrebbero arrivare. Attualmente, che cosa è accaduto? È accaduto che mentre nel 1938-1939 le imposte dirette sui redditi davano il 22 e mezzo % del prodotto totale di tutte le imposte, nel primo trimestre di quest’anno hanno dato solo il 10,6%, e nei mesi di aprile e maggio hanno dato il 17%.
Il quadro non sarebbe corretto se non tenesse conto del gettito delle tasse sugli affari che, ad esclusione della tassa sull’entrata, sono praticamente altresì imposte sulla ricchezza: la tassa di registro, la tassa di bollo e le due imposte sulle successioni. Queste imposte, dette tasse sugli affari nella nostra terminologia, sono imposte che colpiscono reddito e capitale nelle trasformazioni e nei passaggi che il reddito o il capitale subisce. Se noi aggiungiamo alle percentuali delle imposte dirette anche quelle delle tasse sugli affari, ad esclusione della tassa sull’entrata, la quale è invece, nonostante il nome, una vera e propria imposta sui consumi, dobbiamo dire che mentre nel 1938-1939 il gettito delle imposte sui redditi e delle tasse sugli affari giungeva fino al 35,8%, nel primo trimestre di quest’anno giungeva soltanto al 26% e nei mesi di aprile e maggio di quest’anno al 30%.
Questa è la ragione fondamentale per la quale io ritengo che i contribuenti si debbano rassegnare – con quelle attenuazioni e discriminazioni eventuali che l’Assemblea vorrà deliberare – al pagamento delle due imposte proporzionale e progressiva sul patrimonio. Ho sempre detto e sostenuto che le imposte straordinarie sono mezzi di fortuna di paesi poveri, di paesi i quali non hanno un sistema tributario nel quale gli accertamenti seguano la realtà, di paesi nei quali non si può fare affidamento sulle vere e fondamentali imposte sui contribuenti, che sono le imposte che colpiscono i redditi ed il reddito. Le imposte patrimoniali sono, tale è la mia radicata convinzione, una edizione peggiorata delle imposte sui redditi e sul reddito; una edizione peggiorata in quanto si ha l’impressione che con esse si riesca a scoprire una fonte di imposizione che non era tassata prima.
Il concetto della imposta patrimoniale riposa sull’idea sbagliata che esista – salvo casi rarissimi e trascurabili – un patrimonio il quale non abbia la sua corrispondenza in un reddito.
Reddito e patrimonio non sono due cose distinte, ma sono la medesima cosa guardata da due angoli diversi. Se noi tassiamo un reddito di 5 lire con una lira, e lo riduciamo permanentemente a 4, nel medesimo istante noi riduciamo anche il capitale corrispondente da 100 a 80. Se noi invece colpiamo il patrimonio, e lo riduciamo da 100 ad 80, noi riduciamo nel tempo stesso permanentemente il reddito da 5 a 4 lire, e quindi tassiamo anche il reddito. È una pura ragione di convenienza la scelta fra la tassazione del patrimonio o del capitale e la tassazione del reddito. Quando si tassa l’uno si tassa necessariamente anche l’altro.
Noi ci troviamo oggi nella necessità di dovere aumentare le entrate nel complesso e di aumentare la proporzione che nel gettito totale ha il gettito di quel gruppo di imposte che colpisce direttamente il reddito e la ricchezza. A causa di queste due necessità, una di bilancio (aumento del gettito tributario nel suo complesso) e l’altra sociale, di perequazione sociale (aumento della quota che nel gettito totale spetta ai tributi sul reddito in confronto ai tributi sui consumi) noi dobbiamo chiedere oggi ai contribuenti il sacrificio del pagamento delle due patrimoniali. Il sacrificio sarà doloroso; ma è sacrificio necessario dovendosi aumentare il gettito delle imposte le quali colpiscono reddito e ricchezza nel loro complesso.
Oggi è necessario riparare alla sperequazione che esiste tra le diverse categorie di imposte. Oggi (e prendiamo i due ultimi mesi per non citare troppe cifre) noi abbiamo che le imposte dirette e le tasse sugli affari che colpiscono la ricchezza danno il 30% del reddito di tutte le imposte; la tassa sull’entrata – che in realtà è una imposta bella e buona sui consumi – dà il 30,5%; le dogane il 17,5% ed i monopoli il 19,6%. Il resto, per arrivare a 100, è dato dalle entrate minori. In sostanza, il sistema tributario è sperequato: i consumi hanno pagato all’incirca nei due mesi passati il 70%, ed il reddito e la ricchezza, invece, il 30%.
È necessario, con le due imposte straordinarie, restaurare l’equilibrio tra le diverse imposte ritornando a quella che in passato era ritenuta dai finanzieri una massima di giustizia tributaria, intendendosi per giustizia la corrispondenza approssimativa da una parte alle esigenze della finanza, la quale non può rinunciare in nessun paese alle imposte sui consumi a larga base, e dall’altra parte ai sentimenti radicati negli uomini di tassare i contribuenti secondo i redditi, indice della loro capacità contributiva. La massima è empirica, non ha base razionale, ma era accettata universalmente dai finanzieri: dovere i due gruppi d’imposte sui redditi e sui consumi provvedere egualmente al sopperimento delle spese pubbliche, 50% l’uno e 50% l’altro.
Naturalmente, anche le imposte sui consumi dovranno sempre meglio essere organizzate, in modo che paghino quei consumi i quali non sono strettamente necessari alla esistenza, consumi tipo tabacco, imposta principe sui consumi, la quale non colpisce un consumo che sia necessario alla vita fisica: consumo che può essere diventato per molti uomini indispensabile, ma non si può dire che sia necessario alla vita fisica dell’uomo ed al suo benessere materiale e morale.
Durante il periodo di transizione attraverso il quale noi passiamo e durante il quale noi dobbiamo ancora ricorrere ai soccorsi dell’estero, noi dobbiamo con le due imposte patrimoniall sopperire alla deficienza del gruppo delle imposte sui redditi e sui trasferimenti della ricchezza e, nel tempo stesso, perfezionare le imposte ordinarie nella loro incidenza, così che si possa ben dire, alla fine di esso, che ambo le imposte sui redditi e sui consumi corrispondono a quelli che il sentimento generale considera postulati della giustizia tributaria.
