Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/05/1911
Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia
«Il Corriere della Sera», 24 maggio 1911
Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 184-190[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp.340-345
Al congresso delle società di resistenza che si apre il 24 maggio a Padova l’on. Rinaldo Rigola, segretario generale della confederazione del lavoro, ha presentato una relazione viva, accalorata sui progressi recenti, sulle difficoltà incontrate e sui propositi del movimento associativo tra operai per la resistenza o meglio per la lotta contro gli imprenditori allo scopo di conquistare migliori condizioni di lavoro. È un dirigente di organizzazioni, anzi il capo spirituale della confederazione del lavoro che parla; e non è meraviglia perciò che il tono sia passionale. Ma piacciono anche a chi sta fuori del movimento e procura d’osservare coll’occhio dello studioso, l’impeto del discorso, la fede nell’avvenire del movimento, la fiducia energica in se stessi che si rivela nelle pagine di questi organizzatori. In fondo tutti costoro si rassomigliano: cambia la causa che si è disposata, mutano le forze sociali che si vogliono dirigere; ma la sostanza è la medesima. Rigola e Quaglino e Reina, per le confederazioni del lavoro e le leghe operaie; Craponne ed Olivetti per le confederazioni dell’industria e le leghe di imprenditori; Cavazza, Carrara e Sturani, per la confederazione nazionale agraria e le diverse «agrarie», parlano tutti lo stesso linguaggio maschio, aggressivo. Sono uomini che si mostrano i pugni, ma sono uomini e non marionette. In fondo sentono di essere fratelli spirituali; e, pur litigando tra di loro, cooperano alla formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo stato, ma avranno molta fiducia in se stessi, nella forza della propria educazione tecnica e morale, nella virtù della propria organizzazione. Per chi creda che nulla vi sia di più corrompitore che lo sperare la propria salvazione dal di fuori, dall’aiuto dello stato, dalla spogliazione altrui col mezzo delle imposte, questo ritorno al classico motto del self help, dell’aiutati che Dio t’aiuta, questo allontanarsi dalle morte vie del socialismo e della reazione statale è rinfrescante ed è bene augurante. Certo questi uomini non si sono ancora liberati del tutto dalla scoria delle superstizioni del passato. Rigola ha un capitolo in cui si lamenta in tono acre della sterilità parlamentare in materia di legislazione sul lavoro negli ultimi tre anni e si scaglia contro il senato per avere impedito l’approvazione di talune leggi di protezione ai lavoratori. Gli atti del comitato esecutivo, del consiglio direttivo e del consiglio generale della confederazione del lavoro recano troppe tracce di telegrammi a questo o quel ministro per invocare provvedimenti di difesa o di protezione a pro dei lavoratori. Sono le idee fossili del passato che premono sugli uomini del presente. Né premono solo, è giustizia riconoscerlo, sugli organizzatori degli operai. Gli agrari, che pure nell’ultimo congresso di Bologna sono partiti in guerra contro il governo, chiedono poi la conservazione del dazio sul grano e provvedimenti legislativi per diffondere la piccola proprietà. Gli industriali non sanno decidersi ad affrontare arditamente la questione del protezionismo; e, benché i migliori di essi siano convintissimi della convenienza di rinunciare in parte all’aiuto delle dande doganali, per fiacchezza di animo sottoscrivono agli ordini del giorno con cui i loro colleghi meno capaci invocano nuove provvidenze protettive dallo stato. Le competizioni reciproche ed i contrasti fra le associazioni agrarie, operaie, imprenditrici possono costringerle ad abbandonare questa che è la politica dei deboli, per attenersi alla politica dei forti, che da sé vogliono e sanno conquistare la vittoria.
