14-26febbraio 1921 – Sugli affitti e sulla limitazione dei poteri del commissario governativo agli alloggi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/02/1921
14-26febbraio 1921 – Sugli affitti e sulla limitazione dei poteri del commissario governativo agli alloggi
Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni
Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 475-587
14 febbraio 1921
Discussione di sette provvedimenti, relativi al problema degli affitti e alla limitazione dei poteri del commissario governativo agli alloggi, su cui L. Einaudi aveva redatto, come relatore dell’Ufficio centrale, la Relazione del 5 febbraio 1921.
La discussione generale è aperta dal sen. Cagnetta, dopo il quale prende la parola l’on. Loria, che tra l’altro polemizza con L. Einaudi:
«…L’Ufficio centrale ricorda nella sua relazione il caso di un conduttore di negozio, che ha avuto il fitto aumentato di quindici volte… ».
L. EINAUDI replica:
Il caso ricordato dall’onorevole Loria è un esempio ipotetico, senza relazione alcuna con la realtà, mai accaduto.
L’on. Loria insiste: «Allora perché si mette nella relazione? La relazione deve esporre dei fatti, non fare della poesia».
L. EINAUDI risponde:
Nella relazione è detto chiaramente.
Dopo interventi degli on. Mosca, Cencelli e Borsarelli di Rifreddo la seduta è aggiornata all’indomani.
15 febbraio 1921
Continua la discussione generale. Intervengono gli on. Rava, Frola, Pozzo e Frascara; prende quindi la parola L. EINAUDI:
Onorevoli senatori, l’elevata discussione fatta ieri e oggi in quest’aula intorno al problema delle case dimostra da un lato quanto sia importante questo problema, forse non meno importante di quello che nel momento attuale si dibatte nell’altro ramo del Parlamento, e da un altro lato ha agevolato a me grandemente il compito di raccogliere le fila di tutti i problemi che si sono venuti intessendo in questa medesima discussione.
Numerosi senatori hanno rivolto la loro attenzione a problemi particolari, su cui forse nella discussione generale, pur riconoscendone la grandissima importanza, è prematuro ritornare; ad esempio gli onorevoli senatori Cagnetta, Cencelli e Pozzo si sono ripetutamente intrattenuti sul significato e la portata dell’articolo 2 del decreto che figura nello stampato numero 259 e che si riferisce alla città di Roma. Questo è uno dei più delicati punti che formerà un oggetto di discussione e d’interpretazione; ma siccome si tratta di un punto particolare, così di questo converrà discorrere in sede di discussione dell’articolo 2.
I senatori Loria e Pozzo hanno sollevato un’altra questione assai importante: quella della scelta che si può fare fra la data del 18 aprile 1920 e la data del 30 dicembre 1917 come data base pel calcolo degli aumenti di affitto.
Anche qui possono presentarsi ragioni in favore dell’una e dell’altra data: ma sarà opportuno discorrere di questo punto particolare, quando si tratterà di determinare la forma dei singoli articoli.
L’onorevole senatore Mosca ha chiesto maggior chiarezza all’articolo 19 aggiunto dall’Ufficio centrale e l’Ufficio centrale ritiene di aver raggiunta questa maggiore chiarezza con quegli emendamenti che d’accordo col governo furono distribuiti al principio della seduta.
L’onorevole senatore Borsarelli ha fatto parecchie domande, la principale delle quali credo si riferisca all’abolizione dell’articolo 29 che egli ritiene in contraddizione con l’articolo 2 del decreto relativo al commissario degli alloggi.
L’onorevole senatore De Cupis ha chiesto la soppressione dell’art. 5 e a questo proposito senza anticipare una discussione ritengo che i colleghi dell’Ufficio centrale siano d’accordo con me nel ritenere conveniente l’abolizione di questo articolo.
L’onorevole senatore Rava, oltre a questioni di carattere generale ha anche sollevato la questione dell’interpretazione dell’art. 12 del decreto sui commissari degli alloggi che si riferisce ai locali destinati a uffici di pubbliche amministrazioni. Si tratterà di esaminare come questo articolo 12 possa essere armonizzato con l’art. 1 del decreto 18 aprile 1920.
Mi sembra che queste siano questioni particolari su cui pel momento sarebbe prematuro intrattenerci; altri oratori invece hanno accennato ad alcuni problemi fondamentali che meritano di essere discussi in questa sede. I problemi fondamentali possono essere riassunti in questa maniera: vi è innanzi tutto la questione preliminare riguardo a quella che deve essere la posizione dei primi quattro decreti intorno a cui l’Ufficio centrale ha dichiarato di essere d’accordo nel proporre l’approvazione senz’altro e gli altri tre decreti a cui si propongono degli emendamenti.
Poi vi sono questioni di merito, che riguardano il punto della gradualità, quello dei poteri del commissario degli alloggi, finalmente quello della proprietà commerciale. A questi problemi fondamentali si aggiunge quello più ampio, che non riflette pienamente la materia di questi decreti, ma che è l’azione generale dello stato riguardo all’acceleramento delle costruzioni di case intorno al quale è stato presentato un ordine del giorno dal senatore Frola e sono state fatte delle raccomandazioni dal senatore Rava. Comincio prima con la questione preliminare. È evidente, come è stato già dichiarato dal presidente del senato, che pur essendovi una discussione unica, le votazioni su ognuno di questi disegni di legge saranno separate, ed è evidente che coloro che vorranno votare per principio contro il commissario degli alloggi potranno adottare la medesima risoluzione rispetto ad ognuno dei precedenti disegni di legge che si riferiscono alla medesima materia del commissario degli alloggi. Ma se il decreto-legge ultimo sarà approvato, evidentemente questo assorbirà tutti i precedenti, come è detto espressamente nel decreto-legge.
La questione di merito prima che ci si presenta è quella, relativa al decreto 18 aprile 1920, della gradualità degli aumenti di pigione e della smobilitazione. A questo punto mi sia consentito fare la difesa di quel disgraziato articolo 19, morto appena nato.
In difesa di questo articolo si può dire questo, che esso è criticabile, e merita le critiche che da vari autorevoli senatori sono state mosse al suo congegno, ma bisogna dire che esso ubbidiva a un principio fondamentalmente giusto; era stato introdotto dall’Ufficio centrale allo scopo di tener conto delle lagnanze che erano pervenute dalla categoria degli inquilini delle abitazioni contemplate nell’articolo 1; abitazioni che per Roma superano le seimila lire e per le altre grandi città le quattro mila lire, e per le medie le duemila e quattrocento. Questi per mezzo delle loro rappresentanze dicevano all’Ufficio centrale: «Come è possibile che ad un tratto all’1 luglio 1921 si restauri la libertà completa?». Vi sono dei casi in cui i proprietari, i quali si ispirano alle necessità di ambo le parti, hanno chiesto degli aumenti moderati; vi sono casi invece in cui i proprietari hanno chiesto degli aumenti straordinari di quattro o cinque volte. Date una difesa per questa prima categoria, concedete anche a questi una proroga di un anno pur consentendo un aumento ragguardevole di affitto per quest’anno. L’Ufficio centrale si è mostrato pronto ad accogliere queste istanze degli inquilini, ma ha ritenuto giusto che, poiché si concedeva una proroga di un anno alla prima categoria non si potesse negare questa proroga alle altre categorie: questa fu l’origine dell’articolo 19.
Io ammetto che questo articolo 19 sia stato formulato imperfettamente, perché, come fu rilevato, esso ha condotto alla conseguenza, che mentre la prima categoria in quest’anno di proroga doveva pagare un aumento di fitto del 60%, le categorie successive di inquilini che si può presumere siano quasi sempre meno fortunate, sarebbero state assoggettate di un balzo all’aumento del 60, 70 o 80% rispettivamente. Questa è stata un’imperfezione di formulazione, ma la imperfezione potrà essere perdonata dal Senato in vista del fine a cui si tendeva, cioè di far giustizia a tutte e quattro le categorie di inquilini, e forse potrà essere perdonata anche in quanto è stata occasione per cui si è sviluppata così feconda una discussione, la quale ha dato ammaestramenti importanti a noi che l’ascoltavamo con tanto interesse, e ci ha consentito di poter formulare d’accordo col governo gli emendamenti agli articoli 1, 3, 5 e 6 che ritengo siano più conformi a quella che è la corrente dominante nel Senato, che è quella del passaggio graduale dalla condizione dei vincoli durante la guerra, alla condizione di libertà che esisteva prima e alla quale si deve tornare.
A questo punto, lasciando nel limbo delle cose che mai non furono questo art. 19 aggiunto, si è presentato all’Ufficio centrale il problema di vedere quale fosse il metodo migliore da sostituire a quello del decreto 18 aprile 1920, perché se l’art. 19 aggiunto non fosse venuto, gli inquilini si sarebbero trovati nella posizione determinata nel decreto 18 aprile 1920, cioè, all’1 luglio 1921 la prima categoria, all’1 luglio 1922 quelli della seconda e terza e all’1 luglio 1923 quelli della quarta, si sarebbero trovati nella piena libertà di discussione col proprietario e sarebbero stati danneggiati di più di quanto non lo sarebbero stati con l’art. 19.
Bisogna ricordare essersi dimenticato che l’articolo 19 era un vantaggio reso agli inquilini, non certo ai proprietari di case in quanto sostituiva alla situazione giuridica determinata dal decreto 18 aprile 1920 una situazione ad essi più favorevole (Bene).
Posto che si debba passare gradualmente dai vincoli alla libertà, e questo era un concetto accolto universalmente da tutti, quale è il metodo migliore per effettuare questo passaggio? Qui ci sono diversi propositi che sono stati manifestati: un ultimo proposito fu manifestato dal senatore Marco Pozzo che vorrebbe che questo passaggio graduale non fosse determinato con aliquote stabilite dal legislatore, ma fosse demandato alla Commissione arbitrale di ogni comune di determinare equamente quale sia l’aumento di affitti che per ogni singolo caso si possa considerare come corrispondente all’equità.
Il sistema sotto un certo aspetto dottrinario è raccomandabile; la giustizia è meglio resa quando si tenga conto di tutte le particolarità; ma fatta questa ammissione generica, debbo riconoscere che il sistema delle commissioni arbitrali presta il fianco all’arbitrio, e sotto parvenza di una giustizia meglio resa nasconde un’ingiustizia reale, in quanto che queste commissioni arbitrali daranno giudizi disparatissimi da caso a caso, e nei diversi mandamenti di una medesima città ci saranno criteri completamente disparati; per forza le commissioni speciali dovranno attenersi ad alcuni principi generali: questi principi finiranno per sostituirsi a quelli che oggi proponiamo che siano inseriti nella legge, ed è meglio che la legge stabilisca questi principi generali, perché se si devono indagare i singoli casi ci sarà un proprietario che dirà: io quell’appartamento l’ho affittato a prezzo molto basso prima della guerra e a me conviene che sia consentito un aumento molto notevole, anche del mille per cento, perché questo aumento così forte corrisponde a un aumento minore di quello che è concesso ad un altro che ottiene l’aumento del 10% e che partiva da una base più elevata. E ci sarà poi un inquilino che dimostrerà che pagava fin troppo prima della guerra e che neppure il 10% deve essere consentito. Si scateneranno per l’Italia tante dispute che credo è meglio che il legislatore tronchi queste questioni e stabilisca il sistema da adottarsi. (Benissimo).
Posto che il sistema da adottarsi è quello di percentuali stabilite dal legislatore in che modo queste percentuali vanno stabilite? Qui si presenta il criterio messo dinanzi dal senatore Loria e in parte accennato in un primo momento, sebbene poi non accolto, dal senatore Mosca e che forma oggetto di emendamenti dei senatori Loria, BadaIoni, ecc. i quali avrebbero proposto negli articoli 2, 4 e 6 come sono stati concordati tra Ufficio centrale e governo, di sopprimere le parole «fino al 30 giugno 1924».
Questo criterio, debbo confessare, che per un certo momento ha anche sorriso a me. In che consiste esso? Consiste nella proroga indefinita delle locazioni con l’aumento delle pigioni pure indefinitivamente crescente.
Ossia si stabilirebbe nella legge che gli affitti delle abitazioni dovrebbero essere prorogati senza limiti di tempo, e pure senza limite di tempo si dovrebbe stabilire una percentuale d’aumento, che i proponenti dicono essere quella del 30, 25, 20 e 15% qual è da noi proposta fino al 30 giugno 1924.
Il carattere indefinito della proroga delle case di abitazione in questo sistema dovrebbe essere congiunto al carattere indefinito degli aumenti progressivi: l’inquilino ha diritto di stare fin che vuole nella casa, e ogni anno su di lui cadrebbe un aumento progressivo del 30 e del 25 e del 20 o del 15% sul fitto.
Quali sono i vantaggi del sistema? Certo non sono pochi. L’inquilino avrebbe una specie di assicurazione assoluta di non restare mai più senza tetto. Un secondo vantaggio: l’inquilino sarebbe spinto a trasformare la sua psicologia (che adesso è quella di restare sempre nella casa finché può, perché gode di un appartamento a un prezzo inferiore a quello che sarebbe il prezzo di mercato), nel senso di prevedere il momento in cui egli dovrà andarsene: perché, finché il fitto da 100 passa a 125, a 150, egli resterà, ma quando sa che in un successivo periodo salirà a 175 a 200 ed a 225 egli comincia a prevedere che verrà il giorno in cui non gli converrà più rimanere e preordinerà i mezzi per andarsene. Nascerà così la psicologia del movimento, ossia si tornerà nella situazione che esisteva prima della guerra, quando vi era gente che entrava ed usciva dagli appartamenti, si vedevano gli «appigionasi» e non era tanto difficile per la gente che arrivava di procurarsi un appartamento. D’altro canto si può ancora aggiungere, a favore di questo sistema, che esso inevitabilmente fa arrivare al momento in cui il fitto politico sarà uguale al fitto economico e quando questo avverrà, il problema sarà bello e risoluto.
Ma se questi sono vantaggi i quali stanno molto bene esposti così in via direi quasi accademica, dottrinale, il fenomeno dovrebbe svolgersi, perché questi vantaggi si attuassero, nella maniera che si è esposto. Ma io dubito che nella realtà si svolgerebbe così. Bisogna tener conto di un’obiezione importantissima fatta dal collega Mosca, il quale ha detto che il sistema potrebbe funzionar bene quando noi fossimo sicuri che la lira non svaluterà di più di quello che sia svalutata oggi. Ma per quanto si possa augurare ed essere fiduciosi nell’avvenire del nostro paese e prevedere una rivalutazione della moneta, non possiamo oggi legiferare in base ad un fatto di cui non sappiamo quasi nulla. Far ciò sarebbe imprudente, in quanto che se la lira seguita a ribassare di valore, cosa monta che l’inquilino debba pagare tutti gli anni un 10 o 15% di più? Egli finirà col pagare sempre meno di prima ed il congiungimento fra i due valori, politico ed economico, non si effettuerà mai.
Ma vi è un’altra osservazione che ha carattere non economico, ma sociale e politico, e che a me pare molto importante. Il sistema funzionerà solo se tutti saranno persuasi della giustizia di una cosa: ossia che mentre la proroga è indefinita, anche l’aumento è indefinito. È molto facile scrivere ciò, ma molto difficile è persuaderne gli uomini: essi finirebbero per scindere le due idee che dovrebbero essere unite e direbbero: io ho diritto di stare in perpetuo in questa casa; questo è un diritto acquisito. Quanto a pagare poi gli aumenti periodici, è un altro paio di maniche. E ne verranno continue agitazioni; ed alle agitazioni di piazza io prevedo che politicamente sarà molto difficile poter resistere.
Ad un dato punto questo sistema si convertirebbe nel diritto assoluto di stare nella casa, senza pagare alcun ulteriore aumento di fitto.
Ora io non so se il Senato voglia questa conclusione, che vorrebbe dire espropriazione, senza quasi indennizzo per i proprietari quali oggi sono.
Senza indennizzo, in quanto che un’altra idea sarebbe difficile far entrare nella mente degli inquilini che, pur avendo diritto di rimanere in perpetuo in una casa, abbiano l’obbligo di far fronte alle imposte crescenti ed alle crescenti spese di riparazione. Quindi ne verrebbe che ad un certo momento il proprietario dovrebbe abbandonare la casa, perché il suo reddito sarebbe certamente inferiore all’ammontare delle imposte e spese su lui gravanti. Io ritengo che il sistema, se pure possa per un certo momento apparire come idealmente accoglibile, nella pratica non possa essere attuato e quindi sia necessario di accogliere il sistema della gradualità, il quale si inspira al concetto informatore del disegno di legge del 18 aprile 1920 e degli emendamenti ora concordati, che è quello di far finire ad una certa data il sistema delle proroghe. Il legislatore deve fare una previsione dell’avvenire, prevedere fino ad un certo punto il momento in cui la situazione normale sarà ristabilita e si potrà rientrare in condizioni di libertà: e deve fissare la data in cui questo ritorno dovrà verificarsi.
A questo punto due sistemi si presentano uno è quello del decreto-legge 18 aprile 1920 e l’altro è il sistema degli emendamenti concordati tra l’Ufficio centrale e il governo.
Il sistema del decreto 18 aprile qual era? Che la smobilitazione o la liberazione delle case per abitazione dovesse esser graduale. Non tutte le case o le categorie di case dovevano essere liberate nello stesso momento.
Si distinguevano le case in quattro categorie: la prima veniva liberata all’1 luglio 1921, la seconda e la terza all’1 luglio 1922 e la quarta all’1 luglio 1923. Il sistema si era raccomandato al legislatore del decreto 18 aprile 1920, in quantoché esso doveva avere per iscopo di spingere gli inquilini della prima categoria a restringere subito la loro domanda di case, perché diventando liberi i loro appartamenti di dieci o di dodici camere, i fitti sarebbero potuti aumentare, come di fatto stavano per aumentare e di fronte a questo aumento di prezzo gli inquilini avrebbero potuto ridurre la loro domanda di case, restringendosi dalle dieci o dodici camere alle otto o sette e avrebbero potuto in queste case trovar luogo i nuovi inquilini, quelli che costituivano le nuove famiglie o gli immigrati nelle grandi città.
Un altro vantaggio del sistema era quello di porre il problema del ritorno alla libertà non in un solo momento. In questo modo il problema politicamente avrebbe avuto un minor peso perché dividendo gli inquilini in tante categorie, le case sarebbero diventate libere un po’ per volta e perciò la pressione politica degli inquilini sarebbe stata meno grave.
Questi i vantaggi che si proponeva il decreto 18 aprile 1920; ma l’esperienza che si è già verificata e che deve servire a qualche cosa quando si tratta di modificare una legislazione vigente, ha provato che gli inquilini della prima categoria dovrebbero essere oggi smobilitati, in quanto dovrebbero lasciare quanto prima i loro appartamenti, quando hanno cercato di restringere la loro domanda di case si sono trovati di fronte ad un muro chiuso: perché gli appartamenti della seconda e terza categoria sono ancora vincolati e quindi non era loro possibile di entrare in questi appartamenti e non potevano perciò restringere la loro domanda di case.
Avevano un bel desiderio di restringersi e di passare dalle dodici e quindici camere alle otto o dieci: tutti gli appartamenti di otto o dieci camere erano e sono ancora occupati da altri inquilini, quindi essi sono costretti a rimanere nelle case dove si trovano perché non sanno dove andare a stare. Il problema dei senza tetto si presenta così all’1 luglio 1921 anche per questa categoria di inquilini, cosicché l’agitazione è già cominciata e minaccia di propagarsi anche agli inquilini della seconda e della terza categoria inquantoché la data dell’1 luglio 1922 non pare oggi così lontana come poteva sembrare al legislatore al 18 aprile 1920 e cioè quasi un anno addietro.
Per questi motivi l’Ufficio centrale ha finito di accogliere il sistema della data unica della smobilitazione delle case e cioè quella dell’1 luglio 1924. Il sistema della data unica della liberazione delle case presenta dei vantaggi, inquantoché esso è equo od iniquo egualmente per tutti i proprietari; non ci sono più i proprietari delle case ricche, i quali avrebbero avuto immediatamente la libertà ed i proprietari delle case povere che sarebbero ancora vincolate; tutti sono trattati alla medesima stregua, la quale potrà sembrare equa agli inquilini ed iniqua ai proprietari, ma ha il requisito di essere eguale per tutti. In secondo luogo questo sistema è anche equo verso tutte le categorie di inquilini inquantoché il principio dal quale è partito il decreto del 18 aprile 1920 e cioè che possono più facilmente sopportare gli aumenti di fitto coloro che abitano appartamenti al disopra delle sei, delle quattro o delle cinquemila lire, non può essere accolto senz’altro, inquantoché non vi ha in esso i caratteri della verità evidente; poiché è molto dubbio che le classi che abitano in quegli appartamenti abbiano avuto aumenti di reddito come quelle altre classi che abitano gli appartamenti della terza e quarta categoria; ed anzi è probabile che spesso costoro hanno avuto aumenti di reddito coi quali potrebbero più agevolmente sopportare un aumento di affitto che non gli inquilini della prima e seconda categoria.
Inoltre il sistema della proroga ad una data fissa presenta ancora il vantaggio di abituare tutti gli inquilini ad un aumento graduale di fitto.
L’idea del ritorno alla libertà è inscindibile dall’idea del passaggio del prezzo politico delle case a quello economico e siccome oggi il prezzo politico è più basso di quello economico, dobbiamo ammettere come base del nostro ragionamento che gli affitti debbano andare aumentando. Ora se gli affitti debbono aumentare, è meglio che aumentino gradualmente e questo aumento sia un’abitudine mentale che entri nella testa di tutte le categorie di inquilini, i quali si abituino così a pagare un po’ più di quello che pagavano prima, avvicinandosi così al fitto economico.
Dato che questo è il sistema che doveva finire per essere accolto, quale era la data la quale s’imponeva? La data scelta fu quella del primo luglio 1924. Dal nostro punto di vista la data del primo luglio 1924 ha questa caratteristica, che essa significa un prolungamento di un anno per l’ultima categoria. L’ultima categoria andava già fino al primo luglio 1923 se questa legge doveva essere un beneficio per tutti gli inquilini, doveva esserlo anche per l’ultima categoria, e ad essa non poteva darsi una proroga ulteriore inferiore ad un anno.
Aggiungo che non poteva farsi a meno di dare tale beneficio anche agli inquilini di quarta categoria in quanto che, sempre allo scopo di perseguire la gradualità del passaggio, fu ritenuto opportuno d’applicare anche agli inquilini della quarta categoria un aumento di affitto annuo del 15%. Ora ciò poteva essere un danno per essi se non si fosse prorogata la data. Poteva essere per essi un danno in quanto che essi già godevano, in virtù del decreto 18 aprile, il diritto di stare nelle abitazioni soltanto con aumento del 10% dopo quello che è già in corso nel semestre attuale. Ora, poiché si riteneva giusto di aumentare questo 10 a un 15%, era necessario che all’onere che si arrecava per tal modo agli inquilini, corrispondesse il vantaggio di una proroga maggiore almeno di un anno.
Si conclude perciò che questa data del primo luglio 1924 è stata una data quasi forzata, a cui si è venuti spinti dalle circostanze: e stabilita questa data per gli inquilini di quarta categoria, essa, per il principio della data unica per tutti, era determinata senz’altro per gli inquilini delle prime tre categorie.
Questa data non è né troppo lontana né troppo vicina. Ieri è stato affermato dai senatori che hanno partecipato alla discussione, che la proroga di un anno solo è una proroga troppo breve. Io credo però che sarebbe stato inopportuno di andare al di là di questi tre anni concedendo un beneficio maggiore.
Appunto per tener conto di quelle considerazioni che io ho fatto dianzi, ossia che noi non possiamo fare delle previsioni le quali siano abbastanza fondate, intorno a quello che sarà la potenza di acquisto della lira, quello che sarà il livello dei salari, dei redditi, dei guadagni in un periodo molto lontano, noi dobbiamo fermarci al minimo possibile. Questo minimo possibile era determinato dall’anno di più in confronto agli inquilini di terza categoria, e quindi è giunta irresistibile la conclusione che il periodo migliore da adottarsi fosse quello del triennio che arriva fino alla data del primo luglio 1924.
Gli aumenti che sono stati proposti negli emendamenti concordati sono aumenti intorno a cui si può discutere. Le cifre che sono state proposte non hanno in se stesse nessun carattere assoluto di giustizia. Non si può a priori e in virtù di principi generali affermare che noi siamo stati nel vero e nel giusto assoluti quando si è detto che gli inquilini di prima categoria, oltre al 40% che essi hanno già in corso di pagamento dall’1 novembre 1920 al 30 giugno 1921, debbano pagare ancora il 30% in più per il 1921/22, un altro 30% per il 1922/23,e un altro 30% per il 1923/24. Così pure non si può assolutamente dire che sia giustizia assoluta il dire che gli inquilini della seconda categoria debbano pagare per ognuno di quei tre anni di proroga un 25%; quelli della terza categoria 20% e quelli della quarta un 19%. È questione di arbitrio personale e il giudizio può essere al riguardo molto vario. In fondo io ritengo che siano aumenti equi e che contemperino bene le ragioni esposte tanto dai proprietari quanto dagli inquilini.
Ritengo che se un rimprovero può farsi a queste percentuali (un rimprovero non dal punto di vista politico e sociale, ma dal punto di vista economico) è che esse sono assai modeste. Noi non dobbiamo mai perdere di vista la meta a cui dobbiamo giungere che è l’equiparamento graduale del fitto politico al fitto economico. Ora il fitto economico già oggi, e probabilmente anche di qui a tre anni, sarà parecchio superiore a quello che risulta dall’applicazione di queste percentuali di aumento. Alla data dell’1 luglio 1924 gli inquilini di prima categoria pagheranno (se queste proposte fossero approvate) in confronto al fitto che era in corso alla data del 18 aprile 1920, un affitto cresciuto del 130%, quelli di seconda categoria a quella data pagheranno il 100% in più: quelli della terza, che sono più numerosi, pagheranno il 75% in più; infine quelli della quarta categoria pagheranno il 55% in più.
Quindi mi pare difficile che questi aumenti siano sufficienti almeno a riportare il fitto politico al livello del fitto economico. Ma anche qui nessuna previsione precisa può esser fatta e bisogna ritornare al punto di vista sociale e politico, secondo il quale non si deve creare troppo malcontento né da una parte né dall’altra.
L’elemento politico è imponderabile, ma una assemblea governativa bisogna ne tenga conto ragguardevole.
È certo che l’aumento stabilito per la categoria ultima, in base a cui furono calcolati gli altri, perché gli altri risultano da un aumento progressivo del 5%, quel 15% che è stabilito per l’ultima categoria non pecca di eccessiva severità; è un aumento che può essere agevolmente pagato.
Ho sentito ricordare dianzi dal senatore Pozzo un aneddoto, che avrebbe dovuto raccontare un altro nostro collega: quello di una povera proprietaria di casa, la quale si trova nella impossibilità di sfamarsi, mentre gli inquilini portano a casa alti salari; questo è un caso frequente; infinite lettere ho ricevuto di casi miserandi di piccoli proprietari che hanno investito tutto il loro risparmio in una piccola casa ed oggi per il crescere delle imposte e spese non ricevono quasi più alcun reddito dalle proprie case; mentre i loro inquilini godono di redditi assai elevati.
Mi permetto di esporre al Senato i risultati di alcune tabelle le quali si riferiscono ai salari che sono percepiti da nove famiglie di operai, i quali lavorano in stabilimenti tessili di una regione dell’alta Italia. In quelle tabelle sono indicati il nome e la località dello stabilimento, il nome e cognome dei capi di famiglia, il nome e la professione di ognuno dei membri della famiglia: sono tabelle di attendibilità certa.
Uno di questi capi di famiglia, il quale lavora nello stabilimento, avendo alle sue dipendenze cinque figli, porta a casa un salario complessivo di lire 99,80 al giorno; tenendo conto di 300 giorni lavorativi, il salario complessivo annuo è di lire 29.940. Questo salario complessivo oggi deve essere ancora aumentato di circa 400 lire a testa in virtù di un successivo aumento, derivante da un concordato non ancora applicato e quindi non risultante dai fogli paga.
Un secondo capo di famiglia, il quale ha con lui due figli e la nuora, che lavorano nello stabilimento, porta a casa ogni giorno lire 65,60 e guadagna all’anno 19.680 lire.
Altri hanno lucri per 5 persone di 21.775 lire, per sei persone di 25.410 lire, per cinque persone, di 24.000 lire, per tre di 20.940 lire, per nove persone di 38.400 lire, per sei persone di 28.680, per sei persone di 26.680, lucri che vanno tutti aumentati di una cifra che oscilla tra le 2.000 e le 3.000 lire a causa dell’ultimo aumento di cui ho parlato.
