Opera Omnia Luigi Einaudi

16 gennaio 1946 – Sulle colonie

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/01/1946

16 gennaio 1946 – Sulle colonie

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 103-118

 

 

 

L’ordine del giorno dell’Assemblea plenaria della Consulta nazionale reca il «seguito della discussione sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio, ministro degli Affari esteri», De Gasperi. Il presidente Sforza apre il dibattito: prende la parola per primo l’on. Giovannini, quindi interviene L. Einaudi:

 

 

Onorevoli colleghi, il presidente del Consiglio, nel suo discorso, non ha toccato il problema coloniale; ma era implicito nel discorso un accenno a tale problema perché egli ha rivendicato il contributo dell’Italia nella lotta comune contro la tirannia totalitaria. Chi vi parla non è mai stato un colonialista e, finché è durata la libertà di scrivere e di parlare, ha sempre scritto contro ogni imperialismo coloniale e contro l’oppressione e lo sfruttamento dei popoli coloniali da parte degli egoismi delle madrepatrie e dei capitalismi europei.

 

 

Perciò se oggi vi parlo del problema coloniale, e di questo soltanto, lo farò con l’intento di cercare di dimostrare che l’Italia ha il diritto ed ha il dovere di partecipare all’attuazione della formula nuova, diventata il segnacolo in vessillo del programma delle Nazioni Unite rispetto alle colonie, la formula della amministrazione fiduciaria delle colonie per conto e nell’interesse delle popolazioni indigene.

 

 

L’Italia non ha sempre parlato in questo senso. Ricordo un ordine del giorno del Senato del 9 dicembre 1935, nel quale si affermava, a proposito dell’impresa etiopica, «l’incrollabile decisione della resistenza all’iniquo ed assurdo tentativo di piegare la volontà dell’Italia» e si affermava «l’assoluta legittimità dell’azione di difesa e di civiltà intrapresa nell’Africa Orientale per le supreme esigenze di vita, di sicurezza e di avvenire dell’Italia».

 

 

Questo è il linguaggio di tutti gli imperialismi. L’ordine del giorno, purtroppo, ricevette l’adesione, lenta e stentata, di circa quattrocento senatori. Diciassette non firmarono. Io non so quale sia stata la ragione per la quale non hanno firmato i morti amici, da Luigi Albertini ad Ettore Ciccotti, dall’ambasciatore Bollati a Sanarelli, da Volterra ad Achille Loria, e non so quale sia stata la ragione per cui non hanno firmato, tra i viventi, quell’ordine del giorno, l’esule attuale presidente della Consulta, Benedetto Croce, e Abbiate, e Bergamini, e Casati.

 

 

Era certamente e sovratutto una ragione morale.

 

 

Ad impedirmi di firmare quell’ordine del giorno, poté, oltre la ripugnanza invincibile contro il mancamento alla parola data quando s’era fatta adesione alla Società delle Nazioni, oltre all’orrore per ogni aggressione violenta, poté, ripeto, vietarmi la firma di quell’ordine del giorno, l’antica convinzione che le imprese coloniali sono una missione. È questo il principio che adesso informa l’opera delle Nazioni Unite quando si parla di amministrazione fiduciaria.

 

 

Venticinque anni prima di quell’ordine del giorno, nel 1911, si svolse su una rivista, che era stata fondata dall’amico Francesco Nitti nel 1894 e che io avevo continuato poi, una cortesissima discussione fra me ed Edoardo Giretti, il quale, durante la lunga legislatura dell’altra guerra, su questi banchi, condusse, insieme con la piccola pattuglia dei radicali – socialisti, tra cui voglio ricordare e salutare la memoria di Antonio De Viti de Marco, una battaglia contro tutte le sopraffazioni, contro tutti i privilegi. Quella polemica non toccava gli ideali e non toccava le premesse. Per ambedue gli ideali erano gli stessi e le premesse erano eguali. Ambedue partivamo dalla premessa che, per ogni impresa coloniale, in coloro che la conducono vi sono due animi: vi è l’animo del conquistatore, il quale intende colorire coi colori della sua nazione una più ampia superficie della carta geografica; e il conquistatore trascina dietro di sé i mercanti in cerca di facili guadagni – l’esperienza storica di tutte le età e di tutti i popoli lo dimostra – trascina gl’industriali, i quali vanno in cerca di mercati privilegiati, trascina i colonizzatori, i quali sperano di sfruttare il lavoro delle popolazioni indigene. Ma vi è altresì l’animo dell’apportatore di civiltà, il quale porta con sé, dietro di sé, il soldato, il quale a quelle popolazioni vuole apportare sicurezza ed ordine; il magistrato il quale rende la giustizia a tutti e la rende imparzialmente ai deboli contro i capi di tribù ed i capi feudali; il medico, il quale salva le vite umane; il maestro, il quale arreca la civiltà e la cultura e innalza gli indigeni alla dignità di uomini liberi; e porta dietro di sé anche il pioniere, il quale crea, importa nelle colonie beni utili e suscita energie feconde e innalza il livello materiale delle popolazioni indigene.

