Opera Omnia Luigi Einaudi

14 marzo 1947 – L’Italia e Bretton Woods

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/03/1947

14 marzo 1947 – L’Italia e Bretton Woods

Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 297-607

 

 

 

Discussione del disegno di legge Partecipazione dell’Italia agli accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.

 

 

Dopo gli interventi degli on. Corbino, Treves, Montini e Dugoni prende la parola L. EINAUDI:

 

 

Dopo quanto hanno detto gli oratori che mi hanno preceduto, non mi tratterrò più sull’aspetto tecnico della questione. L’amico Corbino l’ha già ampiamente illustrato, ed altri fra cui l’oratore che mi ha preceduto, onorevole Dugoni, hanno aggiunto nuove osservazioni. Dirò piuttosto la ragione fondamentale per la quale ritengo sia necessario aderire all’istituzione del Fondo e della Banca Internazionale. Questa ragione è, ai miei occhi, soprattutto di carattere economico-storico.

 

 

Lo ha già detto Corbino: noi abbiamo attraversato, prima del 1914 un’epoca felice che io temo non si riprodurrà mai più. Il secolo trascorso dal 1814 al 1914 è stata una parentesi nella storia del mondo, parentesi la quale probabilmente noi della generazione attuale e forse di parecchie generazioni avvenire non vedremo più.

 

 

Uno degli aspetti caratteristici di quel secolo felice è stato il mito dell’oro, vorrei piuttosto chiamarlo la magia dell’oro. Se parlasse, invece di un economista, una nonna ai suoi nipotini e volesse raccontare quello che accadeva prima del 1914, quando anche i bambini potevano soddisfare le loro esigenze di zucchero e di pane bianco, essa certamente direbbe: c’era una volta un mago, uno di quei nani o gnomi che voi bambini avete contemplato quando siete andati alla rappresentazione di Biancaneve e i sette nani; uno di quei nani di cui nessuno poteva prevedere a priori le decisioni, ma che intanto guidavano gli uomini e che impedivano che gli uomini facessero del male. Il mago dell’oro era certo un mago di seconda qualità. Se dovessi dire in quale paese del mondo vi sia una moneta perfetta, imparziale, neutra, come ora dicono gli economisti, direi che questo paese si trova in un’isola sperduta del Pacifico, nel quale la leggenda ha immaginato che in tempi remotissimi cadessero nell’isola una quarantina di grossi massi. In verità quei massi sono alquanto squadrati, non si sa se da sacerdoti o dagli dei che in epoca antecedente li avevano formati: ma erano in numero determinato. La leggenda, il mito ha trasformato quei massi nell’unica moneta esistente in quell’isola. Sono massi enormi che non possono essere trasportati dalla forza dell’uomo. Eppure essi, nonostante la loro immobilità, servono all’uso monetario più e meglio di quello che servissero le monete manovrate dal 1914 fino ad oggi. E perché servivano più di quanto non servissero le monete manovrate dalla pazienza degli uomini? Perché non c’è nessuna forza al mondo che in quell’isola possa variare il numero di quelle unità monetarie. Sono biglietti alquanto pesanti ed anzi immobili, per i quali non può agire il torchio. Essi appartengono a coloro che per transazioni successive ne sono venuti in possesso.

 

 

Tutti i contratti di quell’isola – che non so se sia felice, ma che certo dal punto di vista monetario è di esempio a tutto il mondo – tutti i contratti si fanno con la trasmissione ideale di quei massi. Tutti quelli che vendono qualcosa o trasferiscono un diritto acquistano quei massi e gli acquirenti vanno a contemplarli e se ne ritengono i padroni. Nessun uomo di governo, nessun capo tribù può variare il numero di quei massi di oro.

 

 

Ciò che accade in quell’isola fortunata è accaduto nel secolo dal 1814 al 1914, in misura attenuata, perché la quantità dell’oro esistente nel mondo era allora variabile. Essa però variava al di fuori della volontà di qualsiasi uomo di governo o di stato. Non la volontà degli uomini, ma il caso fa venire alla luce l’oro. Sono stati dei ragazzi nelle pianure del Transvaal che, giocando con dei sassi lucidi misero sull’avviso i ricercatori d’oro, facendo supporre l’esistenza di miniere d’oro, le più importanti che si siano scoperte durante la lunga storia degli uomini.