Orbene, queste famiglie, le quali ottengono salari a cui invano potrebbe aspirare la grande maggioranza della media borghesia e degli impiegati, di solito si lamentano moltissimo degli aumenti moderati di affitto che la società che le impiega voleva richiedere. Questi aumenti di affitto avevano per solo intento di permettere alla società costruttrice delle case operaie di far fronte alle spese d’imposte e di riparazioni senza rimetterci. La società aveva il desiderio plausibile di esser proprietaria di case senza godere alcun reddito e di non fare al tempo stesso alcuna spesa. Eppure anche questo aumento moderatissimo di circa una lira per settimana e per appartamento non fu consentito; probabilmente esse appartengono ad un ceto i cui rappresentanti fanno la più fiera opposizione al disegno di legge che sta dinanzi all’altro ramo del Parlamento.
Aggiungasi che mentre si concedono gli aumenti graduali ora detti le imposte di ogni fatta vanno vertiginosamente aumentando sulle proprietà edilizie. È molto probabile che gli aumenti stessi nella maggior parte dei casi siano totalmente assorbiti ed al di là, degli aumenti di imposta e sovrimposta: dimodoché i proprietari di case, immagino sarebbero ben lieti di ottenere aumenti uguali alla metà di quelli concordati, ove ad essi però fosse data facoltà di rivalersi sugli inquilini di metà delle imposte e sovrimposte su di essi gravanti.
Dunque a me sembra che gli aumenti di pigione che sono stati proposti dall’Ufficio centrale possano essere accolti come abbastanza equi e come tali da non parere eccessivi agli inquilini.
Noi non possiamo sapere precisamente quali saranno gli eletti della gradualità che noi abbiamo proposto negli emendamenti concordati; sarebbe augurabile che questi effetti potessero essere quelli di avvicinarsi alle pigioni economiche alla scadenza dell’1 luglio 1924. Ma per ora questo è solo un augurio che potrà avverarsi se contemporaneamente avranno luogo molte altre circostanze su cui tornerò in fine del discorso.
Certamente però questo sistema permette di attenuare alquanto la rapidità di quello spostamento delle classi sociali a cui accennava ieri il senatore Mosca. La lotta maggiore che si è creata, intorno a questi decreti limitativi, pare a me che non sia quella tra proprietari e inquilini. Il proprietario è bensì in contrasto d’interesse con gli inquilini, ma in contrasto d’interesse passivo; il contrasto maggiore, attivo è tra le classi che sono rimaste socialmente ferme e quelle che sono salite. Questo è il vero contrasto fondamentale d’interessi che esiste nel momento presente. Ci sono classi sociali il cui reddito è rimasto invariato, sono quelle per esempio, in parte degli stessi proprietari di case, dei possessori di rendite fisse, dei possessori di fondi affittati, dei pensionati e degli impiegati delle categorie medie ed alte (non oserei dire degli impiegati di categorie minori, perché dalle relazioni presentate a noi e specialmente da quella del senatore Riccardo Bianchi, abbiamo imparato quanto fu forte l’aumento di stipendio concesso ai ferrovieri di categorie più moderate, i quali hanno veduto aumentare il salario di cinque, sei, sette volte tanto).
Esiste una categoria della vecchia, media ed anche della ricca borghesia antica, la quale ha veduto i propri redditi stazionari; mentre vi sono classi di commercianti, di industriali ecc. che si sono arricchite ed hanno veduto aumentare i propri redditi.
Questa seconda categoria aspira, e non si può reprimere questa sua aspirazione, ad impadronirsi degli alloggi appartenenti alla prima categoria, e per attuare questa sua aspirazione offre un prezzo maggiore ai proprietari di casa. Questi non sarebbero uomini economici se non tendessero l’orecchio a queste offerte; ma non sono essi che creano l’offerta maggiore di prezzo, sono le classi che offrono dei prezzi maggiori con cui si mettono in contrasto con le categorie che oggi stanno nelle case. Ora, sembra a me opera socialmente e politicamente utile fare in modo che il passaggio delle case dalla vecchia borghesia che scende alla nuova che sale, avvenga un po’ gradualmente: può anche darsi che se questo passaggio è alquanto frenato e non avviene con impeto, quando ci troveremo all’1 luglio 1924 le nuove classi ascendenti si troveranno un po’ moderate nella loro ascesa, e se l’aumento dei redditi non seguita a pronunciarsi come si è pronunciato in passato, se si può verificare in questo aumento qualche attenuazione, e ciò può darsi ove si verifichi una moderata rivalutazione della lira, allora le classi antiche potrebbero meglio resistere alla ondata ascendente delle classi che vogliono impadronirsi dei loro appartamenti, il che vuol dire che all’1 luglio 1924 può darsi, che per la rivalutazione della lira, e per nuove offerte di case, i fitti siano economicamente meno elevati di quello che sono oggi. In tale caso la vecchia borghesia avrà potuto conservare la propria situazione rispetto al godimento della casa e saremo passati attraverso alla crisi, senza che essa si producesse in tutta la sua intensità. Se è invero lodevole l’aspirazione delle classi che salgono ad avere una casa migliore (ed è un intendimento questo che deve essere aiutato dalla legislazione) d’altro canto non si può misconoscere il fatto, che coloro che si vedono spossessati dei loro alloggi provano un dolore molto vivo. Quindi, se per mezzo di questo periodo di transizione, riusciremo ad attenuare, da una parte il piacere e dall’altra il dolore, avremo fatta opera socialmente meritoria.
E passiamo all’esame del secondo disegno di legge che è quello del commissario degli alloggi (Voci: Oh! Oh!).
Questo è il decreto che ha suscitato l’opposizione più viva del Senato e anche le critiche più acerbe, ma credo che i miei colleghi dell’Ufficio centrale siano d’accordo con me nel non inacerbire queste critiche.
L’Ufficio centrale ha detto la sua opinione intorno alla funzione e all’efficacia di questo commissario degli alloggi.
Noi siamo scettici intorno al risultato che il commissario degli alloggi potrà avere; non possiamo certamente affermare che questo commissario degli alloggi possa riuscire ad essere fecondo di utili risultati dal punto di vista della più equa ripartizione delle case, possa riuscire ad ottenere quello svuotamento degli appartamenti troppo tenuemente abitati. Sono queste le aspirazioni del decreto-legge, ma non si può sperare che tali aspirazioni abbiano a tradursi in realtà.
D’altro canto, a tenerci lontani dalla severità della critica pronunciata da parecchi senatori, ci convince una considerazione, che cioè, questo decreto-legge è un decreto, il quale forse anche nel pensiero del governo rappresenta un meno peggio in confronto a quello che si sarebbe verificato se il decreto stesso non esistesse. Se il decreto non esistesse, esisterebbero dei poteri ugualmente arbitrari e forse ancora più gravi che i prefetti si arrogherebbero in base alla legge comunale e provinciale.
Abbiamo avuto esempi lamentevoli di esercizio del potere dei prefetti e non so se in sede di legislazione si potranno limitare i poteri dei prefetti; è una questione che non è tanto di legislazione quanto di amministrazione e di nervi a posto da parte del governo di fronte ai cosidetti moti popolari, il cui timore provoca talvolta un eccessivo panico nei prefetti e li spinge a irriflessivi provvedimenti.
Mi auguro che i prefetti in avvenire non si lascino travolgere da paure eccessive e non diano peso a dimostrazioni di inquilini che non sono forse mai stati tali; ma sta di fatto che un potere lato e indefinito dei prefetti esisteva, che i prefetti se ne servivano a loro libito e in guisa tale da gravemente pregiudicare i diritti degli inquilini e dei proprietari.
Lo scopo del governo, se me lo voglio ricostruire, non può essere stato se non quello di porre un vincolo, con l’istituzione dei commissari degli alloggi, all’esercizio del potere prepotente dei prefetti.
Noi dell’Ufficio centrale abbiamo esaminato il decreto-legge da questo punto di vista, da quello cioè dell’esistenza di un potere arbitrario, di cui il potere politico si sarebbe prevalso egualmente dato che la legge comunale e provinciale esiste.
Noi abbiamo cercato soltanto di fare in guisa che i poteri del commissario agli alloggi fossero, per quanto è possibile, limitati; abbiamo cercato di legarlo, quanto più era possibile, in guisa che la sua podestà di male fosse ridotta al minimo possibile. (Si ride). E mentre il decreto-legge del governo istituiva soltanto una Commissione consultiva e dava all’arbitrio del commissario degli alloggi facoltà di consultare o non consultare questa Commissione, noi ripetutamente abbiamo posto al commissario degli alloggi l’obbligo di sentire almeno questa Commissione; in alcuni casi più gravi si è detto che il commissario degli alloggi deve non solo sentir la Commissione, ma operare in conformità del parere di essa, e, in un caso gravissimo, che è quello della divisione dell’abitazione, abbiamo detto che esso deve non solo sentire il parere conforme, ma questo parere conforme deve essere unanime per permettere al commissario degli alloggi di introdursi entro le famiglie. Legami maggiori di questi credo che, posta l’istituzione, non fossero possibili di poter creare.
Ancora l’Ufficio centrale ha cercato di regolamentare nel caso in cui si trattasse di parecchie abitazioni di proprietà o affittati da una determinata persona; abbiamo cercato di indicare i casi nei quali al commissario degli alloggi sia consentito di portar via qualche cosa a colui che occupa un appartamento della città e una casa di campagna o al mare; abbiamo cercato di stabilire le circostanze che il commissario degli alloggi deve valutare, e deve valutare la Commissione per permettere l’occupazione della seconda o terza casa posseduta dall’inquilino; ed a questo proposito (abbiamo) indicato i rapporti famigliari, le esigenze di salute, le esigenze relative all’amministrazione del patrimonio dei membri della famiglia.
Nei casi dei subaffitti ci si trovò di fronte ad un problema delicatissimo. L’Ufficio centrale ha negato all’inquilino il diritto al subaffitto totale del proprio appartamento contro la volontà del proprietario, inquantoché il consentire all’inquilino il diritto di subaffittare anche contro il divieto espresso del proprietario, tutto l’appartamento è tale una sopraffazione dei diritti del proprietario che a noi è parso di non poterlo accogliere.
L’on. Mosca interrompe: «E avete fatto bene».
L. EINAUDI continua:
E quindi si afferma il principio che il subaffitto debba essere parziale, perché se fosse totale l’inquilino potrebbe esercitare una speculazione ed ottenere un reddito maggiore da una cosa che non è sua. Ciò che dal punto di vista collettivo importa, non è che vi sia l’uno piuttosto che l’altro…
Interviene l’on. Sonnino: «Fa lo stesso: l’inquilino affitterà i nove decimi dell’appartamento».
L. EINAUDI prosegue:
Si potranno anche accordare dei temperamenti, ma il principio che abbiamo voluto stabilire è che il subaffitto sia parziale e che deve essere esercitato con grande cautela, dovendo essere consentito al proprietario un certo diritto di preferenza sul subaffitto che l’inquilino avrebbe scelto.
L’Ufficio centrale propone altresì una variante di notevole importanza al decreto-legge presentato dal governo qual è quella della soppressione totale dell’art. 28. Questo articolo consacrava una specie di diritto al Ministero dell’Industria e commercio, su proposta e parere dell’Ente nazionale delle industrie turistiche, di impadronirsi delle ville e dei palazzi di proprietà altrui, quando paresse che questa occupazione fosse conveniente al progresso dell’industria alberghiera. All’Ufficio centrale è parso che questa facoltà concessa ad una classe di albergatori di occupare la casa altrui fosse inammissibile, in quanto che, è vero che l’industria alberghiera è meritevole di progredire e contribuire alla ricchezza italiana con l’introduzione di divisa estera nel nostro paese, ma è vero altresì che non può essere comportato in nessuna maniera che i forestieri vengano ad ottenere fra noi il godimento di palazzi e ville a prezzo inferiore a quello che sarebbe il prezzo giusto di mercato. Se vogliono godersi i palazzi e le ville, paghino l’intero prezzo che sul mercato esse valgono (approvazioni). È certamente difficile di poter presumere che un proprietario a cui si offre l’intero prezzo corrente di un palazzo o di una villa si rifiuti alla vendita per mero capriccio: si rifiuterà quando al palazzo o villa annetta ricordi di famiglia, affezioni particolari, le quali debbono essere tutelate in ogni maniera, perché valgono quanto, se non forse più, di qualsiasi vantaggio si possa arrecare all’industria alberghiera.
Interviene a questo punto l’on. Alessio, ministro dell’Industria e commercio: «Siamo d’accordo sulla soppressione: non posso fare di più!».
L. EINAUDI replica:
Ho parlato appunto per spiegare la soppressione.
Un altro punto su cui l’Ufficio centrale è pure d’accordo col governo, è quello della soppressione, invece della modifica che era stata proposta anche da noi, di tutto intero l’art. 80 (rectius 8), salvo il primo capoverso.
Nelle nostre proposte si era cercato di contemperare un certo diritto che avrebbe avuto il commissario degli alloggi di intervenire anche rispetto alle case nuove. Una più matura considerazione ha persuaso l’Ufficio centrale, ed altresì il governo, che fosse conveniente di abbandonare ogni intrusione del commissario degli alloggi in quelle che sono le nuove abitazioni dichiarate abitabili e costruite dopo il 20 marzo 1919. Bisogna ben porsi in mente, che se non la sola, la principalissima maniera per risolvere il problema delle abitazioni è quella di costruire case nuove; ed una delle maniere per le quali la costruzione di case nuove può essere promossa, e la sicurezza assoluta di coloro i quali vogliono costruire, che nessuno oserà introdursi nelle nuove case a regolamentare i fitti e le condizioni di abitazione delle case stesse; altrimenti le case non saranno assolutamente costruite. Queste argomentazioni parvero persuasive a noi ed al governo, cosicché si propone che l’articolo cada salvo quanto si riferisce al primo capoverso il quale afferma che le attribuzioni conferite al commissario del governo non possano essere esercitate per gli edifici dichiarati abitabili e costruiti dopo il 20 marzo 1919.
Dovrei ora passare a trattare dell’argomento delle controversie nei riguardi delle locazioni dei negozi, ma pregherei mi fosse consentito un breve riposo.
Il presidente accorda una breve sospensione del dibattito. Quindi L. EINAUDI riprende la parola:
La sola questione generale della quale mi conviene ancora occuparmi è quella relativa all’ultimo dei provvedimenti che ci sono presentati col disegno di legge n. 273, relativo alle controversie sulle locazioni dei negozi. Intorno all’argomento sostanziale del disegno di legge, l’Ufficio centrale è d’accordo col governo, inquantoché esso si limita ad una proroga di un anno delle locazioni dei negozi, proroga le cui condizioni, in caso di controversie tra le due parti, debbono essere stabilite da una Commissione arbitrale: su queste non vi è alcun contrasto. Trattasi di un provvedimento, il quale ha la stessa natura di quello del decreto-legge 18 aprile, ossia ha lo scopo di permettere un passaggio dalla condizione di vincolo assoluto alla condizione di assoluta libertà. Il metodo del passaggio è stato qui risoluto in una maniera alquanto differente da quella tenuta nell’altro decreto-legge, perché qui si è accolto il concetto della Commissione arbitrale, e in verità la materia era così differente, le classi sociali interessate erano così diverse, così economicamente capaci di discutere tutto, che era opportuno che un altro sistema fosse seguito.
Nelle case di abitazione sarebbe stato forse inopportuno, come ho detto, il criterio delle commissioni arbitrali, in quantoché, caso per caso, si sarebbe dovuto discutere intorno alla singolarità degli affitti e si sarebbero dovute andare esaminando l’altezza e la tenuità dei singoli affitti, circostanze tutte le quali è molto difficile valutare. Nel caso dei negozi invece noi ci troviamo di fronte a due parti contraenti, proprietario e negoziante, le quali non contrattano sul luogo l’abitazione, sul tetto da cui si ha paura di essere espulsi, contrattano invece intorno ad uno strumento del commercio, a uno strumento dell’industria, e quindi sono parti le quali più facilmente possono venire ad accordi. Nel caso poi in cui non vengano ad accordi, per questo anno, vi sarà una Commissione che stabilirà il quantum dell’affitto tenendo conto delle circostanze che opportunamente, secondo me, il disegno di legge stabilisce, ossia quella della svalutazione della moneta in relazione all’epoca dell’inizio del contratto e alla sua durata successiva (formula che io ritengo molto felice), in relazione all’importanza degli oneri che gravano sulla proprietà fondiaria, ai cambiamenti seguiti nel valore dei locali affittati in conseguenza dell’avviamento procurato dal commerciante.
E fin qui l’Ufficio centrale è stato concorde. La controversia è sorta nell’Ufficio centrale soltanto a proposito della lettera c) dell’articolo 3 e dell’articolo 6, i quali riguardano la questione della proprietà commerciale. E a questo proposito l’Ufficio centrale è rimasto diviso in una maggioranza e in una minoranza; una minoranza la quale propendeva ad accogliere il progetto del governo, e una maggioranza la quale invece ritiene più opportuno che queste disposizioni siano non respinte ma stralciate da questo disegno di legge e collocate in un disegno di legge apposito il quale regoli questa materia.
Le ragioni le quali possono essere addotte da una parte e dall’altra sono forse egualmente gravi. Ricorderò prima quelle del governo che sono anche quelle della minoranza dell’Ufficio centrale.
Qui si trattava di creare un nuovo istituto, l’istituto della proprietà commerciale, ossia di dividere per così dire idealmente o economicamente un certo bene che si assomma in un negozio o in una bottega, in due parti una delle quali sia la parte edilizia o fondiaria, l’altra la parte commerciale.
C’è il locale della bottega che ha un valore di costruzione, un valore in relazione al pregio della sua costruzione ed anche in relazione alla situazione in cui il locale si trova; questo è il valore edilizio. Poi c’è accanto ad esso un valore commerciale il quale si concreta nell’avviamento che il negoziante ha saputo imprimere all’azienda durante il tempo in cui egli ha locato il negozio. Questo avviamento ha un’origine personale, dipende dalla sua abilità, dalla sua intraprendenza, dal suo saper fare in confronto della clientela ed è cosa la quale perciò ha carattere nettamente distinto da quello della proprietà edilizia, e si può perciò chiamare come ha fatto la relazione del disegno di legge governativo, «proprietà commerciale».
Il governo e la minoranza dell’Ufficio centrale ritengono che giustamente si debba riconoscere questo principio della proprietà commerciale, che si debba riconoscere che la proprietà commerciale, ossia l’avviamento creato dal negoziante o dal commerciante, debba rimaner cosa sua anche alla scadenza della locazione, e non debba essere usurpata dal proprietario della casa. Essi ritengono che si tratti di un caso di indebito arricchimento in cui anche secondo le regole del diritto comune il negoziante avrebbe diritto ad una azione contro il proprietario, usurpatore di una cosa la quale è stata creata da lui e di cui si appropriasse indebitamente il proprietario.
Il governo nota che anzi egli è stato molto prudente nella definizione della proprietà commerciale in quanto non ha affermato un principio generalissimo, ma ha affermato soltanto il diritto a un compenso da assegnarsi a un conduttore dal proprietario nell’ipotesi che questi o direttamente o con un diverso conduttore riesca a trar profitto dall’avviamento procurato al negozio dal primo conduttore e all’articolo 6 dice che si ha diritto di ottenere il compenso soltanto quando il predetto proprietario o il nuovo conduttore esercita la stessa industria e lo stesso commercio del passato. Quindi non basta che ci sia un altro che venga in quel negozio, occorre che colui che viene eserciti la medesima industria o il medesimo commercio. In quel caso il governo afferma che il proprietario che esercita la medesima industria usurpa una proprietà altrui e che quindi la legge deve riconoscere questa proprietà che è di un altro: il negoziante che esce ha diritto ad un compenso per questo avviamento.
L’onorevole senatore Loria ha ricordato ieri gli esempi della provincia irlandese dell’Ulster, nella quale un istituto consimile ha fatto la fortuna dell’Irlanda e ha contrapposto l’Ulster protestante all’Irlanda cattolica, notando come questo istituto sia causa della pace sociale dell’Ulster. Non so se questo istituto non esista altresì anche nell’Irlanda cattolica, in quanto che per leggi successive la proprietà rustica irlandese è ormai quasi completamente passata dalle mani dell’antica nobiltà nelle mani dei contadini, perché si è riconosciuto il diritto a un fitto fisso, non aumentabile se non dietro sentenze di certi tribunali. Ad ogni modo, il precedente ha valore e debbo riconoscerlo e ripeterlo; forse non era necessario andare tanto lontano, perché abbiamo nella nostra legislazione statutaria e nella legislazione che seguì esempi luminosi di riconoscimento della proprietà commerciale; nella legislazione toscana c’è il diritto d’entratura che corrisponde a quella che sarebbe la proprietà commerciale di oggi; diritto sancito anche dagli statuti comunali e dalla legislazione posteriore. Ci sono trattati reputatissimi intorno a questa materia, tra cui quello del Fierli. Nella legislazione straniera c’è un progetto di legge, votato dalla Camera dei deputati francese e già presentato al Senato, che riconosce l’istituto della proprietà commerciale.
Detto questo, debbo ricordare le ragioni per cui la maggioranza dell’Ufficio centrale è stata favorevole allo stralcio della lettera c) dall’articolo 3 e dall’articolo 6, ossia, allo stralcio di questo istituto nuovo dal disegno di legge. Le ragioni sono in parte di opportunità e in parte di merito: dal punto di vista dell’opportunità è parso alla maggioranza dell’Ufficio centrale che questo non fosse il luogo del riconoscimento della proprietà commerciale; il disegno di legge si occupa di un fatto completamente transitorio, come quello della proroga per un anno degli affitti dei negozi e perciò questo non è parso a noi il luogo più opportuno per introdurre nella nostra legislazione un principio così importante e fecondo di conseguenze, come quello della proprietà commerciale.
È più opportuno – opiniamo noi – che il governo presenti un disegno di legge speciale che si occupi di tutta la materia e che lo presenti all’opinione pubblica nella sua interezza, senza legami artificiali con un provvedimento transitorio, quale è la proroga per un anno degli affitti dei negozi.
A noi non è parso nemmeno che questo sia il tempo opportuno, in quantoché il momento presente è quanto mai si possa immaginare contrario a scindere nella pratica quella proprietà commerciale che idealmente si può scindere dalla proprietà edilizia inquantoché questa scissione nella pratica presuppone un metro stabile monetario, presuppone che si possano fare paragoni tra un tempo e un altro. Ora nel tempo presente ci troviamo di fronte alla instabilità del valore della moneta e non è possibile riconoscere se l’aumento di valore di un negozio da diecimila lire a centomila o centocinquantamila lire sia dovuto al merito del negoziante o a una svalutazione monetaria. Questa è una obbiezione non di merito ma di opportunità rispetto al tempo; se questo istituto deve essere introdotto, è opportuno che sia introdotto in un momento nel quale non si corra il rischio di attribuire alla classe dei negozianti un valore non prodotto dal loro merito, ma da circostanze che hanno investito le condizioni economiche del mondo, della svalutazione prodotta dalla guerra.
Quindi giovarsi di questo fenomeno transitorio per effettuare il trasporto di ricchezze da una classe ad un’altra è parso a noi inopportuno. Quando la lira si sarà arrestata, nella pratica, si potrà fare la distinzione che è sempre possibile, ma che presenta delle gravi difficoltà e che sarebbe antipatica dal punto di vista sociale.
Non è parso anche alla maggioranza dell’Ufficio centrale opportuno scegliere questo momento, in cui i negozianti e bottegai sono accusati dalla voce pubblica di essersi arricchiti oltre misura, per effettuare a loro favore un controverso riconoscimento della proprietà commerciale. Inoltre è opportuno, e qui entriamo già in parte nel merito, di studiare meglio in un disegno di legge apposito questa materia, anche per accertare le conseguenze d’indole tributaria che deriverebbero dal riconoscimento della proprietà commerciale. Questo riconoscimento porterebbe, come ho detto prima, la scissione ideale di una cosa che oggi è unita, da una parte la proprietà edilizia, dall’altra la proprietà commerciale. Una volta che la scissione è stata riconosciuta in una legge, ne deriva la conseguenza che, o per leggi successive o per giurisprudenza interpretativa di questa legge, si dovrebbe trasportare nel campo tributario la distinzione che oggi si fa dal punto di vista solo economico; e il trasporto nel campo tributario di questa distinzione avrebbe l’effetto che un reddito il quale finora al cessare della locazione entrava nell’economia del proprietario, questo reddito che finora spettava tutto al proprietario, ed era considerato un tutt’uno inscindibile, si dividerebbe in due parti, una considerata reddito della casa, l’altra reddito della proprietà commerciale. Ora solo il primo dovrebbe essere tassato dall’imposta sui fabbricati, il secondo dall’imposta di ricchezza mobile. Le conseguenze tributariamente sono gravi, perché il reddito sul fabbricato è colpito a favore dello stato da un’imposta che oggi batte sul 24%,mentre i redditi commerciali sono colpiti da una aliquota minore; ma sopratutto vi sarà una perdita notevole da parte dei comuni e delle provincie, in quantoché le provincie e i comuni, che oggi hanno un diritto di sovrimposta, normalmente sino ai 60 centesimi per il reddito della proprietà fabbricata, hanno diritto eccezionalmente fino ai 10 centesimi per il reddito commerciale.
Ammesso questo principio noi perderemo una certa somma d’imposta e aggiungeremo un nuovo gravissimo dissesto per le finanze locali.
Io ho obiezioni da fare al riguardo, in quanto che ritengo che il reddito commerciale deve essere tassato secondo la sua natura di reddito commerciale, ma ciò che dico è che se non si può chiudere gli occhi di fronte a questo problema, che deve essere risoluto, lo stato può rinunciare ad avere delle entrate per sé e per conto degli enti locali, ma vi deve rinunciare a ragion veduta, sapendo quali sono le conseguenze inevitabili del provvedimento da lui proposto.
E vengo al merito. Il merito è controverso, in quanto che io non ragiono soltanto dal punto di vista giuridico, e da questo punto di vista mi rimetterei all’avviso degli onorevoli colleghi dell’Ufficio centrale, che sono stati dell’opinione che dovesse riconoscersi l’avviamento. Piuttosto mi riconnetto a punti di vista di carattere economico. Quali saranno le conseguenze del riconoscimento della proprietà commerciale? Questo riconoscimento o sarà una causa, o una delle cause, che potranno aumentare il costo delle merci, potranno rendere più difficile agli uomini nuovi di entrare nel commercio e nelle industrie e di fare concorrenza agli uomini vecchi che avevano quelle determinate industrie. Con il sistema oggi vigente, senza proprietà commerciale, un uomo che sia provvisto di intelligenza e di capacità di negoziare, non deve pagare un diritto di entrata, deve soltanto pagare al proprietario un fitto maggiore in funzione dell’avviamento che al negozio è stato procurato: invece di pagare 10.000 lire pagherà 15.000 lire. Ora per un uomo nuovo è meglio pagare 5.000 lire di più di fitto che non pagare un diritto di entratura al negoziante che se ne va di 100.000 lire o, come in altri casi, magari un diritto più rilevante per botteghe di poca importanza.
È meglio per l’uomo nuovo, di pagare solo 5.000 lire l’anno, perché queste le ricava dalla vendita giornaliera delle merci e non ha bisogno di fare un’anticipazione di capitale, quindi può entrare ad esercitare il negozio senza possedere un forte capitale.
L’esistenza della proprietà commerciale consente l’accesso all’individuo commerciale, solo a chi è provvisto di capitale rilevante; di quel capitale che occorre per pagare il prezzo di entratura ai negozianti che se ne vanno via.
Questa non mi sembra una conseguenza favorevole allo sviluppo della concorrenza commerciale, alla moltiplicazione dei negozianti e al ribasso dei prezzi a favore dei consumatori.
Ho timore che l’istituzione della proprietà commerciale possa condurre, aggiunto ad altri, ad un ostacolo alla diminuzione dei prezzi. Questo ostacolo è della stessa natura di altri ostacoli sorti in questi ultimi anni per dura necessità di guerra. Durante la guerra si è voluto impedire, a chi voleva, di fare concorrenza ai vecchi beati possidenti, colla costituzione di consorzi, in cui hanno avuto diritto di entrare solo coloro che esercitavano quel commercio o quell’industria da un certo numero di anni. Ciò sarà stato necessario, ma ebbe per conseguenza di far nascere la concorrenza. Chi esercitava l’industria e il commercio ha visto rinsaldati i suoi monopoli.
L’istituto della proprietà commerciale codificata per sempre, ho timore che possa produrre questo risultato dannoso.