 

 

Il dissenso non era nelle premesse e negli ideali; era esclusivamente in ciò che l’amico temeva che in quel momento la passione nazionalistica facesse velo agli uomini e trasformasse quella impresa in una impresa di pura conquista e di pura dominazione da parte di ceti privilegiati.

 

 

Confesso che lo temevo anch’io, ma poiché ho sempre creduto nella virtù degli ideali, pensavo che alla fine il valore di questi ideali avrebbe avuto ragione del peso degli interessi. Perciò fu scritto in quell’occasione un elenco di comandamenti – li chiamo comandamenti – che avrebbero dovuto avere sotto gli occhi gli uomini di stato che avessero voluto creare in quelle regioni una forma nuova di civiltà. Quali erano questi comandamenti? Li riproduco nella forma, che oggi mi pare lapidaria, che avevano assunta e che corrisponde a quella che oggi si riassume nella formula dell’amministrazione fiduciaria.

 

 

È necessario in primo luogo bandire ogni idea di lucro per lo stato.

 

 

Questo primo comandamento ci era dato fin dal 1852 da Camillo Cavour, il quale proclamava il principio che le colonie non debbono rendere – e infatti non rendono – mai nulla agli stati. Nessun lucro si può mai sperare da un’impresa coloniale, diceva quel grande.

 

 

In secondo luogo è necessario limitare il più possibile i lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di sudditi italiani in colonia. Le colonie non si conquistano a favore del popolo conquistatore, si conquistano a vantaggio dei popoli conquistati.

 

 

L’unico sistema, che fin d’allora mi pareva consigliabile ad uno stato che voglia conservare a lungo le sue colonie, ad uno stato il quale non le voglia perdere, è quello, che in un primo stadio, quando la colonia non si governa da sé ma è governata dalla madrepatria, riconosca la porta aperta a tutti i paesi. Solo a questo patto i coloni avranno l’impressione di essere trattati con giustizia e di non essere sfruttati dalla madrepatria e dai suoi capitalisti. In secondo luogo, quando la colonia si governerà da sé, lasciare questa libera di scegliere il regime che essa, nella pienezza della sua sovranità, crederà opportuno di adottare, anche se questo regime, parlo del regime economico, potesse essere rivolto contro la madrepatria.

 

 

Una colonia può vivere a lungo a vantaggio della madrepatria soltanto a queste condizioni: che essa serva ad educare il popolo indigeno alla indipendenza.

 

 

In terzo luogo – dicevo – essere lenti e costosi gli eventuali benefici della colonizzazione. L’opera nostra di civiltà – concludevo – sarà tanto più alta, nobile e feconda quanto meno noi ci riprometteremo di trarne vantaggi immediati e diretti e quanto più saremo consapevoli di dover sopportare dei costi senza compensi materiali.

 

 

Il compenso nostro deve essere tutto morale, deve consistere nel compiere il nostro dovere di suscitatori di energie nascoste in popoli primitivi, e di apparecchiatori della grandezza politica e non della ricchezza dei nostri nipoti. I popoli grandi sono quelli che, consapevoli, si sacrificano per le generazioni venture.