 

 

Era dunque una forza estranea all’uomo la quale faceva sì che la quantità di oro aumentasse o diminuisse. La estraneità che l’unità monetaria aveva nel secolo felice rispetto alla volontà od all’arbitrio umano ha costituito la fortuna di quel secolo. Essa ha fatto sì che in esso si sia avuto uno sviluppo economico mai prima visto e gli siano congiunti meravigliosi progressi tecnici; e si siano verificati i maggiori avanzamenti nel reddito nazionale e i maggiori progressi nei redditi salariali delle classi lavoratrici.

 

 

Nessuno invero poteva impunemente agire sulla quantità della massa circolante. Il mito dell’oro era diventato talmente potente in quel secolo che anche uomini di governo erano forzati a curare si emettesse soltanto quella certa quantità di biglietti che essi erano sicuri di poter convertire a vista, veramente a vista e veramente al portatore, a coloro che si presentavano all’Istituto di emissione.

 

 

Anche quando – lo ha ricordato pure l’onorevole Corbino – noi attraversammo tempi di corso forzoso, gli uomini di stato erano talmente ossessionati dal mito dell’oro che essi sempre guardavano al rapporto tra l’unità-oro e l’unità-carta. E quando l’aggio, come allora si chiamava, superava il 5%, l’allarme era generale; e quando esso perveniva al 10 o al 15%, sembrava si fosse quasi alla fine del mondo.

 

 

Era il mito dell’oro che faceva sì che […] bliche e private e che coloro i quali contraevano dei debiti si sdebitassero delle obbligazioni introdotte con la medesima moneta; l’onestà la quale, considerata sempre uno dei dieci comandamenti, era diventata miracolosamente una regola d’azione alla quale neppure gli uomini di stato potevano sottrarsi, pretestando la cosiddetta ragione di stato. Era un’epoca nella quale, in conseguenza della onestà monetaria che dipendeva dal mago mitico dell’oro, gli scambi internazionali di beni e di uomini erano facili.

 

 

Nei giornali si leggevano perciò frequenti articoli contro la bilancia commerciale che incombeva su quasi tutti i paesi progressivi e fra gli altri anche sull’Italia. Ma in Italia lo sbilancio in realtà non esisteva nel conto complessivo e le riserve degli istituti di emissione che erano quasi inesistenti nel 1860, nel 1914 avevano invece notevolmente superato il miliardo di lire-oro. Mai un solo anno passò, dal 1860 al 1914, in cui non si fosse dovuto denunciare uno sbilancio nella bilancia commerciale. Ma gli emigranti mandavano di fuori le loro rimesse; i turisti venivano dall’estero e facevano spese; e la bandiera marinara italiana guadagnava noli in tutti i paesi del mondo. Con queste parti invisibili lo sbilancio veniva eliminato e si rimborsavano i debiti verso l’estero. L’Italia al 1914 aveva ricomprato tutti i titoli di debito pubblico emessi all’estero durante il periodo del Risorgimento ed aveva anzi costituito una sua rispettabile riserva aurea.

 

 

Nel 1914, gli uomini immaginarono di guardare dentro a questo meccanismo, quasi fosse un giocattolo; essi vollero vedere come questo meccanismo, questo sapientissimo e delicatissimo movimento di orologeria lavorasse. Esso lavorava a costi minimi. Era il tempo in cui si potevano fare degli arbitraggi pagando provvigioni, le quali non arrivavano nella maggior parte dei casi, a cinque centesimi per ogni cento lire; mentre oggi sappiamo bene che anche gli istituti monopolistici di stato per ogni transazione monetaria percepiscono l’1%: venti volte tanto di quello che si percepiva prima; e nelle transazioni sul mercato libero, oggi i conti dell’arbitraggio, della trasformazione di una moneta in un’altra, vanno dal 10 al 20 al 30%, quando si tratta di arbitraggi, di trasformazioni di monete che sono fatti a carico di coloro che sono inesperti, che non conoscono e non possono afferrare le vie attraverso le quali questi arbitraggi si fanno alle migliori condizioni.