A questa argomentazione economica si contrappongono vantaggi sociali e politici. Dal punto di vista sociale e politico pare a me certo che l’istituzione della proprietà commerciale possa condurre ad una maggiore pacificazione sociale in quanto che il suo risultato quale sarà? Sarà questo che dopo un certo periodo di tempo i proprietari di case, almeno per i locali destinati a negozi, incorreranno in un rischio maggiore di prima, perché correranno il rischio di andare incontro a controversie per la determinazione dell’ammontare della proprietà commerciale, quindi la proprietà dei piani terreni diventerà meno appetibile per i proprietari di case; essi perciò saranno indotti a vendere i piani terreni precisamente ai negozianti, quindi la proprietà del locale come tale si confonderà di nuovo dopo un certo periodo di tempo con la proprietà dell’avviamento.
L’avviamento e il negozio si confonderanno, ma mentre prima della guerra erano confusi nelle mani del proprietario, dopo lo saranno nelle mani dei negozianti. Sarà una situazione come prima, ma con la trasposizione delle classi proprietarie.
Dal punto di vista sociale è un risultato utile perché avremo sostituito all’unico proprietario di una casa un proprietario dei piani superiori ed altri parecchi proprietari per i negozi, ed allora in una città avremo invece di ventimila proprietari di case, ottantamila, il che è un vantaggio per la pace sociale. Da tal punto di vista la proprietà commerciale merita approvazione, pur sapendo che noi otterremo questo risultato sociale e politico con un costo economico. Anche la pace sociale, da questa moltiplicazione dei proprietari edilizi si avrà sotto forma di un maggior prezzo delle merci. La società pagherà a se stessa questo beneficio perché essendo minore la concorrenza tra i negozianti, il prezzo delle merci sarà maggiore di quello che altrimenti sarebbe stato, ma tanto è grande il vantaggio sociale che mi adatterei anche alla proprietà commerciale se essa dovesse essere feconda di un così notevole bene politico e sociale.
L’argomento è così complesso, così intricato, le facce da una parte e dall’altra sono così varie, che si comprende benissimo come la maggioranza dell’Ufficio centrale sia rimasta esitante ad accogliere senz’altro nella nostra legislazione, così di straforo, questo istituto della proprietà commerciale. Ed è per questo che la maggioranza mantiene il suo voto contrario alla lettera c) dell’art. 3 e all’art. 6 e si rimette alla sapienza del Senato intorno al giudizio che si vorrà dare su questa divergenza di opinione.
Dicevo, poco fa, che la pace sociale si acquista e che noi la compreremo sotto forma di un maggior prezzo delle merci vendute, in compenso del beneficio di avere un maggior numero di proprietari edilizi. La pace sociale la compreremo anche con tutta la legislazione degli affitti. Non è un caso isolato questo dei negozianti poiché esso si ripete per tutte le case. Noi avremo restaurato con questa legislazione o almeno ci saremmo avviati con essa ad uno stato di fatto profondamente diverso che quello che vigeva prima della guerra. Allora l’industria edilizia era fondata sulla divisione delle funzioni: la vecchia teoria economica trovava applicazione anche in questo campo. Si erano nettamente specializzate tre categorie: una prima categoria di costruttori di case, una seconda categoria di proprietari di case, ed una terza categoria di inquilini. La specificazione aveva per effetto di produrre case al minimo costo e di affittarle al minimo prezzo. Vi era infatti una categoria – i costruttori – che non facevano che costruire per rivendere.
Tutte le grandi città italiane si sono ampliate in modo magnifico dopo il 1860 e 1870, per merito in gran parte di questa classe di costruttori edilizi che sono andati fabbricando case, qualche volta con grandissimo rischio: tutti possono ricordare case vuote qui a Roma, frutto delle speculazioni edilizie nel periodo dal 1885 al 1895. Questa classe di costruttori aveva acquistato una abilità e una tecnica speciale per le costruzioni edilizie: aveva impianti propri, proprie maestranze, era in grado quindi di fornire case al minimo prezzo possibile.
Costruiva la casa e la rivendeva ad una seconda categoria, quella dei proprietari. Questa categoria aveva una psicologia speciale: normalmente appartenevano ad essa risparmiatori più prudenti e timidi, gente che non voleva correre rischio, che si contentava di un reddito mediocre: nell’Alta Italia era difficile che le case si acquistassero con un reddito superiore al 4 o 4,50%; si aggirava a poco più e qualche volta a meno, di quello che fosse il reddito della rendita italiana, ora 3,50 per cento. Era gente che credeva in quella maniera di acquistare un massimo di sicurezza (non so se la credenza fosse giusta od erronea come pare bene dire, se si pensa alle limitazioni da cui sono oggi colpiti), impiegava i propri capitali ad un basso saggio di interesse, che dal 4 o 4,50 nell’Alta Italia cresceva un po’ nella Media Italia e a Roma forse giungeva al 5 o 5,50%; sempre basso in confronto ai saggi di rimunerazione in altri impieghi. Data questa combinazione di circostanze di costruttori specializzati e di proprietari che si contentavano di un reddito basso per l’impiego dei loro capitali, i fitti erano i minimi che il mercato poteva fornire ed erano forniti a prezzi che diremo di concorrenza.
Quasi sempre esisteva un certo margine di abitazioni vuote del 2, del 3, del 5% ed, in momenti di crisi, del 10% che serviva da calmiere. Dato questo margine, ognuno che arrivava in una città era sempre sicuro di trovare un appartamento al prezzo di costo, nelle case nuove che si costruivano ai margini delle grandi città. Era una condizione ideale per l’inquilino, che non pagava nulla di più o di meno di quello che era l’interesse corrente ed il rimborso delle imposte e spese sulla casa. Con questa organizzazione l’inquilino aveva sempre la possibilità di spostarsi da una città ad un’altra, da un appartamento piccolo ad uno grande, perché esisteva quel margine che permetteva il soddisfacimento della domanda ai prezzi correnti.
Adesso, invece, a causa della legislazione vincolatrice, noi andiamo avviandoci verso una situazione tutta diversa.
I costruttori vi sono ancora, ma meno specializzati di prima.
Al posto dei costruttori specializzati, che si vanno disperdendo, sono subentrate società cooperative, istituti autonomi e municipi, ed alcuni costruttori privati, che non lavorano più col vecchio sistema di costruire per rivendere in blocco, ma per rivendere ad appartamenti, e che costruiscono solo quando hanno la possibilità o anzi la certezza di rivendere appartamenti.
Quindi c’è una minore specializzazione ed un minore afflusso di costruttori in questa categoria.
La seconda categoria dei proprietari si è andata modificando; è difficile che ci sia qualcuno che acquisti una casa nuova in blocco completa. Chi acquista la casa è colui che vuole andarci ad abitare. È difficile che ci sia qualcuno che abbia capitali disponibili, che può impiegare in buoni del Tesoro a più del 6%, il quale voglia investirli in una casa d’affittare ad altri, sebbene sia stato promesso che le case nuove sono sottratte all’azione del commissario degli alloggi. Egli ha paura dell’ignoto; non vuole aver la mala fama del proprietario al quale, come diceva l’amico senatore Loria, sta ad attendere l’inquilino per piombargli addosso.
Egli si astiene dall’acquistare: e per conseguenza il numero dei proprietari tende a diminuire; per cui data la loro minore concorrenza, è probabilissimo che il reddito delle case tenda a divenire maggiore di quello che era prima. Ora si vorrà investire i capitali in case al 7 od 8%, più un compenso per il maggior rischio che si corre.
La conseguenza ultima sarà forse una situazione economicamente più costosa ma non dannosa dal punto di vista sociale. Noi ci avviamo verso uno stato di cose in cui ogni inquilino tenderà ad essere legato al suo appartamento e ad avere una piena proprietà della casa sua od almeno una certa comproprietà per mezzo di enti autonomi o di cooperative: è un avviamento alla proprietà degli alloggi da parte degli inquilini.
Questo è un risultato politicamente utile, perché si moltiplica sempre più il numero di quei proprietari edilizi che ritengo siano una colonna della stabilità sociale.
Non bisogna mai dimenticare tuttavia che il vantaggio l’otterremmo con un costo abbastanza rilevante; la casa costerà più cara per la minore specializzazione dei costruttori, per l’interesse più elevato; inoltre vi sarà una minore mobilità nell’inquilino, poiché è molto meno facile per esso, quando diventa proprietario, di uscire dalla sua casa, poiché, per far questo, occorre che venda la sua casa e ne compri un’altra, oppure occorre che subaffitti il suo appartamento per andare ad acquistarne un altro. Tutto ciò è complicato. Ma è naturale che tutti i vantaggi sociali e politici che si vogliono ottenere debbono essere pagati.
I progetti di legge che ora stiamo esaminando sono uno dei mezzi con cui si effettua il passaggio da uno stato sociale antico a costi bassi, ad uno stato sociale nuovo a costi più alti.
Tutte le provvidenze che siamo andati esaminando non possono essere fine a se stesse. Questa è una verità fondamentale che mi piace ricordare avviandomi verso la fine.
Dai senatori Frola, Supino e Bergamasco è stato presentato un ordine del giorno al quale l’Ufficio centrale dà la sua piena adesione. Esso dice: «Il Senato, considerando che i provvedimenti straordinari circa gli affitti e le pigioni non possono avere se non una applicazione temporanea ed una efficacia limitata e che soltanto un largo impulso dato a nuove costruzioni potrà risolvere la crisi delle abitazioni, invita il governo a presentare provvedimenti che valgano ad incoraggiare e rendere economicamente possibile la costruzione di nuove case».
L’Ufficio centrale si associa a questo ordine del giorno ed alle proposte manifestate dal senatore Rava nel senso che siano necessarie altre provvidenze per modificare o rendere più tollerabile il sistema tributario vigente rispetto all’industria dei fabbricati.
Il sistema tributario vigente presenta il grande difetto che non stabilisce un vincolo, un limite alla facoltà illimitata degli enti locali a mettere delle sovraimposte, cosicché in molti luoghi gli enti locali, spinti dalle necessità dell’amministrazione della cosa pubblica, hanno commessi dei veri crimini a danno della proprietà fondiaria, elevando la sovraimposta non a 100 centesimi per ogni lira di imposta erariale, ma fino a 300, 500, 700 e anche 1.000 centesimi. Questi sono casi di vera e propria espropriazione della proprietà edilizia per opera della sopraimposta degli enti locali.
Orbene ciò non è favorevole alla costruzione di nuove case. Chi è infatti colui che, possedendo capitali disponibili, voglia costruir case nuove quando abbia bensì la promessa dell’esenzione per un decennio, ma abbia anche la preoccupazione che dopo questo decennio la sovraimposta arriverà ad un’altezza tale da assorbire completamente tutto il suo reddito?
È evidente dunque che una revisione della legge tributaria si impone, se si vuole che le costruzioni di nuove case prendano impulso, quell’impulso che è nei desideri di tutti. Una commissione reale è stata a ciò istituita ed ha anzi già presentato le sue proposte, da quel che ho letto in un comunicato ufficioso, pare che siano riuscite gradite al governo, il quale sta per farne oggetto di un disegno di legge da presentare al Parlamento. Io mi auguro e credo che tutti se lo augurino, che questa presentazione del disegno di legge che ha per iscopo di riformare le finanze degli enti locali avvenga il più sollecitamente possibile. Nelle proposte della commissione Reale erano anche compresi dei vincoli alla sovraimposta, vincoli che non erano rigidi, ma erano quei soli vincoli che in una società democratica si possono immaginare.
E cioè che non si possa aumentare la sovraimposta dagli enti locali a carico soltanto di una data categoria di contribuenti e precisamente dai proprietari di fabbricati, se nella stessa proporzione o in una proporzione definita non sia aumentata la sovraimposta anche sulle altre categorie di contribuenti. Così a volta a volta i proprietari di fabbricati o di terreni o i negozianti o i professionisti non possono essere assunti come teste di turco, su cui la finanza locale possa batter a suo piacimento a seconda del prevalere nell’amministrazione dei diversi partiti. Le imposte cioè devono essere aumentate e magari notevolmente aumentate proporzionalmente su tutti i contribuenti. Questa necessità dell’aumento contemporaneo sui diversi proprietari di terreni, o di fabbricati, sui negozianti, sui professionisti, sui consumatori ed anche sui contribuenti all’imposta progressiva sul reddito, è la sola guarentigia che possa avere una determinata categoria di contribuenti, perché è la sola che faccia nascere delle forze elettorali, giacché nessuna di queste categorie sarà sola, ma tutte avranno un interesse comune a diminuire l’ammontare delle spese pubbliche fatte dai comuni ad ottenere così che la cosa pubblica sia gerita nel modo più economico.
Noi saremo molto lieti se il governo, corrispondendo alle domande da tante parti venute, provvederà alla presentazione sollecita del disegno di legge per la riforma dei tributi locali. Certamente però né gli incoraggiamenti alle nuove costruzioni né un nuovo ordinamento dell’imposta sui fabbricati ed in genere delle finanze locali, potranno essere sufficienti per lo sviluppo dell’industria edilizia e per la produzione delle nuove case.
Occorre un insieme di provvidenze coordinate a questo intento. Io mi limiterò a dire che questo è un problema che troverà la sua soluzione più in mezzi indiretti che diretti. Ad esempio, alla diminuzione del costo di costruzione delle case nuove provvederà largamente la ricostituzione del nostro materiale ferroviario e la ripresa normale e rapida dei trasporti ferroviari, inquantoché, secondo quello che dicono tutti i tecnici, tutte le associazioni di capimastri e di ingegneri, una delle difficoltà maggiori che oggi si presentano è quella non solo di potersi procurare i materiali edilizi necessari, ma soprattutto di poterli ottenere e al costo corrente sul cantiere. Il dissesto dei sistemi dei trasporti ferroviari ha reso difficile la ripresa delle costruzioni in molte località e tutto ciò che servirà a ricostituire il rapido funzionamento delle ferrovie e degli altri mezzi di trasporto gioverà potentemente e forse più potentemente di quel che non possano giovare provvidenze dirette, alla produzione di nuove case al minor costo possibile, minor costo, s’intende, dato il livello attuale dei prezzi.
Un’altra circostanza che potrà indirettamente giovare alla risoluzione del problema delle case è anche la ricostituzione dei trasporti per ciò che si riferisce non solo alle cose ma alle persone. Oggi molte persone avrebbe desiderio di poter andare a star fuori delle città; ci sono ancora nelle vicinanze di parecchie città se non in tutte dei sobborghi in cui si troverebbero appartamenti a prezzi più bassi che nelle grandi città. Ma cosa vale questo se il professionista, se il commerciante, se anche l’impiegato non ha la sicurezza di poter partire ad ora determinata, di poter arrivare all’ora in cui egli è trattenuto dal suo ufficio o dalle occupazioni su? Egli non può andar fuori perché non gli è possibile venire a tempo debito nella grande città. Il riassettamento delle condizioni generali del lavoro e la cessazione della irrequietudine in ogni classe di persone, e quindi anche nel personale dell’amministrazione ferroviaria, potranno essere un coefficiente non ultimo per la risoluzione del problema delle abitazioni.
E finalmente non occorre che io ricordi il coefficiente principe, il coefficiente massimo, ossia quello del ristabilimento dell’equilibrio del bilancio dello stato, in quantoché soltanto il ristabilimento dell’equilibrio del bilancio dello stato permetterà non dico la rivalutazione della lira, ma almeno quell’arresto nella discesa della lira che è una delle condizioni principali perché gli affitti economici non salgano più, perché non salgano più i costi delle costruzioni delle case nuove, e perché si ponga finalmente quello che è il calmiere più efficace, il solo calmiere efficace, contro la ascesa degli affitti, perché tutte le provvidenze che abbiamo qui immaginato per il periodo del trapasso non vengano ad esser rese completamente vane da una diminuzione ulteriore nel valore della lira e da una nuova ascesa dei prezzi. Ho già detto prima, e ripeto ancora una volta concludendo, che perché il sistema della gradualità possa avere buoni risultati è necessario che uno dei termini si fissi, che uno dei termini del problema finalmente cessi dal muoversi, ed è quello dei costi, dei prezzi. I costi, i prezzi non potranno cessare di muoversi se il bilancio non sarà in equilibrio, se finalmente non si ponga termine a nuove emissioni monetarie. (Vivissimi applausi, molte congratulazioni).
La seduta è aggiornata all’indomani, dopo un intervento di Gaetano Giardino.
17 febbraio 1921
Prosegue la discussione generale.Prendono la parola per primi il sen. Frola e l’on. Alessio, ministro dell’Industria e commercio; interviene quindi L. EINAUDI:
Ormai credo che la discussione generale sia conclusa e perciò sarò brevissimo. Certamente la tentazione sarebbe in me grande di ritornare su alcuni argomenti, ma ritengo che sia opportuno, anche quando l’argomento è cosi tentatore come quello che è stato sviluppato ieri dall’onorevole ministro dell’Industria, cioè quello della proprietà commerciale, di rinviare la discussione a quando si discuteranno gli articoli.
Ma vi sono due punti i quali meritano da parte dell’Ufficio centrale almeno qualche dichiarazione, e sono quello del commissario degli alloggi e quello dell’ordine del giorno che è stato presentato dall’onorevole senatore Frola e integrato dall’Ufficio centrale. Su questi due punti, siccome involgono delle questioni di principio, occorre che l’Ufficio centrale esponga la sua opinione.
L’opinione dell’Ufficio centrale è che forse il senatore Mortara, quando ha fatto quelle critiche che abbiamo sentite ieri al decreto-legge al commissario degli alloggi del 16 gennaio, non ha tenuto abbastanza presenti le proposte che erano state presentate dall’Ufficio centrale, e che sostanzialmente erano state accolte da governo.
Queste proposte modificavano, credo, profondamente la natura di quel personaggio che si chiama commissario del governo, perché noi quel personaggio avevamo cercato di legarlo in un modo tale che non potesse più fare nessuno dei mali che il senatore Mortara ha così autorevolmente denunziati in quest’aula. E le critiche che noi abbiamo sentite ci hanno persuaso ad andare ancora un poco più innanzi in quest’opera di legatura, in quanto che noi, dopo la discussione avvenuta, riteniamo che per l’art. 9, il quale riguarda i subaffitti, più convenientemente possa essere abbandonato. Abbiamo ricordata la interruzione del senatore Sonnino, il quale ci diceva ieri che era inutile limitare i poteri del subaffitto al subaffitto parziale, poiché il subaffitto parziale poteva trasformarsi assai facilmente in uno totale.
Questa osservazione è così incisiva che ci sembra debba determinarci ad abbandonare del tutto l’art. 9, il quale costituisce veramente un intervento eccessivo da parte di questo funzionario del governo nella casa privata, nella santità della vita privata.
Così pure le osservazioni fatte intorno all’articolo 11, relativo agli sfratti, dal senatore Mortara ci hanno fatto pensare se forse non era opportuno di abbandonare e di togliere via le parole le quali darebbero autorità al commissario del governo di emanare disposizioni di massima relative agli sfratti. Basterà che, caso per caso, il commissario degli alloggi intervenga a regolare quegli sfratti. Non è necessario che il commissario dia delle disposizioni di massima quasi fosse un legislatore mentre invece è, come ha dichiarato il ministro guardasigilli e ha detto anche il senatore Mortara, un semplice esecutore della volontà del governo.
Con i vincoli vecchi che abbiamo già inseriti nelle nostre proposte, e i nuovi che adesso proponiamo, a noi sembra che l’Ufficio del commissario possa non essere più così spaventoso come era parso a molti, e possa essere quindi conservato, almeno in via eccezionale, finché durano le contingenze attuali.
Non bisogna dimenticare che l’art. 33 bis, da noi aggiunto, e che riproduce le disposizioni dell’art. 19 del decreto legge 18 aprile 1920, pone un limite di tempo alla vita dei commissari per gli alloggi in quanto dice che le facoltà di questi commissari durano per quegli alloggi per i quali dura la limitazione, la proroga ecc. Ora, automaticamente, quando questa proroga, questa limitazione verrà a cessare, anche le funzioni del commissario verranno a cessare. Inoltre noi non ci rifiutiamo di accogliere qualunque proposta per limitare sempre più la durata dell’ufficio del commissario per gli alloggi. Ma fissare una data determinata non si può in quanto che, fissandola, si andrebbe incontro a qualche obiezione di principio. Infatti se questi commissari sono considerati dannosi, essi dovrebbero essere aboliti se si reputa invece che nel momento presente circostanze particolari di ordine pubblico ne consigliano la conservazione, è prematuro poter stabilire oggi il giorno in cui quelle circostanze straordinarie cesseranno.
E vengo all’ordine del giorno Frola cui l’Ufficio centrale aveva fatta un’aggiunta accettata dal senatore Frola al quale, per ciò, porgo i ringraziamenti dell’Ufficio centrale. Questa aggiunta suona in questi termini «ed a sottoporre al Parlamento opportune proposte di riforma dei tributi locali, le quali, disciplinando il diritto di sovrimposta di enti locali, sia direttamente, sia per mezzo di vincoli con le imposte gravanti sugli altri redditi e sui consumi, tolgano un gravissimo ostacolo oggi esistente all’investimento dei nuovi risparmi nell’industria edilizia». Il ministro dell’Industria e del commercio ci invita a trasformare questa aggiunta in semplice raccomandazione perché non sa se la nostra proposta corrisponda alle direttive del governo. Io ricordo che l’invito che noi facciamo corrisponde a norme contenute nella legislazione vigente e precisamente nel decreto 25 [rectius 24] novembre 1919, la cui applicazione è stata rinviata, per difficoltà pratiche, all’1 gennaio 1922. Questo decreto del 1919 esplicitamente sancisce questi principi, che ci debbono essere cioè dei vincoli alla sovrimposta, che questa sovrimposta debba essere regolata in guisa che nessuna categoria di contribuenti venga ad essere troppo oppressa in confronto delle altre.
È dunque un desiderio modesto il nostro di chiedere che venga messa in vigore una legge già esistente, e perciò l’Ufficio centrale mantiene questo ordine del giorno. Il compito mio sarebbe cessato se, a nome dell’Ufficio centrale, non dovessi fare una proposta sull’ordine della discussione affinché questa proceda nel miglior modo possibile. Pare a noi che la discussione possa convenientemente cominciare dal decreto-legge che porta il n. 5, cioè il decreto-legge del 18 aprile 1920. La discussione dei 4 primi decreti-legge, siccome è una discussione avente carattere formale, potrebbe essere fatta in ultimo e così se in seguito alle deliberazioni prese qualche modificazione dovesse essere introdotta nei decreti-legge precedenti, potrà essere senza perdita di tempo. Insomma, propongo che si discutano per primi gli ultimi due decreti legge e il disegno di legge, e per ultimi i primi quattro decreti-legge. (Approvazioni).
L’ordine del giorno presentato dall’on. Frola viene letto in aula e approvato per alzata nella prima parte. L’on. Schanzer chiede poi chiarimenti all’Ufficio centrale sul secondo capoverso e L. EINAUDI gli risponde:
Si potrebbe trasformare la seconda parte dell’ordine del giorno in questo modo: «ed invita a sollecitare la discussione del decreto 24 novembre 1919, il quale disciplinando ecc. toglie un gravissimo inconveniente».
Questa stesura, accettata dal governo, è messa ai voti e approvata. Termina cosi la discussione globale dei sette provvedimenti sulla crisi delle abitazioni. Il Senato delibera quindi di esaminare per articoli, secondo l’ordine proposto dall’Ufficio centrale, prima il disegno per la convalida del decreto 14 aprile 1920 (stampato n. 126), poi la conversione in legge del decreto relativo ai poteri del commissario agli alloggi (n. 282), quindi il disegno di legge sulle controversie in materia di locazioni di negozi (n. 273) e infine gli altri quattro decreti (nn. 119, 257, 258 e 259).
Ha quindi inizio la discussione per articoli del disegno di legge n. 126, sulla regolamentazione degli affitti, sul testo emendato dall’Ufficio centrale. Alla lettura dell’art. 1 seguono interventi degli on. Loria, Giardino, Frascara, Mosca, Pozzo e Alessio. Prende quindi la parola L. EINAUDI, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
Io non risponderò a tutte le argomentazioni esposte dai senatori Loria e Giardino inquantoché se lo dovessi fare trascinerei troppo a lungo la discussione.
Perciò mi limito a dire che né il senatore Loria né il senatore Giardino hanno menomamente proposto dei cambiamenti alle percentuali d’aumento che l’Ufficio centrale, d’accordo col governo, ha presentato.
Quindi le percentuali, nei loro intendimenti, possono restare invariate.
Ora, dato che l’emendamento non propone di cambiar nulla, io dico che è meglio prendere il mondo come è, ed aggiustare le cose un po’ per volta. Quando saremo all’approssimarsi al 30 giugno 1924 esamineremo le condizioni di allora ed agiremo in conformità. L’agitazione di cui ha parlato il senatore Loria mi sembra una enorme esagerazione, in quanto io credo che non vi sia nessun inquilino il quale si preoccupi, oltreché delle condizioni attuali, di quelle che si verificheranno a cosi gran distanza di tempo.
Gli inquilini si preoccupano delle scadenze prossime, non di ciò che avverrà dopo il 30 giugno 1924. Quando saremo in prossimità di quella data, il legislatore del tempo provvederà, se lo crederà opportuno, ad emanare le disposizioni più opportune.
Concludendo, dichiaro che l’Ufficio centrale respinge l’emendamento Loria e si tiene fermo all’emendamento concordato insieme col governo.
L’emendamento Loria è messo ai voti e respinto. L’Ufficio centrale presenta quindi il seguente emendamento all’art. 1: al comma 1 sostituire i seguenti: «A datare dall’1 luglio 1921 cessano di avere vigore tutte le disposizioni eccezionali emanate durante e dopo la guerra, in materia di locazione di edifici urbani ad uso di bottega, negozio, magazzino studio, ufficio e simili. Cessano parimenti di aver vigore a partire dall’1 luglio 1924 le dette disposizioni in materia di locazioni di case di abitazione comprese nelle seguenti categorie: alla lettera b) sostituire alle parole “rispettive famiglie” le parole “da fratelli e sorelle”». Il sen. Frascara ne propone immediatamente la soppressione. Interviene quindi L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale non accetta questo emendamento. A questo proposito devo dare un chiarimento: all’art. 1 concordato, per una semplice inavvertenza si è fatta una dimenticanza della lettera A e di quella B, le quali nell’intendimento del governo e dell’Ufficio centrale fissavano norme per gli appartamenti occupati dagli inquilini i quali avessero un patrimonio superiore ad un milione di lire o avessero a loro disposizione o in affitto più alloggi per uso di abitazione nel medesimo comune, se questi alloggi non fossero stati occupati stabilmente da un inquilino o dai suoi ascendenti o discendenti e rispettive famiglie (ed ora da fratelli e sorelle), all’1 luglio 1921 avrebbero dovuto essere lasciati liberi.
Nel testo concordato fu lasciato il testo colla identica collazione, ed allora avverrebbe che anche questi appartamenti sarebbero vincolati fino all’1 luglio 1924. Ma questo non è l’intendimento dell’Ufficio centrale, e sembra non sia nemmeno quello del governo, perché appunto si era detto che dovessero essere messi in libertà tali appartamenti a partire dall’1 luglio E per questo con un emendamento aggiuntivo è bene dire: dopo il comma primo, dell’emendamento concordato «cessano pure di aver vigore dalla stessa data – ossia dall’1 luglio 1921 – le medesime disposizioni per le case di abitazione occupate dagli inquilini i quali abbiano un patrimonio non inferiore ad un milione di lire od abbiano a disposizione, sia in proprietà che in affitto più alloggi per uso di abitazione nel medesimo comune non occupati stabilmente dall’inquilino o dai suoi ascendenti o discendenti e da fratelli e sorelle».
In questa maniera sarebbe conservato il concetto primitivo proposto dal governo ed accettato dall’Ufficio centrale; e si avrebbe l’effetto socialmente utile che gli appartamenti in più, non occupati e neppure da ascendenti e discendenti e neppure da fratelli e sorelle, diventino liberi a partire dall’1 luglio 1921.
Questa è la proposta dell’Ufficio centrale e quindi ne viene per conseguenza che il resto dell’articolo si limita alle categorie di appartamenti indicate per valore di pigione annua e di città e non caratterizzate da condizioni personali all’inquilino.
L’emendamento dell’Ufficio centrale è messo ai voti e approvato. Interviene poi il sen. Polacco, per proporre una modifica all’art. 1 e L. EINAUDI gli risponde, a nome dell’Ufficio centrale:
Io ringrazio il senatore Polacco per la modifica che ha proposto, in quanto che essa risolve molto bene parecchie controversie che sono sorte, perché in verità esiste una contraddizione fra la prima parte di questo comma e l’ultima.
