17 dicembre 1921 – Relazione al Ministro della Giustizia sulla conversione in legge di alcuni decreti in materia di fitti
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/12/1921
17 dicembre 1921 – Relazione al Ministro della Giustizia sulla conversione in legge di alcuni decreti in materia di fitti
Atti Parlamentari – Senato del Regno – Documenti
Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 590-598
Onorevoli colleghi, il vostro Ufficio centrale si è nuovamente trovato, a distanza di pochi giorni, dinanzi a due decreti-legge relativi alla vasta materia dei fitti. Esso non ha potuto non constatare la situazione difficile, in cui il Parlamento viene a trovarsi, a causa della moltiplicazione di decreti-legge e del loro succedersi frequente con conseguenze non liete per l’autorità e la dignità stessa del lavoro legislativo. L’Ufficio centrale si augura, perciò, vivamente che questi siano gli ultimi decreti-legge sulla materia dei fitti e che infine una legislazione normale, organica, votata dal Parlamento, venga a dare un po’ di tranquillità al mercato delle abitazioni ed a togliere l’incertezza, nella quale tutti gli interessati, proprietari ed inquilini, vivono, e che i successivi decreti non diminuiscono ma sembrano quasi accrescere.
Passando ora all’esame dei due decreti-legge presentati al Senato, il primo, quello dell’8 novembre 1921, n. 1.561, concernente la proroga dei contratti di locazione di appartamenti o case ad uso di abitazione, suscita ben più gravi dubbi.
Il decreto-legge è stato determinato, a detta del governo, dall’urgenza di provvedere alle locazioni, le quali venivano a scadere il 30 giugno 1922 o alla data consuetudinaria più vicina. Siccome in parecchie città la data consuetudinaria di stipulazione di contratti di locazione di appartamenti si ha in principio dell’anno prossimo e talvolta anche prima, è sembrato necessario al governo di provvedere tempestivamente per un’ulteriore proroga dall’1 luglio 1922 al 30 giugno 1923.
Si può dubitare se questa assoluta urgenza esistesse, e la sollecitudine posta dal Senato nel votare nuovamente i disegni di legge già esaminati durante la legislatura scorsa ha chiarito come non sarebbe stato impossibile di ottenere dal Parlamento una sollecita discussione di questo problema importantissimo. Posta l’urgenza, il governo ha ritenuto opportuno di limitarsi alla proroga di un anno e di accogliere percentuali intermedie tra quelle originariamente fissate nei decreti-legge e quelle votate dal Senato. Ne consegue che alcune notevoli differenze esistono tra le disposizioni del presente decreto-legge e quelle del testo del decreto 18 aprile 1920, n. 477, nella forma nuovamente votata dal Senato nella tornata del 25 novembre scorso.
Accenniamo soltanto alle principali:
- 1) La proroga è concessa soltanto fino al 30 giugno 1923 invece che al 30 giugno 1924.
- 2) Il decreto-legge non si occupa della quarta categoria, ossia delle abitazioni di valore minimo perché queste già godevano della proroga sino al 30 giugno 1923.
- 3) Gli aumenti invece di essere del 30, 25, 20 e 15% per le quattro categorie sono soltanto rispettivamente del 25, 15 e del 10% per le prime tre categorie, nulla essendo innovato in confronto al testo del decreto dell’aprile 1920 per la quarta categoria, per la quale quel decreto non sanciva per il periodo di proroga dall’1 luglio 1922 al 30 giugno 1923 alcun ulteriore aumento.
- 4) La proroga si riferisce soltanto ai numeri 2, 3, 4 e 5 dell’art. 1 del decreto-legge 18 aprile 1920 escludendo il numero sei, il che vuol dire che non è concessa alcuna proroga a partire dall’1 luglio 1921 a coloro che:
- a) sono iscritti dei ruoli dei sopraprofitti di guerra e dell’imposta sugli aumenti di patrimonio per una somma non inferiore a 100.000 lire;
- b) abbiano un patrimonio non inferiore ad un milione o un reddito netto non inferiore a 50.000 lire;
- c) abbiano a disposizione parecchi appartamenti.