Nel periodo di transizione l’opera della amministrazione dovrà soprattutto essere rivolta – e il mio collega delle Finanze me ne dà pieno affidamento – a perfezionare gli organi amministrativi per l’accertamento dei redditi soggetti alle imposte normali.
È su questa via regia che ci dobbiamo incamminare, così che il giorno in cui le imposte straordinarie patrimoniali cesseranno di esistere, in quel giorno le imposte ordinarie sui redditi – sia quelle reali sia quella progressiva complementare – diano ciò che verrà a mancare per il cessare del gettito delle imposte straordinarie, così che anche allora la percentuale empirica del 50 e 50% possa seguitare ad essere osservata.
In questo frattempo la finanza straordinaria è impegno del governo, impegno preso dal ministero precedente, di rivedere tutto ciò che può esserci di mancante nel sistema tributario, allo scopo di tassare quegli incrementi di reddito o quegli incrementi di valore che si sono pronunciati o che si sono accentuati negli ultimi anni.
È allo studio, e sarà questo studio finito nel più breve tempo possibile, il progetto relativo alle cosiddette rivalutazioni. Lo scopo essenziale della tassazione connessa con le rivalutazioni è quello di cercare di scoprire e di tassare le rivalutazioni le quali diano a coloro che le ricevono un vero ed effettivo incremento di ricchezza.
In questa materia complicata assai e che ha dato luogo in passato a discussioni approfondite, in questa materia oscilliamo tra la necessità di non tassare quelli che sono soltanto arricchimenti nominali e non effettivi che non accrescono affatto la ricchezza dei contribuenti, e la necessità invece di tassare quelli che sono gli arricchimenti effettivi, sia di enti come di persone. Questo è il problema che si tratta di risolvere, questo è il problema sul quale saranno presentate proposte alla Assemblea costituente. Frattanto l’amministrazione già si adopera per tassare quelli che sono chiamati, secondo la legislazione già vigente, utili di contingenza, utili già tassati all’8O% e per cui sono già in corso accertamenti e riscossioni per quanto si riferisce alle maggiorazioni di prezzi legali sulle giacenze di merci, o ad altre cause eccezionali.
A proposito delle due imposte patrimoniali, o meglio dell’imposta progressiva patrimoniale, è stata in quest’aula di nuovo sollevata la questione del cambio dei biglietti. Debbo qui esprimere apertamente, perché non vi siano incertezze nel paese, la mia opinione contraria al cambio dei biglietti.
Debbo, restringendo il mio discorso agli interessi del bilancio, affermare che il mio parere è nettamente contrario al cambio dei biglietti. Non è questione di conoscere quale sia la quantità dei biglietti che sia stata in qualche modo distrutta a cagione di avvenimenti di guerra, di bombardamenti e via dicendo: sarebbe questa una mera curiosità statistica che, per quanto la statistica a me piaccia assai, credo non valga la pena di soddisfare, quando, per soddisfarla, si debbano spendere miliardi.
L’on. Scoccimarro interrompe: «Non è per questo che si voleva fare il cambio della moneta».
L. EINAUDI riprende:
Non è per questo, lo so: è per altri scopi, ma, siccome in quest’aula è stato detto che era necessario conoscere la entità di biglietti che sono andati distrutti, io dico che se ne può fare a meno, perché quei biglietti non ricompariranno mai alla luce e non esercitano oggi né potranno esercitare mai nel futuro alcuna influenza sui prezzi.
Ciò di cui mi preoccupo oggi è di sapere se il provvedimento sarebbe o meno di qualche vantaggio per il bilancio. Ora, io, posto innanzi ad una relazione in data 6 febbraio del corrente anno compilata da una Commissione competente, nella quale si dichiarava a titolo puramente indicativo una cifra di spesa non per il cambio dei biglietti propriamente detto, ma per la semplice stampigliatura, che è un’operazione di minor costo, di ben quindici miliardi di lire, sono rimasto alquanto perplesso.
Certo, può essere che vi sia chi crede che questa cifra sia esagerata; io, per abitudine, quando mi si presenta un preventivo di spesa, lo accetto, sì, dopo averlo studiato, ma lascio sempre un certo margine nella mia mente per un presunto aumento. La speranza della diminuzione non può certo essere esclusa; ma sembra debba prudentemente essere considerata di minor peso della probabilità di un aumento. Nell’incertezza accettiamo il dato dei 15 od anche di un numero maggiore o minore di miliardi come la parte passiva dell’operazione. Orbene, quali sono le attività che il bilancio si può ripromettere dal cambio della moneta? Due vie io vedo possibili: che si applichi il sistema dell’imposta progressiva patrimoniale, ovvero che si applichi il sistema dell’imposta proporzionale. Non c’è altra ipotesi possibile.
Se si applica il sistema dell’imposta progressiva patrimoniale, i dati sono questi: circolazione: ultima cifra conosciuta, al 20 maggio: 544 miliardi di lire; sono da dedurre da questa cifra i biglietti distrutti, che sono un profitto del tesoro già in essere e su cui non dobbiamo tornare sopra; inoltre le giacenze che non appartengono a privati, che non fanno parte della fortuna privata, la sola tassabile da un’imposta progressiva patrimoniale la quale ha come suo concetto fondamentale la tassazione progressiva di coloro che hanno una fortuna superiore ad un certo livello, ad esempio, oggi, a tre milioni di lire. Quindi, tutte le giacenze di cassa, tutti i fondi di società, di enti morali, i quali non sono soggetti ad imposta, non devono essere tenuti in conto. Io non so quali siano queste detrazioni, che nessuno ha mai calcolato con esattezza, so soltanto che per altri scopi, puramente scientifici, il professore Gini nel 1925 aveva calcolato che sulla circolazione di allora soltanto il 31% fosse in mano dei privati; il resto della circolazione era in mano di enti, di banche; costituiva, quindi, una materia la quale non era materia imponibile per l’imposta progressiva patrimoniale.