Siccome lo scopo era quello di permettere a coloro che avevano prestato servizio militare di rimanere nei loro studi, proporrei invece che si dicesse: «In cui gli attuali conduttori cessassero di tenere i locali suindicati a scopo di studio».
IlSenato approva per alzata l’emendamento Polacco. Segue un intervento dell’on. Pozzo, a cui L. EINAUDI replica:
Rispondo alle due osservazioni che sono state fatte dal senatore Pozzo. Quanto alla prima della data dell’1 luglio certamente c’è una disparità tra il decreto precedente del 15 agosto e quello del 18 aprile. Ma mi permetto di far notare che forse questa disparità non produce conseguenze di qualche rilievo in quanto che la data stessa dell’1 luglio è solo messa lì perché essa ha un carattere di maggiore uniformità con tutto il resto degli articoli, che partono sempre dall’1 luglio e finiscono sempre col 30 giugno; e praticamente esiste l’art. 7 (a cui occorrerà poi fare qualche variante) che esplicitamente dice che le date stabilite per la proroga delle locazioni negli articoli precedenti «s’intendono sostituite, per i comuni ove i contratti di locazione hanno inizio e scadenza ad epoca consuetudinaria, dalla data consuetudinaria immediatamente posteriore, e anche da quella anteriore più vicina, purché compresa nei due mesi precedenti». Quindi quella data dell’1 luglio ha una importanza indicativa, ma nella realtà quella che avrà importanza è la data consuetudinaria.
Non credo che questo abbia una portata molto grande, ma per euritmia credo che sia meglio mantenere anche qui il testo concordato.
Quanto alla sostituzione del reddito di cinquantamila lire e al non aver l’Ufficio centrale considerato anche il caso in cui la ricchezza fosse sostituita da un reddito professionale e commerciale, mentre fu conservata la misura del patrimonio consolidato di un milione come criterio personale per la liberazione degli appartamenti all’1 luglio 1921, io ho spiegato nella relazione le ragioni di questa soppressione.
Il criterio del reddito è un criterio il quale avrebbe avuto un valore qualora noi avessimo posseduto una imposta che realmente ci desse un certo indice complessivo del reddito del contribuente. Se fosse entrata in vigore l’imposta complementare progressiva stabilita dal decreto 4 [rectius 17] novembre, avremmo saputo il reddito dei vari contribuenti. Ma in realtàci troviamo in presenza di imposte le quali sono stabilite con criteri completamente differenti gli uni dagli altri.
Questo criterio del reddito dava origine a disparità stridentissime fra contribuente e contribuente, in quanto che i contribuenti iscritti nei ruoli per la tassa di ricchezza mobile sarebbero caduti sotto questo articolo, e gli altri, che valendosi della facoltà di rivalsa verso altri enti non fossero iscritti nei ruoli, non sarebbero caduti sotto questo articolo anche se ugualmente e maggiormente ricchi.
L’imposta complementare stabilita dal decreto del 17 novembre 1918 è una imposta parziale claudicante che abbraccia solo alcuni redditi e quindi non può dare un esatto criterio per la valutazione del reddito. La tassa di famiglia è ancora peggio in quantoché la sua misura dipende dai cervellotici criteri degli amministratori dei singoli comuni…
Un’altra osservazione ha poi fatta l’Ufficio centrale nella relazione, ed è questa, che il ricorrere al criterio delle imposte può non essere pericoloso quando si tratti di imposte passate, come lo è l’imposta patrimoniale che si riferiva ad una certa data, 1 gennaio 1920; è una data certa cui ci si può riferire con il metodo del sì e del no, com’è spiegato nell’articolo modificato. Invece quest’altre imposte nuove che ogni anno sono rivedute, e quando il contribuente saprà che una revisione d’imposta da 40 a 60.000 lire gli porterà anche un aumento di fitto notevole, resisterà di più all’aumento dell’imposta e ciò recherà un danno notevole alla finanza. Resisterà, infatti, in funzione dell’aumento d’imposta e in funzione dell’aumento di fitto: è molto pericoloso dunque mettere insieme questi fatti che debbono rimaner separati. Queste sono le ragioni per cui l’Ufficio centrale ha creduto di mantenere il criterio del patrimonio che è quello più giusto: gli altri sono criteri parziali che avrebbero dato, anzi davano luogo a lagnanze infinite. Quanto poi a essersi tolto il cumulo dei patrimoni, anche quello si è fatto per togliere dei motivi di contesa tra proprietario e inquilino. Fino a quale epoca, infatti, questi possono essere considerati coabitanti? Come si può dimostrare che a quella certa data gli ascendenti o discendenti stavano insieme come il capo di famiglia?
Per queste questioni, che è inutile far sorgere, l’Ufficio centrale mantiene la formula che è stata concordata con il governo e non accetta l’emendamento.
L’art. 1, con le modificazioni precedentemente accolte, è messo ai voti e approvato. Il Senato passa poi all’esame dell’art. 2. Il sen. Pozzo propone un emendamento; quindi prende la parola L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale non accoglie la proposta del senatore Pozzo: esporrò brevemente le ragioni di questo diniego di accogliere l’emendamento. In sostanza si tratta di sapere se noi dobbiamo tener ferma una certa data, oppure se dobbiamo riaprire il vaso di Pandora delle liti…
L’on. Pozzo interrompe: «Niente liti!».
L.EINAUDI riprende:
Sì, delle liti che verrebbero iniziate fra proprietari e inquilini, perché ogni inquilino pretenderebbe d’essere stato ingannato dal proprietario, ogni proprietario sosterrebbe che quell’aumento è dovuto a circostanze che non hanno a che fare con le proroghe e gli inganni tesi dal proprietario all’inquilino in virtù di una interpretazione sbagliata di questo decreto-legge. Nessun decreto-legge ha consentito un aumento prima del novembre 1920. Non sappiamo quale origine abbiano gli aumenti consentiti prima: possono avere origine di perfetta giustizia o anche di inganno. Se si accettasse l’emendamento dell’onorevole senatore Pozzo, bisognerebbe che i proprietari restituissero una specie di indebito per il periodo trascorso: sarebbe un tornare sul passato, mentre ciò che occorre adesso è stabilire un punto fisso; togliere le ragioni di controversia ed attuare l’aumento di affitto.
Debbo ripetere a questo proposito ciò che ho detto ripetutamente nelle relazioni stampate e che cioè gli aumenti inizialmente concordati erano basati sul concetto che l’aumento si facesse sul fitto alla data del 18 aprile 1920.
Se si fosse presa come punto di partenza una data diversa ed anteriore, gli aumenti sarebbero stati diversi.
Tutto il sistema è congegnato con quella data, alla quale l’Ufficio centrale si mantiene fermo.
Prende poi la parola il sen. Spirito, proponendo un’aggiunta all’articolo 2. L. EINAUDI replica a nome dell’Ufficio centrale:
Forse il senatore Spirito potrà trovare occasione di presentare un emendamento in sede dell’art. 10.
Il sen. Spirito accetta il rinvio del proprio emendamento alla discussione dell’art. 10. Segue la votazione ed approvazione dell’art. 2 con le modifiche accolte in precedenza, nonché degli articoli 3, 4 e 5 con gli emendamenti proposti dall’Ufficio centrale. Il Senato passa poi all’esame dell’art. 6, su cui prende la parola l’on. Rota. Interviene poi L. EINAUDI:
Mi sembra che ci dovrebbe essere un altro emendamento del senatore Cencelli.
Ilpresidente Tittoni risponde che l’emendamento decade, causa l’assenza del senatore proponente. Il ministro Alessio dichiara a questo punto che ilgoverno respinge l’emendamento Rota; interviene quindi L. EINAUDI, a nome dell’Ufficio centrale:
Di fronte alla proposta dell’onorevole senatore Rota l’Ufficio centrale mantiene fermo l’accordo intervenuto col governo e respinge quindi la proposta stessa.
Certamente si possono addurre ragioni di giustizia a favore dei piccoli proprietari e noi queste ragioni di giustizia non neghiamo; ma vorrei far riflettere che ci troviamo in una situazione particolare e cioè che questa quarta classe di abitazioni aveva una locazione prorogata fino all’1 luglio 1923; noi la proroghiamo invece di un altro anno fino al 1924. Nella situazione precedente questa quarta categoria di inquilini pagava soltanto complessivamente un 20% adesso invece pagherebbe complessivamente un 55%, ossia il prolungamento di un anno in più nella proroga porta ad essi un nuovo aumento del 35% per cento. Questa sembra all’Ufficio centrale una considerazione di cui si debba tener conto nel giudicare la proposta dell’onorevole senatore Rota.
Si procede alla votazione della prima parte dell’art. 6, che viene approvata. Il seguito della discussione è rinviato all’indomani.
18 febbraio 1921
Riprende la discussione per articoli. È all’esame del Senato la seconda parte dell’articolo 6, sul quale l’on. Tommasi presenta un emendamento; L. EINAUDI interviene a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta l’emendamento del senatore Tommasi.
Il sen. Tommasi rinuncia quindi a svolgere il proprio punto di vista e L. EINAUDI riprende:
L’Ufficio centrale accoglie l’emendamento Tommasi ed accoglie del pari quello del senatore De Amicis perché si riferiscono al medesimo articolo. Si tratta di escludere tanto il contributo del riscaldamento quanto quello del portinaio dal computo della pigione e sono due esclusioni che ci sembrano eque.
Gli emendamenti presentati dagli on. Tommasi e De Amicis, messi ai voti, sono approvati dal Senato.
La discussione riprende con interventi dei sen. Cannavina e Spirito, poi L. EINAUDI riprende la parola:
Credo che sia meglio tenersi ai registri anagrafici aggiornati al 31 dicembre 1919, perché il censimento del 1911 non solo è di data remota, ma non corrisponde più alla situazione attuale, poiché sono venuti spostamenti notevoli. Il censimento del 1911 avrebbe un valore storico ma non effettivo; tutto al più si potrebbe accettare l’emendamento dell’onorevole senatore Spirito nel senso che dove non ci sono registri anagrafici si ricorra al censimento.
La discussione prosegue con interventi degli on. Carlo Ferraris, Cannavina, Bollati e Fera, ministro della Giustizia. La seconda parte emendata dell’art. 6 è poi messa ai voti e approvata, e così pure l’art. 7. Segue la lettura dell’art. 8, sul quale prende la parola l’on. Cannavina; interviene, quindi L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale certamente si è reso conto delle ragioni addotte dal senatore Cannavina, ma insiste nella sua formula, in quanto che non si tratta di un astratto ossequio al diritto, ma si tratta di risolvere una questione importante. Poiché quando si dice semplicemente: «s’intende prevalente l’uso di abitazione», accadeva molto spesso, (e di controversie ne erano già sorte, delle quali l’onorevole ministro guardasigilli ne è edotto) che in stabilimenti importanti si cercasse di mettere una stanza o due per uso di abitazione, e si affermava che ciò mutasse l’indole del locale.
Non è una questione astratta, ma molto importante; sembra a noi che la soluzione data nelle proposte di modificazioni dell’Ufficio centrale possano accogliersi.
Il ministro Fera dichiara a questo punto, a nome del governo, di accogliere la dizione proposta dall’Ufficio centrale. L’articolo così emendato è posto ai voti e approvato. Viene quindi data lettura all’art. 9, a proposito del quale il sen. Pincherle aveva depositato un emendamento presso la presidenza. L. EINAUDI prende la parola, a nome dell’Ufficio centrale:
Il senatore Pincherle è assente, ma l’Ufficio centrale non ha difficoltà ad accettare questo emendamento. Si tratta infatti di sostituire dove si dice «che decise inappellabilmente» la frase che sembra più propria «contro i provvedimenti del ministro non si può ricorrere né in via amministrativa né in via giudiziaria».
L’on. Maggiorino Ferraris interviene a questo punto: «Ma questo spostamento di classificazione per le città balnearie solleva interpretazioni diverse. Desidererei sapere dalla cortesia dell’Ufficio centrale o dal governo se questa variazione sarà giovevole agli inquilini oppur no».
L. EINAUDI gli risponde:
Quando si è trattato di questo decreto l’Ufficio centrale si è trovato di fronte al fatto che non tutti i comuni rientravano in quello schema; così che c’erano dei comuni che per le particolarità loro dovevano essere collocati in altra categoria; e sono precisamente quei comuni indicati nell’art. 9 vale a dire quelli di Spezia, Taranto, Brindisi e Caltanissetta.
Esse sono città classificate a parte, perché da un’inchiesta fatta dal Ministero degli Interni è risultato che il livello delle pigioni in quelle città era notevolmente elevato. E altrettanto dicasi per le città balneari che si trovano in una situazione particolare; perciò si è ritenuto di classificarle nei comuni che avevano da 100 a 200.000 abitanti, perché questa categoria comprende comuni con un livello di pigioni presso a poco uguale a quello di tali città. Si tratta di una semplice ragione di giustizia.
Quali ne saranno le conseguenze? Le conseguenze saranno che sarà più elevato il livello delle pigioni che occorre per fare il passaggio ad una categoria superiore. Per esempio, per passare dalla quarta alla terza, dalla terza alla seconda, dalla seconda alla prima categoria di pigioni, occorre che ci sia un livello più elevato: è un vantaggio per gli inquilini perché occorre avere una pigione maggiore per passare a una categoria maggiore: mentre che se la classificazione fosse rimasta quella che era più facilmente si sarebbe passati nella categoria seconda o prima per i comuni al di sotto di centomila abitanti. Per passare nella prima categoria occorre una pigione di 2.400 lire, mentre se si è nella categoria dei comuni da 5.000 a 10.000 abitanti basta avere una pigione di 1.800 lire per passare a questa categoria. In sostanza gli inquilini sono avvantaggiati da questa disposizione.
Il testo dell’art. 9, concordato tra il governo e l’Ufficio centrale, è messo ai voti e approvato. Viene quindi data lettura agli articoli 10 e 11, che sono approvati, dopo interventi degli on. Pozzo, Cagnetta, Frola, Rota e Fera. Il Senato passa quindi all’esame dell’art. 12, sul quale prende la parola per primo L. EINAUDI:
Su questo articolo 12, devo dichiarare che l’Ufficio centrale torna alla formula del progetto del governo, abbandonando la sua perché è parso, dopo le dichiarazioni del ministro guardasigilli, che fosse più opportuno mantenere la competenza del pretore nel cui territorio trovasi l’alloggio locato. È una maggiore semplificazione. Anche i benefici fiscali furono abbandonati in quanto che erano una novità in questo sistema di legge, per il quale si vuol ritornare gradatamente all’ordinamento comune.
L’articolo 12 è messo ai voti e approvato nella stesura ministeriale. Segue la lettura di due articoli aggiuntivi, presentati dall’on. Spirito e che assumono rispettivamente i numeri 12 bis e 12 ter. L. EINAUDI interviene a nome dell’Ufficio centrale:
l’Ufficio centrale non ha difficoltà di accettare l’art. 12 bis quanto che esso costituisce chiarimenti che erano necessari alla legge; ma avendo adesso letto la formula dell’art. 12 ter, l’Ufficio centrale è in dubbio intorno alla necessità di questo articolo inquantoché tutti gli aumenti nelle pigioni sono aumenti automatici che sono portati dalla stessa legge.
Non occorre che ci sia avviso da parte del proprietario: questo non farebbe che complicare le cose e richiederebbe un’inutile corrispondenza.
Dal momento che gli aumenti sono stati stabiliti per legge, che necessità c’è di far passeggiare lettere raccomandate per stabilire un aumento stabilito dalla legge? Una volta che la rinnovazione è stata accordata si intende accordata a queste condizioni.
A questo punto prende la parola l’on. Spirito: «L’osservazione che mi viene oggi dal relatore, ieri non mi sarebbe stata fatta. La mia proposta si riferisce oggettivamente agli articoli 2, 4 e 5 nei quali, mentre è detto che automaticamente si prorogano gli affitti, non è detto che altrettanto automaticamente si verifica l’aumento delle pigioni. Il proprietario, cosi è scritto nel testo dei mentovati articoli, può chiedere l’aumento; è una facoltà che gli è conferita, e se trattasi di una facoltà, dovete stabilire quando egli deve esercitarla, altrimenti si dovrebbero modificare gli articoli già votati. Insomma è necessario per la chiarezza e praticità della legge di determinare quando e come debbano richiedersi gli aumenti; e se restano gli articoli 2, 4 e 5, per intrinseca necessità, ed a complemento dei medesimi, deve accogliersi la mia proposta che aggiunge quello che manca nei citati articoli. Io insisto perciò nelle mie proposte». Interviene quindi l’on. Alessio ministro dell’Industria: «Mi pare che l’Ufficio centrale potrebbe accettare la proposta dell’onorevole Spirito, perché egli si riferisce ad una facoltà del proprietario di poter chiedere gli aumenti. Potrebbe darsi che vi fossero fatti diversi che determinassero il proprietario a non chiedere l’aumento. Se chiede l’aumento è giusto che sia stabilito un termine». L. EINAUDI si associa, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
Anche l’Ufficio centrale allora non si oppone.
I due articoli 12 bis e 12 ter sono messi ai voti e approvati; viene poi data lettura all’art. 13, al quale l’on. Mortara propone un emendamento. Il ministro Mortara dichiara di accettarlo a nome del governo e L. EINAUDI a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale l’accetta.
L’art. 13, cosi modificato, è messo ai voti e approvato. Seguono la lettura e l’approvazione degli art. 14 e 15. Il Senato passa poi all’esame dell’art. 16, a proposito del quale l’on. Scalori presenta un emendamento; L. EINAUDI a questo punto interviene a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta l’emendamento dell’onorevole senatore Scalori, dal momento che esso non fa che chiarir meglio il concetto del decreto del 18 aprile 1920, che aveva parlato soltanto di sopra elevazioni, mentre il senatore Scalori aggiunge anche il caso dell’ampliamento e della trasformazione di case, mercé le quali si possa disporre di un maggior numero di locali per abitazione. È questo appunto lo scopo per cui era stato dettato l’articolo 16, e cioè di consentire la produzione di un maggior numero di camere. Sembra perciò all’Ufficio centrale che l’emendamento dell’onorevole senatore Scalori possa essere accettato.
Ad ogni modo, indipendentemente da questo emendamento, converrà che sia modificato un successivo articolo, in quanto che la condizione delle case sopra elevate e trasformate non differisce in nulla, per quanto riguarda la sopra elevazione e trasformazione dalle case nuove costruite dopo la data del 28 marzo 1919 accennata all’articolo 18. Se le disposizioni della presente legge non si applicano alle case dichiarate abitabili dopo il 28 marzo 1919, le quali restano perciò libere da ogni vincolo di proroga e limitazione di pigione è evidente che non debbano del pari applicarsi alle parti di case sopra elevate e trasformate.
Interviene quindi l’on. Cannavina, chiedendo che si chiarisca che la facoltà di sopraelevazione, concessa ai proprietari nei comuni in cui essa è subordinata al permesso dell’autorità comunale, deve essere ugualmente concessa ai proprietari di tutti gli altri comuni; il sen. Pozzo osserva poi che e preferibile attribuire la facoltà di liberare le case dai vincoli di proroga in caso di sopraelevazioni, al prefetto o all’ingegnere capo del Genio civile, piuttosto che all’autorità comunale. L. EINAUDI replica:
Certamente le osservazioni che sono state fatte hanno importanza; tuttavia credo sia opportuno mantenersi fermi al testo dell’art. 16, inquantoché anche nei casi in cui in un dato comune non vi sia regolamento edilizio, occorre pur sempre chiedere l’autorizzazione all’autorità comunale si procederà dunque al difuori del regolamento, ma l’autorizzazione dell’autorità comunale bisognerà sempre richiederla.
Mi pare che l’amministrazione comunale sia la meglio indicata, perché sta sul luogo; se dobbiamo ricorrere al prefetto, nulla si potrà mai ottenere.
Noi saremmo ben lieti se ci fosse suggerita qualche autorità che fosse più adatta di quella del prefetto, che è la meno adatta. L’amministrazione comunale, per quanto sia partigiana, deve rendersi conto se esista l’interesse generale e prevalente e se, mercé una trasformazione di case, si possa disporre di un maggior numero di abitazioni. Per tutto questo non occorre che preesista un regolamento, in quanto che basta che l’autorità verifichi che esistono quelle determinate condizioni, che giustificano la trasformazione e la sopraelevazione.
L’Ufficio centrale si mantiene quindi fermo al testo presentato dall’onorevole senatore Scalori.
Prende la parola l’on. Cannavina: «Resti pure l’autorità comunale in tutti i casi; ma chi emetterà il provvedimento? la Giunta e il Consiglio comunale? ciò importa chiarire in qualche modo e determinare per eliminare difficoltà e lungaggini».
L. EINAUDI replica:
L’Ufficio centrale accetta la proposta dell’onorevole Cannavina perché dopo le parole «Se un’amministrazione comunale» si mettano le altre «con deliberazione di Giunta».
L’art. 16, con le modifiche proposte dai sen. Scalori e Cannavina, è messo ai voti e approvato. Viene poi data lettura all’art. 17, che è approvato. Prende quindi la parola L. EINAUDI:
Io pregherei che la discussione dell’art. 18 fosse sospesa, perché esso è così strettamente unito con l’art. 11, di cui il guardasigilli ha chiesta la sospensione, che non è possibile discuterli separatamente.
La proposta di rinvio è accolta dal Senato.
Viene poi data lettura all’art. 19 e a un emendamento proposto dal sen. Rota: «nel testo concordato tra l’Ufficio centrale ed il governo dopo le parole “Ferma rimanendo la scadenza contrattuale ” aggiungere le seguenti “Quando sia posteriore al 30 giugno 1924″».
L. EINAUDI dichiara, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta.
L’emendamento del sen. Rota viene approvato. L’on. Maggiorino Ferraris presenta quindi una sua proposta di modifica all’articolo e prende la parola: «…. Avevamo, prima, la proposta del Ministero che rispettava i contratti come scadenza e come fitti: a questa proposta l’Ufficio centrale ne ha sostituita un’altra che invece di trovar posto in questo decreto-legge, trova posto nell’articolo 20 bis aggiunto…».
L. EINAUDI:
Questo è soppresso.
Il sen. Ferraris riprende la parola in difesa del suo emendamento e L. EINAUDI replica:
Il senatore Maggiorino Ferraris ha sollevato certamente una questione della più alta importanza, in quanto che questo articolo 19 aggiunto, nei suoi primi comma stabilisce un principio che non era contenuto nel decreto-legge originale. Certamente il sistema precedente portava a delle conseguenze alquanto diverse in quanto che in una prima fase questo articolo era stato introdotto nel decreto-legge per il commissario degli alloggi in quantoché si era ritenuto che i commissari degli alloggi fossero gli organi più opportuni per poter esaminare caso per caso se fossero dovuti o non questi aumenti d’affitto anche per le case per cui esisteva un contratto in corso. Ma il governo ha fatto rilevare all’Ufficio centrale e questo si è persuaso della giustezza del rilievo, che il decreto-legge sui commissari degli alloggi non era il luogo più opportuno per una disposizione di questo genere; perché tale decreto aveva carattere puramente transitorio e stabiliva delle funzioni che si riferivano semplicemente alla risoluzione delle controversie che potessero nascere in questa materia. Ma la disposizione dell’art. 20 bis era una questione che investiva la materia degli affitti e quindi era una questione che doveva trovare il suo posto non nel decreto-legge sui commissari degli alloggi, ma nel decreto-legge sugli affitti.
Perciò la questione è quella di esaminare se questa sia una disposizione giusta o non giusta: se si tratta di una disposizione che meriti di essere approvata o non.
Ora qual è il fondamento di questa norma la quale è introdotta nell’art. 19? Questo: che prima di una certa data, che l’articolo stabilisce all’1 gennaio 1918 (ma potrebbe essere anche stabilito in una data diversa e più opportunamente è stato rilevato che sarebbe quella dell’armistizio o quella più vicina ad esso, come l’1 gennaio 1919), le condizioni monetarie ed economiche erano completamente diverse da quelle di oggi; cosicché i contratti fatti anteriormente a quella data erano stati fatti ignorando come queste condizioni dovevano venire a mutarsi per circostanze completamente estranee alle due parti contraenti, le quali si erano immaginate di contrattare sulla base di una lira avente una importanza monetaria che non ritenevano dovesse poi cambiare.
Pertanto questo articolo 19, movendo dalla premessa fatta, viene a ristabilire quell’equilibrio che le due parti originariamente avevano insieme convenuto. Se per esempio avevano convenuto due mila lire per una certa serie di anni e se poi le cose sono soltanto cambiate per cui la somma viene ad essere diversa, allora dopo qualche oscillazione che è perfettamente compatibile in una materia così difficile, si è venuti a concludere se è giusto per i contratti già rinnovati per virtù di legge stabilire certe percentuali d’aumento del 30, 25, 20 e 15% per ogni categoria d’appartamenti. La medesima ragione che vale per questi appartamenti sussiste anche per le locazioni che dipendono da un contratto precedente a quello della data che qui è stabilita nell’1 gennaio 1918, data questa che si è riconosciuto non comporti una diversità sostanziale da un caso ad un altro. Quale regola poteva essere applicata? Quella di apportare a quei contratti le stesse percentuali d’aumento degli altri rinnovati per legge. Prima l’articolo era stato formulato diversamente inquantoché quella proroga di un anno solo era di carattere straordinario ed era venuto a capitare li, in via puramente transitoria con aumenti rilevanti ritenuti da molti eccessivi; tantoché per prudenza si era detto di non applicarla a questi contratti ancora in corso e dipendenti da una convenzione anteriore all’1 gennaio 1918.
Ma dopo che le idee si sono chiarite, dopo che altre percentuali si sono sostituite, non si vedrebbe la ragione per cui queste percentuali non dovrebbero essere applicate a tali contratti.
Queste sono le ragioni per cui l’Ufficio centrale, d’accordo col governo, è arrivato a quest’ultima formulazione che a noi sembra equa ed in base alla quale l’Ufficio centrale non crede di poter accogliere l’emendamento del senatore Maggiorino Ferraris; e non solo per queste ragioni sostanziali ma anche per una ragione formale. Io non ho ben capito ancora in che cosa consista il suo emendamento. Ma questo ha importanza trascurabile, perché la sostanza è che egli voleva proporre un aumento diverso da quello delle altre case. Io non credo si possa applicare un aumento diverso da quello applicato per le altre categorie.
Interviene a questo punto l’on. Fera; poi riprende la parola Maggiorino Ferraris: «In Italia abbiamo cinque milioni di inquilini ed è molto probabile perciò che ci sia un mezzo milione ed anche più di inquilini che abbiano contratti in corso anteriori alla data dell’1 gennaio 1918, data puramente arbitraria, nel senso buono della parola. Dunque qui si tratta di regolare la sorte di un grande numero di famiglie che hanno i loro contratti in corso e che devono pur sapere a quali oneri dovranno sottostare e per quali ragioni.
Dunque qui ci sono due aumenti. L’economia del progetto di legge si basa sopra questi aumenti: un aumento iniziale ed un aumento graduale progressivo annuale nel caso di proroga dell’affitto. L’Ufficio centrale aveva proposto che a giudizio del commissario degli alloggi gli inquilini aventi contratto in corso, potessero essere, in via di giustizia e di equità, chiamati a pagare l’aumento iniziale costante e fisso…».
L. EINAUDI precisa:
No, no. Questi inquilini dovevano pagare gli aumenti portati dal decreto 18 aprile 1920 e cioè il primo ed i successivi.
L’on. Ferraris riprende: «Ma gli altri sono venuti soltanto con gli emendamenti successivi. Infatti, a pag. 18 e 19 della relazione, lei diceva che l’estendere ai contratti anteriori al 1918 tutti gli aumenti portati nelle diverse categorie di città non fosse compatibile con l’equità del decreto».
L.EIANUDI:
Ma questo non ha che fare con la questione.
Maggiorino Ferraris invita il Senato a sospendere la discussione dell’articolo in modo da poter riesaminare il problema. L. EINAUDI replica:
Debbo chiarire la questione degli aumenti iniziali. Anche la formula dell’articolo 20 bis, aggiunto nel testo del decreto sul commissario degli alloggi, diceva: «su parere conforme della Commissione consultiva, il commissario degli alloggi può, su richiesta del proprietario e sentito l’inquilino, estendere, ferma restando la scadenza contrattuale, gli aumenti di pigione portati dal Regio decreto-legge 18 aprile 1920, n. 477, escluso quello di cui all’articolo 19»: ma esclude soltanto questo; e gli altri non erano uno solo ma parecchi e cioè per le case della seconda categoria un primo del 25% e un secondo del 10%, per quelle di terza, un primo del dieci ed un secondo pure del dieci ed altrettanto per quelle della quarta.