 

 

Nel 1914 gli uomini immaginarono di poter guardare dentro al meccanismo meraviglioso e lo ruppero; e al posto di esso istituirono quella che fu chiamata la moneta manovrata, moneta che non è più abbandonata al caso, che non è più abbandonata all’arbitrio, che non è più abbandonata alla scoperta fortuita di miniere d’oro, tutte cose del passato, cose che devono essere soppresse, perché non il caso, ma la volontà dell’uomo, la sapienza dell’uomo deve dominare anche il mercato monetario. Abbiamo visto quello che vuol dire la sapienza dell’uomo posta al luogo del caso: la sapienza dell’uomo ha condotto a questi risultati: che il dollaro ha perduto il 41% del suo valore, la sterlina il 53%; il marco, annullato una volta, oggi non sappiamo che cosa sia; è una figura, è una cifra aritmetica della quale noi non conosciamo il valore e che funziona finché dura un regime di controllo rigidissimo. Il giorno in cui il controllo venisse a cessare, noi non sappiamo che cosa potrà essere il marco. Abbiamo visto che cosa è successo con la sostituzione della sapienza dell’uomo al caso, al caso fortuito della scoperta di miniere d’oro rispetto alla lira. La lira oggi ha una potenza d’acquisto che forse è la duecentesima parte di quella che era la potenza d’acquisto della medesima lira nel 1914. La lira d’oggi compra una duecentesima parte di quello che la lira comprava prima che si iniziasse il regime della moneta manovrata.

 

 

Non sappiamo neppure più – e non si sa in nessun paese del mondo – se ci sia ancora un’unità monetaria; non sappiamo più se esiste e in che cosa consista la lira. Di lire ce ne sono tante: una lira al cambio 100; un’altra a 225, un’altra ai cambi di esportazione, che sono diversi a seconda dei paesi con i quali si commercia. Dove non esistono accordi c’è la lira e ci sono tante lire quante risultano dagli scambi di compensazione; c’è la lira la quale risulta dalla media tra il valore ufficiale e il cambio di esportazione; c’è la lira turistica, alla quale si è dato di nuovo cominciamento. Vi sono anche tante specie di lire interne: c’è la lira la quale serve alle compere nelle cooperative od in certe agenzie pubbliche e c’è la lira del mercato libero. Le lire sono diventate un’infinità; non possiamo più raccapezzarci.

 

 

Questi sono i risultati della sostituzione al caso della volontà preordinata da parte degli uomini. Questa sostituzione, in molti paesi del mondo, è la grande colpevole dei trasporti di ricchezza dall’uomo all’altro. La svalutazione monetaria – ed in certi momenti, la rivalutazione monetaria – è la colpevole dell’arricchimento degli uni e dell’impoverimento degli altri e del sorgere di odii e di invidie fra le classi, che non furono mai tanto gravi come negli ultimi trent’anni. La mancanza di una base solida della moneta ha fatto sì che gli odii e le invidie si inasprissero e portassero ad uno stato d’animo rivoluzionario in tutti i paesi del mondo.

 

 

Che cosa vogliono dire in questo ambiente gli accordi di Bretton Woods? Non ancora il ritorno all’età dell’oro; non ancora il ritorno al mito dell’oro; non ancora il ritorno ad una moneta, la quale sia indipendente dalla volontà umana.

 

 

Se ciò non è ancora, gli accordi di Bretton Woods sono però qualche cosa che vale più di quanto non valga la volontà dei singoli stati. Gli eletti della volontà dei singoli stati grondano di malcontento e di rivoluzione in tutti i paesi del mondo. Noi vogliamo che questo stato di cose, prodotto della sapienza degli uomini di governo dei singoli stati, si sostituisca qualche cosa di più alto. Che cos’è questa sostituzione, in che cosa consiste? È la sostituzione, in fondo, alla volontà dei singoli stati di una volontà comune di coloro che reggono i diversi stati e che, venendo a far parte di un corpo unico, regoleranno e dovranno regolare questa materia.