Io voglio ammettere che l’ipotesi fatta per ragioni scientifiche da Gini, pur essendo fondata su dati plausibili, possa considerarsi, ai fini attuali, troppo tenue; voglio immaginare che in mano dei privati, invece del 31%, si trovi il 50, si trovi anche il 60%. Al 60% sono circa 320 miliardi che noi potremmo assumere come circolazione soggetta a tassazione. Quale il quoziente per abitante? Circa settemila lire a testa. Vuol dire che in media la circolazione tassabile ammonta a 7.000 lire a testa. Nel Belgio si fece un’esperienza interessante in proposito: tutti i cittadini belgi ebbero, ai momento del cambio, diritto di chiedere il cambio di 5.900 franchi belgi; somma non molto diversa dai medio quoziente attuale italiano. Non accadde che vi fosse un belga, per quanto vecchio, centenario anche, o per quanto appena nato, fantolino nelle braccia della nutrice, che non avesse i suoi 5.900 franchi. Io non credo che gli italiani siano persone meno accorte, in media – non intendo con ciò muovere alcuna critica agli italiani; constato soltanto una probabilità – di quei che furono i cittadini belgi. Nessun italiano, al momento della stampigliatura o del cambio – quando questa stampigliatura o questo cambio dovessero servire come elemento per l’imposta progressiva patrimoniale – nessuno si presenterebbe con una somma minore di 7000 lire; e sarebbe così esaurita completamente tutta la circolazione tassabile. Poiché la patrimoniale progressiva esenta i patrimoni sino ai 3 milioni di lire, quasi tutta la circolazione, a 7000 lire per abitante, cadrebbe entro i limiti di esenzione.
Questa non è dunque materia che dia un centesimo alla finanza. Non credo che un ministro del Bilancio ritenga conveniente accettare una transazione che implicherebbe un certo numero di miliardi di spesa probabile e zero o quasi zero, o qualche piccolo milione di lire, per caso, di entrata: sarebbe una pessima operazione, che non credo debba essere fatta dai punto di vista fiscale. (Applausi a destra – Commenti a sinistra).
Passiamo ad un’altra ipotesi: all’ipotesi dell’imposta proporzionale.
L’ipotesi dell’imposta proporzionale in parole volgari si chiama «taglio dei biglietti», ossia vuoi dire che ogni biglietto di cento lire, presentato al cambio o alla stampigliatura, sarebbe rimborsato, restituito in 90 lire, se supponiamo un taglio del 10%, in 80 lire se l’imposta proporzionale fosse del 20%. E allora, se questa è l’ipotesi, io mi domando se essa sia accettabile.
Chi ha biglietti? Questa è la domanda che occorre sia fatta. Chi ha biglietti cioè non in cifra assoluta, ma in proporzione ai proprio reddito o patrimonio? Chi tiene in tasca dei biglietti in quantità notevole proporzionalmente al proprio patrimonio? Non certo i ricchi. Sarebbero gli operai e gli impiegati, coloro che ricevono la busta paga… (Commenti a sinistra), coloro che pagherebbero sovratutto la imposta proporzionale. (Commenti a sinistra).
L’ipotesi dell’imposta progressiva, adeguata alla fortuna dei contribuenti, l’ho già fatta prima; ed è l’ipotesi nella quale il povero non paga niente, non pagano niente coloro che hanno un patrimonio fino a tre milioni di lire, è l’ipotesi nella quale coloro che hanno di più pagano di più, quanto più cresce la loro ricchezza. In questa ipotesi ho dimostrato che il provento sarebbe zero per la finanza. Credo che nessun ministro può arrischiarsi a spendere per incassare zero.
L’altra ipotesi, che si può contrapporre alla prima, è quella dell’imposta proporzionale, ossia: i biglietti presentati al cambio sono tutti tassati al 10, al 20%; sono tutti ridotti di valore, cambiati con un nuovo biglietto di valore minore di quello consegnato; novanta lire invece di cento, per esempio. Questa è l’ipotesi dell’imposta proporzionale che grava su tutti i presentatori di biglietti, nella medesima proporzione.
Io dico che questa imposta è ingiusta e non potrebbe essere tollerata perché costituirebbe una tassazione dei poveri e una esenzione dei ricchi. (Commenti a sinistra. Una voce: «Ma i poveri non hanno niente!»). Il cambio dei biglietti fatto in misura proporzionale colpisce in un certo giorno tutti coloro che hanno biglietti in tasca ed i biglietti in tasca non li hanno i ricchi. (Commenti a sinistra). Coloro che hanno una grande fortuna non portano biglietti in tasca. (Commenti a sinistra).
L’operaio, l’impiegato, il quale riceve alla fine della settimana o del mese la busta paga, possiede in questa una parte notevolissima della propria fortuna. Ad esempio, l’impiegato che riceve 20.000 lire di stipendio non avrà gran che di fortuna oltre il mobilio e qualche piccolo risparmio.
Anche se il resto della sua fortuna fosse di 80.000 lire, egli, pagando 2.000 lire per taglio del 10% sui biglietti, pagherebbe il 2% della sua fortuna complessiva. Spesso pagherebbe di più: il 5 od il 6%. Invece il ricco, il quale ha una fortuna di 50 milioni, non tiene biglietti in proporzione. A metter grosso, terrà 100000 lire in siffatta forma. Col taglio del 10%, pagherà 10.000 lire. Ma cosa sono 10000 lire su una fortuna di 50 milioni?
Appena il 0,02%, una centesima parte di quel che pagherebbe l’impiegato.
Quindi, se l’ipotesi del cambio per imposta progressiva deve essere respinta perché contraria agli interessi del bilancio, l’altra ipotesi deve essere respinta perché contraria agli interessi delle classi lavoratrici e perché favorevole alle classi ricche! (Applausi al centro e a sinistra). Accanto al problema del bilancio dello stato, l’altra grande questione che si è presentata in questa Assemblea si riferisce al controllo del credito.
