Opera Omnia Luigi Einaudi

I cavalli di stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/05/1911

I cavalli di stato

«Corriere della Sera», 15 maggio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 328-336

 

 

 

 

Oggi che il ministro Nitti vuol crescere di una nuova falange – gli assicuratori di stato – l’esercito dei pubblici funzionari, non è forse inopportuno additare a lui ed all’opinione pubblica i risultati in tant’anni di esperienza ottenuti dall’istituzione di una vecchia e benemerita, sebbene non ancora forse del tutto cosciente, schiera di funzionari: i regi riproduttori. Grandi sono le lagnanze sull’imperfetto funzionamento di questo servizio e sulle difficoltà di reclutare all’uopo, malgrado ogni diligenza dei commissari esaminatori, soggetti capaci e volonterosi. Ancora nell’ultima sessione del consiglio ippico vive furono le critiche e varie furono le proposte di competenti, tra i quali il senatore Gorio ed il professore Baldassarre. Onde non a torto il consiglio deliberò di mettere la questione all’ordine del giorno della prossima sessione.

 

 

Non è a dire che il ministero d’agricoltura, il quale provvido vigila sulle sorti dell’economia nazionale, non assistesse con cordoglio al crescere dell’importazione dei cavalli dall’estero. Malgrado che i due censimenti del bestiame del 1876 e del 1908 denunciassero un aumento nei cavalli italiani da 657.544 a 955.878, ancora si importarono 42.550 cavalli nel 1908, 45.676 nel 1909 e 40.491 nel 1910. Nonostante la Sardegna abbia ora 12.000 cavalle destinate alla riproduzione e possa facilmente fornire 1.000, invece dei 500 di alcuni anni fa, cavalli ogni anno all’esercito, con uno scarto di appena il 40% dei puledri esibiti alle commissioni militari; malgrado che in altre provincie altresì i progressi siano stati rilevanti, pur tuttavia l’esercito deve ricorrere all’estero per completare gli organici; e all’estero si devono comprare quasi tutti i cavalli d’artiglieria.

 

 

«Il paese cammina», leggesi nel preambolo di un disegno, che non so se sarà mantenuto, di provvedimenti a tutela ed incremento della produzione zootecnica nazionale; «ma andrà più veloce sulla via del progresso se alla intensificazione di questo ramo importantissimo della industria zootecnica contribuirà con maggior larghezza il governo». La legge del 1887 aveva bensì fissato ad 800 il numero dei cavalli stalloni dei regi depositi; ma volsero anni malaugurati dal 1894 al 1897, in cui gli stanziamenti per gli acquisti degli stalloni, per la urgenza delle economie sino all’osso, furono radiati; sicché il loro numero totale cadde nel 1899 a 491 e nel 1900 a 489. Ritornarono poi tempi migliori; e la legge del 1904, proponente l’on. Rava e relatore l’on. Chimirri, segnava l’inizio del risorgimento equino italiano, che oggi urge viemmeglio affermare ed accelerare.

 

 

Stabilito in 800 il numero totale dei cavalli stalloni costituenti l’organico normale dei regi depositi, l’amministrazione non trascurò sforzo veruno nel raggiungere l’intento. Alla fine del 1903 gli stalIoni governativi erano 544; e salivano a 580 alla fine del 1904; a 632 nel 1905; a 640 nel 1906; a 674 nel 1907; a 686 nel 1908; a 732 nel 1909 ed a 794 nel 1910. Gli stalloni governativi stanno così per raggiungere quel numero di 800 che fu voluto da illustri uomini di stato in epoche in cui quella cifra segnava la meta ideale. Oggi essa già si palesa insufficiente; ed un novello sforzo si impone. Contemporaneo invero al crescere del numero dei riproduttori erariali, si sviluppava l’andamento ascendente del numero delle cavalle coperte; che da 19.103 nel 1892 saliva a 22.665 nel 1900, a 27.937 nel 1905, a 35.328 nel 1908, a 38.581 nel 1909 ed a 41.615 nel 1910. Contemporaneo, ma non del tutto parallelo; anzi con andamento più rapido e con progresso meglio vibrato. Cotanto pare infatti sia sentito dagli allevatori italiani il bisogno dei regi riproduttori che in media il numero delle cavalle coperte per ogni stallone crebbe ininterrottamente da 32,32 all’anno nel 1892 a 46,33 nel 1900, a 46,10 nel 1905, a 53,12 nel 1908, a 54,10 nel 1909, a 56,54 nel 1910. In alcuni regi depositi la media annua sale ancora più in su: a 62,46 a Crema, a 64,53 a Reggio Emilia ed a 66,62 a Ferrara. «Emerge evidente – osserva il ministero che il lavoro dei riproduttori erariali si è fatto più intenso e che, quindi, bisogna porre un argine all’aumento della media delle cavalle salite, in quanto questa, se fosse eccessiva, potrebbe recare pregiudizio alla fecondità. Troppe cavalle coprono gli stalloni governativi, dei quali il numero è ben lontano dal corrispondere ai bisogni dell’allevamento». Sono centomila le cavalle italiane destinate alla riproduzione; mentre nel 1910 eranvi appena 760 stalloni governativi dei quali solo 736 funzionarono; e, pure aggiungendovi 755 stalloni privati approvati, a mala pena giungiamo a 74.615 cavalle coperte. Anche tenendo conto degli allevamenti privati non sottoposti a controllo, sono sempre assai più di 20.000 cavalle che non fu possibile di far coprire per mancanza di stalloni, sia governativi, sia privati. Nella sola circoscrizione di Reggio Emilia si sono dovute respingere dal salto più di mille cavalle. E si hanno moltissime domande di apertura di nuove stazioni che giacciono insoddisfatte per la insufficienza numerica degli stalloni.