Tutti questi aumenti erano estesi e non il solo aumento iniziale, intendendosi come aumento iniziale quello che comincia dal primo agosto 1920.
Io dunque non saprei comprendere la ragione di giustizia per cui si ammetterebbe la giustizia del primo aumento e non dei successivi.
Se c’è una ragione di giustizia di estendere l’aumento anche ai contratti in corso, la medesima ragione di giustizia che vale per il primo vale anche per il successivo, perché tutti dipendono dal criterio, che quando questo contratto fu stipulato non si prevedeva la situazione che si sarebbe creata dopo la data del primo gennaio 1918.
Il sen. Ferraris ritira il suo emendamento. Seguono interventi degli on. Spirito, Pozzo e Cannavina, che presenta una modifica all’articolo 19.
L. EINAUDI:
Ringrazio il senatore Spirito della chiara esposizione che ha fatto del significato delle cause transitorie, perché l’art. 19 è quello che comprende le disposizioni transitorie del decreto legge 18 aprile 1920, come era stato formulato originariamente alle disposizioni della legge [e] come sta elaborandosi adesso. Fra i due regolamenti c’è un periodo intermedio che occorreva disciplinare.
Il senatore Spirito ha messo molto limpidamente in luce le ragioni per le quali è stata scelta la data del 15 dicembre; inquantoché l’Ufficio centrale, d’accordo col governo, ha ritenuto che fino a questa data dovesse mantenersi fede non solo ai contratti, ma anche alla legge vigente. Il rispetto alla legge vigente ha guidato l’Ufficio centrale nello stabilire questa data, inquantoché si è detto che il decreto aveva valore di legge e doveva regolare i rapporti fra le due parti. Proprietario e inquilino sapevano che quell’appartamento a una certa data, primo luglio 1921, diventava libero, quindi hanno fatto il contratto in previsione di questa libertà. Noi riteniamo che fino a una certa data non vi sia stato jugulamento; però si è ritenuto che questo potesse avvenire a partire dal 15 dicembre e i contratti non potessero più liberamente essere consentiti, ma fosse l’urgenza che spingesse gl’inquilini a rinnovare il contratto.
E allora interviene il legislatore e dice: I contratti conclusi dopo la data del 15 dicembre sono considerati disadatti alle nuove condizioni di aumento di pigione come sono stabilite dalla legge che andiamo formulando.
Questo spiega la ragione per cui non possiamo accettare l’emendamento Cannavina perché egli riporterebbe quest’idea del jugulamento fino al 18 aprile 1920 e direbbe che fino d’allora coloro che hanno rinnovato i contratti si trovano sotto l’impero della necessità e non potevano fare a meno di farlo.
Ciò non corrisponde alla verità, al fatto come si è realmente, manifestato. L’accettare quel principio ci porterebbe ad affermare quest’altro principio, che qualunque legge non occorra debba essere applicata nel tempo in cui è in vigore, perché si aspetta un’altra legge che la modifichi.
Se questo principio viene accolto non si sa più quale sia la legge a cui si deve obbedire.
Bisogna pure rendere ossequio per la legge vigente fin quando essa rimane tale. Certamente si può ammettere che da un certo punto sia mutata talmente la condizione delle cose per cui si possa passar sopra all’ossequio della legge. Se i presupposti su cui si basa l’ubbidienza legge non fossero completamente cambiati avrei detto anch’io: siano rispettati tutti i contratti fino alla data della legge presente. Noi ora non pretendiamo tanto; ma proponiamo un temperamento meritevole di accoglimento. Ma non posso nemmeno accogliere la proposta subordinata del senatore Spirito che vorrebbe che la stessa disposizione che è nel quarto comma per i contratti relativi a case di abitazione tra locatori e i terzi fosse estesa anche ai nuovi inquilini, perché ed in quanto essi hanno un contratto posteriore al 15 dicembre 1920. Il nuovo inquilino ha concluso un contratto nuovo e pagherà il fitto che ha liberamente convenuto col proprietario. In qual modo si può dire che egli fosse jugulato dal vecchio locatore, se non lo aveva? Egli ha liberamente concluso un contratto con un nuovo proprietario e questo, contratto deve essere rispettato.
L’on. Spirito interrompe: «Ma allora, perché avete scritta la data del 15 dicembre anche per i fitti nuovi? Siete voi che avete detto che i fitti nuovi stipulati con data posteriore al 15 dicembre 1920 dovranno essere regolati con la legge presente. Rileggete quello che avete proposto al terzo comma e vi persuaderete; io altro non domando che sieno evitati gli equivoci e le controversie il più possibile fra locatori ed inquilini, e sono disposto ad accogliere i chiarimenti opportuni che potrà dare l’Ufficio centrale».
L. EINAUDI:
Ha ragione l’onorevole senatore Spirito del senso che in questo comma c’è un’imperfezione di forma; ma io ne traggo una conclusione completamente opposta alla sua, e cioè che i contratti conclusi anche con data posteriore al 15 dicembre 1920 devono essere regolati a norma delle convenzioni concluse tra le parti (Commenti vivaci, rumori, movimenti. Voci: A domani, a domani!).
La discussione dell’articolo è rinviata all’indomani.
19 febbraio 1921
Ha inizio l’esame per articoli del disegno di legge sulla regolamentazione dei poteri del commissario del governo agli alloggi. Viene data lettura dell’art. 1, quindi l’on. Polacco prende la parola, per proporvi alcune modifiche; interviene poi L. EINAUDI, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta gli emendamenti proposti dal senatore Polacco, perché l’hanno convinto le ragioni con le quali il proponente li ha illustrati.
L’on. Fera, ministro della Giustizia, dichiara, a nome del governo, di essere d’accordo con l’Ufficio centrale; seguono interventi degli on. Spirito, Schanzer e Polacco: «… è da osservare che già nel caso più grave del razionamento degli immobili, l’articolo 8 che discuteremo in appresso, vuole che il provvedimento debba essere preceduto dal parere conforme e unanime della Commissione indicata, alla quale si aggiungerà il tecnico nominato di volta in volta».
L.EINAUDI:
Questa disposizione è stata soppressa.
Intervengono nuovamente gli on. Fera e Schanzer, quindi L. EINAUDI a nome dell’Ufficio centrale:
Dovevo chiarire come il governo e l’Ufficio centrale fossero d’accordo in una parte degli emendamenti che furono poi presentati dal senatore Polacco. Avendosi avuta notizia della presentazione di questi emendamenti, si è ritenuto opportuno di presentarne un altro noi, riservandoci di accogliere quello che doveva presentare il senatore Polacco.
Gli emendamenti presentati dal sen. Polacco sono quindi messi ai voti e approvati.
Seguono la votazione e l’approvazione dell’art. 1 così emendato.
Viene quindi data lettura all’art. 2, sul quale prende la parola l’on. Rota: «Io non comprendo la differenza che c’è fra l’art. 2 del testo ministeriale, e quello dell’Ufficio centrale. La differenza unica è la durata delle funzioni. Ora a me pare più chiaro il testo ministeriale, perché la nomina e la sostituzione riguarda la persona, mentre la durata delle funzioni riguarda l’istituto. Quindi pare a me che il testo ministeriale sia preferibile».
L.EINAUDI prende la parola a nome dell’Ufficio centrale:
Avevamo tolto le parole «la durata delle loro funzioni« perché questa durata non è utile che sia prefissata: ci dovrebbe essere nel decreto una norma per dichiarare quanto durano queste funzioni, ma farle durare in una città o in un’altra un anno o sei mesi non è parso opportuno. Del resto quando si dice che la nomina è deliberata dal presidente del Consiglio, e questi quando crede lo può sostituire, quando lo può sostituire lo può far cessare di funzione, e non è necessario dichiarare dal principio la durata di questa funzione.
Interviene quindi nuovamente l’on. Rota: «L’articolo come è nel testo del Ministero non dice che la durata delle funzioni sia prestabilita, e dal momento che l’onorevole relatore dell’Ufficio centrale dice che chi nomina può anche far cessare, è meglio che sia detto com’è nel testo del Ministero».
L. EINAUDI:
Nel testo è detto : «determina la durata delle loro funzioni».
L’on. Rota riprende: «Ma la durata può essere determinata in principio e in fine; diciamo piuttosto la cessazione delle loro funzioni.
Allora proporrei questa variante al testo del Ministero “la nomina e la cessazione delle loro funzioni” e credo che l’Ufficio centrale l’accetterà».
Interviene a questo punto l’on. Fera: «… l’importante è che restino le due proposizioni, cioè, che al presidente del Consiglio è demandata la nomina e che gli è demandata parimenti la sostituzione dei commissari; non potrei consentire che la parola “cessazione” sostituisca la parola “sostituzione”».
L. EINAUDI:
Si può dire «sostituzione» e «cessazione».
Il ministro Fera propone a questo punto di tornare al testo primitivo del decreto, con la dicitura: «la nomina, la durata e la sostituzione». L’art. 2 cosi redatto è messo ai voti e approvato; segue la votazione e l’approvazione, senza interventi, dell’art. 3. Viene poi data lettura all’art. 4, al quale l’on. Di Campello presenta un emendamento.
L. EINAUDI:
Occorrerebbe che questo emendamento fosse a sua volta emendato in quantoché come è formulato dà luogo a qualche dubbio di interpretazione, perché si dice; «le famiglie che hanno alloggi in case costruite da cooperative non possono detenere più di un appartamento e debbono andare ad occuparlo appena ottenuta licenza di abitabilità».
«E debbono andare ad occuparlo…», ma quale?
Bisognerebbe che fosse determinato quale degli appartamenti.
Poi si dice: «appena ottenuta licenza di abitabilità»; bisognerebbe che si spiegasse che cosa si vuole dire. Perché potrebbe darsi che un tale abbia un appartamento affittato da una cooperativa in una città, ed un altro affittato nelle stesse condizioni in un’altra città, per ragioni di famiglia. Ora questi deve abbandonare tutte e due gli appartamenti o uno solo, e quale dei due? Insomma bisognerebbe determinare almeno che l’emendamento si riferisce alle famiglie che abbiano più di un appartamento affittato da cooperative nella stessa città.
In ogni modo credo che nel testo unico sulle cooperative sia già detto che non è possibile diventare socio di una cooperativa a colui che paghi più di 50 lire d’imposta erariale.
Però debbo confessare che l’Ufficio centrale si rimette in quanto c’è disparità anche intorno all’interpretazione.
Dopo interventi degli on. Fera, Amero d’Aste e Di Campello, l’emendamento Gerini è rinviato all’Ufficio centrale, con la riserva di inserirlo nel testo della legge, quando l’Ufficio centrale ne abbia messo a punto la redazione definitiva. Viene quindi messo ai voti e approvato l’art. 4; il Senato vota poi la soppressione dell’art. 5; viene quindi data lettura all’art. 6, al quale il sen. di Brazzà propone un emendamento. L. EINAUDI prende a questo punto la parola, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta l’emendamento del senatore di Brazzà. Deve però ricordare che era rimasto d’accordo col governo per raggiungere alla fine del secondo periodo dopo le parole «dovrà dare la preferenza a quella meglio gradita al proprietario» le parole «purché sia accettata dal commissario agli alloggi».
L’emendamento è accettato anche dal ministro Fera, per conto del governo. Il sen. De Cupis prende quindi la parola, per proporre una modifica all’articolo.
Il presidente Tittoni chiede se l’Ufficio centrale intenda accogliere l’emendamento presentato dal sen. De Cupis; L. EINAUDI dichiara:
L’Ufficio centrale accetta.
Interviene a questo punto l’on. Melodia: «Io pregherei l’Ufficio centrale e il governo di voler lasciare l’articolo quale era prima, togliendo le parole «purché sia accettata dal commissario agli alloggi» perché questo «Purché» mette la questione in tali termini che ben difficilmente vi sarà la possibilità di risolverla. E questo dico tanto più perché l’accordo del Commissario col proprietario è già preveduto, in quanto che il commissario deve tra le famiglie alle quali può essere assegnata una determinata casa, preferire quella che sia di maggior gradimento del proprietario. Ma, se vogliamo che caso per caso vi sia l’accordo fra il commissario ed il padrone di casa, sarà impossibile qualche volta dare una conveniente soluzione al problema».
Il presidente chiede il parere del relatore sulla soppressione dell’emendamento proposto dall’Ufficio centrale e L. EINAUDI risponde:
L’Ufficio centrale accetta.
Gli emendamenti svolti dai sen. di Brazzà e De Cupis sono approvati, e cosi l’art. 6 modificato. Viene quindi data lettura dell’art. 7, a proposito del quale prende la parola l’on. Polacco: «La difficoltà è questa: che il commissario non può muoversi se non decorso inutilmente tutto il termine assegnato, che può ben essere di sei mesi, di un anno per l’esecuzione di lavori di una certa entità.
È appunto il termine assegnato che crea l’inconveniente al quale vorrei che in qualche modo si riparasse».
Interviene a questo punto L. EINAUDI:
Mi pare che si possa lasciare la formula com’è perché se anche trascorre inutilmente il termine assegnato e il lavoro non è compiuto non cascherà il mondo: si tratta di lavori che non sono urgentissimi e occorre lasciare che il termine decorra per vedere se sono stati fatti.
L’articolo 7, messo ai voti, viene approvato. Segue la lettura del successivo art. 8, sul quale interviene L. EINAUDI:
Le parole: «alla quale si aggiungerà un tecnico nominato di volta in volta dalla Commissione medesima» cadono in conseguenza dell’articolo 1.
Sull’art. 8 intervengono poi gli on. Mortara, Fera, Melodia, De Cupis, Alessio, Spirito e Del Giudice; prende quindi la parola L. EINAUDI:
Io sento il dovere di spiegare le ragioni per le quali la Commissione, la quale aveva cominciato a guardare con grande ripugnanza questo art. 8, ha deciso in ultimo di accoglierlo con quelle modificazioni e quelle guarentigie che, mi sia consentito il dirlo, non consistono nella assoluta necessità ma nel parere unanime della Commissione consuntiva posta al lato del commissario. Certamente ove ci fosse soltanto il criterio dell’assoluta necessità com’era nell’art. 8 iniziale i pericoli sarebbero stati gravissimi, poiché questo criterio dell’assoluta necessità è un criterio elastico, anche quando lo avremo emendato con le proposte del senatore Spirito, e che la Commissione accetta già, salvo l’esaminarle particolarmente. La guarentigia la Commissione l’ha veduta nelle modificazioni che ha apportate nel testo dell’articolo e nella proposta ch’essa ha fatto e che è stata accettata dal governo, che debba il commissario agire soltanto quando abbia avuto il parere unanime della Commissione.
Innanzi tutto la Commissione ha dato le guarentigie maggiori al proprietario dell’appartamento inquantoché ha detto che dovesse tenersi conto della convenienza economica della trasformazione e della possibilità del proprietario, di sopportare la spesa occorrente, e anche della possibilità dell’inquilino di pagare la spesa maggiore che dovrà essere da lui sopportata in funzione del capitale da spendere nella trasformazione.
L’Ufficio centrale ha escluso senz’altro che nella trasformazione e nella divisione degli appartamenti potessero essere compresi gli edifizi o appartamenti che hanno un pregio storico e artistico. Quindi l’obbiezione stata fatta dall’onorevole Mortara cade. La Commissione ha anche detto che bisogna ancora guardare alla possibilità di eseguire la trasformazione senza alterare o diminuire il valore della abitazione unica e preesistente e ha avvertito anche che l’abitazione unica deve potersi scindere in parecchie abitazioni in guisa che ognuna sia del tutto indipendente dalle altre. La coesistenza di queste condizioni deve essere riconosciuta da tutti e due i rappresentanti dei proprietari; quando ambedue hanno riconosciuto che esistano quelle condizioni è sembrato all’Ufficio centrale che ci si trovi dinanzi a un caso di gravità eccezionale, a un caso nel quale i pericoli potevano essere considerati quasi come nulli. Nel caso in cui l’esuberanza oltre i bisogni del proprietario raggiungeva tali limiti enormi, poteva essere accolto il concetto della divisione di un appartamento in parecchi.
Se qualche altro senatore vuol proporre altre guarentigie, l’Ufficio centrale le accoglierà ; ma sembra che queste siano già tali da rendere impossibile qualunque sopruso a danno degli inquilini e dei proprietari.
Debbo aggiungere che sarà opportuno – e l Ufficio centrale ha manifestata la sua opinione in proposito – che sia tolto l’art. 29 in quanto che è quello che potrebbe far sorgere gli abusi maggiori, quando si applicassero questi poteri del commissario in comuni dove le organizzazioni dei proprietari non esistono e dove essi non si possono far sentire. Sembra all’Ufficio centrale che con queste cautele il lato cattivo dell’art. 8 sia completamente scomparso.
A questo punto prende la parola l’on. Rota: «Siccome dalle ultime parole dell’onorevole relatore dell’Ufficio centrale, il quale ha confermato il parere unanime dell’Ufficio per il mantenimento di questo articolo, risultava che, se per avventura qualche senatore credeva di aggiungere qualche altra guarentigia perché l’articolo non desse luogo ad abusi, essa sarebbe stata accettata, così mi permetto di fare una proposta. Nel secondo capoverso è detto che il commissario dovrà, nell’emanare il suo provvedimento, tener conto, ecc.; ora questa frase “tener conto” mi pare debole e dovrebbe, a mio avviso, essere rinforzata così “e subordinarlo alle condizioni” che seguono nell’articolo, per modo che, se queste condizioni non si avverano, il provvedimento non possa esser preso».
Il presidente Tittoni interviene: «Allora bisogna dire: “il provvedimento del commissario è subordinato alla”, ecc… Domando all’Ufficio centrale se accetta questa proposta».
L. EINAUDI dichiara:
L’Ufficio centrale accetta.
L’art. 8 è messo ai voti e viene respinto; la discussione è aggiornata al 21 febbraio.
21 febbraio 1921
Seguito della discussione per articoli sul disegno di legge n. 126, relativo al blocco degli affitti, che era stata interrotta il 18 febbraio. L. EINAUDI prende la parola per primo:
L’ufficio centrale crede necessario, o almeno utile, esporre le ragioni per cui è venuto a proporre, d’accordo col governo, la nuova formula dell’articolo 11 e di quelli seguenti.
La nuova formula dell’art. 11 ha per iscopo di tener conto di parecchie osservazioni, le quali sono state fatte in quest’aula da parti opposte, inquantoché l’art. 11, così com’è formulato, verrebbe a sostituire contemporaneamente l’art. 11 del primitivo decreto-legge del governo, l’art. 2 del decreto legge su Roma, e ancora l’art. 13 del decreto legge sui commissari per gli alloggi e infine l’art. 18, primo comma, del decreto-legge sugli affitti. E parso che fosse opportuno riunire insieme in un solo articolo queste disposizioni le quali, sparpagliate in tre decreti-legge, potevano dar luogo a dubbi d’interpretazione: uno di questi dubbi era stato sollevato dal senatore Cagnetta, il quale aveva dimostrato, e dal punto di vista giuridico pare a me che avesse ragione, che, in virtù dell’articolo 18, rimaneva in vigore l’art 2 del decreto-legge su Roma, di cui era stata proposta l’abolizione dal senatore Cencelli.
In sostanza, l’art. 11 viene a sostituire le diverse disposizioni le quali, qualche volta, collidevano fra loro. Questo articolo contiene disposizioni, a parer nostro, abbastanza armonizzate. L’art. 11 del decreto-legge 18 aprile faceva dipendere il diritto del proprietario di andare ad occupare la propria abitazione da una dimostrazione che egli doveva dare della necessità di occupare la casa. Necessità la quale non poteva essere dimostrata a meno di gravi circostanze, fra cui l’articolo annoverava «i mutamenti nelle condizioni del locatore in riguardo alla costituzione della sua famiglia, alla attività professionale, al luogo del lavoro, o alle peggiorate sue condizioni economiche». L’articolo 2 della legge di Roma negava questo diritto a tutti coloro che avevano acquistata la casa dopo la data dell’1 aprile 1919.
Il sistema dell’art. 11 aveva prodotto questo inconveniente, che si avevano, a seconda delle magistrature, responsi diversi.
Un pretore poteva considerare come causa di necessità una causa di poca importanza, mentre altri pretori negavano il diritto del proprietario di abitare la casa propria anche per necessità gravissime, anche se il proprietario non aveva casa, anche se stava in albergo. Riguardo a questo ultimo caso è avvenuto che dei pretori hanno risposto a dei proprietari: «ma restate in albergo dove siete stato finora!». Altre volte commissari e pretori mandavano a misurare l’area delle camere per vedere se ci stava ancora un letto, e simiglianti esagerazioni.
Col nuovo articolo il diritto del proprietario viene affermato in maniera generale: però vi sono delle garanzie notevoli a favore degli inquilini. Infatti è necessario, in primo luogo, che la locazione sia giunta a scadenza a termine del contratto; è necessario che il proprietario vada ad occupare l’abitazione per uso di abitazione, eccettuato qualsiasi altro uso esclusivo d’industria, commercio o professione. E necessario, finalmente, che sia dato all’inquilino il termine di un anno dalla ricevuta disdetta per provvedere allo sloggio. Questo termine è stato stabilito abbastanza lungo per poter garantire l’inquilino contro un semplice capriccio del proprietario. L’anno per la disdetta non potrà prendere inizio se non da una data posteriore alla presente legge. Inoltre l’inquilino non potrà essere costretto in ogni caso a lasciare l’appartamento se non alla data consuetudinaria degli sloggi la quale sia posteriore alla scadenza del termine di un anno per la disdetta. In questo modo l’inquilino avrà almeno un anno, e in alcuni casi un periodo di tempo maggiore, per provvedersi un nuovo appartamento. Finalmente la Commissione, d’accordo con il governo, ha cercato di tener conto del caso in cui il proprietario avesse acquistato delle case, anche ad appartamenti separati, come si è verificato specialmente a Roma, sostituendo questo articolo all’art. 2 e all’art. 13 del decreto sui commissari. Si è detto che il pretore, nel cui territorio trovasi la casa locata, può sospendere, a favore dell’inquilino, l’esercizio della facoltà che spetterebbe al nuovo acquirente di adibire la casa o l’appartamento per abitazione propria.
Queste sono le ragioni per le quali si propone la nuova formula dell’art. 11 che è desiderata, credo, al tempo stesso dai proprietari e dagli inquilini e soprattutto dai magistrati che sono incaricati di applicare la legge e che, fino adesso, si trovavano nel più grande imbarazzo perché dovevano valutare circostanze di fatto variabili da caso a caso, e rispetto alle quali non avevano, per lo più, sufficiente conoscenza.
Inoltre, allo scopo di evitare che il proprietario soltanto per capriccio protestasse d’andare a stare nella sua casa e non vi andasse, allo scopo di aumentare il fitto agli inquilini, si è stabilito che quando non occupi la casa per due anni consecutivi, a partire dal giorno in cui la casa si è resa per lui disponibile, sia tenuto ai danni verso l’inquilino: si è tolta la penalità di un anno e si è lasciato l’obbligo di pagare i danni.
A questo punto l’on. Melodia presenta un emendamento, quindi L. EINAUDI:
Se ci sono altri emendamenti si potranno esaminare insieme.
Il presidente Tittoni annuncia che il sen. Supino ha presentato una proposta di modifica all’articolo e il segretario Frascara ne dà lettura:
«1) sopprimere la lettera b) e modificare le ultime parole del primo capoverso “per abitazione sua e dei propri figli, ma non per uso esclusivo del commercio, dell’industria o della professione che egli esercitasse, purché ecc.”;
2) le prime parole dell’ultimo comma dovrebbero esser queste: “Se la casa locata sia venduta, anche ad appartamenti separati, ecc.”».
L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale accetta questi emendamenti.
Dopo interventi degli on. Supino e Polacco, il presidente Tittoni comunica al Senato che è stato presentato un nuovo emendamento: «Il senatore Supino ha proposto che il paragrafo b) sia trasportato nel primo comma dell’articolo aggiungendo le parole: “non per uso esclusivo del commercio, dell’industria o professione”. Questo emendamento è stato accettato dall’Ufficio centrale.
Ora il senatore Polacco propone che alla parola “esclusivo” si aggiunga: “o prevalente”; e si dica: “ma non per uso esclusivo o prevalente del commercio o dell’industria” ecc.
L’Ufficio centrale accetta questo emendamento dell’onorevole Polacco?».
L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale lo accetta.
Segue un breve intervento del ministro Fera; poi L. EINAUDI riprende la parola:
L’Ufficio centrale accede al pensiero del ministro e propone l’accettazione integrale dell’emendamento Supino, il quale consiste nel dire al primo comma: «A partire dall’1 luglio 1921 il proprietario, a qualunque data risalga il suo acquisto, ed in ognuno degli anni di proroga ha diritto di occupare la casa per abitazione sua o dei propri figli, ma non per uso esclusivo del commercio, dell’industria o della professione che egli esercitasse».
Per tal modo viene ad essere soppresso il comma b).
L’on. Polacco ritira il suo emendamento; quelli del sen. Supino, messi ai voti, sono approvati. Quindi interviene nuovamente L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale ha esaminato l’emendamento del senatore Melodia, ma non è ancora convinto che sia esposto in maniera sufficientemente chiara. Finché si trattasse soltanto di dire che il termine di un anno è ridotto a sei mesi nell’unico caso in cui vi sia stato mutamento nelle condizioni della famiglia, l’emendamento si potrebbe accettare, ma spostare tutte le altre date consuetudinarie potrebbe in certi casi ridurre oltre misura il termine che è dato a garanzia dell’inquilino, poiché potrebbe darsi che gli restassero soltanto quattro mesi di tempo per sloggiare, ed all’Ufficio centrale sembra che quattro mesi siano troppo pochi. Il proprietario nel nostro sistema è certo di occupare la casa quando lascerà passare quel dato tempo; ridurre il massimo di due anni qualche volta a soli quattro mesi, sembra all’Ufficio centrale sia cosa eccessiva.
L’on. Melodia interviene a difesa del proprio emendamento, quindi L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale resta fermo nell’accettazione della prima parte soltanto dell’emendamento del senatore Melodia, lasciando inalterate tutte le altre date consuetudinarie, poiché esse rappresentano una garanzia che si è voluta dare all’inquilino.
Si è voluto lasciare ad esso un lungo margine di tempo per sgombrare l’appartamento, margine che in altre città, dove vi sono date consuetudinarie, può andare oltre i sei mesi magari fino a due anni: ed appunto perciò si è anche stabilito che questa disposizione avrà principio dalla data della pubblicazione della presente legge, poiché è molto improbabile che questa avvenga prima di parecchi mesi. Gli inquilini di Napoli saranno sicuri magari fino al 1923, ma è proprio questo lo scopo che la legge si prefigge, quello cioè di aver dato un lungo periodo all’inquilino per procedere allo sloggio. Con l’articolo 2 del progetto governativo il proprietario non poteva mai occupare l’appartamento, adesso vi potrà andare, quando però sarà decorso questo lungo spazio di tempo.
Ripeto quindi che l’Ufficio centrale accetta soltanto la prima parte dell’emendamento del senatore Melodia.
L’emendamento Melodia è messo ai voti; la prima parte viene approvata e la seconda respinta. Intervengono poi i sen. De Cupis e Del Pezzo, che propone un ulteriore emendamento.
L.EINAUDI prende la parola a nome dell’Ufficio centrale:
Siccome l’emendamento presentato dal senatore Del Pezzo consiste nel ritorno alla lettera dell’art. 11, con che risorgerebbero l’art. 2 del decreto su Roma, e l’articolo 18 del decreto 1 [rectius 18] aprile, l’Ufficio centrale non può accettare questo emendamento. Non può accettarlo appunto perché già da questa discussione si è veduto come l’art. 11 concordato col governo sia quello che meglio tempera gli interessi dei proprietari e degli inquilini in quanto che esso toglie via tutte le questioni le quali erano sorte a proposito della dimostrazione dello stato di necessità, dimostrazione la quale qualche volta riusciva di danno all’inquilino e qualche volta invece poteva riuscire di danno ai proprietari. E quel trucco di passare in giro presso i diversi inquilini si può esercitare qualunque sia la formula adoperata, in quanto che quando si vogliono da parte del proprietario minacciare gli inquilini e ridurli ad acconsentire agli aumenti di fitto non permessi dalla legge, questa minaccia la si può esercitare in qualunque maniera, la si può esercitare sia minacciandoli di prevalersi dello stato di necessità immediatamente, sia invece minacciandoli di prevalersi dell’articolo 11 ad una scadenza abbastanza lontana, com’è quella che è stabilita dalla formula concordata.