Ho avuto occasione di esporre altra volta perché sia nei tempi moderni sorta e cresciuta l’importanza di quella che si chiama la moneta creditizia. È sorta perché accanto ai mezzi che le banche traggono dal risparmio propriamente detto, quel risparmio il quale si forma quando la persona spende meno di quello che incassa e deposita il supero sia a lunga scadenza, sia temporaneamente in una banca, accanto al risparmio propriamente detto, è sorta un’altra maniera di depositi, depositi che in paesi più progrediti del nostro risalgono a più di un secolo.
Da noi l’origine è recente, ed ancora nel 1938 questi depositi avevano meno importanza di quella che abbiano oggi.
Questa moneta creditizia nasce temporalmente in modo contrario a quello in cui nasce il risparmio propriamente `detto. Il risparmio propriamente detto nasce, ripeto, perché c’è un individuo che ha per esempio un reddito di 100 di cui spende soltanto 90 e la rimanenza di 10 porta in deposito alla cassa postale se si trova in una piccola località, o in genere alle casse di risparmio o alle banche. Il risparmio propriamente detto costituisce una parte imponente del totale dei depositi esistenti nel paese. L’altra maniera di depositi ha origine inversa. È la banca che crea il deposito a favore di una determinata persona in cui ha fiducia, la banca la quale agisce di propria iniziativa. Essa apre a favore di una determinata persona un credito, per esempio di un milione di lire, scrivendo una lettera nella quale dice: tu hai un credito presso di me di un milione di lire e puoi tirar su di me assegni fino alla concorrenza di un milione di lire. Ecco l’atto creativo della banca. Naturalmente la banca non può aprir crediti indefinitamente, ma soltanto entro certi limiti, perché essa deve poi pagare le somme che promette, e deve perciò usare della possibilità di fare aperture di credito con necessaria prudenza. Ma all’origine non si può negare che c’è un atto di volontà, un atto creativo da parte della banca.
Il cliente che è stato così accreditato, da noi si dice anche affidato, trae sul milione, supponiamo, un assegno di 100.000 lire a favore di un’altra persona. La persona che riceve l’assegno non lo riscuote in biglietti; ma lo porta alla sua banca che lo accredita per altrettanto. Ecco nati i successivi depositi. C’è un deposito di 100.000 lire a favore del cliente che ha ricevuto il primo assegno; poi ce ne sarà un secondo, un terzo, fino alla concorrenza totale del milione inizialmente concesso. Gli accreditamenti bancari sono una forma di moneta come un’altra, moneta che nasce non dalle banche di emissione, ma da una banca ordinaria la quale crea una particolare specie di moneta e dà in mano ai suoi clienti la capacità di comperare merci. E quindi è possibile – non dico essere certo ma solo essere possibile – che dalla moneta creditizia nasca l’inflazione così come può nascere dalla moneta emessa dall’Istituto di emissione. Da noi in Italia la cosa ancora ha una importanza relativamente modesta. In altri paesi la moneta creditizia ha superato di gran lunga, di molte volte l’importanza della moneta, dei biglietti propriamente detti. Noi siamo ancora in un periodo iniziale, sicché la moneta creditizia ha da noi una importanza moderata.
Se l’Assemblea me lo consente, darò qualche notizia sulle variazioni recenti della moneta creditizia. Dalla fine maggio del 1946 alla fine marzo 1947 i biglietti della Banca d’Italia – comprese le lire militari alleate – erano cresciuti da 393,3 a 531,6 miliardi. Ma gli assegni circolari che sono anche una specie di moneta creditizia creata dalle banche erano cresciuti da 58,7 a 86 miliardi di lire, ed i depositi in conto corrente che sono quei tali depositi creati in conseguenza di aperture di credito e su cui si possono tirare assegni e quindi costituiscono moneta creditizia erano cresciuti da 291,3 a 484,6 miliardi di lire. Proporzionalmente, i biglietti dalla fine maggio 1946 alla fine marzo 1947 erano cresciuti del 35%. Nello stesso tempo gli assegni erano cresciuti del 46% ed i conti correnti erano cresciuti del 66%. È dunque innegabile che c’è stato in questo frattempo nella moneta creditizia un incremento maggiore di quello che vi fu nella moneta cartacea propriamente detta.
Ci troviamo qui di fronte ad inflazione? E un problema assai delicato. Io non oserei pronunciarmi. Perché dare delle risposte precise in questo argomento ed affermare che ci sia stata o non ci sia stata inflazione è uno dei problemi più ardui che si possono presentare ad uno studioso. Credo e suppongo che il collega Del Vecchio sarà d’accordo con me nel dire che la definizione dell’inflazione è qualche cosa sulla quale gli economisti hanno litigato dalla prima guerra mondiale in qua ed ancora litigano; e seguiteranno a discutere ancora per parecchio tempo. Limitiamoci a dire quello che risulta dai fatti: c’è stato un incremento maggiore nella moneta creditizia in confronto della moneta-biglietti. Quali sono i mezzi con i quali si può frenare l’inflazione creditizia? Dirò che fin dal gennaio 1946 l’Istituto di emissione, preoccupato dal fatto dell’incremento della moneta creditizia ha inviato a tutte le banche una circolare richiamandole all’osservanza della legge che impone alle banche di depositare presso il tesoro o presso gli istituti di emissione l’eccedenza dei loro depositi al disopra d’un multiplo di 30 volte il loro patrimonio, riserve comprese.
La norma era adeguata alla realtà, quando fu emanata, perché esisteva allora corrispondenza effettiva tra il patrimonio delle banche ed i depositi. Supponiamo che una banca avesse un patrimonio di 100 milioni di lire. Si diceva: «fino a 30 volte cento milioni di lire tu puoi trattenere i tuoi depositi e li puoi impiegare, prudentemente, come ritieni opportuno; l’eccedenza oltre i 3 miliardi devi depositarla presso il tesoro o presso l’Istituto di emissione».