 

 

Poiché questa è indubbiamente la cagione del lamentevole difetto nella produzione equina nazionale, appare a primo aspetto ragionevole la proposta del ministero di portare da 800 a 1.200 il numero degli stalloni governativi, l’aumento di 400 essendo quello strettamente necessario, a 50 in media all’anno, a coprire le 20.000 cavalle invano anelanti alla riproduzione. L’alto intento si propone sia raggiunto in 5 anni, con un aumento annuo di 80 stalloni nei regi depositi e con un incremento contemporaneo negli stanziamenti sino a raggiungere il massimo di lire 1.280.000 in più nel 1915-16.

 

 

Per quanto l’abitudine mi abbia fatto tetragono ad ogni dimostrazione ministeriale sulla necessità di ampliare l’organico dei regi impiegati, in conseguenza dell’incremento vertiginoso del numero delle pratiche segnate a protocollo, debbo confessare che la dimostrazione della necessità di accrescere da 800 a1.200 l’organico degli stalloni governativi m’era apparsa persuasiva. Una media di cavalle coperte crescente da 32 a 57 circa è un fatto ben altrimenti impressionante dell’aumento del numero medio delle pratiche evase dai segretari e primi segretari di un qualunque ministero ed una rimanenza di 20.000 cavalle insoddisfatte è ben più dannosa alle sorti dell’economia nazionale che non l’ingigantire dei cumuli polverosi di carte nei ministeriali uffici, dove il tempo vola nell’architettare e nell’attendere la promozione troppo tarda a venire per la lacrimevole ostinazione posta dagli anziani in grado e in stipendio a non andarsene. Almeno i regi stalloni colla modestia del loro contegno si industriano di calmare l’impulso prepotente di ribellione che ogni difensore dei contribuenti sente al leggere una proposta di cresciute spese; – non hanno, nel loro organico, gerarchie, non reclamano lo svecchiamento dei quadri, l’epurazione degli inetti, né costituiscono leghe per crescere organici o stipendi od amendue insieme. Mentre i regi impiegati sono essi soli ad illustrare la necessità delle loro funzioni, in mezzo ad un pubblico di indifferenti e di ostili, la clientela delle cavalle manifesta invece ad alta voce l’irresistibile necessità di un aumento nel numero dei regi stalloni, dalla grande fatica oramai fatti logori e insufficienti, malgrado ogni loro migliore buona volontà, ad espletare il servizio di cui hanno ricevuto il carico dallo stato.

 

 

I dubbi risorsero quando un egregio studioso di zootecnia, il dottor Vincenzo De Carolis, titolare della cattedra ambulante d’agricoltura di Cremona, mi inviò una serie di monografie brevi e succose, sue e di altri, sull’avvenire del cavallo nel cremonese, sul concorso per cavalli da tiro di razza belga in Bruxelles, sulla funzione zootecnica dei guardastalloni per i cavalli d’artiglieria, ecc. ecc., monografie che mettevano sotto una luce nuova la influenza esercitata in passato dai regi stalloni sulla zootecnia italiana. Da queste pubblicazioni, dettate dall’esperienza della provincia italiana più progredita nell’allevamento dei cavalli, balzano fuori alcune interessanti analogie tra i regi riproduttori e gli impiegati pubblici che val la pena di mettere in luce.