È noto che il Senato ha ritenuto opportuno di togliere ogni diritto di proroga, a partire dall’1 luglio 1921, solo a coloro che secondo la lettera c) hanno a disposizione parecchi appartamenti, e ciò per impedire la speculazione esercitata da intermediari a danno tanto di proprietari che di inquilini, ed a coloro che hanno un patrimonio non inferiore a un milione (parte della lettera b).
Non aveva cioè ritenuto il Senato che potessero essere privati dal diritto di proroga, concesso a tutti i cittadini:
- 1)I contribuenti all’imposta sui sopraprofitti, in quanto che essendo intervenuta la legge di avocazione completa dei sovraprofitti sarebbe stato ingiusto assumere, a criterio di capacità di pagare un fitto illimitatamente aumentato, una ricchezza che per legge dev’essere avocata e di fatto sta avocandosi per sole cospicue messe in luce, in ogni mese, dalle pubblicazioni del Ministero delle Finanze.
- 2) I contribuenti aventi un reddito netto dalle 50.000 lire in su, sia perché a causa della svalutazione della moneta tale somma non apparve più adeguata per indicare uno stato di ricchezza vera e propria, quanto e soprattutto perché non è finanziariamente e politicamente opportuno di creare una nuova causa di opposizione dei contribuenti a sinceri accertamenti dei redditi soggetti all’imposta.
Attraversiamo un periodo di profonda trasformazione dei nostri ordinamenti tributari; durante il quale le probabilità di salvezza della finanza italiana stanno, in gran parte, nella capacità della finanza di accertare esattamente i redditi soggetti ad imposta di ricchezza mobile e alla nuova imposta complementare sul reddito. È assolutamente necessario che il contribuente si trovi dinanzi alla finanza senza preoccupazioni all’infuori di quella dell’imposta da pagare; la quale è già abbastanza dura, date le necessità della finanza, perché al contribuente debba essere, oltre all’onere dell’imposta, fatto balenare il timore, che se confesserà o concorderà un reddito dalle 50.000 lire in su, egli possa essere lasciato in balia di un aumento inopinato di affitto o forse anche di licenziamento dall’alloggio occupato.
Notisi che questo timore non avrebbe gran peso, se fosse generale, se tutti cioè indistintamente gli inquilini si trovassero nella medesima posizione e per tutti scadessero le locazioni senza diritto di proroga. La generalità del timore e la impossibilità fisica di tutti gli inquilini di muoversi impedirebbero aumenti eccessivi; ma quando tutti gli inquilini hanno diritto alla proroga ed un’infinitesima parte soltanto è privata, questi pochissimi si troveranno a subire aumenti di prezzi di gran lunga sproporzionati a quelli che sarebbero la conseguenza della libertà in generale. Pochissimi essendo, per tal modo, gli appartamenti divenuti liberi, il prezzo di essi segue la legge del prezzo di monopolio e può ascendere a somme eccezionali.
Il contribuente perciò provveduto di un reddito di oltre 50.000 lire potrebbe essere costretto a pagare una fortissima parte di esso per aumento di fitto, sicché egli farà ogni sforzo per ostacolare l’opera di accertamento degli agenti delle imposte, per non essere colpito dal duplice danno dell’imposta da pagare – e questo sarebbe il danno minimo – e dell’aumento di fitto – e questo è il danno maggiore. Da questa situazione sarebbe sovratutto danneggiato l’erario.
Si può passare sopra a queste osservazioni, soltanto per l’imposta patrimoniale, la quale si riferisce ad una data passata e non ad una data futura; per essa gli accertamenti si riferiscono ad un’epoca fissa e il Tesoro corre minor rischio di essere danneggiato dall’interesse che ha il contribuente a non subire un danno privato.
Per tutte queste considerazioni l’Ufficio centrale ha discusso se non fosse stato opportuno di seguire per il presente decreto-legge il metodo già tenuto per la conversione in legge del Regio decreto 3 aprile 1921, n. 331. Per questo l’Ufficio centrale propose la soppressione degli articoli 1, 2 e 3, i quali prorogavano dall’1 luglio 1922 i contratti di locazione della prima categoria di case che sarebbero scaduti all’1 luglio 1922.