Da questo punto di vista la formula concordata non aumenta i pericoli da cui prima era minacciato l’inquilino dall’art. 11: non aumenta questi pericoli, ma anzi toglie di mezzo le questioni che potrebbero sorgere. Questo è quello che ha voluto ottenere l’Ufficio centrale con la formula concordata, in quanto che non è vero che si possa dire all’inquilino: «Vattene via!». No, il proprietario non può andare immediatamente a dir questo all’inquilino, ma «deve lasciare prima di tutto che sia approvata la legge, poi deve decorrere il termine di un anno: quando poi questo termine di un anno sia giunto alla scadenza, deve coincidere con la data consuetudinaria; se queste due date non coincidono, si prende la data consuetudinaria posteriore. Ebbene, è evidente che quando tutto questo termine sia trascorso, noi giungiamo ai termini della proroga stabilita dal decreto del 18 aprile.
Con questo articolo 11 si è voluto in sostanza dire soltanto questo, che il proprietario potrà andare ad occupare la casa sua quando siano decorsi i termini stabiliti dal vecchio decreto del 18 aprile, e che potrà l’inquilino beneficiare dei nuovi termini che sono stati concessi; dice anzi (per quelli della prima categoria i quali potevano essere espulsi dall’1 luglio 1921) che questi inquilini non potranno essere mandati via se non al più presto a partire dalla metà del 1922, più probabilmente alla fine del 1922 e forse anche soltanto nel 1923. Quanto alla speculazione che è fatta da coloro i quali acquistano case nuove, la formula che, è contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 11, e che è tolta dall’articolo 13 del decreto-legge sui commissari, garantisce ampiamente gli inquilini; inquantoché dà ampia potestà, e così rispondo all’onorevole De Cupis, al pretore di sospendere l’esercizio della facoltà che spetterebbe al nuovo acquirente di adibire la casa od appartamento per abitazione propria. Il pretore non è legato da nessuna dimostrazione che debba fare l’inquilino del suo bisogno, ma può, senz’altro, sospendere l’esercizio della facoltà del proprietario: ciò il pretore potrà fare quando si accorgerà che si tenterà fare una speculazione ai danni degli inquilini.
L’Ufficio centrale ritiene che l’articolo 11, così com’è formulato, tuteli largamente gli inquilini e possa perciò essere approvato.
Tutt’al più potrebbero farsi delle modificazioni puramente verbali; così nell’ultimo comma invece di dire «del termine di un anno per la, disdetta» si potrebbe dire «nel termine di un anno per la disdetta», e invece di dire abitazione propria o dei figli si può dire «e propria e dei propri figli».
A questo punto prendono la parola il ministro Fera e i senatori Guala e Del Pezzo; poi l’art. 11 è messo ai voti, nella stesura comprensiva delle modifiche via via concordate, e viene approvato. Il Senato passa all’esame degli articoli successivi, e il segretario Frascara legge un articolo aggiuntivo, da lui proposto, che diventa l’11 bis: «Ove nel contratto di locazione sia stabilita la facoltà di risolvere la medesima, nel caso di vendita della casa questa facoltà non può essere esercitata prima del termine delle proroghe fissate negli articoli 1, 3 e 5, salvo che ricorrano le condizioni dell’articolo precedente».
L. EINAUDI prende la parola a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta questo articolo aggiunto.
L’articolo viene approvato. Dopo la lettura del successivo articolo 18, il sen. Diena presenta un emendamento e L. EINAUDI interviene:
L’Ufficio centrale aveva riconosciuto già le argomentazioni relative agli enti popolari perché erano pervenute da parte degli enti popolari stessi delle grandi città le richieste dei benefici oggi proposti dal senatore Diena. In sostanza fra la formula proposta dall’Ufficio centrale e quella proposta dal senatore Diena vi sono due differenze: una che può essere senz’altro eliminata ed è quella che consiste nelle parole «purché gli enti impieghino il prodotto dell’aumento a diminuire le pigioni delle case costruite dagli enti medesimi dopo il 29 marzo 1919». L’Ufficio centrale aveva inserito queste parole allo scopo di mettere in chiaro quali erano gli intendimenti per i quali si dava l’autorizzazione agli enti autonomi di aumentare le pigioni vecchie, e che erano quelli di contemporaneamente diminuire le pigioni nuove che sarebbero state oltremisura elevate poiché oggi costano quattro o cinque, e anche più, volte di prima.
Lo scopo era quello dell’equiparazione. E all’Ufficio centrale era parso opportuno di dirlo: ma mi sembra che le considerazioni esposte dal senatore Diena riguardo alla inutilità del dirlo siano evidenti, inquantoché la presente discussione avendo dimostrato come non vi sia dubbio su questo punto, le considerazioni stesse saranno tenute in conto dal Consiglio di amministrazione degli enti autonomi e dal ministro dell’Industria e commercio che deve vigilare intorno all’uso che gli enti autonomi faranno degli aumenti loro concessi.
C’è un altro punto sostanziale sul quale non so se posso accogliere le argomentazioni del senatore Diena. Egli propone che le case popolari ed economiche siano senz’altro sciolte da tutti i vincoli della presente legge.
Ora sciogliere senz’altro da questi vincoli, importa la conseguenza che non solo gli enti autonomi potranno aumentare a loro libito le pigioni agli inquilini vecchi (e su questo non avrei difficoltà), ma potranno anche licenziarli senz’altro senza concedere più i termini di proroga. Qui importa impostare il problema: dobbiamo o non conservare i termini di proroga? Mi pare che debbano essere conservati.
I fitti possono bensì essere aumentati perché siamo sicuri che l’aumento sarà moderato; e quando si otterrà, sarà devoluto a quei fini di equiparazione. Ma togliere senz’altro ai soli inquilini degli enti popolari il diritto alla proroga mi sembra eccessivo. Quindi io conserverei la formula che era stata proposta dall’Ufficio centrale togliendo l’ultima frase: «purché gli enti impieghino il prodotto dell’aumento a diminuire le pigioni delle case costruite dagli enti medesimi dopo il 24 marzo 1919».
Questa è una condizione inutile a esprimersi. Ma il resto mi pare opportuno lasciare affinché sia chiaro che gli enti autonomi non hanno diritto di licenziare, ma solo quello di aumentare le pigioni, diritto questo di cui dovranno valersi con equità.
Vengono messi ai voti gli articoli 18, senza l’ultimo comma, che rimane soppresso, e l’art. 19 e sono entrambi approvati. Viene poi data lettura all’art. 20. Interviene quindi L. EINAUDI:
Questo articolo è stato modificato in relazione alle numerose osservazioni che erano state fatte nella discussione cui l’articolo stesso aveva dato luogo, in quanto che si è cercato di distinguere alcuni casi che sono nettamente separati.
Innanzi tutto si sono considerati i nuovi contratti, conclusi dopo data dell’1 gennaio 1919, perché se erano stati conclusi con da anteriore, quei contratti sono regolati dall’art. 19 testé approvato. Il comma 1 dell’articolo 20 riguarda, dunque, i nuovi contratti conchiusi con data non anteriore all’1 gennaio 1919 e stabilisce che essi rimangano regolati, per quanto riguarda la misura della pigione, tenore delle convenzioni liberamente consentite dalle parti contraenti, salvo, alla scadenza del termine contrattuale, la facoltà dell’inquilino di ottenere la proroga della locazione fino al 30 giugno 1924, ai termini della presente legge.
Se ad esempio il contratto porta la scadenza del 31 dicembre 1923, l’inquilino avrà diritto di ottenere la proroga fino al 30 giugno 1924, che è la data ultima delle proroghe consentite con questa legge.
Il comma 2 riguarda il caso della rinnovazione del contratto tra il locatore ed il vecchio inquilino. Questo contratto in massima rimane fermo, salvo che risulti che la pigione convenuta sia stata- notevolmente superiore a quella che le parti avrebbero stipulata se avessero preveduto le mutate circostanze determinatesi dopo la data della rinnovazione.
Uno degli elementi della revisione sarà ad esempio il fatto che le due parti non potevano prevedere le novità introdotte in questa legge dal Parlamento, e cioè le proroghe ulteriori con le limitazioni di pigione.
Quindi se la pigione stipulata sia manifestamente superiore, essa potrà essere ridotta entro questi limiti. La parola «manifestamente» vuol dire che non si tratta di superiorità di poco conto, perché in questo caso tale superiorità non sarebbe una ragione sufficiente per ottenere la revisione: occorre invece una superiorità manifesta, una eccedenza notevole che faccia presumere che le due parti quel contratto non lo avrebbero concluso.
Il terzo comma riguarda un altro caso cioè contratti veri e propri stipulati fra le parti, ma nei quali le parti non hanno fatto null’altro che di redigere in iscritto ciò che era contenuto nei decreti in vigore al tempo della convenzione, non hanno fatto cioè niente di diverso che tradurre in articoli del contratto quelle che erano le norme del decreto del 18 aprile 1920. In questo caso si presume che quella redazione in iscritto del contratto sia stata fatta unicamente agli effetti tributari, tanto più che vi sono casi in cui tale redazione era indispensabile ed allora si dice che la pigione dev’essere riportata a ciò che è stabilito nella presente legge.
L’ultimo caso riguarda i contratti stipulati tra il locatore e un terzo, in quanto che un locatore che sapeva ad esempio, secondo il decreto 18 aprile 1920, [che] la sua casa diventava libera all’1 luglio può aver convenuto con un terzo la pigione a partire dall’1 luglio predetto.
Quel contratto rimane fermo; rimane fermo purché sia stato stipulato ed abbia data certa anteriore al 15 dicembre 1920, e rimane fermo anche nei confronti con l’inquilino, e ciò perché una legge nuova come questa non può far cadere nel nulla disposizioni che siano venute in conseguenza di una legge precedente.
Queste sono le ragioni dell’articolo 20.
Il sen. Polacco prende la parola per chiedere chiarimenti su questo articolo e L. EINAUDI gli risponde:
Il senatore Polacco mi sembra abbia sollevata una questione abbastanza importante relativa alla interpretazione che deve darsi alla proroga dei contratti in corso che vengono a scadere prima del 30 giugno 1924, per esempio a metà del 1923.
Che ci sia per essi il diritto ad avere ancora un anno di proroga non c’è alcun dubbio: essi hanno diritto alla proroga fino al 30 giugno 1924. Il dubbio può nascere intorno all’ammontare dell’aumento che può essere stabilito per questo anno di proroga. Deve essere stabilito soltanto un aumento del 30% relativo a questo anno di proroga, oppure si tratta di un aumento cumulativo? Ora noi abbiamo votato degli articoli che parlano sempre di aumenti successivi e cumulativi, i quali (per la prima categoria) sono nel primo anno del 40%; nel secondo anno del 40 più 30, cioè del 70%; nel terzo del 70 più 30 cioè del 100%, e nel quarto (che sarebbe l’anno di cui si discorre, dal 1923 al 1924) sono del 130 per cento.
Ora poiché il sistema degli articoli della legge già votati è così intonato che gli aumenti siano progressivi e cumulativi, pare a me che per equità di trattamento non possa essere adoperato un altro genere di calcolo, e che quindi nell’ultimo anno debba per quegli appartamenti essere stabilito un aumento che nel caso nostro è del 130 per cento. In questa maniera quegli inquilini non vengono affatto ad essere danneggiati, inquantoché per tutti gli anni precedenti hanno goduto del fitto convenuto, ossia non hanno subito nessun aumento. Quando il loro contratto scade, essi vengono ad esser posti nella medesima situazione in cui si trovano gli altri inquilini. Almeno in sede di interpretazione, dati gli articoli così come sono stati votati, io interpreterei la legge in questa maniera (siamo ancora in tempo a cambiarla), ma questa dovrebbe essere secondo me l’interpretazione logica da darsi alla legge.
Dopo interventi dagli on. Spirito e Fera l’articolo 20 è messo ai voti e approvato. Viene poi data lettura all’art. 21; dopo un breve discorso del sen. De Cupis prende la parola L. EINAUDI:
Occorre fare una piccola modificazione di forma perché le due ultime parole «col medesimo» si riferivano ad una diversa dizione quando si parlava di un decreto legge, ma adesso che si parla di legge occorrerebbe dire «con la legge stessa».
L’onorevole senatore De Cupis mi permetta di far notare che questo articolo 21 che è quello stesso 19 che era contenuto nel testo del decreto legge 18 aprile, aveva per iscopo di mettere anche in questa sede in risalto che le funzioni del commissario si limitano alle case le quali sono soggette a vincoli, ma che quando invece le case non sono soggette a vincoli debbono essere libere da qualsiasi ingerenza del commissario. Del resto con il sistema attuale la libertà dei vincoli è spostata al 30 giugno 1924 e quindi c’è tempo per discorrere. Non credo che vi possa essere ostacolo per la libertà di azione del Senato riguardo al decreto sui commissari.
L’on. De cupis ribatte: «Io non faccio questione del merito dell’articolo, dico soltanto che qui non deve trovar posto. Sta dinnanzi a noi il progetto di legge che regola precisamente la funzione del commissario per gli alloggi, e in quest’articolo si è detto che i commissari del governo per le abitazioni continuano le loro funzioni fino a nuova disposizione. Ora facciano il caso, ripeto che non ho intenzioni suggestive, che il progetto di legge che regola la funzione dei commissari non venga approvato, il che può succedere eppure, con una legge che non riguarda direttamente i commissari per gli alloggi, noi, in questo articolo 21, avremmo indirettamente affermata la loro esistenza e le loro funzioni.
Ripeto quindi semplicemente che qui, in questo disegno di legge non deve trovar posto; esso potrà essere trasportato, se parra all’Ufficio centrale, nel disegno di legge che appresso segue».
Interviene a questo punto, a nome del governo, il ministro Fera: «Io vorrei pregare l’Ufficio centrale di accettare che l’articolo 21, come quello il quale non ha che un puro valore dichiarativo, sia soppresso.
Esso si è inspirato unicamente al proposito di dominare il timore che il commissario per gli alloggi debba rimanere in eterno ed ha voluto assicurare espressamente che la permanenza del commissario è legata al permanere del regime dei vincoli e che finirà allorché sarà finito il regime suddetto.
Mi sembra che non occorra conservare una tale disposizione d’indole prettamente dichiarativa e propongo di non insistervi».
L. EINAUDI risponde:
L’Ufficio centrale accetta la soppressione di questa disposizione, tanto più che essa è riprodotta nell’art. 33 bis del decreto-legge sui poteri del commissario agli alloggi e dichiara di ritirare l’art. 21.
Viene quindi data lettura all’art. 22, che è approvato. Il Senato passa poi all’esame di un articolo aggiuntivo presentato da Marco Pozzo, sul quale interviene per primo l’on. Fera; il sen. Pozzo replica: «… Il Senato rammenterà la vivace discussione svoltasi sul capoverso dell’art. 6. Nel testo dell’Ufficio centrale si disponeva che per la classificazione dei comuni la popolazione dovesse essere calcolata secondo le risultanze dell’anagrafe municipale al 31 dicembre 1919.
L’onorevole mio amico senatore Cannavina, facendo presente che i registri d’anagrafe presso molti comuni, se pure esistono, non sono tenuti in regola, propose di risalire all’ultimo censimento. Ma, essendosi da altri oratori contrapposto che l’ultimo censimento è troppo lontano, e che dal 1911 ad oggi vi fu un cambiamento notevole di popolazione in diversi comuni, fu adottata la formula conciliativa proposta dall’onorevole Spirito, secondo la quale si dovrà per regola generale far riferimento all’anagrafe municipale; però, dove i registri municipali anagrafici mancano o non sono attendibili, si dovrà risalire all’ultimo censimento.
Ciò posto, osservo che è interesse di tutti i cittadini, così dei proprietari di case come degli inquilini, conoscere quali sono le percentuali di aumento delle pigioni, che devono commisurarsi in base a due coefficienti, cioè alla pigione corrisposta al 18 aprile 1920 e alla popolazione dei singoli comuni.
È necessario che questa cognizione si abbia subito, appena promulgata la legge; ora io chiedo che contemporaneamente, o entro quindici giorni successivi, o in quel maggior termine che il Senato crederà di stabilire, sia pubblicata anche la classificazione dei comuni. Il governo ha il tempo di preparare fin da ora gli elementi necessari, e si atterrà o all’ultimo censimento o ai registri di anagrafe, secondo le circostanze.
L’onorevole relatore e l’onorevole ministro guardasigilli hanno detto che la questione da me sollevata è già risolta dall’ultimo capoverso dell’art. 6; credo di averli convinti che sono caduti in errore».
EINAUDI:
È vero, è una cosa diversa.
L’on. Pozzo conclude: «Poiché l’onorevole relatore riconosce che è una cosa diversa, non insisto oltre ».
L.EINAUDI:
L`Ufficio centrale accetta la proposta. Si tratta certo di due cose diverse, si tratta di applicare l’art. 6 e non il 9. Occorrerà stabilire che questo decreto del ministro dell’Interno, come dice il senatore Pozzo, venga dopo quello dei prefetti, per tener conto della classificazione fatta dai prefetti. Propongo che invece di «quindici giorni successivi» si dica «un mese».
L’articolo aggiuntivo, messo ai voti, è approvato; seguono interventi degli on. Mariotti e Pozzo: «… devo rilevare che anche la categoria degli inquilini che hanno denunciato un patrimonio non inferiore a un milione, nell’ultimo testo dell’art. 1 distribuito in principio di seduta, sarebbe del pari stata eliminata, mentre il Senato ha deliberato il contrario. Occorrerà dunque rimediare in sede di coordinamento».
EINAUDI:
No, rimangono ferme le disposizioni per cui la proroga si ferma per le lettere a e b dell’art. 1 all’1 luglio 1921.
Dopo un nuovo intervento dell’on. Pozzo, riprende la parola L. EINAUDI:
Volevo dare un chiarimento al senatore Mariotti nel senso che tutti gli emendamenti, a quanto credo, sono riuniti in un testo unico, e il testo unico porta la data del 19 febbraio 1921 e il foglio aggiunto porta, la data di oggi; il resto credo che sia caduto perché tutto quello che si è fatto e discusso è stato compenetrato in questi due fogli.
Viene quindi data lettura a un articolo aggiuntivo, presentato dal sen. Giardino che prende la parola per illustrarne il contenuto; L. EINAUDI replica:
L’Ufficio centrale non può accogliere l’emendamento del senatore Giardino, inquantoché è vero che io nel discorrere avevo fatto quella dichiarazione che nel 1924 il legislatore di quel tempo provvederà, se ve ne sarà occasione; ma questo risponde alle norme più comuni legislative, perché nessun legislatore del momento presente può pregiudicare ciò che potrà fare un legislatore avvenire, date le circostanze che in avvenire si verificheranno: egli avrà piena libertà di fare ciò che crede. Io feci quella dichiarazione in rapporto a prognostici che faceva il senatore Loria sulla preoccupazione degli inquilini circa la condizione in cui sarebbero venuti a trovarsi l’1 luglio 1924. Se questi pericoli vi saranno, il legislatore del tempo provvederà: ma che oggi in una legge si venga a dire che fin da ora il legislatore dell’avvenire dovrà provvedere a ciò che si dovrà fare nel 1924, vorrebbe dire distruggere completamente la legge e per una via trasversa far risorgere quell’emendamento che il Senato ha respinto, inquantoché si verrebbe a dire che queste proroghe invece di avere una data fissa non hanno già per termine questa data, ma un’altra che il legislatore nel 1923 o nel 1924 vorrà stabilire. Si tratta di una proroga già stabilita, ma senza garanzia di mutamenti. Per queste ragioni l’Ufficio centrale respinge l’emendamento del senatore Giardino.
Si conclude così la discussione per articoli di questo disegno di legge, il cui coordinamento viene rinviato alla tornata del 26 febbraio. Il Senato riprende quindi l’esame, interrotto il 19 febbraio, del disegno di legge sui poteri del commissario del governo agli alloggi.
L’emendamento all’art. 4, presentato dall’on. Gerini nella seduta precedente, è messo ai voti e approvato. Viene quindi data lettura dell’art. 9 sul quale interviene per primo l’on. Fera; prende poi la parola L. EINAUDI, a nome dell’Ufficio centrale:
Debbo dire le ragioni per le quali l’Ufficio centrale, dopo aver cercato di aggiustare il meglio che fosse possibile questo articolo, alla fine si è dato per vinto, dichiarando che non c’è più rimedio e che il caso èpoco suscettibile di guarigione. Infatti per cercare di limitare questo diritto del sub-affitto, si è cominciato con l’escludere all’inquilino il diritto di subaffittare totalmente, perché era parso che tale diritto fosse esorbitante, sostituendosi l’inquilino al proprietario, senza vantaggio alcuno per la collettività, la quale ha un solo interesse, e cioè di vedere la popolazione collocata. Ora se a questo effetto è del tutto indifferente che gli inquilini siano collocati dal proprietario o dall’inquilino, è bene per altro che il rapporto sia il più diretto possibile e cioè passi senz’altro tra il proprietario e il subinquilino e non ci sia di mezzo l’inquilino intermediario, che percepisce un sovraprezzo, un guadagno di intermediazione che spesso non è meritato. Ed allora si è detto: permettiamo soltanto il subaffitto parziale e non quello totale.
Ma allora si è presentata la difficoltà che anche questo diritto di subaffitto parziale potesse facilmente trasformarsi in quello totale qualora l’inquilino avesse con una finzione tenuta ancora una stanza, o una parte di questo appartamento, un fondo di corridoio, e avesse finto ancora di dimorare in quell’appartamento e di subaffittarlo soltanto parzialmente. E quindi ritornavamo all’abuso precedente del subaffitto totale, mentre s’era vista la necessità di abolire questo abuso.
Ora qual è la ragione del divieto di subaffitto?
È il diritto che ha il proprietario di garantirsi contro la entrata nella casa sua di persone immorali, di persone le quali possono danneggiare gravemente la reputazione della sua casa e rendere poco piacevole la convivenza con gli altri inquilini che già stanno nella casa. Ora questo è un diritto di sua natura insindacabile: non è possibile di portare sopra di esso un qualunque giudizio.
Noi si era detto di far vagliare segretamente al commissario le ragioni per le quali il proprietario nega in suo gradimento al subinquilino. Per quanto si fosse tentato d’introdurre questo istituto del «vaglio riservato», tuttavia vi sono cose che non possono essere valutate segretamente dal commissario; esse devono essere valutate insindacabilmente dal proprietarioche dica: «Voglio questo tale per subinquilino», oppure: «Non lo voglio». È difficile dare un giudizio senza provocare gravi inconvenienti e talvolta anche azioni di danni contro un proprietario che ha dato un giudizio sfavorevole sulla moralità di una persona.
Devo aggiungere un’altra considerazione, ed è che certo è utile che coloro che occupano un appartamento, se lo possono, diano in subaffitto una stanza o due; ma questo risultato sarà tanto più facilmente ottenuto quanto meno in tutto ciò si interesserà un’autorità pubblica, ad esempio il commissario degli alloggi. Io sono certo che se coloro che vogliono subaffittare non subissero alcuna ingerenza da parte di alcuna pubblica autorità, il subaffitto sarebbe molto più diffuso di quanto oggi non sia. Coloro che hanno avuto la disgrazia di subaffittare una volta corrono rischi gravissimi: prima di tutto il subinquilino può accampare diritti di permanenza; in secondo luogo il sub-inquilino talvolta va a lagnarsi dell’ammontare del subaffitto che gli viene fatto pagare e può ottenere dei condoni. Ciò fa si che coloro, che avrebbero desiderio di subaffittare una stanza o due non lo fanno, e la offerta di case diminuisce ulteriormente, mentre se noi lasciamo libertà di contrattazione, il proprietario non negherà volta per volta all’inquilino la facoltà di subaffittare, a condizione di ottenere un compenso. È questione di danaro: il proprietario vorrà che l’utile del subaffitto non sia tutto dell’inquilino ma sia anche in parte suo; ed inoltre egli vorrà tutelare le ragioni della sua casa.
Quindi un vero impedimento al subaffitto non esiste nel divieto del subaffitto, il quale ha soltanto per effetto di far vagliare insindacabilmente le ragioni del divieto medesimo.
Queste sono le ragioni per le quali l’Ufficio centrale, dopo aver cercato di rimediare, ha finito col riconoscere che i rimedi erano forse peggiori del male, e che la soluzione che si poteva presentare come più opportuna era l’abolizione dell’articolo. Questo ho avuto il dovere di dichiarare. Certo la questione è dissertabile, e si possono portare argomenti pro e contro; ma tali erano le ragioni che ci avevano spinto a proporre di sopprimere l’articolo.
Il ministro Fera respinge a nome del governo la proposta dell’Ufficio centrale di sopprimere l’articolo. Il segretario Pellerano legge il primo emendamento proposto per l’art. 8 e il presidente Tittoni chiede il parere dell’Ufficio centrale; a questo punto interviene L. EINAUDI, in qualità di relatore:
L’Ufficio centrale è neutro in questa materia perché ha proposto di- sopprimere l’intiero articolo. Ma veramente io vorrei chiedere un chiarimento al senatore Borsarelli: «Quale significato ha il dire che il proprietario sarà tenuto a concedere direttamente il locale ad altre persone bisognose di alloggio quando c’è ancora l’inquilino? Come può darsi che il proprietario conceda un appartamento che è occupato dall’inquilino e per cui l’inquilino chiede soltanto il permesso di subaffitto? Come può darlo ad altri, dato che il subaffitto, come porta l’art. 9, è parziale? Come può il proprietario di sua iniziativa ficcare dentro nella casa di un altro (perché fino a che l’appartamento è affittato è casa dell’inquilino) una persona di suo gradimento?».
L’articolo 9, messo ai voti, viene respinto; seguono la lettura e l’approvazione dell’art. 10. Il Senato passa quindi all’esame dell’art. 11, al quale l’on. Borsarelli propone un emendamento. L. EINAUDI prende la parola:
Veramente vorrei chiedere al senatore Borsarelli la ragione per la quale vorrebbe inserire questa disposizione in questa sede, perché l’art. 11 stabilisce le condizioni di cui deve tener conto il commissario degli alloggi, quando deve procedere a uno sfratto. Ora, quando deve procedere a uno sfratto o sospendere uno sfratto, si accerta se l’inquilino abbia contravvenuto agli obblighi del contratto, se possa procurarsi un altro alloggio, se giustifica il motivo di risiedere nel comune, e poi quale sia la sua situazione economica in paragone a quella del proprietario della casa. Tutte queste sono considerazioni di cui deve tener conto nel complesso il commissario degli alloggi, e non solo di alcune di esse: perché sopprimendo la lettera d), non dovrebbe più il commissario, quando deve decidere su uno sfratto, tener conto della situazione dell’inquilino sfrattato e della famiglia che dovrebbe subentrare nella locazione.
Io non vedo la ragione perché si debba parlare di altro argomento, come sarebbe quella di dar la preferenza al proprietario e dopo questo al locatore.
Interviene a questo punto l’on. Melodia: «Prego l’onorevole relatore di volermi spiegare quale sia la situazione comparativa fra sfrattato e sfrattante… Se ella, onorevole relatore, mi spiega in che consista questa comparazione, voterò l’articolo».
L. EINAUDI:
Abbiamo riprodotto la disposizione dell’articolo del governo.
L’on. Borsarelli prende la parola per chiarire il proprio emendamento: «Io credo che si sia in qualche equivoco, perché si parla di cose che non sono le medesime. Io parlo del comma d) dell’articolo 11, secondo quello che ho sotto gli occhi, in questo articolo al comma d) non c’è alcuna comparazione».
EINAUDI:
L’equivoco era facile, perché come era presentato l’emendamento pareva che le tre linee del senatore Borsarelli dovessero sostituire la lettera d); invece con questo chiarimento si capisce che si tratta di sopprimere le parole «avendo particolare riguardo» e dire: «dando la preferenza in primo luogo al proprietario e dopo questi al locatore e ai prossimi congiunti di costoro». Non avrei quindi difficoltà di accertare questa modificazione.
Prende la parola l’on. Spirito: «Vorrei pregare di coordinare questo articolo colle disposizioni votate oggi per la legge sugli affitti. Difatti parlandosi di prossimi congiunti, che in luogo del proprietario potrebbero con preferenza occupare un determinato alloggio, si avrebbe una contraddizione che la precedente legge, nella quale si è votato che soltanto il proprietario, per sé e i suoi figli, debba essere preferito.
Il mettere questa frase «prossimi congiunti» non fa che creare equivoci; altro equivoco si crea col dire che devesi tener conto della condizione del proprietario, quando nell’altra legge si è imposto al proprietario l’obbligo di dimostrare il carattere di necessità. E quante volte si dovrà fare questo giudizio sulle condizioni e necessità del proprietario?