Ciò era ragionevole, quando depositi e patrimonio erano valutati nella medesima moneta; ma attualmente le cose sono cambiate. I patrimoni delle banche sono rimasti valutati nelle cifre antiche; sono valutazioni che qualche volta sembrano ridicole. Banche con 50 miliardi di depositi hanno talvolta un patrimonio di mezzo miliardo, di un miliardo; cifra che moltiplicata per 30, dà 15 ovvero 30 miliardi. Ognuna di quelle banche dovrebbe depositare presso il tesoro o presso l’Istituto di emissione, ad un saggio di interesse non remunerativo (che non compensa le spese di amministrazione, che per tutte le banche superano il 5%), 35 ovvero 20 miliardi; il che vorrebbe dire che quelle banche non potrebbero più assolvere al dovere di pareggiare spese con entrate, ove si tenga presente che una parte dei depositi liberi dovrebbe essere serbata in contanti, per sopperire alle esigenze quotidiane dei rimborsi.
La circolare inviata in gennaio dall’Istituto di emissione ebbe valore d’un monito morale, che fu ascoltato per quanto possibile; ma il rispetto completo sarebbe stato assurdo, perché la norma era diventata contrastante con la realtà. Coloro che hanno certa familiarità col bilancio d’una banca o di una cassa di risparmio sanno che questi istituti si sarebbero trovati nell’impossibilità di vivere: se avessero dovuto depositare presso il tesoro, a saggi di frutto tanto inferiori al costo, una così gran parte dei loro depositi. Di qui la necessità di mutare la norma.
Questa necessità fu la spinta iniziale a quella riforma del controllo del credito che la Commissione di Finanza e tesoro dell’Assemblea ha approvato in una delle ultime sedute. Nel provvedimento approvato si afferma il principio che lo stato deve esercitare un controllo sulle banche, per mezzo d’un comitato di ministri, presieduto dal ministro del Tesoro, che detta le norme per il controllo del credito: all’attuazione provvede l’Istituto di emissione, a mezzo d’un suo scopo specializzato.
Una delle norme che dovranno essere discusse ed eventualmente approvate dal comitato dei ministri si riferisce appunto al controllo della moneta creditizia. Bisogna modificare la norma antiquata, che non corrisponde più alle esigenze attuali. L’Istituto di emissione, in proposito, ha fatto proposte già rese di pubblica ragione. Il principio al quale la nuova norma dovrebbe ispirarsi è quello stesso adottato nei paesi a grande sviluppo bancario, per esempio negli Stati Uniti. Le banche dovrebbero tenere per sé una certa proporzione dei depositi. Sarà il comitato dei ministri competenti il quale stabilirà, a seconda delle condizioni del mercato, a seconda delle necessità di allargare o di restringere il credito, se le banche possano tenere per sé il 70 o il 60% o l’80% dei depositi. Sarà lo stesso comitato dei ministri il quale delibererà se si possa fare una distinzione fra depositi già esistenti a una certa data e i nuovi depositi, perché sono questi nuovi depositi che sono specialmente inflazionistici; sono le nuove aperture di credito le quali contribuiscono all’inflazione. Quindi potrà anche darsi che la norma accolta sia quella di stabilire, come si fa altrove, una proporzione più bassa per i depositi antichi, per i depositi già esistenti a una certa data e una percentuale più alta da versarsi al tesoro per i depositi nuovi. Percentuali fisse non potrebbero mai essere stabilite per legge, perché in breve volgere di tempo diventerebbero disadatte alle necessità nuove; ma dovrebbero essere variate di tempo in tempo per tenere conto delle esigenze di frenare o allargare il credito. Sino a questo momento non si può dire che si siano superati i limiti tradizionali negli impieghi diretti da parte delle banche.
Facciamo un confronto fra la fine del 1938 e la fine del 1946. Alla fine del 1938 le banche avevano impieghi diretti per il 62% dei loro depositi; alla fine del 1946 la percentuale era del 50%.
Se noi supponiamo (è una ipotesi) che la situazione del 1938 potesse definirsi normale (è difficile saper che cosa sia il normale nel mondo economico; ma l’ipotesi non si allontana da quella che era l’esperienza del passato), dobbiamo concludere che alla fine del 1946 gli impieghi fatti dalle banche, essendo soltanto del 50% dei depositi invece del 62% quanto erano nel 1938, non erano ancora diventati pericolosi; non c’era cioè in generale indizio che avessero superato il livello considerato un tempo normale. Dal canto loro gli impieghi in titoli, massimamente in titoli di stato, erano aumentati dal 17% al 25% ed era anche aumentato il contante e le somme disponibili a vista dal 13% al 25%. Alla fine del 1946, in confronto al 1938 le banche si trovavano in una situazione di maggiore notevole liquidità. Non si poteva affermare che esse avessero raggiunto e superato il limite di quello che poteva essere considerato inizio di inflazione; si tenevano in una situazione di liquidità. Certamente il controllo da parte della nuova istituzione la quale andrà a funzionare entro pochissimo tempo, con il compito di variare le percentuali le quali devono essere sottratte alla disponibilità delle banche allo scopo di impedire eccessi e di consentire allargamento di crediti a seconda delle esigenze del mercato, è una funzione delicatissima ed in essa si concreta il controllo quantitativo del credito.
Non è ancora il controllo qualitativo del credito, che è impresa assai più delicata. Controllare qualitativamente il credito implica che l’istituto controllante ingiunga alle banche di dare o non dar credito a questo o a quel cliente, a questa o quella industria. Io ritengo (ed è un punto di eccezionale gravità) che se l’istituto controllante indica singolarmente alle banche e casse di risparmio quali siano gli enti e le persone a cui si deve o non si deve dar credito, la responsabilità del dar credito viene sottratta a coloro che debbono sopportarla interamente, perché hanno la responsabilità dei depositi, e trasportata a coloro che, non correndo il rischio dei depositi, non debbono arrogarsi il diritto di disporre dei depositi stessi. Tanto varrebbe dire che l’Istituto di emissione è esso che fa il credito. Tutto il progresso, in tutti i paesi, dell’ordinamento bancario si è svolto lungo la direttiva di proibire agli istituti di emissione di far credito direttamente alla clientela.