L’Ufficio centrale propose, ed il Senato votò, la soppressione dell’articolo predetto, non perché fosse contrario alla proroga, ma perché ritenne che essa fosse assorbita dalla proroga più lunga fino all’1 luglio 1924, stabilita, nel testo votato dal Senato, nel Regio decreto 18 aprile 1920, n. 477.
Anche qui, senza nocumento, si potrebbero sopprimere tutti i 5 articoli del decreto-legge; e ciò non vorrebbe dire reiezione della proroga proposta dal governo; significherebbe semplicemente che la proroga minore proposta dal governo sino all’1 luglio 1923 per le prime tre categorie è assorbita dalla proroga più lunga, sino all’1 luglio 1924, votata dal Senato.
Tuttavia l’Ufficio centrale non ha alcuna difficoltà a proporre invece che gli articoli 1 e 2 del presente decreto-legge siano modificati sostituendo ad essi gli articoli da 1 a 7 del testo già votato dal Senato nella seduta del 25 novembre scorso, del decreto 18 aprile 1920, n. 477.
A così breve distanza di giorni l’Ufficio centrale non saprebbe vedere alcuna ragione perché il Senato debba modificare il suo voto, sia per la durata della proroga, sia per l’estensione della proroga medesima, sia per le percentuali di aumento nei successivi periodi della proroga.
Costituisce forse una inelegantiaiuris il ripetere la medesima votazione a poca distanza di tempo, ma dell’uso della figura retorica dell’iteratio non ha la responsabilità il Senato, il quale si trova a dover esaminare successivi decreti-legge che riguardano sempre la medesima materia.
Avendo inteso il Senato, nel lungo esame del decreto fondamentale 18 aprile 1920, di formulare una legislazione la quale possa essere considerata se non definitiva, almeno durevole per un più lungo periodo di tempo, l’Ufficio centrale non può, senza mancare di rispetto alla volontà precisa dell’alto consesso, proporre norme diverse da quelle che il Senato medesimo ripetutamente ha fatto sue.
Perciò anche l’art. 3 risulta così modificato da essere la riproduzione dell’articolo 9 del testo votato da Senato, del decreto-legge 18 aprile 1920 (avvertendosi che il periodo dei due mesi in tale articolo previsto è da intendersi nel senso di mesi interi secondo il calendario vigente e non di 60 giorni); e l’articolo 4 poi è così modificato da riprodurre testualmente l’ultimo capoverso dell’art. 22 del predetto testo.
A questo riguardo occorre fare presente un reclamo che l’Ufficio centrale ha ricevuto da parecchie associazioni di inquilini, le quali sono rimaste penosamente sorprese dalla dizione usata nell’art. 4 del presente decreto-legge.
Così come è proposto dal governo, l’art. 4 ha questo preciso significato: che se il proprietario di una casa ha stipulato od ha fatto registrare prima dell’8 novembre 1921 un contratto con cui egli affittava a Caio l’appartamento ora locato a Tizio, Tizio non godrà dopo l’1 luglio 1922 o alla data consuetudinaria più vicina, di alcuna proroga. In questo modo, mentre il legislatore da un lato concede delle proroghe e ritiene opportuno di concederle per motivi di ordine pubblico, dall’altro canto nega le proroghe stesse a tutti quegli inquilini i quali abbiano avuto la disgrazia di aver avuto un proprietario più accorto degli altri, il quale abbia preordinato un contratto, probabilmente fittizio, con una testa di legno allo scopo di avere, alla prossima scadenza, libero il suo appartamento.
Il sistema delle proroghe è quello che è; ma il legislatore deve dire chiaramente se le proroghe siano concesse oppure no; esse devono essere concesse a tutti o negate a tutti: non concesse per la generalità e negate per taluni, scelti a caso, come accadrebbe se l’art. 4 fosse approvato nel testo governativo.