 

 

Da quel giorno sono passati 35 anni, e oggi penso che null’altro di quello che era stato scritto allora vogliano dire le nuove formule dell’amministrazione fiduciaria che l’assemblea di San Francisco ha sostituito a quella dei mandati sanciti dalla Società delle Nazioni. L’idea dell’amministrazione fiduciaria altro non vuol dire se non che lo stato amministratore deve amministrare non per sé, ma per i popoli che ancora si trovano in regime coloniale; che lo stato amministratore deve sperare un vantaggio per se stesso o meglio per i figli suoi delle generazioni venture solo dall’avere, coi sacrifici attuali, procacciato benefici di gran lunga maggiori di benessere e di libero governo ai popoli amministrati; che il fine ultimo dei popoli titolari di colonie deve esser quello della compiuta indipendenza politica ed economica delle colonie ed il permanere tra la madrepatria e le colonie dei soli vincoli morali derivanti dai comuni interessi e dai comuni sentimenti.

 

 

Abbiamo noi, negli anni che sono decorsi dalla prima nostra avventura coloniale, abbiamo noi soddisfatto a questi principi?

 

 

Ecco una recentissima relazione ufficiale, in cui appare che, ad uno almeno di questi requisiti noi abbiamo pienamente soddisfatto. Si legge in questa relazione «essere noto che in questo primo cinquantennio le colonie italiane non hanno dato all’Italia alcun reale profitto. Esse viceversa hanno spesso pesato gravemente sul bilancio nazionale. Si può dire che tanto l’Italia quanto i singoli coloni hanno investito in questa impresa le migliori risorse ripromettendosi di raccogliere in tempi successivi il frutto di tanti sforzi. Questo cinquantennio dunque si può dire sia stato un cinquantennio di sacrifici. Ed è questo un primo grande titolo per conservare quelle colonie. Se avessimo lucrato, se avessimo ottenuto dei vantaggi, forse questo titolo non lo avremmo così grande e così sicuro.

 

 

Permettetemi ora che io riassuma alcune poche cifre che spero non vi annoieranno troppo su quest’opera e su questi sacrifici compiuti dall’Italia nelle nostre colonie. Tutte queste cifre si riferiscono al 1940.

 

 

In quell’anno il capitale investito nelle colonie italiane da privati era di 4 miliardi e 558 milioni, cifra che dovrebbe moltiplicarsi per un coefficiente da dieci a venti se dovessimo rapportarla a somma attuale.

 

 

Inoltre 907 milioni erano stati investiti da enti pubblici e 240 da società per azioni. Il totale dell’investimento è perciò di 5 miliardi e 705 milioni.

 

 

Nell’agricoltura i coloni italiani della Tripolitania avevano messo in valore 148.145 ettari, di cui 94.250 ettari a colture arboree.

 

 

Nella Cirenaica abbiamo 79.831 ettari messi a coltura, di cui 9.928 a colture arboree. I poderi costituiti dagli italiani erano 3.675 in Tripolitania, 2.206 nella Cirenaica; con 23.919 coloni italiani nella prima e 15.014 nella seconda.

 

 

Si erano costruiti nella Tripolitania 1.450 chilometri di strade moderne bene attrezzate e 1.616 chilometri di piste e strade a fondo naturale.

 

 

Nella Cirenaica 1.137 chilometri di strade di grande comunicazione moderne e 1.124 chilometri di piste e strade a fondo naturale.

 

 

La popolazione (per la Libia, il tempo trascorso era stato troppo breve per trarne deduzioni concrete) dell’Eritrea era passata da 275.000 abitanti nel 1905 a 596.000 nel 1931. Più che raddoppiata dunque; indice sicuro del progredire della civiltà, della sicurezza pubblica e del benessere, ché altrimenti la popolazione non avrebbe potuto aumentare.