L’appunto non è rivolto soltanto ai capi degli operai e degli industriali. In tutte le classi sociali vi sono uomini la cui condotta è inspirata alle parole ereditate dal passato e uomini i quali sentono l’ammonimento della vita presente. Anzi, in tutti gli uomini vivono due anime: l’una che guarda al passato e l’altra che intende all’avvenire. Tra gli industriali, gli uomini della seconda e della terza generazione sono meglio disposti a seguire la tradizione; e gli innovatori si trovano tra coloro i quali si sono fatti da sé, cominciando a portare mattoni e calce sui palchi od a maneggiare la cazzuola. Tra gli organizzatori, sono entusiasti quelli che hanno sperimentato cosa vuol dire lavorare nella miniera o mettere un mattone sopra l’altro a rigor d’arte. Rigola è uno di questi. Viene dalla gavetta e perciò il suo è un grido di vittoria.
Egli narra come le schiere degli operai organizzate sotto la sua direzione si siano rafforzate in numero e sovratutto in saldezza. Erano 387.384 gli organizzati nel 1906 e raggiunsero nel 1909 il numero di 503.991. Di questi, quelli aderenti alla confederazione del lavoro erano 190.422 nel 1907 e sono diventati al 31 dicembre 1910 circa 350.000. Degli organizzati, nel 1907 il 50% circa aderiva alla confederazione e nel 1910 forse il 65%. Ma se il cammino percorso non fu piccolo, quanta e ben più lunga strada rimane da percorrere! L’on. Rigola guarda ai 7.787.166 lavoratori organizzabili – uomini e donne – viventi in Italia secondo il censimento del 1901 dall’età di 16 a quella di 65 anni e, sebbene sia lieto che la percentuale dei confederati sul totale degli organizzabili sia salita dal 2,45% nel 1907 al 4,54% alla fine del 1910, si rammarica che ancora sia troppo sovrabbondante la cifra dei non organizzati. Rammarico naturale dal punto suo di vista; quantunque non abbiano valore, nell’interesse generale, le sue ire contro i sindacalisti puri, i gialli (repubblicani) ed i cattolici. Guai se l’unità sindacale avesse a prevalere, tanto nel campo padronale, quanto nel campo operaio! Sarebbero due forze monopolistiche strapotenti, frammezzo a cui rimarrebbero schiacciati coloro – e son legione e tendono sempre più a crescere nei paesi di raffinata e varia civiltà moderna – che non sono né padroni puri né operai tipici. Finché le confederazioni dell’industria a tipo accentrato lotteranno con le federazioni a tipo regionale o con le associazioni commerciali; e finché esse contrasteranno in parte con le confederazioni agrarie e sinché nel seno degli agrari vi saranno dissidi tra grandi e medi e piccoli proprietari; e fino a quando gli operai rossi si batteranno con i mezzadri gialli o con gli operai cattolici, vi sarà la speranza di poter raggiungere, col minimo di monopolio sopraffatore, il massimo di vantaggio collettivo.
È naturale però nei dirigenti il convincimento di essere i soli pionieri della civiltà ed i soli predestinati alla vittoria futura. È questo convincimento che spinge a lottare e fa prevalere i gruppi sociali dal cuore più saldo e dalla volontà più ferma. Bene perciò Rigola spinge i suoi a sacrifici maggiori. Spendono, è vero, le camere del lavoro 500.456 lire nel 1909, invece di 481.966 nel 1908 e di 403.221 lire nel 1907; ed anche le federazioni di mestiere hanno speso nel 1909 ben 599.920 lire, mentre l’uscita della confederazione toccava le lire 39.429. Tra tutte insieme, queste tre principali forme di organizzazione operaia, camere, federazioni di mestiere e confederazione, hanno incassato nel 1909 lire 1.222.680 ed hanno speso lire 1.138.805. Deducendo 93600 lire di sussidi dei municipi alle camere del lavoro, si ha che gli operai italiani sacrificarono, per mezzo dei tre organi ora ricordati, nel 1909 un milione e 100 mila lire circa all’opera di resistenza e di conquista; a cui aggiungendo le somme molto maggiori spese per mezzo delle leghe locali (le leghe locali sono l’unità associativa per mestiere, mentre le