Forse il danno per gli inquilini dell’art. 4 non sarà in questa occasione molto diffuso, perché non molti proprietari avranno avuto l’accortezza previggente di preordinare contratti simulati di affitto con terzi, sebbene, a quanto fu affermato dagli interessati, il numero non sia irrilevante; ma si può esser certi che fin d’ora saranno molti i proprietari i quali preordineranno fittizi contratti con terzi per l’anno 1923 – 1924. È molto probabile, e tale è certo stato l’avviso del Senato, che debba concedersi una nuova proroga fino al 30 giugno 1924; che cosa accadrà se per tal proroga sarà applicato un articolo simile all’art. 4 del presente decreto? E quale ragione avrà il legislatore che l’avesse approvato oggi di non volerlo più per quell’altra occasione? È vero che il Senato aveva affermato il principio della validità dei contratti stipulati tra locatori e terzi nel suo testo, e dal suo testo probabilmente il governo ha tratto il concetto affermato nell’art. 4; ma il significato dell’ultimo capoverso dell’art. 22 del testo votato dal Senato del decreto 18 aprile 1920 è profondamente diverso dal presente articolo 4.
Allora si era alla fine di febbraio 1921 e si volle soltanto mantenere valore ai contratti di buona fede che erano stati stipulati in un’epoca parecchio anteriore e cioè prima del 15 dicembre 1920, nella quale nessuno ragionevolmente prevedeva che un successivo provvedimento avrebbe prorogato le locazioni, le quali venivano a scadere nell’1 luglio 1921.
L’art. 4 non manterrebbe probabilmente vigore ai contratti stipulati in buona fede, in un’epoca nella quale era, con ogni probabilità, impossibile la preordinata frode alla volontà del legislatore, ma apre una via, per mettere, in dati casi, nel nulla, la volontà del legislatore medesimo.
Dopo aver in tal maniera reso omaggio a una fondata querela degli inquilini contro una norma che indubbiamente può rivolgersi ai loro danni, sia lecito affermare, conchiudendo, la maggiore bontà del sistema adottato dal Senato rispetto alle proroghe ed agli aumenti percentuali in confronto di quelli voluti dai successivi decreti legge 18 aprile 1920, 3 aprile 1921 e 8 novembre 1921.
Col sistema dei decreti-legge di proroga, concessi all’ultimo momento e per breve periodo, si mantengono le due classi contrastanti in uno stato di perpetua agitazione. Ogni volta gl’inquilini insorgono contro la proprietà edilizia per ottenere una nuova proroga e per negare contemporaneamente ogni aumento di fitto; ogni calcolo dell’avvenire è reso impossibile e si- rende tanto più difficile la soluzione del problema edilizio.
Il sistema votato dal Senato potrà non essere perfetto; ma risponde almeno ad un requisito fondamentale che è quello di dare la sicurezza agl’inquilini per un più lungo periodo di tempo ed uniforme per tutti, così da evitare che una piccola classe di inquilini si trovi in balia dei propri padroni di casa e nella impossibilità di sfuggire ad eccessive pretese, per non sapere in quale altra categoria di abitazione rifugiarsi; d’altro canto offre alla proprietà edilizia un sistema di aumenti percentuali periodici e cumulativi, cosicché alla data dell’1 luglio 1924 i fitti possano adeguarsi meglio alla realtà e consentire all’industria edilizia di riprendere l’attività da tanti anni venuta meno.
Confrontando il voto del Senato con le norme dei tre decreti-legge sopraricordati, si ha che all’1 luglio 1923, secondo il sistema dei tre decreti-legge, i fitti sarebbero assoggettati ad un aumento cumulativo totale del 95% per la prima categoria, del 50% per la seconda, del 35% per la terza e del 20% per la quarta; invece gli aumenti votati dal Senato porterebbero, all’1 luglio 1924, ad un aggravio totale del 130, 100, 75 e 55% rispettivamente.