 

 

Quel che più conta e che moralmente costituisce nostro titolo di onore, è l’opera data per la scuola: nell’Eritrea vi erano nel 1938/39 123 classi per Eritrei con 4.177 alunni; nella Somalia 10 scuole con 896 alunni indigeni; nella Libia, tra il 1920-21 ed il 1939-40, le scuole coraniche erano passate da 70 a 629 ed i loro alunni da 2.369 a 13.508. Le scuole elementari erano passate da 15 a 95; i maestri italiani da 18 a 120, i maestri indigeni da 42 a 131, e gli alunni da 1.135 a 8.391. Nelle scuole femminili eguale progresso: le scuole progredite da 3 ad 8, le classi da 13 a 28; le maestre italiane da 6 a 22; quelle indigene da 4 a 12; e le alunne da 275 a 742; e così pure nelle scuole di arti e mestieri, progredite da 2 a 4; con maestri italiani passati da 4 a 6, con quelli indigeni da 6 a 9; con alunni cresciuti da 87 a 308.

 

 

Ma più importante ancora per i risultati ottenuti è il quadro dell’assistenza sanitaria. Nell’Eritrea noi avevamo, nel 1940, un lebbrosario, 5 ospedali, 51 ambulatori, 29 infermerie, 10 ricoveri anticeltici, 9 sifilicomi, tre laboratori di chimica farmaceutica.

 

 

Nel 1938 erano stati curati negli ospedali eritrei 5.467 indigeni, ed ambulatoriamente 160.930 pure indigeni. Nella Somalia gli indigeni curati negli ospedali e nelle infermerie erano 21.208, negli ambulatori 43.646.

 

 

Nella Tripolitania, dove al momento della occupazione vi erano 2 cosiddetti ospedali, lasciammo un ospedale moderno a Tripoli dotato di 1.000 letti, uno a Misurata con 150 letti, uno a Zuara con 40 letti. In Tripoli città vi erano 15 ambulatori. Nel resto della Tripolitania si noveravano 60 infermerie.

 

 

Nella Cirenaica lasciammo 5 ospedali con 660 letti; 7 infermerie con 174 letti e 19 ambulatori. Nella prefettura di Tripoli 26 ed in quella di Misurata 12 erezioni e restauri di moschee e templi attestavano il nostro contributo alla assistenza religiosa degli indigeni.

 

 

Un congresso internazionale, il quale si era radunato nel maggio 1938 (rectius: 1928) a Tripoli, il Congresso di agricoltura tropicale e subtropicale, nella seduta terminale, per bocca del suo presidente, aveva concluso con queste parole: «Gli esponenti dei paesi colonizzatori di più antica tradizione non potevano non riconoscere che l’Italia, con l’opera compiuta in Libia, apriva nuove vie all’opera di colonizzazione, indirizzandola, oltre che all’incremento della produzione e alla rinascita delle terre, anche e soprattutto all’evoluzione delle popolazioni locali ed alla diffusione della civiltà».

 

 

Noi possiamo dunque affermare di avere nel cinquantennio della nostra vita coloniale adempiuto al nostro ufficio.

 

 

Un ricordo va al di là di queste cifre e di questi fatti, che pur sono eloquenti; un ricordo che ha carattere morale.

 

 

Parlava un giorno nell’aula del Senato il maresciallo Pecori Giraldi; il glorioso soldato, con parola semplice e piana discorreva dell’opera compiuta da lui come ufficiale coloniale e più dai suoi colleghi ufficiali per l’educazione dei soldati indigeni. Parlava dinanzi ad un banco di ministri indifferenti, nessuno dei quali osò ringraziarlo per le parole pronunciate.

 

 

Il maresciallo diceva della vita dura dell’ufficiale coloniale, della sua vita lontana da ogni conforto di civiltà, allietata soltanto dal senso del dovere, dal senso di compiacimento, che ogni uomo prova nel trasformare gli altri uomini, dal senso di orgoglio sentito per aver trasformato uomini, che vivevano prima sotto la cappa di piombo della servitù feudale, ubbidendo atavisticamente ai signori ereditari, per averli trasformati in soldati disciplinati bensì, ubbidienti all’ufficiale perché egli era il capo ma anche consapevoli di adempiere ad una missione di civiltà; ché missione di civiltà è mantenere la sicurezza per popoli, i quali sicurezza e giustizia non hanno mai conosciuto.