Se deve essere esercitato un controllo, non lo deve esercitare un ente il quale nel tempo stesso delibererebbe sulle singole operazioni. Un controllo qualitativo può essere immaginato; ma esso più che sulle singole persone da affidare e sulle singole operazioni dovrà avvenire secondo criteri obiettivi già in atto secondo le leggi vigenti o nuovi criteri che potranno essere instaurati.
È già nella legge vigente che una banca non può far credito ad un solo cliente per più di una determinata percentuale dei suoi depositi. Potrà essere argomento di studio il punto se certe industrie possono ricevere di più e certe altre di meno, nel loro complesso. Questo è un problema grave, un problema il quale deve essere risoluto senza menomare il diritto di controllo da parte dell’istituto controllante e senza togliere la responsabilità delle proprie azioni a coloro che decidono le operazioni.
Il giorno in cui l’istituto si sostituisce alle banche che forniscono il credito e l’operazione suggerita o comandata dall’istituto controllante andasse a male, le banche che danno il credito avrebbero il diritto di rivolgersi contro l’istituto controllante e cioè contro lo stato e dire: «Sei tu che mi hai consigliato ad aprire quel dato credito a quel dato nominativo».
Se noi togliamo la responsabilità a coloro che danno il credito noi distruggiamo una delle basi fondamentali dell’istituto del credito e noi potremmo fare un danno, che sarebbe incommensurabile, a tutta l’economia nazionale.
Il controllo da parte dello stato sul credito dovrà poi, a parer mio, cominciare da se stesso. Negli ultimi anni, per necessità di cose, per contingenze alle quali sarebbe stato impossibile sottrarsi, lo stato, in virtù di due decreti che sono diventati famosi nel mondo industriale per i loro numeri – il 449 ed il 367 – ha concesso credito direttamente per 13 miliardi e ha dato garanzie o per interessi o per capitale per altri 25 miliardi di lire: in totale 38 miliardi di lire di crediti dati direttamente o indirettamente dallo stato. Non credo che sia conveniente seguitare su questa linea. Se il credito deve esser dato deve essere dato secondo i comuni canali bancari. Sono le banche, le casse di risparmio le quali devono avere la responsabilità di dar credito a coloro che esse ritengono meritevoli. Lo stato dovrà esercitare il controllo impedendo che il credito sia dato provocando l’inflazione creditizia. Lo stato non è tuttavia direttamente un buon banchiere; epperciò alle operazioni dirette deve mettersi la parola fine definitivamente.
Un altro punto sul quale è stata richiamata in questa Assemblea l’attenzione del governo è stato quello dell’I.R.I. Come per tutti gli altri problemi delicati possiamo soltanto affermare, nel modo più reciso, che il governo attuale non ha nessunissima intenzione di dissolvere questo istituto; caso mai, se ad un’opera di riforma dovrà porsi mano, essa dovrà essere compiuta nello spirito con cui l’istituto deve esser retto e cioè ai fini della economia nazionale, a tutela della economia nazionale, dei consumatori contro tutti i monopoli. Questo deve essere il fine dell’opera dello stato nei rapporti con l’I.R.I.
L’I R.I. nacque sotto cattiva stella, come un ospedale, che abbracciò imprese buone ed imprese cattive: le imprese buone rimasero tali: parecchie delle cattive divennero buone; e parecchie di quelle sia buone che cattive non sono istituzionalmente connesse con fini pubblici. Già l’amico onorevole Ruini ha indicato alcune di queste intraprese che non hanno nessuna parentela con lo stato e non rappresentano nessuna esigenza pubblica e possono perciò essere alienate. Se l’I.RI. possiede alberghi, aree fabbricabili, case di affitto terreni, ghiacciaie ed altre imprese di siffatta natura, che non presentano nessun interesse pubblico, non vedo ragione perché l’I.RI. non abbia gradatamente a spogliarsene, vendendo ai prezzi più alti possibili, facendo oggi buoni affari, in confronto ai prezzi di acquisto; non vedo perché l’I.RI. non possa, con buoni risultati finanziari, alienare quelle imprese che non rappresentano nessun interesse dal punto di vista pubblico, per facilitare la vita delle sue altre intraprese, e cioè per fornire, contribuire a fornire mezzi finanziari alle altre sue intraprese le quali abbiano veramente interesse pubblico.
A parere mio, le intraprese le quali abbiano carattere pubblico dovranno essere conservate ed eventualmente essere ancora rafforzate. Tutte quelle che hanno attinenza o potrebbero avere, a cagion d’esempio, attinenza con l’industria degli armamenti dovranno essere conservate e dovranno rimanere nel seno dell’I.R.I. così da essere condotte soltanto con criteri pubblicistici e non mai con criteri privatistici.
Ritenni sempre – e credo di non essere stato tra gli ultimi ad averlo dichiarato più di trent’anni addietro, innanzi alla prima guerra mondiale – che le imprese di armamenti debbono essere sottratte all’industria privata, perché le imprese di armamenti in mano a privati possono essere fomite di guerre, perché i privati possono avere interesse a far nascere occasioni di guerra e diventare così non ultima causa e non ultimo contributo alle guerre. (Applausi).
Perciò, in tutti i casi nei quali l’Istituto di ricostruzione industriale continuerà ad esercitare una industria per fini pubblici, non vi può essere dubbio che nessuna alienazione dovrà essere fatta.
Se d’altra parte vi sono casi in cui manca il carattere pubblicistico – e nel 1933-1934 le banche furono costrette a consegnare all’I.R.I. una miscellanea di intraprese di ogni specie – non vedo la ragione per cui, con prudenza e con i migliori criteri per la più conveniente alienazione, l’I R.I. non si possa sbarazzare delle aziende extravaganti allo scopo di dare incremento a quelle che debbono giovare ai suoi fini pubblici. Non soltanto dentro l’I.R.I. vi sono intraprese di stato. Anche in altri campi bisogna fare in modo di perfezionare la gestione delle imprese economiche di spettanza dello stato, sicché da esse si ottenga il maggior risultato possibile. Quando si dice maggior risultato possibile si dice nel tempo stesso, risultato economico e risultato pubblico.