camere raggruppano molte leghe di una località, le federazioni molte leghe dello stesso mestiere nello stato o nella regione e la confederazione vorrebbe raggruppare tutte le camere e le federazioni), si arriva facilmente ai tre milioni di lire spese dagli operai organizzati nell’opera della resistenza in un anno. Sembrano a primo aspetto molte; ma in verità sono appena 6 lire a testa all’anno, 50 centesimi al mese. Troppo poche, esclama Rigola, il quale insistentemente, vigorosamente inculca la teoria delle alte quote, di almeno 1 lira al mese, la cui applicazione porterebbe senz’altro a 6 milioni di lire il bilancio della resistenza italiana. Solo con le alte quote sarà possibile di avere un personale scelto, attivo, permanente di organizzatori; solo con le alte quote sarà possibile rinunciare agli appelli alla solidarietà degli estranei, appelli che implicano forme spettacolose di scioperi impulsivi e generali; solo con le alte quote sarà possibile tenere affezionati e fedeli gli operai con sussidi di disoccupazione, di viaggio in cerca di lavoro, ecc. Chi conosca la storia del movimento operaio deve dar ragione al Rigola. L’operaio, che non si limita a far baccano nei comizi ed a percepire i sussidi di sciopero implorati dalla pubblica carità o dalla solidarietà dei simpatizzanti, ma paga con costanza le alte quote richieste dall’opera comune, è un operaio che sacrifica il presente all’avvenire e comincia ad apprezzare i vantaggi della previdenza. Costui non affronterà a cuor leggero uno sciopero, perché non vorrà giocare alla cieca i frutti del suo risparmio faticoso; ma discuterà e tratterà. E che altro è mai questa maledetta eppur stupenda civiltà borghese se non una serie di contratti e di discussioni sul prezzo delle merci e dei lavori e dei risparmi? L’operaio organizzato, il quale sacrifica 1 lira invece che 50 centesimi al mese per la resistenza, è alla vigilia di diventare un risparmiatore, un previdente, un cooperatore, ossia un borghese. La borghesia, sorta come una piccola classe ristretta di usurai e di mercatanti, ha allargato a poco a poco le sue file, ha fatto rivoluzioni ed è ormai divenuta una classe universale e nel tempo stesso varia e mobile.
Essa non è una classe chiusa e rigida, ed anzi chiama a sé ognora nuove schiere e respinge soltanto i poltroni, gli infingardi, coloro che, essendo giunti ai fastigi della ricchezza, si apprestano a decadere in questa o in una prossima generazione. Non sono borghesi i burocrati, eredi delle clientele di liberti romani e dei servitori dell’antico regime; non sono borghesi coloro che stanno contenti al loro posto, ed assillano deputati e ministri per averne favori. Sono invece borghesi gli imprenditori e gli agricoltori che lottano per far progredire industria ed agricoltura e vorrebbero tener per sé tutto il maggior prodotto ottenuto; e sono borghesi gli operai che lottano e sacrificano denari e tempo ed energia per strappare agli imprenditori ed agli agrari una parte di questo maggior prodotto. Credono costoro di essere nemici, solo perché lottano tra di loro. Ma senza queste lotte la vittoria contro la natura matrigna sarebbe parsa troppo facile e spregevole, essendo nella natura umana non di volere la ricchezza e la potenza, ma di volere più ricchezza e più potenza di quella che è concessa agli altri uomini. Questi nemici sono invece fecondissimi collaboratori nella conquista di civiltà sempre più alte. Nessuna collaborazione mai fu destinata ad essere feconda di tanto bene quanto quella risultante dalla competizione delle classi imprenditrici e lavoratrici. Purché sappiano vedere che il loro maggior nemico non è nella classe contro cui combattono, ma nelle oscure forze della reazione statale. Combattano pure tra di loro gli uomini attivi; ma per vincere l’avversario non si diano, piedi e mani legati, in braccio agli uomini ignavi che vorrebbero instaurare in terra la morta pace delle leggi e dei regolamenti.