 

 

A che pro, dopo questi fatti, i quali testimoniano della capacità colonizzatrice del colonizzatore, del contadino, dell’ufficiale, del soldato italiano, a che pro riandare ancora a colpe? Colpe ce ne sono state in tutti i paesi colonizzatori e qualche colpa l’abbiamo avuta anche noi; ma quel popolo, il quale sia senza colpa, è il solo il quale possa lanciare la prima pietra. Credo che, in fatto di colonie, non vi sia nessun popolo senza colpa. Meglio che riandare ricordi che potrebbero non essere in tutto felici, meglio è guardare all’avvenire; meglio, ricordando ciò che noi abbiamo fatto in passato, avere fermo proposito di far meglio in avvenire.

 

 

Vorrei perciò che da questa aula partisse un voto, secondo il quale la Consulta nazionale, nel momento nel quale, per bocca di tanti altri oratori, ha ricordato il contributo dell’Italia alla vittoria militare delle Nazioni Unite, rammenti altresì il contributo dato all’avanzamento della vita civile nelle terre africane ed alla elevazione morale e civile dei popoli delle sue colonie e rivendichi il diritto dell’Italia a partecipare all’opera comune di innalzamento degli uomini viventi in condizioni arretrate di civiltà alla dignità di uomini liberi, atti a dare a se stessi governo autonomo di popolo.

 

 

Ho detto «popoli liberi» e «governo autonomo» di popoli; non ho detto e non voglio dire «governi indipendenti».

 

 

Infatti, quali sono le vie le quali si aprono oggi dinanzi a noi nell’avvenire per il governo delle colonie italiane?

 

 

Tre sono le vie: la sovranità assoluta dello stato italiano; l’amministrazione fiduciaria di un certo numero di stati e l’amministrazione fiduciaria affidata all’Italia.

 

 

Credo che la prima delle tre alternative, il ritorno della sovranità assoluta dello stato italiano sia da escludere dal novero delle probabilità concrete. Devo aggiungere che, essendo avversario deciso della teoria della sovranità assoluta di ogni stato singolo, non potrei, anche se ci fosse concesso, ammetterla per la sovranità assoluta dell’Italia sulle colonie italiane. Ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo è una protesta fiera contro il principio dello stato assoluto, perché asserisce i principi dei diritti individuali dell’uomo al di fuori dello stato; asserisce che lo stato non è investito della sovranità assoluta, ma incontra dei limiti nella sua azione.

 

 

La sovranità assoluta degli stati singoli è un anacronismo economico al tempo delle ferrovie, dei telegrafi, della radio, della telegrafia senza fili, della navigazione aerea. Parlare di sovranità assoluta di stati singoli è essere fuori del mondo attuale (Applausi). La realtà consiste esclusivamente nell’interdipendenza degli stati sovrani.

 

 

Accettiamo questo fatto, riconosciamo questo fatto ed escludiamo dal novero delle possibilità il ritorno ad una sovranità assoluta dello stato italiano sulle sue colonie, indipendentemente da qualsiasi interdipendenza con gli altri stati.

 

 

La seconda alternativa è quella dell’amministrazione fiduciaria di un certo numero di stati scelti fra le Nazioni Unite, compreso in questo numero di 5, 6 o 7 stati anche l’Italia. È una alternativa che io non mi pongo neppure, perché anch’essa fuori della realtà. Non può esistere un governo associato nelle medesime colonie di sei o più stati ugualmente sovrani che partecipino al governo.

 

 

Se volessi fare un paragone, una amministrazione fiduciaria di parecchi stati sovrani in una colonia corrisponderebbe ad un governo di coalizione in cui ognuno dei partiti coalizzati fosse occupato esclusivamente a mettere delle mine sotto ognuno degli altri partiti. In un sistema di amministrazione fiduciaria di parecchie potenze non si governa e non si fa il beneficio né il vantaggio dei popoli amministrati, dei popoli indigeni.

 

 

L’unica alternativa la quale rimane è l’amministrazione fiduciaria affidata all’Italia. Ragion vorrebbe che questo principio dell’amministrazione fiduciaria fosse esteso non solo all’Italia ma anche agli altri paesi. Ma poiché noi non siamo arbitri dei trattati di pace, posso soltanto augurarmi che l’Italia, diventata amministratrice fiduciaria delle sue colonie, dia tale esempio agli altri popoli, alle altre nazioni, sì che anche essi vedano la necessità e la convenienza in avvenire di seguire il nostro esempio.