Non so se in questa esposizione, alquanto diffusa, io abbia soddisfatto tutte le domande che mi sono state fatte. Probabilmente no. Ma, a volere rispondere compiutamente ad ogni discorso, il mio intervento sarebbe stato ancora più lungo. Voglio soltanto dire che in questo momento nel quale le forze di tutte le classi sociali devono contribuire al bene comune, il non preoccuparsi dei risparmiatori, come ha detto l’onorevole Dugoni, sia concetto che vada un po’ al di là delle sue intenzioni. Ricordiamoci sempre che il risparmiatore è una persona la quale è altrettanto necessaria per il progresso economico di un paese e sopratutto per l’avanzamento dei ceti più numerosi quanto qualsiasi altra persona del mondo economico e sociale.
Ricordiamoci sempre che non esiste un capitale, non è mai esistito, né esisterà, un capitale il quale sia fermo nella sua quantità economica.
Ogni capitale, ogni casa, ogni terreno, ogni fabbrica si distrugge continuamente, di giorno in giorno, e molte volte si distrugge in un brevissimo volger di tempo. Io oserei dire che se nuovo risparmio non si formasse nel nostro paese, in dieci o venti anni l’Italia diventerebbe incapace di far vivere, non dico i 45 milioni di abitanti di oggi, ma neppure la metà. Neppure 20 milioni potrebbero vivere nel nostro paese, se ogni giorno non si formasse nuovo risparmio.
L’on. Dugoni interrompe: «Io distinguo fra risparmio e risparmiatore. Sono due cose distinte».
L. EINAUDI riprende:
Sono la stessa cosa. Nessun nuovo risparmio si forma da sé. Occorre che esista un produttore di risparmio. La produzione del risparmio è una operazione economica della stessa natura della produzione di ogni altro bene utile agli uomini. Il contadino che acquista un aratro, deve prima avere risparmiato la somma necessaria a comprarlo; e senza la previsione del suo risparmio e del suo acquisto, nessun aratro si fabbricherebbe, e le terre non produrrebbero frumento. Non ho mai veduto che il risparmio sia formato da agenti pubblici; io ho sempre visto il risparmio formato da laboriosi privati risparmiatori. Quel milione e 600 mila sottoscrittori al prestito della ricostruzione ci dicono qualche cosa. Nessuno dei sottoscrittori è stato un ente, perché gli enti non furono invitati, non dovevano essere invitati a sottoscrivere. I sottoscrittori sono stati tutti risparmiatori privati, e senza di essi lo stato non avrebbe avuto quei 231 miliardi di sottoscrizione. Solo i risparmiatori privati forniscono il nuovo risparmio.
Quindi, è necessario non reprimere lo stimolo a risparmiare.
Ricordiamo che l’intervento dello stato nelle cose economiche deve sovratutto consistere di stimoli ai privati produttori, di stimoli ad investire il loro risparmio in maniera confacente all’interesse collettivo.
I libri bianchi inglesi, nella parte che si riferisce all’azione, a differenza di quello già ricordato relativo alla conoscenza, sono a questo riguardo illuminanti. Vi è una differenza essenziale, dice il libro bianco, pubblicato dal governo laburista, fra un sistema di pianificazione totalitaria e un sistema di pianificazione democratica: la prima subordina tutti i desideri individuali e tutte le preferenze individuali alle domande dello stato. A questo scopo il sistema usa vari mezzi di costrizione sugli individui, mezzi che privano l’individuo della sua libertà di scelta.
Questi sistemi di costrizione possono essere necessari anche in un paese democratico, durante le estreme necessità di una guerra, e perciò quindi tutto il popolo britannico diede al suo governo di guerra il diritto di indirizzare il lavoro verso questa o quella industria. Ma in tempi normali il popolo di un paese democratico non abbandonerebbe mai la sua libertà di scelta a favore del proprio governo. Un governo democratico – continua il libro bianco, che traduco letteralmente – deve perciò condurre il suo sistema di pianificazione economico in maniera da serbare la massima libertà possibile di scelta ai cittadini.
Per conseguenza il piano che si sviluppa in un paese democratico è fondato sui seguenti principii: lo stato esercita una sua influenza profonda sull’economia nazionale in primo luogo attraverso il suo bilancio. Quando il bilancio dello stato e degli enti pubblici assorbe, come assorbe anche il nostro, all’incirca la terza parte del reddito nazionale, è evidente l’influenza grandissima che una buona amministrazione del bilancio dello stato ed una buona amministrazione delle provincie, dei comuni e degli altri enti pubblici esercitano sull’economia privata e sull’indirizzo economico privato, il quale viene indirizzato verso questo o quel fine. Inoltre il governo esercita una influenza importante sulla economia privata attraverso la sua politica tributaria. Già dissi che lo scopo delle due imposte straordinarie patrimoniali e dell’aggiornamento che nel frattempo dovrà essere fatto delle imposte ordinarie è quello di ridare importanza alle imposte dirette sul reddito e sulla ricchezza, e di aumentarne il peso dal 30% fino al 50%.
In questa maniera lo stato dà necessariamente un indirizzo al consumo dei privati, sottraendo con le imposte il reddito a coloro che hanno maggior reddito; ossia trasforma la domanda e fa sì che essa sia la domanda di coloro che hanno reddito più basso in confronto di quelli che hanno reddito più alto. Ma nel far ciò Io stato non abbandona le vie della libertà.
Esso agisce secondo propri criteri ed indirizzi. La sua azione non è di costrizione. Esso non dice agli individui: tu agirai in questo o quel modo.
L’azione dello stato è quella di dire: io spendo il provento delle imposte in una certa determinata maniera ed aggiusto le imposte in maniera da togliere potenza di acquisto a coloro ai quali intendo toglierla; ma col resto della potenza di acquisto che essi conservano e con la potenza di acquisto che acquisteranno gli altri, i cittadini devono essere liberi di esercitare la loro facoltà di scelta fra i beni che sono messi a loro disposizione.