 

 

Noi non sappiamo se la sapienza dei molti potrà essere superiore alla sapienza dei singoli; se i risultati che potranno ottenersi si possono prevedere esattamente fin da ora. Come si debba attuare l’azione del direttore del Fondo e della Banca internazionale, noi non sappiamo prevedere con sicurezza; non sappiamo se questi risultati saranno confacenti a quello che è il nostro desiderio, ossia la stabilità della capacità d’acquisto della moneta; ma ben sappiamo che la nostra opera dovrà contribuire a raggiungere i risultati voluti.

 

 

Il contributo che noi daremo supporrà (l’hanno già rilevato alcuni oratori) una menomazione della sovranità nazionale. Vi sarà certo una menomazione della sovranità nazionale in fatto di moneta, ma ciò accadrà perché la sovranità nostra si sarà trasfusa nella sovranità degli altri.

 

 

Dall’insieme delle sovranità soppresse e rivissute in una sola è da augurare si riesca ad ottenere risultati migliori di quelli, pessimi, che si sono ottenuti nel triennio scorso.

 

 

Noi possiamo sperare che dalla trasfusione delle sovranità singole in una sovranità unica abbia ad uscire un risultato il quale possa farci ritornare, almeno in parte, a quello che era il meccanismo meraviglioso e delicatissimo lentamente creatosi prima del 1914 e che noi, con infantile ingenuità, abbiamo rotto e distrutto. Certo, ci troviamo di fronte ad una menomazione della sovranità nazionale; ma dobbiamo rassegnarci ad una evoluzione in questo senso, alla progressiva diminuzione del concetto tradizionale della sovranità nazionale. Altre verranno dopo; ma la menomazione della sovranità nazionale, in fatto di moneta, che cosa vorrà dire? Vorrà dire che noi controlleremo e vigileremo sull’azione degli altri stati, ed a questo punto soltanto noi possiamo consentire che altri possano, indirettamente, non con un controllo interno, ma indirettamente, agire e controllare l’opera nostra. L’azione del Fondo implica perciò sostituzione di volontà diverse dalla nostra e di una volontà comune alla esclusiva nostra volontà.

 

 

La mutazione profonda nel tipo della sovranità monetaria avvantaggerà meglio i paesi poveri o i paesi ricchi? Saranno i paesi più poveri o quelli più ricchi che in questa trasfusione di sovranità finiranno per trarre maggiore giovamento? Io non credo che si possa così porre il problema. Gli stati che faranno parte del funzionamento del Fondo dovranno constatare che non i paesi ricchi o i paesi poveri dovranno trarre vantaggio particolare superiore a quello degli altri, ma tutti dovranno trarre un vantaggio. Forse quelli che avranno un maggiore vantaggio saranno i paesi più poveri in confronto di quelli più ricchi.

 

 

Ricordiamo le parole di Camillo Cavour, pronunciate ad altro fine, sopra un altro problema economico: il problema dei dazi doganali.

 

 

Quando a Camillo di Cavour, nel Parlamento Subalpino, si obiettò che il Piemonte, paese povero, non poteva prendersi il lusso di concedere agevolazioni doganali, di spalancare le sue porte alla concorrenza straniera, egli disse: «Siamo proprio noi, paese povero, siamo proprio noi che abbiamo bisogno di innalzarci, e dobbiamo avere il coraggio delle riforme audaci, siamo proprio noi quelli che trarranno maggiore vantaggio nell’aprire le nostre frontiere alla inondazione di merci e beni stranieri».

 

 

Oggi si ripete il medesimo fatto: cogli accordi monetari che oggi approviamo noi avremo rinunciato alla sovranità monetaria. Ciò vorrà dire: riapertura delle frontiere alla circolazione dei beni e alla circolazione degli uomini. La riapertura delle frontiere, sono persuaso, riuscirà più a favore dei poveri che non a favore dei ricchi! (Vivi applausi).

 

 

A questo punto il presidente avverte che il seguito della discussione è rinviato.

 

 

 

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