 

 

Come gli impiegati governativi, i riproduttori erariali danno un rendimento monetario scarso e costano assai. Con le tasse di monta riscosse, in base a 60 cavalle coperte (si esagera un poco la media ultima, che fu di poco meno di 57, per tener conto degli incrementi futuri di lavoro), ogni regio stallone, a 12 lire per volta, rende all’anno circa 720 lire. Poiché il costo annuo non può fissarsi a meno di lire 600 per interessi, rischi ed ammortamento (15% del valor capitale medio calcolato a lire 4.000), a cui si aggiunsero nel 1909 lire 951,43 per spese di personale, lire 319 per spese generali, lire 797,98 per foraggi, in tutto lire 2.688,31 di spese, risulta un deficit annuo di 2.000 lire per stallone governativo. Con l’organico di 800 la perdita dei contribuenti si può calcolare ad 1.600.000 lire all’anno e salirà a 2.400.000 lire quando l’organico sarà portato a 1.200. La perdita, non piccola, è compensata da vantaggi indiretti almeno equivalenti? È il quesito solito di tutte le municipalizzazioni e statizzazioni; e si sa che i regi impiegati, non potendo spesso dimostrare di essere direttamente produttivi, si sforzano di mettere in luce i vantaggi indiretti che dall’opera loro provengono. I regi stalloni stanno invece zitti, contentandosi di mangiare alla greppia dello stato; e pare che di conservare un religioso silenzio abbiano ben ragione. La perdita che essi cagionano allo stato deriva in vero da due cause: da una parte dalla concorrenza illecita che essi fanno, quando si tratta di lavoro utile, agli allevatori privati vendendo i loro servizi al disotto del costo e dall’altra dal lavoro scadente che essi talvolta compiono.

 

 

A causa dell’esistenza dei regi depositi, osserva il De Carolis, gli allevatori si disinteressano della produzione degli stalloni, né acquistano quella cultura zootecnica che si riscontra in chi dirige direttamente la propria industria. E, rincalza nel numero del 26 gennaio 1911 il «Giornale d’ippologia», anche supponendo la maggior economia nelle spese, l’unità di lavoro dello stallone non può calcolarsi abbia, per il privato allevatore, un costo inferiore alle 30 lire. Poiché invece lo stallone governativo esercita a lire 12, è manifesto che l’industria privata non può assolutamente svilupparsi. È un caso di concorrenza illecita analogo a quello di un municipio che si faccia costruttore di case operaie per far discendere i fitti. Appena i fitti municipali siano inferiori ai costi correnti, l’industria privata edilizia viene ridotta, acuendosi quella fame di case che il sentimentalismo municipalizzatore voleva calmare. L’allevatore privato, se non vuol perdere, deve ricorrere a soggetti di infima classe, i quali costino poco, talché diventi redditizia persino la miserabile tassa di 12 lire. Onde l’industria zootecnica intristisce e s’imbastardisce la razza.

 

 

Né basta. Poiché per usufruire dell’uso di uno stallone erariale basta pagare la lieve tassa uniforme di monta di lire 12, accade che, a parità di prezzo, la clientela sceglie la merce migliore, il che vuol dire che cavalle di infima classe sono accoppiate con stalloni di alto valore, dove questi esistono; mentre, in alcuni regi depositi, per mancanza di migliori riproduttori, cavalle distintissime sono coperte da stalloni inadatti o ignobili. Dicono i regolamenti che la tassa possa essere fatta variare dai guardastalloni a seconda delle esigenze. Ma qual mai impiegato governativo accolse nella sua mente l’idea di essere da meno di un suo pari? Qual mai professore universitario, segnalato solo per aver perduto in un incendio o in uno scontro ferroviario il manoscritto dell’unico suo libro, sopporterebbe di essere pagato meno di quel che sarebbe, se ancora vivesse, per citare solo i morti, Galileo Ferraris? Così è degli stalloni governativi: tutti eguali dinanzi alla tassa di monta. Ne soffrirebbe altrimenti il vivace sentimento di uguaglianza dei possessori di cavalle, i quali pretendono, quali che siano le costoro qualità nobilissime o ignobili, di essere tutti uguali dinanzi alla legge di monta.

 

 

Così per un altro verso rimane impedito il progresso dell’industria privata che ha bisogno di prezzi diversi per merci di qualità diversa. Nel Belgio, dove furono aboliti i depositi governativi e dove lo stato interviene soltanto con esposizioni, concorsi pubblici e solenni, distribuzione di premi per mano del sovrano, l’allevatore privato, quando uno stallone sia reso celebre ed apprezzato, ha modo di elevare la tassa di monta a cifre talvolta sbalorditive. Indigene, il celebre figlio del celeberrimo Brin d’Or, esercita la monta a lire 300 per cavalla e pare vogliano portare ora la tassa a lire 500; e, per di più, il proprietario dello stallone si riserva il diritto di prelazione sui puledri maschi nascituri, dietro compenso di lire 500, all’età di quattro mesi. La tassa variabile ed alta giova ai fini della selezione, perché, elevandosi la tassa di monta, le cavalle che si presentano allo stallone sono le più belle fra le belle.