Tanto l’una quanto l’altra scala di aumenti è puramente empirica; si può soltanto osservare che la scala di aumenti portata dai decreti-legge è certo notevolmente inferiore agli aggravi che, per aumenti d’imposta e di sovrimposte e per spese di riparazione, assicurazione ed amministrazione i proprietari hanno dovuto subire. Specialmente i proprietari della quarta categoria, che sono quelli più, numerosi, si trovano per testimonianze numerose e veritiere in condizioni spesso gravissime. L’aumento che in totale arriverà soltanto al 20% non solo non è sufficiente a coprire gli aumenti delle imposte e sovrimposte e delle altre spese, ma lascia un disavanzo assai forte; cosicché non è raro il caso di proprietari piccoli e modesti, di gente, la quale aveva investito tutto il proprio risparmio in piccole case, nella speranza di poter ottenere, nella tarda età, da queste i mezzi di sussistenza, i quali debbano assistere oggidì, forzatamente, alla scomparsa completa del loro reddito, mentre l’età e le malattie impediscono loro di ritornare al lavoro.
Gli aumenti votati dal Senato sono certamente insufficienti anch’essi a ridare ai proprietari il reddito di cui essi godevano prima della guerra, ma il distacco non è così forte, come col sistema dei tre decreti-legge.
Il sistema del senato è un contemperamento approssimativo degli interessi delle due categorie, contemperamento, il quale lascia la speranza, del tutto esclusa dal sistema dei decreti-legge, che alla data dell’1 luglio 1924, ove le condizioni monetarie si siano riassestate ed il livello dei prezzi sia diventato normale, il che non vuol dire uguale ai prezzi dell’anteguerra, non ci sia un distacco eccessivamente forte fra i fitti legali e i fitti di mercato.
Con queste osservazioni e con le modificazioni sopra indicate l’Ufficio centrale vi propone di dare, il voto favorevole al Regio decreto 8 novembre 1921.
Passando ora all’esame del secondo decreto-legge, quello del 28 luglio 1921, n. 1.032, si osserva che per solo scopo di modificare, come chiarisce la relazione ministeriale, la data di applicazione della proroga per i locali adibiti per l’esercizio di piccole industrie, di commerci, professioni o ad uso di ufficio, onde togliere una troppo grande disparità di trattamento tra i contratti aventi scadenza a una data consuetudinaria e quelli aventi invece una data convenzionale. Il decreto-legge ha esteso la competenza delle commissioni arbitrali a tutti i contratti scadenti nel periodo dall’1 agosto 1921 al 31 luglio 1922 e alla data consuetudinaria annuale o semestrale più prossima al 31 luglio 1922.
L’Ufficio Centrale riconosce la fondatezza della proposta del governo e vi propone di approvarla.
Tuttavia ritiene che dal testo dell’articolo 1 del decreto-legge debbano essere cancellate le parole «qualunque sia la data della stipulazione di esso», perché queste parole non hanno riferimento alla materia dell’articolo 13 (diventato art. 10 nel testo votato dal Senato) del regio decreto-legge 3 aprile 1921, n. 331, in virtù del quale le disposizioni del predetto decreto-legge non si devono applicare ai contratti aventi data certa anteriore all’1 novembre 1920 tra il locatore e conduttore ovvero tra il locatore ed i terzi.
Siccome il presente decreto 28 luglio 1921 ha per scopo di sostituire un nuovo articolo all’art. 4 del detto decreto 3 aprile 1921, se questa sostituzione fosse fatta secondo il testo governativo si creerebbe una contraddizione in un medesimo decreto, fra il disposto dell’art. 4 modificato, il quale darebbe facoltà di adire le commissioni arbitrali, qualunque sia la data della stipulazione del contratto in corso, e la disposizione dell’art. 13 che nega questa facoltà ai contratti aventi data certa anteriore all’1 novembre 1920.
È sembrato all’Ufficio centrale che questa contraddizione dovesse esser tolta mantenendo la dizione dell’art. 13 (diventato 10 nel testo del Senato) del decreto 3 aprile 1921.
Così pure, per le stesse considerazioni fatte per il decreto esaminato precedentemente, nell’art. 2, oltre l’aggiunta proposta nel testo, ministeriale all’art. 11 del R. D. luogotenenziale 3 aprile 1921, n. 331, si sono riportate le modificazioni dal Senato già apportate a quest’articolo, per chiarire che si intende confermare il testo modificato.
Nessuna osservazione l’Ufficio centrale ha da fare intorno agli altri articoli di questo decreto di cui pure vi propone l’approvazione.
Addì 17 dicembre 1921
EINAUDI, relatore.