(Una voce a sinistra: «E i razionamenti, allora?»). Il libro bianco non esclude le costrizioni; ma le limita a condizioni in cui prevale lo stato di necessità. Badando alla azione normale dello stato, il libro bianco inglese conclude: «L’impresa di indirizzare con metodi democratici tutta l’economia del paese va al di là, grandemente al di là della potenza di una qualunque macchina governativa. Se si vuole ottenere dallo stato un qualche risultato, lo stato deve agire per via di stimoli, deve avere fiducia inoltre sovratutto sulla collaborazione sia degli industriali che dell’intera popolazione».
Lo scopo che lo stato si propone di raggiungere deve essere ben chiaro a tutti e accettato da tutti così che tutti abbiano la consapevolezza della necessità di seguire lo stato in questa sua azione, se l’azione è di utilità pubblica.
Non sarà né oggi né domani che noi riusciremo a raggiungere gli scopi che ci proponiamo, se non di pareggio aritmetico del bilancio, almeno di equilibrio del bilancio; non sarà né oggi né domani. L’ideale che noi ci ripromettiamo, che si riprometteranno coloro che dalle elezioni popolari saranno mandati a governare le sorti del paese è quello di far sì che il tenore di vita della popolazione italiana cresca continuamente, che si ricominci a tornare, in primo luogo, al punto di partenza del 1938 e poi si vada ancora al di là di questo punto di partenza.
Se questo ideale potremo raggiungere, io affermo che ciò non accadrà né a spese dell’individuo libero né a spese dello stato. Non esiste un contrapposto tra lo stato e l’individuo. Lo stato non può diventare più potente a danno dell’individuo, usurpando le funzioni che sono proprie dell’individuo; né l’individuo deve far lui cose che spettano allo stato.
La società nostra va diventando sempre più complicata e in una società complicata, nella quale in uno spazio piccolo di territorio vivono decine di milioni di abitanti, è necessario che queste decine di milioni di abitanti abbiano – se vogliono mantenere la loro libertà individuale – rapporti sempre più stretti gli uni con gli altri.
Non è vero che lo stato cresca a danno dell’individuo; lo stato cresce a vantaggio dell’individuo. Se lo stato adempie bene ai suoi fini e soltanto a quei fini cui esso è chiamato, se lo stato, in materia economica, si occuperà soltanto di quelle industrie che hanno fini pubblici e sopratutto di quelle industrie che, se lasciate in mano privata, trascenderebbero in monopoli, lo stato non avrà diminuito il campo dell’azione privata, l’avrà anzi accresciuto.
Mi sia consentito di ricordare – forse l’ho già fatto altra volta, ma una ripetizione non è fuori luogo – di ricordare una celebre polemica che fu condotta, o che pareva essere condotta tra statalisti e, diciamo così, liberisti; ma non era in realtà fra statalisti e liberisti, era tra persone che ragionavano in modo conforme e persone che ragionavano in modo difforme dall’interesse permanente della collettività. La polemica risale al 1853.
Protagonisti due napoletani, uno già illustre, l’altro diventato poi il finanziere avvedutissimo che ho dianzi ricordato. Il primo era Antonio Scialoja, esule dalle galere borboniche, professore di economia politica all’Università di Torino, l’altro Agostino Magliani, allora semplice uffiziale del Ministero delle Finanze napoletano. La polemica era originata dai rimproveri che i giornali sardi facevano al governo del Borbone di trascurare ogni iniziativa pubblica, di tenere le sue popolazioni in un abietto stato di povertà.
Insieme con gli altri, insorse a difesa del governo borbonico, insorse a difesa della sua amministrazione, amministrazione che era in verità un’ottima amministrazione, Agostino Magliani. Egli dimostrò, in un opuscolo celebre, che a Napoli le imposte erano mitissime, le più miti che si conoscessero in Italia; che il debito pubblico, per testa di abitante, era il più tenue che ci fosse al mondo, e che quindi gli abitanti napoletani erano i più felici di ogni contrada della terra.
Ma insorse da Torino Antonio Scialoja. Si, è vero – egli disse – è vero che noi qui in Piemonte siamo assoggettati a un gravame di imposte assai maggiori delle vostre, è vero che il nostro debito pubblico cresce di anno in anno ed è quindi non meno vero che qualcuno dei nostri contribuenti sarebbe più contento di non pagare imposte e di trovarsi a vivere sotto quel regime felice in cui imposte non si pagano e non esiste quasi debito pubblico: qui però, sotto il governo di Camillo di Cavour si pagano, sì alte imposte e i contribuenti gridano contro di esse, ma abbiamo invece di un breve tratto di ferrovia di lusso una rete ferroviaria imponente che va via via perfezionandosi, si inizia il traforo del Frejus, si costruisce la ferrovia che va da Torino a Genova, si costruisce quella che va da Torino a Novara e tende verso Milano, non appena l’Austria ce lo permetterà; si impiantano nuove industrie, si crea un istituto di emissione – Camillo Cavour aveva infatti creato lui la Banca di Torino che, insieme con quella di Genova, è stata la progenitrice dell’Istituto di emissione attuale – noi paghiamo alte imposte, dunque, ma abbiamo grandi servizi pubblici e crediamo fermamente che i cittadini piemontesi siano, in definitiva, più contenti del loro elevato gravame di imposte cui però corrisponde tanta provvidenza di opere pubbliche, che non lo siano i cittadini napoletani, i quali vivono, sì, in un regime di poche imposte, ma di manchevoli opere pubbliche e di economia stagnante.
Questa è dunque una vecchia controversia; controversia che non si risolve già nel senso di non far nulla, ma nel senso di fare tutto ciò che può tornare a vantaggio della collettività, compatibilmente con l’esigenza di non annullare quelli che sono i fini della vita degli uomini, fini che consistono nel loro elevamento spirituale e materiale.
Non esiste contrasto fra cittadini e stato; la vera libertà esiste quando lo stato, aumentando le sue funzioni, consente però che i cittadini, nell’ambito loro proprio, possano esercitare liberamente le loro attività economiche e dare incremento alla propria libera personalità morale. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).
A questo punto il presidente comunica che il seguito della discussione è rinviato all’indomani.