 

 

Il problema concreto che si presenta è questo: da chi deve essere dato il mandato, quale è l’organo dal quale dovrà venire all’Italia il compito dell’amministrazione fiduciaria delle sue colonie? Vi sono due vie soltanto.

 

 

Il mandato può venire o da un consesso di stati, lo si chiami Società delle Nazioni o lo si chiami Organizzazione delle Nazioni Unite, o può venire invece da qualche cosa che sia al di sopra di un consesso di stati, da un’assemblea la quale provenga direttamente dai popoli i quali compongono questi medesimi stati. Non conosco nessun’altra via possibile, nessun altro organo che possa affidare ad un paese il carico di una amministrazione fiduciaria.

 

 

Forse qualcuno di coloro che mi ascoltano sa che io sono da gran tempo fautore della seconda alternativa, ossia del mandato non affidato da un consesso di stati ma del mandato affidato da un ente, da un organo supernazionale.

 

 

Nel 1918 accadde che in un teatro di Milano l’uomo che poi diventò per venti anni il padrone d’Italia e fu poi uno degli artefici massimi della rovina della Società delle Nazioni, pronunciò un discorso innanzi a gran folla per propugnare la fondazione di una associazione italiana la quale doveva essere intesa a promuovere la costituzione appunto di una società fra le nazioni. Lo stesso uomo, il quale dopo combatté la Società delle Nazioni, si rendeva allora fautore, promotore, di una costituenda Società delle Nazioni.

 

 

In quel medesimo tempo, in alcuni articoli, che comparvero il 5 gennaio 1918 e dopo, io cercai invece di dimostrare la tesi avversa, che la Società delle Nazioni, di cui allora già si parlava assai e si augurava dovesse essere costituita, era una creazione la quale non era vitale e non poteva condurre ad altro che a nuove guerre, una istituzione la quale inevitabilmente avrebbe condotto a risultati contrari a quelli che i promotori si ripromettevano. La dimostrazione era data partendo dalla esperienza storica di tutti i tempi e di tutti i paesi. Non accadde mai che una società delle nazioni, una società costituita fra stati sovrani, abbia potuto condurre alla pace. Ogni società di nazioni si scioglie sempre nella discordia intestina e produce le guerre che essa avrebbe voluto impedire.

 

 

Faccio astrazione degli esempi antichi e recenti delle Leghe anfizioniche, del Sacro Romano Impero, della Santa Alleanza; ricordo solo l’esempio della Confederazione Nord-Americana del 1776, la quale era costituita fra le 13 colonie sovrane liberatesi allora dalla madrepatria inglese; nessuna delle quali aveva voluto rinunciare al proprio esercito, alla propria rappresentanza diplomatica, alle proprie dogane.

 

 

Orbene, in poco più di 13 anni la dissoluzione di quella Confederazione era cosa evidente. Occorse il genio di Washington, coadiuvato da statisti insigni, quali Madison, Jay e Jefferson, per imporre a quelle tredici colonie recalcitranti la rinunzia alla propria sovranità, la rinunzia al diritto di avere un proprio esercito, proprie dogane e proprie rappresentanze diplomatiche. Così sorsero gli Stati Uniti d’America che sono diventati la più grande potenza del mondo, appunto perché hanno rinunziato ad essere una società delle nazioni.

 

 

In un’assemblea di stati veramente sovrani, non è mai accaduto che alcuno di questi stati si assoggettasse al controllo degli altri. L’istituto del mandato, creato dalla Società delle Nazioni e per cui certe colonie erano amministrate da taluni stati per mandato di quel consesso di stati, si risolse praticamente in una farsa. Una relazione di poche righe era accettata come prova che al mandato si era adempiuto dal paese mandatario. Non credo si voglia tornare di nuovo alla esperienza della Società delle Nazioni, che condusse l’Italia al tragico risultato delle sanzioni. Le sanzioni erano l’unica arma della Società delle Nazioni, in tutti i casi di violazione del patto; e quindi anche nel caso che qualcuno degli stati mandatari non avesse adempiuto ai suoi obblighi: l’unica arma per riuscire a far rispettare la volontà collettiva.