Per quanto siano eccezionali le facoltà del commissario per gli alloggi, non si devono creare contrasti fra una legge e un’altra; perciò preferirei che questo comma venisse semplificato, coordinandolo con gli articoli della legge approvata».
Interviene quindi L. EINADI:
Le osservazioni del senatore Spirito mi paiono opportune: bisognerebbe correggere l’emendamento dell’onorevole Borsarelli e dire: «dando la preferenza in primo luogo al proprietario e ai suoi figli, e dopo questo ai locatori, ovvero ai prossimi parenti di costoro»; così si adopera la formula dell’altra legge.
L’on. Spirito precisa: «Però rimane sempre la contraddizione».
EINAUDI replica:
Non c’è contraddizione perché si tratta solo di esecuzione di una sentenza di sfratto che può essere venuta per tanti motivi, di cui uno può essere quello dell’art. 11 della legge sugli affitti, ma potrebbe essere anche un’altra la causa dello sfratto, e in questo caso si può presentare il quesito, se si debba dare la preferenza al proprietario e ai suoi figli, al locatore e ai prossimi congiunti.
Intervengono quindi l’on. Borsarelli, poi l’on. Spirito, che propone di aggiungere all’articolo la dicitura: «Non è ammessa una seconda proroga di sospensione di sfratto». L. EINAUDIS dichiara:
L’Ufficio centrale accetta questa aggiunta.
L’articolo 11 così modificato viene messo ai voti e approvato; segue la lettura dell’art. 12, al quale L. EINAUDI propone un emendamento:
Nel penultimo capoverso di questo articolo bisogna togliere le parole: «per le diverse categorie di case».
Adesso il termine della proroga è identico per tutte le categorie, e pertanto tali parole non servono più.
L’articolo, nella stesura proposta da L. Einaudi, viene messo ai voti e approvato; il governo e l’Ufficio centrale a questo punto concordano la soppressione dell’art. 13, quindi il Senato procede alla votazione e approvazione degli art. 14 e 15. Infine la discussione del disegno di legge è aggiornata alla seduta del 22 febbraio.
22 febbraio 1921
Seguito della discussione per articoli del disegno di legge sui poteri del commissario del governo agli alloggi. Gli articoli 16 e 17 vengono approvati; segue la lettura dell’art. 18; il presidente Tittoni rivela che l’on. Ferrero di Cambiano, che aveva presentato un emendamento a questo articolo, è assente, quindi l’emendamento può essere preso in considerazione solo se ripresentato dall’Ufficio centrale: L. Einaudi lo respinge, in qualità di relatore. L’articolo viene messo ai voti e approvato. Viene poi letto l’art. 19, a proposito del quale si susseguono interventi e obiezioni degli on. Fera, Pincherle, Filomusi Guelfi, Garofalo, Salvia, Lagasi, Schanzer, Spirito, Cagnetta, De Blasio, Rota, Polacco, Martino, De Cupis, Tommasi, Mortara e Perla. La discussione dell’articolo è quindi rinviata alla seduta successiva, su richiesta dell’Ufficio centrale, allo scopo di vagliare i punti di vista numerosi e discordanti degli intervenuti e di elaborare una nuova stesura del testo. Il Senato passa all’esame dell’art. 20, che viene messo ai voti e approvato. L’Ufficio centrale si dichiara poi favorevole al mantenimento dell’art. 21, che viene letto e approvato insieme con l’art. 22.
Alla lettura dell’art. 23 segue la presentazione di un emendamento da parte dell’on. Sanarelli; interviene a questo punto L. EINAUDI, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale è dolente di non poter accogliere l’emendamento proposto dall’onorevole senatore Sanarelli, inquantoché la questione delle case di salute, per quanto è conveniente, è già stata risolta dall’art. 10 del disegno di legge contenente provvedimenti per le controversie relative alle locazioni dei negozi.
Nel primitivo testo dell’art. 10 di questo disegno di legge si parlava soltanto delle locazioni degli alberghi, per cui era concessa una ulteriore proroga, superiore a quella normalmente concessa ad altri locali destinati ad uso di negozi, studi ed uffici.
Nelle proposte dell’Ufficio centrale questa disposizione di particolare favore per gli alberghi è stata estesa anche alle case di salute, cosicché coloro che hanno case di salute possono ottenere una proroga ulteriore di due anni, doppia cioè di quella concessa per gli altri locali destinati a negozi, uffici e studi.
Ciò che l’emendamento dell’on. Sanarelli chiede, sarebbe una cosa completamente diversa, e cioè di estendere alle case di salute un provvedimento che per altre ragioni era stato stabilito per gli alberghi, e cioè una specie di apprensione dei locali destinati ad albergo. Questi locali, in virtù dell’articolo 13 [rectius 23] non possono esser venduti o dati in locazione a nuovi conduttori senza l’autorizzazione del ministro dell’Industria e del commercio, il quale deve assicurarsi che non ne sarà mutata la destinazione.
Non entro nel merito di questo art. 23 e della convenienza della concessione in esso i contenuta. L’Ufficio centrale a questo riguardo ha accettato le proposte del governo; ma ritengo che qualsiasi estensione del concetto dell’articolo 23, all’infuori dei casi esplicitamente considerati, sarebbe molto pericoloso.
L’Ufficio centrale è contrario a questa estensione, inquantoché si tratta di dire che certi locali, perché in un tempo passato erano stati destinati a case di salute, debbano conservare necessariamente questa loro destinazione.
Ora bisogna guardare bene a quel che si fa, perché una volta accolto questo principio per le case di salute, non potrebbe essere negato per altre destinazioni, per le quali si potrebbero trovare motivi altrettanto forti che quelli invocati dall’onorevole Sanarelli a favore delle case di salute, e allora ci troveremmo di fronte al risultato, che su per giù, tutte le case finirebbero per un motivo o per un altro, ad essere predestinate ad uno scopo determinato e non si potrebbero più sottrarre a questa destinazione.
E questo è un pericolo molto grave, non soltanto dal punto di vista della proprietà fondiaria, ma anche dal punto di vista di coloro che per l’avvenire vorranno istituire delle case di salute.
Infatti, quale sarebbe il proprietario che vorrà correre il pericolo di vedere la sua casa destinata in perpetuo ad uso di clinica? Sarebbe una specie di manomorta cui questo edificio non si potrebbe più sottrarre.
Ciò riuscirebbe di nocumento a quei medici, chirurghi e clinici che in avvenire, non possedendo oggi una casa di salute, volessero istituirla; essi non troverebbero locali a loro disposizione, perché, nessun proprietario di casa, a meno che non sapesse fare i propri interessi, si rassegnerebbe a subire il rischio di una simile manomorta.
È dunque nello stesso interesse delle case di salute che l’Ufficio centrale non può accettare l’emendamento proposto dall’onorevole Sanarelli.
L’on. Alessio respinge a nome del governo l’emendamento Sanarelli, quindi propone a sua volta una modifica all’articolo; L. EINAUDI interviene, in qualità di relatore:
L’Ufficio centrale accoglie la proposta dell’onorevole ministro.
Prende quindi la parola Carlo Ferraris: «Ho chiesto di parlare, perché, avendo presentato un emendamento all’articolo 24 strettamente connesso con questo 23, vorrei che si precisasse la terminologia.
Nell’articolo 23, alla seconda riga, si parla di edifici che attualmente sono destinati “ad uso di alberghi” puramente e semplicemente. Nell’ultimo capoverso si parla invece di edifici destinati “ad uso di albergo o pensione”. Ora io pregherei l’Ufficio centrale di adottare una formula precisa che si potesse poi anche applicare all’art. 24: o si sopprime la parola “pensione” nell’ultimo comma, o si aggiunge questa stessa parola nel primo comma».
Il presidente Tittoni chiede il parere dell’Ufficio centrale sulla proposta dell’on. Ferraris e L. EINAUDI dichiara:
L’Ufficio centrale accetta.
Segue un intervento dell’on. Frola; poi L. EINAUDI prende nuovamente la parola:
Rispondo ad una interruzione fatta dal senatore Carlo Ferraris dicendo che la dimenticanza, o meglio la mancanza della parola «pensioni» nel secondo alinea dell’art. 23 non è casuale, in quanto che si tratta di due cose ben diverse: la prima è contemplata nel primo comma e l’altra è contemplata nell’ultimo comma. Nel primo comma si contempla il caso di vendite e locazioni di alberghi, soprattutto vendite, e per questo caso si è parlato soltanto di alberghi, perché estendere questo vincolo a un semplice locale adibito a pensione poteva sembrare eccessivo. Invece nel secondo comma si parla unicamente di affitti e allora interviene il commissario degli alloggi per gli alberghi e le pensioni. Si tratta di una cosa molto grave e allora è opportuno inserire la parola «alberghi e pensioni». Come si fa, infatti, a rendere permanente la destinazione di una pensione temporanea che è tenuta, magari, in un appartamento privato? Sarebbe stato imporre un vincolo eccessivo ai singoli appartamenti.
Quanto alle domande fatte dal senatore Frola certamente l’occasione propizia per soddisfare alle sue richieste sorgerà in occasione dell’articolo 19. Quel tale diritto di ricorso che sarà stabilito nell’art. 19 potrebbe riferirsi a questi casi. Certamente, trattandosi di un provvedimento del ministro dell’Industria e del commercio bisognerà stabilire a chi si deve ricorrere. Certamente, se si stabilirà che i ricorsi debbono essere fatti al pretore, non si potrà dare diritto di ricorso al pretore contro un provvedimento del ministro dell’Industria e del commercio.
Seguono interventi degli onorevoli Alessio, Frola, Pozzo e Sanarelli. L’on. Alessio dichiara: «le case di salute sono state protette con il prolungamento del loro contratto per due anni, e noi commetteremmo una vera lesione del diritto della proprietà se si desse facoltà, non soltanto di locare, ma anche di vendere ad altri, gli edifici soltanto perché sono destinati a case di salute».
EINAUDI, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale si associa al governo.
L’emendamento Sanarelli, messo ai voti, viene respinto. L’on. Spirito propone quindi una modifica all’articolo, che viene accettata sia dal ministro Alessio, a nome del governo, sia da L. EINAUDI, che dichiara:
L’Ufficio centrale accetta.
L’emendamento Spirito viene approvato; dopo un contradditorio tra gli on. Pozzo e Alessio, prende la parola L. EINAUDI:
Forse si potrebbe trovar modo di conciliare queste opinioni, che partono da due diversi presupposti, se si dicesse che il ministro dell’Industria e del commercio può determinare con decreto ministeriale, non reale, l’elenco dei comuni, e che questo decreto può essere variato con un altro decreto ministeriale.
Gli on. Alessio e Pozzo aderiscono all’impostazione proposta da L. Einaudi e il presidente invita l’Ufficio centrale a fargli pervenire il nuovo emendamento così concordato; L. EINAUDI dichiara:
Fisseremo la nuova forma all’articolo 25.
L’articolo, modificato dal governo e dall’Ufficio centrale, viene quindi approvato; segue la lettura dell’art. 24, al quale Carlo Ferraris propone un emendamento; interviene a questo punto L. EINAUDI:
L’Ufficio centrale accetta l’emendamento del senatore Ferraris, salvo a concordare con l’onorevole ministro il testo definitivo dell’articolo.
La discussione è quindi rinviata alla seduta successiva.
23 febbraio 1921
Sono all’esame del Senato gli articoli 19 e 24, lasciati in sospeso nella seduta precedente, per dar modo all’Ufficio centrale di modificarne la stesura, tenuto conto delle numerose obiezioni sollevate su di essi.
L. EINAUDI:
Debbo dare una spiegazione riguardo alla collocazione formale del terzo e quarto comma. Oltre alla questione di merito il senatore Frola ieri aveva sollevata una questione di collocazione di questo terzo e quarto comma, in quanto che essi riguardano una materia che non è soltanto quella dell’art. 19, ma in genere dei provvedimenti del commissario degli alloggi, sia provvedimenti del titolo primo, sia del titolo secondo. Perciò questi due commi sarebbero stati stralciati dall’art. 19 che dovrebbe essere discusso a sé, senza questi due commi, e trasformati in un articolo 33 aggiunto da inserirsi in fine del decreto-legge.
Questa come collocazione formale che sembra più opportuna, essendo l’osservazione del senatore Frola informata ad un criterio di opportunità di collocazione.
La proposta di L. Einaudi è accolta: i commi stralciati dall’art. 19 sono trasformati in un articolo 33 aggiunto, ancora da discutere. L’articolo 19, così modificato, viene letto e approvato. Il Senato passa quindi all’esame dell’art. 24; su di esso L. EINAUDI torna a prendere la parola, a nome dell’Ufficio centrale:
La formula che è stata concordata tra il governo e l’Ufficio centrale risponde ai desideri che sono stati manifestati in quest’aula ieri da parecchie parti. Innanzi tutto si accoglie l’emendamento del senatore Carlo Ferraris in quantoché esso è riprodotto testualmente fino alle parole «a riscatto per il prezzo»; si cambia soltanto il criterio per la determinazione del prezzo. Quanto alla determinazione del prezzo il criterio contenuto nel primo articolo 24 governativo era quello del prezzo originario dell’atto di vendita: l’Ufficio centrale aveva già fatto osservare come questo prezzo potesse non corrispondere più alle condizioni odierne sia perché fossero intervenute trasformazioni e miglioramenti, sia perché era mutata completamente la condizione monetaria. Perciò l’Ufficio centrale aveva cercato nel suo articolo emendato di tener conto di queste condizioni.
Ieri l’on. Ferrero di Cambiano ha fatto osservare come fosse meglio ritornare al criterio comune per la determinazione del prezzo, ossia ciò che vale l’immobile da riscattare nel momento in cui si effettua il riscatto, e questo è il concetto che sta a base dell’emendamento concordato tra il governo e l’Ufficio centrale, perché si è detto che il riscatto non potrà avvenire alle condizioni stabilite prima, ma potrà avvenire a norma del giusto prezzo che nel momento del riscatto medesimo avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compra-vendita. Questa è la formula accolta nella legge fondamentale dell’espropriazione del’65; attuandosi così un criterio che esiste già nella nostra legislazione.
Ma poteva anche darsi che il proprietario a carico di cui si fa il riscatto e il Ministero dell’Industria non fossero d’accordo sull’ammontare del giusto prezzo e si è stabilito perciò che la determinazione del giusto prezzo fosse fatta da un collegio peritale. Si è detto che il collegio peritale deve essere presieduto da un funzionario insospettabile, tecnico e perito della cosa, come è l’ingegnere capo del Genio civile della provincia, in modo che vi sia un organo locale e le questioni non debbano essere determinate al centro potendosi fare il riscatto anche in località distanti dalla capitale. In questo collegio ci sarebbero due tecnici, l’uno designato dal ministro dell’Industria e del commercio, l’altro dal proprietario a carico di cui si fa il riscatto. E poiché si era determinato ciò in relazione all’art. 24, si è ritenuto opportuno di notare nel capoverso che uguale procedimento deve essere osservato per la determinazione del giusto prezzo di cui si parlava nell’art. 23, dove era stabilito che il Ministero potesse esercitare una prelazione a giusto prezzo a favore dell’ente e della persona che assuma di mantenere per dieci anni almeno la detta destinazione, fissando all’uopo convenienti garanzie.
Qui dunque non si parlava di riscatto, ma di prelazione a favore di coloro che si assoggettavano a mantenere per dieci anni la destinazione. Ma anche qui era necessario stabilire in caso di controversia l’ente che avrebbe dovuto determinare il giusto prezzo; e poiché si è creato questo collegio tecnico si è deferita a questo collegio anche la determinazione del giusto prezzo anche in relazione all’articolo 23.
Il presidente Tittoni chiede all’Ufficio centrale se il testo da esso proposto costituisca la prima parte dell’art. 24 e se l’ultimo inciso debba rimanere; L. Einaudi glielo conferma. Prende quindi la parola l’on. Torrigiani: «In questo nuovo articolo concordato tra il governo e l’Ufficio centrale trovo che non è ripetuta una delle condizioni messa negli altri articoli e anche nell’emendamento del collega Carlo Ferraris e cioè che nella determinazione del prezzo sia tenuto conto di quello risultante dagli atti di vendita. Questa omissione mi pare grave e pericolosa, perché purtroppo (non bisognerebbe dirlo) tutti sappiamo che nei contratti più sono importanti più spesso si cela la verità per sfuggire alle tasse giustamente dovute al fisco.
Ora, se si mantenesse questa condizione nell’articolo 24, la riterrei una giusta e meritata punizione per chi tenta sempre di defraudare l’erario. Per questo proporrei che nell’articolo 24 si ripetesse: “tenuto conto del prezzo risultante dagli atti di vendita”. Sarebbe bene introdurre anche questo elemento nell’articolo 24».
EINAUDI:
Io credo che quando si stabiliscano i criteri per la determinazione di un riscatto bisogna determinarne uno solo e non due che possano essere in contraddizione.
Il prezzo alla data di vendita è un prezzo storico, che si riferisce a un momento passato: questa è la critica che era stata fatta dall’Ufficio centrale e dall’onorevole senatore Ferrero di Cambiano, i quali hanno detto che quel prezzo rimontava ad epoca passata, in cui i prezzi erano diversi da oggi, a cui quindi non si può fare riferimento senza errore. Fare la media fra una data erronea e una data giusta non conduce inoltre a risultati plausibili.
Io ammetto che possa essere una penalità il tener conto degli atti di vendita, ma non saprei perché questa pena debba essere erogata solo quando si procede al riscatto di edifici destinati ad uso di albergo: dovrebbe essere una pena da sancire in tutti i casi in cui si fanno queste frodi all’erario.
Sarà, al caso, un criterio di cui si dovrà tenere conto quando si riformerà la tassa di registro: allora si potrà vedere quale altra penalità occorre stabilire per chi denuncia un prezzo erroneo, ma che per pochi casi si stabilisca una penalità la quale turba i criteri di estimazione è parso fuor di luogo perché il criterio di estimazione non può essere la media fra il dato erroneo e il dato giusto.
L’on. Carlo Ferraris prende nuovamente la parola: «Ho chiesto la parola per ringraziare l’Ufficio centrale di avere trasfuso nel suo emendamento la parte sostanziale del mio, ma anche per richiamare l’attenzione dell’Ufficio centrale sopra le ultime parole dell’ultimo comma che non mi sembrano corrette. È scritto: “assoggetto a riscatto”».
EINAUDI:
È un errore di stampa, si deve leggere «assoggettato».
L’art. 24, nel nuovo testo concordato dall’Ufficio centrale, viene messo ai voti e approvato. Segue la lettura dell’aggiunta proposta dal sen. Pozzo a questo articolo: «Con decreto del ministro dell’Industria e del commercio sarà pubblicato l’elenco dei comuni ai quali sono applicabili le disposizioni speciali relative agli alberghi. L’elenco stesso potrà essere pure variato con decreto del ministro dell’Industria e del commercio, con effetto dal giorno della pubblicazione».
Il ministro Alessio osserva: «Mi pare che la collocazione di questo emendamento sia all’ultimo comma dell’articolo 25».
L. EINAUDI:
Sì, in sede di coordinamento lo porremo all’art. 25.
A questo punto vengono letti e approvati gli articoli 25 e 27, quindi il governo e l’Ufficio centrale si accordano sulla soppressione dell’art. 28. Segue la lettura dell’art. 29, a proposito del quale intervengono gli on. Borsarelli, Fera e Mortara e infine L. EINAUDI, in qualità di relatore:
L’Ufficio centrale accetta l’ordine del giorno del senatore Mortara.
Quanto all’articolo 29 dobbiamo dire le ragioni per le quali eravamo rimasti convinti, convinzione manifestata chiaramente al Senato, che questo articolo 29 fosse pericoloso. Esso estende nientemeno a tutti i comuni d’Italia le facoltà che il decreto legge attribuisce ai commissari per gli alloggi soltanto per le città che hanno più di 100.000 abitanti e per i comuni suburbani. Questa estensione è fatta in maniera larghissima inquantoché non sono indicate nemmeno le restrizioni che al potere dei commissari sono date per le città aventi più di 100.000 abitanti; parrebbe che siano estese in genere soltanto le attribuzioni senza i vincoli. Quindi, ove l’articolo debba essere conservato, sarebbe necessario dire nettamente che potranno essere affidate in parte o totalmente, ma con le garanzie e modalità stabilite dalla legge.
Il ministro Alessio interviene: «È implicito».
L.EINAUDI riprende:
Non è tanto implicito, perché accanto al commissario degli alloggi nelle grandi città la legge stabilisce delle Commissioni consultive, di cui qualche volta si deve sentire l’avviso. E allora io domando se in tutti gli altri comuni queste commissioni dovranno essere sentite e se l’arbitrio non può risorgere più grave per questi delegati del prefetto.
Quindi, se si vuole l’estensione, la si deve circondare di garanzie e modalità, compresa quella delle commissioni consultive.
Seguono interventi degli on. Borsarelli, Amero d’Aste, Rota, Alessio e Pozzo, quindi L. Einaudi riprende la parola:
L’Ufficio centrale è concorde nel proporre un’aggiunta a questo articolo 29, e che è concepita nei seguenti termini. Dopo le parole «assuma carattere di speciale gravità in comuni diversi da quelli indicati nell’articolo primo» aggiungere le parole «i quali abbiano una popolazione superiore ai 20.000 abitanti».
L’Ufficio centrale, per venire a questa conclusione è partito dalla considerazione che nell’articolo 4 già votato si stabiliva questa cifra di 20.000 abitanti come quella minima per cui sussista l’obbligo di fare la denuncia per chi possieda più di una abitazione. Il Senato ha già accolto questo concetto; ed allora questa facoltà sarebbe regolata dall’articolo 29: il prefetto potrebbe esercitare la sua funzione soltanto in quei comuni aventi una popolazione superiore a 20.000 abitanti.
L’articolo, con le modifiche proposte dall’Ufficio centrale, viene messo ai voti e approvato; seguono la lettura e l’approvazione dell’art. 30, quindi il presidente Tittoni dichiara: «Verrebbe ora l’articolo 31, di cui però l’Ufficio centrale ha proposto la soppressione».
L. EINAUDI, a nome dell’Ufficio centrale:
Effettivamente l’Ufficio centrale aveva proposto la soppressione di questo articolo; ma il governo ci ha spiegato che senza l’articolo 31, l’articolo 30 sarebbe privo di contenuto.
In sostanza l’articolo 31 è un mezzo per poter applicare l’articolo 30.
Perciò l’Ufficio centrale, ritornando sulla sua prima proposta, mantiene l’articolo 31 nel testo ministeriale.
Seguono la votazione e l’approvazione degli articoli 31 e 32; viene poi data lettura dell’art. 33, sul quale interviene per primo l’on. Mortara, quindi il presidente prende la parola: «Domando all’onorevole ministro e all’onorevole relatore se accettano l’emendamento proposto dall’onorevole senatore Mortara di sostituire cioè alle parole “commissario governativo agli alloggi”, la dizione “commissario del governo per le abitazioni”».
Il ministro Alessio accetta l’emendamento Mortara a nome del governo, quindi L. EINAUDI dichiara a nome dell’Ufficio centrale:
Anche l’Ufficio centrale accetta questa modificazione.
Il Senato approva l’articolo così emendato; si passa poi all’esame dell’articolo 33 aggiunto, ricavato, su proposta dell’Ufficio centrale, dai primi due capoversi stralciati dal testo primitivo dell’art. 19.
Si alternano interventi degli on. Garofalo, Filomusi Guelfi, Perla, Pincherle, Polacco, Fera, Rota, Santucci, Salvatore Orlando e Taddei; prende quindi la parola L. EINAUDI:
Ho chiesto di parlare per un chiarimento.
A me pare che il quarto e il quinto comma sono stati rinviati e quindi anche il comma che comincia con le parole «essi hanno carattere definitivo».
Interviene a questo punto il presidente: «È bene che il Senato abbia presente lo stato di fatto. L’articolo 19 è stato votato fino alle parole: “i suoi provvedimenti possano essere da lui stesso revocati o modificati, ecc.”.
Poi viene l’altro comma che comincia con le parole: “Essi hanno carattere definitivo” ma questo comma non e stato votato, quindi il Senato deve ancora deliberare in merito».
L’on. Polacco presenta quindi un emendamento, d’accordo con i sen Pincherle e Rota; il presidente Tittoni chiede il parere dell’Ufficio centrale e L. EINAUDI prende la parola, in qualità di relatore:
L’Ufficio centrale si associa all’emendamento Polacco.
Ad interventi degli on. Fera, Schanzer, Pincherle e Tommasi segue la votazione e l’approvazione del testo dell’art. 33 aggiunto, modificato dai vari emendamenti via via presentati. Viene quindi data lettura all’art. 33 bis, presentato dall’Ufficio centrale, che è approvato. Il sen. Ferrero di Cambiano propone un ulteriore articolo aggiuntivo, su cui L. EINAUDI prende la parola:
L’Ufficio centrale accetta l’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Ferrero di Cambiano, inquantoché si tratta semplicemente di locali appartenenti ad enti pubblici che furono requisiti da altri enti ora derequisiti. Quando avviene la derequisizione con questo articolo si costituisce l’impegno di restituirli agli enti pubblici proprietari.
Sull’articolo aggiuntivo proposto dal sen. Ferrero di Cambiano ha inizio una discussione tra gli on. Alessio, Fera e Ferrero di Cambiano; quindi interviene nuovamente L. EINAUDI:
Credo che si potrebbe porre il problema da un punto di vista un po’ diverso e restrittivo se all’emendamento del senatore Ferrero di Cambiano si aggiungesse che il commissario governativo «dovrà restituire questi locali a meno che la destinazione ad uso di abitazione o albergo non sia considerata secondo le norme dell’articolo 18, di importanza prevalente».
L’onorevole ministro dell’Industria ha appunto posto il caso che ci siano altri usi che siano in quel momento considerati più importanti.
Siccome all’articolo 18 è già detto che la determinazione degli uffici compresa nelle disposizioni precedenti è proposta dal commissario e deliberata dal Consiglio dei ministri, c’è già una garanzia. Quindi l’emendamento potrebbe essere accolto anche dal governo qualora si aggiungessero queste parole: «A meno che la destinazione ad uso di abitazione ed albergo non sia considerata, secondo le norme dell’articolo 18, d’importanza prevalente».
L’articolo aggiuntivo, nella nuova stesura, viene approvato, insieme agli ultimi due articoli del disegno di legge, nn. 34 e 35. Ha così termine la discussione sul provvedimento relativo alle attribuzioni del commissario del governo agli alloggi; il coordinamento dei vari articoli del disegno di legge viene aggiornato alla tornata successiva.
24 febbraio 1921
Discussione per articoli del disegno di legge relativo alle controversie sulle locazioni dei negozi.
Viene data lettura all’art. 1 e a un emendamento, proposto dall’on Spirito e accolto dall’Ufficio centrale. La discussione ha inizio con un intervento di L. EINAUDI, in qualità di relatore:
L’emendamento del senatore Spirito è necessario per il caso in cui la data consuetudinaria sia già decorsa nel momento della pubblicazione della legge, altrimenti non ci si potrebbe più servire di questo diritto di proroga.
L’Ufficio centrale propone inoltre che nel secondo comma, ultima linea, sia soppressa la parola «semestrale».
Le modifiche proposte dai sen. Spirito ed Einaudi sono messe ai voti e approvate.
I sen. Morpurgo e Polacco presentano a loro volta un emendamento, a proposito del quale L. EINAUDI torna a prendere la parola, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale non ha avuto tempo di discutere l’emendamento dei senatori Morpurgo e Polacco perché esso è stato presentato in questo momento. Mi limito quindi a fare delle osservazioni in proposito e mi rimetto poi al Senato.
La difficoltà che s’incontra nell’attuare l’inclusione della parola «piccola» consiste nella difficoltà di definire che cosa sia precisamente la piccola industria. È vero che il senatore Morpurgo dice che esiste una legge nella quale è definita la piccola industria. Io questa legge non l’ho sott’occhio e non posso giudicare a che fine siano state date le definizioni di piccola industria; mi permetto solo di dubitare che in una legge qualsiasi si possa dare una definizione d’una cosa cosi variabile, come è la piccola industria giacché il solo numero degli operai non basta a determinare se si tratta di piccola industria, e io sarei molto in dubbio sulla possibilità di adottare tale criterio. L’Ufficio centrale non ha potuto prendere deliberazioni in merito e si rimette quindi al Senato.
Il ministro Alessio dichiara a questo punto di accogliere l’emendamento Morpurgo e Polacco a nome del governo e L. EINAUDI aggiunge:
Rimane bene inteso che, accettando l’emendamento «piccole industrie» si mette dopo le parole «di commercio e di professione», perché per il commercio non c’è differenza tra piccolo commercio e grande commercio.