 

 

Noi italiani sperimentammo le sanzioni, sanzioni che d’altra parte erano desiderate dal governo fascista e costituivano la mira necessaria della sua opera perché quando il governo fascista stabilì il sistema dell’autarchia applicò volontariamente a suo danno il principio delle sanzioni, perché autarchia altro non significa se non sanzioni applicate da noi a noi stessi per impedire l’afflusso delle materie prime e dei beni in genere di cui si ha bisogno (Applausi); che era precisamente ciò che poi si fingeva di condannare, quando altri le applicava.

 

 

Quell’uomo che desiderava e voleva le sanzioni si giovò poi delle sanzioni applicate da Ginevra all’Italia allo scopo di suscitare la passione nazionalistica nel nostro paese, allo scopo di ottenere il plauso funesto alla guerra etiopica, prima origine della guerra mondiale.

 

 

Nessuno di noi vuole rivivere quella triste esperienza. Mi auguro invece che l’odierna assemblea delle Nazioni Unite, fatta persuasa dei risultati negativi ottenuti col principio del mandato, sia solo un primo passo fecondo verso la costituzione di una federazione, nella quale veramente il principio dell’amministrazione fiduciaria potrà trovare la sua applicazione razionale. Soltanto quando saremo parte integrante di una organizzazione supernazionale, allora soltanto l’amministrazione fiduciaria avrà un senso, perché, se dovranno essere applicate a noi sanzioni, ciò accadrà in quanto noi saremo parte integrante di quell’applicazione attraverso i nostri rappresentanti, attraverso un organismo supernazionale, attraverso un governo di cui noi saremmo parte integrante. Quella amministrazione fiduciaria dalla quale avremmo avuto il mandato sarà allora anche cosa nostra, perché gli italiani avranno eletto nel Parlamento federale supernazionale i loro rappresentanti.

 

 

Utopia? Forse. Ma io credo che nulla sia così utopistico, così irreale come la politica del gioco dei contrasti fra i potenti della terra, come la politica dell’egoismo nazionale. Ieri l’amico Nitti disse che noi non possiamo essere contro nessuno dei grandi blocchi, ma dobbiamo essere con tutti i blocchi. Aggiungo che noi dovremmo cercare di essere parte di un solo grande blocco, nel quale si manifesti la volontà non dei singoli governi ma di tutti gli uomini che faranno parte del grande blocco. La politica realistica non è una politica la quale in realtà giovi ai popoli.

 

 

Vera e sola politica realistica, è quella che guarda fermamente ad un ideale; è quella che nel campo coloniale, come ho detto, mira all’elevazione dei popoli indigeni, in guisa che essi meritino di diventare indipendenti e conservino con la madrepatria quei vincoli d’affetto e quei vincoli di interesse che noi avremmo potuto e saputo creare nel tempo in cui ne eravamo i tutori. Soltanto questa è politica realistica; soltanto questa in realtà corrisponde agli interessi supremi del nostro paese.

 

 

Non fu certamente realistica la politica brutale di conquista di Ottone di Bismarck, la quale condusse, attraverso ad un rinnovato Attila, la Germania al disastro attuale. Noi guardiamo invece fidenti verso l’avvenire; perché l’Italia, alle origini della sua formazione storica, non ha avuto lo spirito di conquista, ma ha avuto invece gli ideali umani di tutti i pensatori del nostro Risorgimento, di tutte le città d’Italia, da Torino a Napoli, da Cesare Balbo a Giuseppe Mazzini. È forse, questa di cui ho parlato, l’utopia di un economista il quale desideri di veder ristabilita nel mondo quella libertà di commercio che oggi è diventata una vana aspirazione, un mito a cui invano aspirano imprenditori che vedono ferme le loro macchine ed operai che non possono dare alle macchine il loro lavoro?

 

 

Forse è un’utopia; ma è utopia simile a quella che muoveva Camillo di Cavour quando, iniziando la sua coraggiosa politica economica di libertà, alto proclamava che la scienza economica non era la scienza dell’interesse, non era la scienza dell’egoismo, ma era la scienza dell’amor di patria. (Vivissimi, prolungati applausiMolte congratulazioni).

 

 

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