Il Senato approva l’emendamento e così pure l’art. 1 nella nuova stesura comprensiva delle varie modifiche proposte. Si passa quindi alla lettura dell’art. 2 e di un emendamento ad esso presentato dall’on. Valvassori Peroni; L. Einaudi prende la parola, a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale accetta l’emendamento presentato dall’onorevole Valvassori Peroni, perché chiarisce quale sia il magistrato che deve presiedere queste commissioni arbitrali: è opportuno che sia il magistrato titolare della pretura, perché essendo di carriera presenta maggiori guarentigie di imparzialità. Se si dicesse semplicemente il pretore, si potrebbe anche intendere il vice – pretore. Lo scopo dell’emendamento è questo, e l’Ufficio centrale lo accetta.
L’emendamento Valvassori Peroni è accolto dal Senato; l’art. 2, così modificato, è messo ai voti e approvato. Si passa quindi all’esame dell’art. 3 e di un emendamento ad esso proposto dall’on. Luigi Torrigiani, immediatamente respinto dall’on. Alessio a nome del governo; L. EINAUDI espone allora il punto di vista dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale nella sua maggioranza è d’accordo col ministro, nella minoranza è favorevole all’emendamento del senatore Torrigiani Luigi. Io sono d’accordo col ministro in quanto che ritengo difficile in materia di negozi stabilire una regola precisa di aumento, e un aumento del 100% potrebbe essere qualche volta dannoso agli inquilini e altra volta dannoso anche ai proprietari; non va dimenticato quest’altro punto di vista, in quanto l’art. 5 stabilisce i criteri di aumento, e i criteri consistono nei mutamenti, nella svalutazione della moneta in relazione all’inizio del contratto e alla sua durata successiva, l’importanza degli oneri che gravano sulla proprietà fondiaria, i cangiamenti seguiti nello stato, nella situazione e in conseguenza nel valore dei locali affittati ed ogni altro elemento inteso ad accrescerne od a ridurne il profitto.
Può darsi che qualche volta questi cambiamenti siano tali da superare notevolmente il 100%; può darsi che in altri casi e più rari casi questi mutamenti possano portare ad aumenti minori del 100% La minoranza dell’Ufficio centrale ritiene invece opportuno stabilire una norma per evitare le ragioni di litigio fra conduttore e proprietario di locale, per evitare che per aumenti non rilevanti si debba andare avanti alle commissioni arbitrali.
Il Senato respinge la proposta di Luigi Torrigiani e passa ad esaminare un emendamento presentanto dal sen. Frascara, che interviene per esporlo: «…Proporrei perciò col mio emendamento che il diritto di chiedere il prolungamento della locazione fosse limitato agli inquilini che occupano i locali da almeno dieci anni.
Confido che l’onorevole ministro e l’Ufficio centrale vorranno accettare questo emendamento che non nuoce per nulla allo scopo cui tende il legislatore, quello cioè di favorire coloro che lo meritano, che hanno un’industria ed un commercio avviati; non quelli che hanno il locale in affitto soltanto da due o tre anni.
Giacché ho la parola, aggiungerò che io credevo fosse già stata proposta la, soppressione della lettera c). Ciò non è che la conseguenza della soppressione dell’art. 6 già proposta dall’Ufficio centrale».
Interviene L. EINAUDI:
È un errore di stampa.
L’on. Frascara riprende: «Quindi io propongo la soppressione della lettera c). In conclusione faccio due proposte: un emendamento semplicissimo alla lettera a) e la soppressione della lettera c)».
Il ministro Alessio si pronuncia contro l’emendamento Frascara, a nome del governo; prende quindi la parola L. EINAUDI, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale è d’accordo col governo nel non accettare l’emendamento del senatore Frascara. Questo disegno di legge può essere accettato o respinto, ma una volta che sia accolto il concetto informatore di esso, non può essere accolto il concetto del senatore Frascara. Si tratta di una guarentigia per coloro che detengono i locali ad uso di piccole industrie, commercio o professione: la data non ha importanza relativamente alla sostanza dell’argomento. La sostanza è che costoro non troverebbero altri locali in questo momento se non con aumenti di fitto che si vogliono appunto regolare col presente disegno di legge. Quindi se questo si vuole, lo si vuole tanto rispetto a coloro che detengono il locale da più come meno di dieci anni; e perciò l’Ufficio centrale è d’accordo col governo nel non accettare l’emendamento del senatore Frascara.
L’on. Frascara prende nuovamente la parola: «…l’articolo 1 di questo disegno di legge riguarda anche i magazzini, studi, uffici e simili. In questa frase possono venire compresi tutti gli uffici di qualunque genere».
L. EINAUDI replica:
Non c’è più questa frase; è stato adottato un altro testo.
L’on. Frascara ribadisce a questo punto che manterrà la propria proposta; prende quindi la parola il sen. Lagasi: «… La lettera a) dell’articolo parla di concessione di una proroga ai contratti di locazione.
Ora desidererei sapere se i termini della proroga devono essere determinati dalla Commissione od invece sono quelli stessi che sono stati fissati nel decreto che abbiamo già votato».
L. EINAUDI interviene:
Questo è detto nell’articolo 4.
L’on. Lagasi conclude: «In ogni modo il chiarimento è avvenuto, e ringrazio».
L. EINAUDI prende nuovamente la parola:
Ho chiesto la parola per un chiarimento in merito a quanto ha detto il senatore Frascara. Un inquilino non ha interesse ad invocare questo disegno di legge per la sua abitazione, perché per questa ha interesse invece ad invocare il decreto-legge 18 aprile che concede una proroga fino al 1924; mentre col presente disegno di legge non si concede che una proroga di un anno. Quindi, com’è chiaro, l’inquilino non ha interesse ad invocare il presente disegno di legge.
L’emendamento Frascara è respinto dal Senato. L’articolo 3 è quindi messo ai voti fino al comma b), con l’intesa che il comma c) venga stralciato da questo articolo per essere unito in un secondo tempo all’art. 6, col quale verrà poi discusso. L’art. 3 così formulato ottiene l’approvazione. Si passa poi alla lettura dell’art. 4 e di un emendamento ad esso presentato dai sen. Morpurgo e Polacco. L. EINAUDI prende la parola a nome dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale non può accettare l’emendamento dei senatori Polacco e Morpurgo in quanto che non vede la ragione di differenziare fra locali destinati a industrie, anche a piccole, e locali destinati a commercio e a professioni, poiché i criteri o le ragioni della proroga stanno nella difficoltà di trovare un locale, perché si tratta di locali legati a una determinata situazione. Ora questo legame fra locale e situazione è maggiore di solito per locali destinati al commercio che non per locali destinati all’industria; questi ultimi si trovano più spesso alla periferia, nei cortili interni, ed è più facile trovare sostituti a questi locali di quello che non sia per locali destinati al commercio situati nel centro.
Certo vi sono maggiori difficoltà in un certo senso fisico perché c’è qualche macchinario da trasportare ma oltre alle difficoltà fisiche ci sono le difficoltà economiche, e queste sarebbero più rilevanti che per i locali di commercio, quindi dando questa proroga di tre anni per piccole industrie si dovrebbe darne dieci per il commercio.
Per queste ragioni l’Ufficio centrale non può accettare l’emendamento.
L’emendamento Morpurgo, messo ai voti, non ottiene l’approvazione del Senato. Prende quindi la parola l’on. De Cupis: «In questo articolo si dice: “La Commissione decide in modo inappellabile e con criteri di equità”. Propongo la soppressione di queste parole: “E con criteri di equità”. Badate bene non perché la cosa per se stessa non sia giustissima, anzi propongo la soppressione perché è troppo giusta, perché è naturale che decida con criterio di equità, e questo deve essere supposto di qualunque collegio che è chiamato a decidere; sarebbe come se in una legge dell’ordinamento giudiziario si dicesse: il giudice deve giudicare con giustizia. Nella legge sul Consiglio di stato c’è una disposizione che a un dipresso vale questa perché dice: “La quarta sezione, se trova infondato il ricorso lo respinge”, e domando io che altra cosa dovrebbe fare?, e quella disposizione poiché c’è, ci resti, ma non ne mettiamo un’altra che faccia il paio».
EINAUDI:
L’Ufficio centrale aveva accolto la formula proposta dal governo perché serviva a ricordare a queste commissioni che non si trattava di stretto diritto ma di criteri che qui potevano essere applicati.
Il ministro Alessio respinge a nome del governo l’emendamento De Cupis. De Cupis replica, a favore della propria proposta; interviene poi l’on Di Stefano: «Io non credo veramente che le parole “con criteri di equità” si debbano sopprimere, perché è giusto che la legge segni le norme ed i criteri che queste commissioni debbono adottare nelle decisioni. Per questa ragione non posso – e me ne duole – essere d’accordo col collega De Cupis. Piuttosto, ritengo che la dizione di questi articoli debba essere modificata, sostituendo le parole “in modo inappellabile”, espressione non mai usata nei nostri Codici, ed a ragione, perché darebbe luogo a dubitare che ci possa essere un “modo appellabile”, con le altre “con sentenza inappellabile” o semplicemente con l’avverbio “inappellabilmente”. In questo senso faccio una formale proposta».
L. EINAUDI dichiara:
Si potrebbe allora dire: «la Commissione decide con criteri di equità, inappellabilmente».
La formula proposta da L. Einaudi viene accolta e l’art. 4, così formulato, ottiene l’approvazione del Senato.
Si passa poi alla lettura dell’art. 5, a cui segue un intervento dIEINAUDI:
Debbo fare una proposta che riguarda il semplice collocamento; poiché si è deciso di sospendere la discussione della lettera c) per riportarla all’articolo 6 credo si debba anche sospendere la deliberazione sul penultimo comma di questo articolo che si riferisce alla stessa materia dell’avviamento.
Il ministro Alessio precisa: «È detto in modo identico».
L. EIANUDI:
Per me è indifferente, poiché si era sospesa la discussione sulla lettera c). Se la votazione non pregiudica, sta bene.
Interviene nuovamente l’on. Alessio: «Io ho ritenuto realmente e onestamente che l’Ufficio centrale avesse accettato il concetto di quest’ultimo comma».
L. EINAUDI:
Accetto.
L’on. Alessio concorda: «Allora va bene perché è identico».
L. EINAUDI conclude:
La maggioranza dell’Ufficio centrale accetta questo penultimo comma, ma nel senso che questo non implichi approvazione dell’avviamento; soltanto che implichi la esclusione di ogni pagamento riguardo all’avviamento. Con questa dichiarazione si può votare insieme.
Tittoni: «Sta bene. Su questo articolo è stato presentato anche un emendamento da parte del senatore Di Stefano. Con tale emendamento si propone che alla parola “ente” si sostituisca la parola “locale”. Dunque togliamo la parola “ente” e sostituiamo “locale”, che è la parola adoperata in tutti gli articoli di questa legge».
L’on. Alessio accetta l’emendamento a nome del governo. EINAUDI dichiara, a nome dell’Ufficio centrale:
Anche l’Ufficio centrale accetta.
L’emendamento Di Stefano è messo ai voti e approvato, così l’articolo nella nuova stesura. Viene quindi data lettura all’art. 6, unito al comma c) dell’art. 3, come il Senato aveva precedentemente deciso. Prende la parola per primo l’on. Salvia; al suo intervento segue la replica di L. EINAUDI:
Io non mi dorrò oltre misura se il Senato accoglierà l’istituto della proprietà commerciale, ma forse non è stato inutile che anche questa materia sia stata dibattuta, perché è opportuno che si portino le ragioni da una parte e dall’altra e che esso non si introduca nella nostra legislazione senza ampio dibattito. Gli argomenti da me già esposti, sia per iscritto sia a voce, inizialmente, volevano controbattere gli argomenti portati dall’onorevole ministro dell’Industria e del commercio e quelli del collega Salvia.
L’argomento fondamentale che è stato addotto è di natura giuridica; io l’avevo sorvolato alquanto perché mi ero piuttosto trattenuto su argomenti d’indole economica e tributaria. Ma anche dal punto di vista giuridico non posso non esprimere qualche dubbio intorno al carattere così evidente dell’arricchimento della cosa altrui che starebbe a fondamento del riconoscimento della proprietà commerciale.
Certamente bisogna riconoscere che il negoziante col suo lavoro ha creato unavviamento ed una nuova ricchezza; ma dallo stesso punto di vista giuridico non deve avere importanza il sapere se di questa ricchezza da lui creata egli non abbia già ottenuto un sufficiente compenso durante un certo periodo di tempo? Avrà avuto un triennio, un novennio di affitto e durante questo periodo ha, si, lavorato, ma ha anche ottenuto dei redditi e questi sono stati sufficienti per compensarlo del lavoro che egli ha prestato e di quella ricchezza che egli ha fatto confluire nella sua azienda. Questo mi pare che debba essere l’elemento da tenersi in non piccola considerazione, perché quando una certa persona ha ottenuto quanto gli spetta mi pare che debba ritenersi soddisfatto e non possa chiedere ad altri nulla di più. Il commerciante deve chiedere un compenso, che ha quasi la natura di un indennizzo se egli ha subito un danno; ma quando egli ha ottenuto un sufficiente arricchimento e un reddito che lo compensano del lavoro fatto, non vedo a prima vista la ragione di un ulteriore indennizzo per un danno che egli non ha subito. E che questo compenso sia sufficiente, lo si potrebbe arguire dalla circostanza che egli lo ha accettato, perché era nelle condizioni del contratto intervenuto prima quella di contentarsi del reddito da ottenere durante il periodo della locazione. Tale compenso era stato previamente riconosciuto sufficiente da lui per compensarlo delle sue prestazioni. Dal punto divista dell’arricchimento indebito, osservo che l’arricchimento indebito suppone che ci sia un impoverito e un arricchito a spese di quello; invece nel caso attuale il negoziante ha riconosciuto di essersi arricchito a sufficienza.
Ricorderò un altro argomento che ami lascia in dubbio: si dice che l’istituto della proprietà commerciale è già tutelato dal diritto comune e non è una novità della nostra legislazione; se è così, perché deve ancora essere tutelato in questa sede? Quale è la ragione di una simile disposizione, se esiste un diritto comune che riconosce la proprietà commerciale? Mi sembra che si tratti di un semplice pleonasmo che potrebbe anche essere di danno al negoziante, che potrebbe vedersi denegato in virtù di questa legislazione speciale il diritto a quell’indennizzo che dal diritto comune gli sarebbe riconosciuto in una sfera più ampia.
Altre argomentazioni da me addotte sono state ribattute dal collega onorevole Salvia e dall’onorevole ministro dell’Industria ma non a sufficienza.
Io avevo osservato che, il momento presente è poco adatto per indurre questo istituto; è vero che si tratta di una questione di applicazione, ma il modo e il tempo in cui l’istituto deve essere introdotto, deve avere influenza sulla sua introduzione ex novo nella nostra legislazione. E se un istituto è più difficile da introdursi in un tempo piuttosto che in un altro, giova attendere il tempo in cui si presenteranno minori difficoltà; invece il momento attuale sembra il meno adatto, perché data la svalutazione della moneta e il cambiamento dei valori che si sono verificati, risulta difficile la divisione tra il valore della situazione e il valore personale, tra ciò che il negoziante avrebbe conquistato anche pel semplice fatto di trovarsi in quella località e ciò che avrebbe potuto acquistare col suo lavoro e con la sua iniziativa personale.
L’altro argomento che ricordavo è anche fiscale; ripeto che io facevo un semplice quesito perché dicevo che, quando si tratta di rinunciare a delle entrate giova che il governo, responsabile delle entrate maggiori o minori, dichiari apertamente che a questa rinuncia intende venire.
Ora una risposta a questo quesito non l’ho avuta; il quesito era netto: intende il governo rinunciare a una parte delle entrate che oggi ricava dalla imposta sui fabbricati? Una risposta precisa non l’ho avuta, anche perché bisogna distinguere nettamente a questo riguardo tra due imposte differenti: c’è l’imposta di ricchezza mobile, che colpisce l’avviamento e che esisteva prima, esiste adesso ed esisterà in avvenire senza varianti. Se il negoziante vende il negozio e ne ricava centomila lire di avviamento, resta pacifico che queste centomila lire sono soggette, a suo carico, all’imposta di ricchezza mobile. Ma il mio quesito si riferisce non all’imposta da pagarsi dal negoziante che esce, ma all’imposta sui fabbricati che va pagata dal proprietario. quesito Finora quest’imposta sui fabbricati investe l’intiero reddito del negozio. Se oggi si stabilisce legalmente il principio della proprietà commerciale, si riconoscerà che il fitto annuo del negozio, quello che sarà pagato dal nuovo conduttore al proprietario si scinde in due parti, una delle quali è il reddito mobiliare, l’altra il reddito edilizio e che la prima va tassata dall’imposta mobiliare, mentre solo il reddito edilizio resta soggetto all’imposta sui fabbricati. Accetta il governo la conseguenza inevitabile che verrà per giurisprudenza da questa nuova norma introdotta? Se l’accetta non ho obbiezioni a fare in merito.
Un argomento era stato addotto dal ministro dell’Industria, ed è stato ripetuto anche dal collega Salvia, che cioè importa poco che l’avviamento sia o non sia pagato al proprietario nei rispetti dei clienti, ed è vero che il conduttore nuovo pagherà o il prezzo d’avviamento al conduttore cessante, ovvero, se non lo paga direttamente, pagherà un aumento di fitto al proprietario.
Ciò che accade adesso, è che si paga un aumento di fitto al proprietario domani si pagherà avviamento al conduttore cessante. È vero che non c’è differenza: tanto fa a pagare 100.000 lire subito, come 5.000 lire l’anno, dal punto di vista della quantità. Ma avevo osservato, e a questo attendevo una risposta, che esiste una differenza rispetto agli effetti tra il pagare 100.000 lire subito o 5.000 lire l’anno. Perché, se la devono pagare 100.000 lire subito entrando nel negozio, solamente chi ha 100.000 lire pronte potrà fare il negoziante, quando invece si deve pagare 5.000 lire l’anno, e queste si ricaveranno facilmente dalla vendita, si avrà un maggior numero di persone che potranno fare i negozianti, e quindi una maggiore concorrenza che porterà a dei prezzi minori. Badisi che io non dico che direttamente un metodo o l’altro possa influire sui prezzi. I prezzi sono un dato primo, almeno fino a un certo punto. Non si pagano prezzi alti, perché il negoziante deve pagare un fitto alto e un diritto di entratura cospicuo; ma viceversa si pagano fitti alti od entrature cospicue perché i prezzi sono remuneratori.
Ma il metodo – fitto cresciuto o prezzo di entratura – esercita una influenza indiretta, secondaria, sui prezzi. Se si deve solo pagare fitti cresciuti al proprietario, l’entrata all’esercizio del commercio è aperta a tutti; se si paga l’entratura l’accesso al commercio si restringe. In un mondo di perfetti uomini economici non sarebbe cosi. In realtà, date le differenze di credito di cui godono gli uomini, le varie loro posizioni iniziali, è cosi.
Queste sono le osservazioni che mi ero permesso di fare, e questi sono i dubbi che ho creduto bene di porre anche per cooperare a che questa discussione conducesse a dei risultati non improvvisati.
Seguono interventi degli on. De Blasio, Amero d’Aste, Loria, Garofalo, Supino, Alessio, Rebaudengo e Polacco; infine il presidente mette ai voti l’articolo nella stesura proposta dal sen. Supino, che è accolta dal Senato; è parimenti approvata l’aggiunta all’articolo 6 del comma c) dell’articolo 3.
Vengono approvati gli art. 7 e 8, quindi ha termine la discussione del disegno di legge, il cui coordinamento è aggiornato alla seduta successiva.
26 febbraio 1921
Definitivo coordinamento degli articoli dei tre disegni di legge relativi agli affitti, approvati dal Senato nel corso delle discussioni tra il 14 e il 24 febbraio.
Il primo provvedimento in esame è il disegno di legge relativo alla conversione del decreto 18 aprile 1920, n. 477, contenente disposizioni sugli affitti di case, appartamenti, negozi, magazzini, studi professionali e uffici.
L. EINAUDI prende la parola, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
L’Ufficio centrale ha soltanto, come era suo dovere, apportate quelle modificazioni di forma che erano necessarie, per coordinare le varie disposizioni del decreto.
Esporrò quali sono queste modificazioni o trascrizioni che sono state fatte, le quali però non hanno alterata la sostanza degli articoli. Nell’articolo 1 sono state messe insieme le lettere a e b che nella stampa erano state accidentalmente separate e che riguardano coloro che hanno un patrimonio superiore al milione ovvero più alloggi nella medesima città.
L’articolo 5 è stato diviso in due parti per euritmia, la prima che disciplina le categorie e la seconda gli aumenti di fitto per le medesime categorie.
Il vecchio art. 6 è stato diviso in due articoli che diventano 7 e 8, e ciò affinché l’articolo 8 raggruppi tutte quelle che si possano chiamare definizioni; che cosa vuole dire classificazione, chi la deve fare, che cosa s’intende per unica locazione, ecc.
Il vecchio art. 8 scompare del tutto perché era composto di due commi che non avevano niente a che fare l’uno con l’altro.
Il primo comma si trasforma in art. 22 che contiene materia provvisoria, perché riguarda il trapasso dal vecchio al nuovo decreto. Il secondo comma invece va in fondo all’art. 8 perché anch’esso è una definizione, ossia dice che quando uno stesso locale serve per uso promiscuo di studio e di abitazione si ha riguardo all’uso prevalente. L`art. 11 diventa 12; in questo articolo non si sono fatte altre modificazioni se non di pura forma, in quanto che si è detto: «ed in ognuno degli anni di proroga» si è messa questa frase alla prima linea e invece di dire «ai fini di questo articolo alla data dell’1 luglio 1921» si è detto: «alla data iniziale di ognuno degli anni di proroga». All’articolo 12 ter, che diventa 16, invece di «rinnovo» si è scritto «rinnovazione»; l’art. 13 è portato in fine e diventa l’art. 24, perché va insieme con gli altri articoli che riguardano l’abolizione dei poteri delle Commissioni arbitrali e del commissario degli alloggi in relazione alle case.
All’articolo 19 si sono fatte modificazioni di forma, perché in seguito a un emendamento essendo stata introdotta la condizione di dover disporre di un maggior numero di locali di abitazione, questa condizione è stata messa insieme con un’altra che era alcune righe dopo. All’art. 20 all’ultimo comma invece di dire che restano ferme le disposizioni d’un Regio decreto legge 4 gennaio 1920, la cui validità è finita, si richiama un articolo di una legge su questa materia che è quella che deve essere richiamata. All’art. 19 e 20 vecchio che diventano 21 e 22 ci sono alcune modificazioni: invece di «manifestamente», che non aveva significato, si è detto «notevolmente» come era stato chiarito si dovesse dire durante la discussione e si è trasportato qui il primo comma dell’art. 8; l’art. 22 nuovo comprende tutte le disposizioni relative al periodo di transizione con un chiarimento formale. Dopo queste non ci sono più altre modificazioni degne di essere ricordate all’infuori dei soliti richiami degli articoli che cambiano di numero.
Interviene il sen. Vitelli: «L’ultimo comma dell’art. 8 dice: “Qualora uno stesso locale serva per uso promiscuo di esercizio commerciale, ufficio, o studio o di abitazione”».
L. EINAUDI conclude:
Bisogna correggere: «o di abitazione», e dire «e di abitazioni».
Il testo coordinato dall’Ufficio centrale è approvato per alzata.
Quindi il Senato passa ad occuparsi del disegno di legge sui poteri del commissario del governo agli alloggi (stampato n. 282 cit.). L. EINAUDI:
Su questo decreto le modificazioni sono meno importanti; non ricorderò quella che riguarda la divisione degli articoli.
L’Ufficio centrale ha cercato, seguendo il consiglio dell’onorevole senatore De Cupis, di dividere gli articoli troppo lunghi. Inoltre, è stato trasportato in fine l’art. 20, che si riferiva a una disposizione di carattere comune finale tanto al primo come al secondo titolo.
All’art. 11, per ragioni quasi grammaticali, invece di dire «gli sfratti degli inquilini», si è detto: «lo sfratto medesimo». Così pure nello stesso articolo, nel penultimo comma, invece di dire «a chi potrebbe», si mette «a chi può effettivamente occupare un appartamento», perché «potrebbe» sembra una parola poco precisa.
All’art. 16, quando il commissario può assegnare un’abitazione disponendo per rimozione dei mobili ove occorra, si è messo «per la rimozione e conservazione dei mobili», come si è messo per altri articoli.
Nell’art. 18, invece di «alloggiato», si dice «collocato».
All’art. 33 aggiunto, che diventa l’art. 32, dove era detto «i provvedimenti del commissario del governo hanno carattere definitivo», si è creduto bene di scrivere «sono esecutivi»; il significato è lo stesso, ma è parsa più chiara la dizione.
All’art. 33 ter, che diventa l’art. 18, perché deve essere trasportato nel primo titolo, invece di dire «naturalmente a norma dell’art. 18», si dice «secondo i criteri dell’articolo precedente», perché adesso è l’articolo precedente.
Altre modificazioni importanti non ci sono: il maggior lavoro è stato specialmente quello della trasposizione degli articoli.
Interviene il ministro Alessio: «Mi sorge un dubbio nei riguardi dell’articolo 32 dove l’Ufficio centrale ha sostituito la parola “esecutivi” alla parola “definitivi”. Poiché si direbbe “i provvedimenti del commissario del governo sono esecutivi”, mentre il Senato aveva votato “hanno carattere definitivo”. Ora nella legislazione italiana in materia di giustizia amministrativa, la parola “provvedimenti definitivi” ha un significato importantissimo che è diverso dalla parola “esecutivi”.
Esecutivo si riferisce ad uno stato di fatto non ad uno stato di diritto, la parola “definitivo” invece porta un concetto giuridico accolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina e dall’autorità. Per questa ragione insisterei perché si mantenesse la parola “definitivo”».
L. EINAUDI replica:
La ragione per la quale si era fatta questa sostituzione, è la seguente: perché nel secondo comma è detto: «possono però essere impugnati». Ora come è definitivo se può essere impugnato?
Il ministro Alessio prende nuovamente la parola: «I provvedimenti definitivi possono essere impugnati. Ci sono due impugnative. Una impugnativa con ricorso straordinario e una impugnativa presso la quarta Sezione del Consiglio di stato».
Interviene a questo punto l’on. Pozzo: «Intendevo dire quanto ha detto l’onorevole ministro e mi associo alle sue osservazioni».
L. EINAUDI conclude:
L’Ufficio centrale non insiste, quindi resta la dizione di prima.
Il testo del disegno di legge, coordinato dall’Ufficio centrale, viene approvato per alzata. Il Senato prende quindi in esame il coordinamento del disegno di legge relativo alle controversie sulle locazioni dei negozi (stampato n. 273 cit.); L. EINAUDI, in qualità di relatore dell’Ufficio centrale:
In questo disegno di legge all’art. 2 è sorta una questione, inquantoché l’ultimo comma dell’art. 2 diceva: «sulla ricusazione e astensione delibera immediatamente e definitivamente il presidente della Commissione», ma poiché la Commissione arbitrale è riuscita dal voto del Senato composta di cinque membri di cui il presidente è un magistrato, ci siamo chiesti: chi delibera sull’eventuale ricusa del magistrato presidente? E allora si è aggiunto l’ultimo periodo «e rispetto a quest’ultimo delibera il presidente del tribunale». Facciamo presente che questa è un’aggiunta, ma non sapevamo come risolvere altrimenti il problema perché non si era provveduto a questo.
L’aggiunta proposta da L. Einaudi è accolta dal ministro Alessio a nome del governo e ottiene il voto favorevole del Senato. L. EINAUDI continua quindi la sua esposizione:
Articolo 6. Si è coordinato l’art. 6 alla lettera c) dell’art. 3, notando che nell’ipotesi di cui alla lettera c) della presente legge invece di dire «cessato» si debba dire «l’uscente avrà diritto» ecc.
All’articolo 7, invece di «nella eventualità di una rinnovazione» si è detto «nel caso di rinnovazione del contratto ecc.
L’articolo 8 è stato trasportato al posto dell’art. 10 e così l’art. 9 è diventato 8 e l’art. 10 è diventato 9, perché il 10 ha carattere più generale e quindi si riferisce anche alla materia degli articoli precedenti.
Così invece di dire «articoli precedenti» si dice «della presente legge». E così è compiuto il coordinamento.
Il testo coordinato dall’Ufficio centrale è approvato per alzata. Lo stesso giorno i tre disegni di legge vengono approvati a scrutinio segreto.