 

 

Gli stalloni migliori desidererebbero la tassa elevata. Col sistema attuale, nel 1909, se alcuni caddero ad una media di 40-42 cavalle, agli stalloni di razze da tiro pesante toccò una media di oltre 73 cavalle. Quando poi si pensa che le razze da tiro pesante – che, nel 1909, rappresentavano il 16,88% della forza disponibile nei depositi governativi – hanno alcuni stalloni distaccati in zone non ricche di cavalle e comprendono parecchi soggetti inabili o non accetti, non è improbabile che a qualche stallone distaccato, per esempio, nella zona cremonese siano state presentate 120 – 130 cavalle o più. Se si riflette ancora al turno di presentazione che si deve assegnare alle cavalle, per accontentare in breve periodo un numero grande di richieste, si ha un’idea dell’enorme lavoro a cui sono assoggettati alcuni riproduttori erariali. Né è facile ai guardastalloni opporsi all’andazzo pernicioso; poiché, quando un’industria diventa di stato, non può sottrarsi, anche in materia di riproduttori erariali, alle prepotenti pressioni politiche ed elettorali. «Certe circolari – pressione che incoraggiano a coprire molte cavalle – esclama malinconicamente il dott. Luigi Rossi, veterinario e guardastallone, – non dovrebbero distoglierci dal fare il nostro dovere che impone di non prestarci ad un giuoco che compromette gli interessi della nostra agricoltura e quelli del nostro erario». Sagge parole, che cadono nel deserto, di fronte alla pressione organizzata di ventimila cavalle elettrici!

 

 

La irrazionalità degli accoppiamenti, fatale conseguenza del concetto, connaturato all’industria governativa, della uniformità della tassa, produce molti effetti perniciosi, fra cui principalissimo si lamenta la scarsa fecondità delle cavalle. Senza andare fino all’esagerazione di quei belgi che stimano fino all’80% la fecondità delle cavalle della lor razza, è certo che la fecondità delle cavalle italiane, che è del 47%, è troppo bassa. La irrazionalità degli accoppiamenti, il lavoro eccessivo dei riproduttori erariali, considerati spesso come res nullius, il regime artificiale in cui gli stalloni sono tenuti nei regi depositi, senza moto, senz’aria sufficiente e senza una perfetta regolarità nella distribuzione del cibo, i sinistri effetti dell’acclimatazione a cui vanno soggetti gli stalloni erariali, quasi tutti importati dall’estero: ecco le cause della infecondità relativa delle cavalle italiane. Calcolando la perdita al 15%, sono circa 6.000 puledri all’anno di meno di quanto sarebbe ragionevole pretendere; con un danno, a 300 lire in media per ogni puledro, di 1.800.000 lire, che va aggiunto alle perdite, dirette ed indirette, di cui sono causa i regi depositi all’economia nazionale. Aggiungasi che, come è impossibile sbarazzarsi di un impiegato governativo di ruolo, così il riproduttore erariale acquista il diritto alla stabilità della greppia e dell’impiego. Onde, afferma il dottor Luigi Rossi già citato, «i cattivi riproduttori continuano a dare cattivi prodotti magari per 20 anni, senza che da nessuno si pensi ad eliminarli dalla produzione». Stato giuridico, inamovibilità dalla carica, ammortamento lunghissimo del macchinario, locomotive circolanti anche se decrepite, stalloni troppo a lungo funzionanti, benché screditati, non sono forse altrettanti aspetti, sempre nuovi e sempre uguali, del moderno feticcio: l’esercizio di stato? E non è forse vana utopia lo sperare un miglioramento da riforme, da estensioni, da rinsanguamenti, quando il principio stesso è nella sua essenza errato? Quando: 1) dopo sessanta e più milioni pagati dall’erario per i regi depositi di stalloni, non si è riusciti a formare in Italia una famiglia di cavalli «razzatori»; 2) lo stato è costretto ad adoperare cattivi metodi di selezione degli stalloni; 3) vi è deficienza assoluta di stalloni nati in Italia; 4) gli accoppiamenti sono mal fatti e si dà il ludibrio di ignobilissime cavalle offerte a stalloni di gran razza e viceversa; 5) gli allevatori non osano intraprendere, per la concorrenza illecita dello stato, l’industria della produzione degli stalloni; 6) la fecondità dei riproduttori erariali è insufficiente; quando queste ed altre accuse sono mosse da tecnici conosciuti agli 800 riproduttori erariali, sembra che un più lungo discorso avrebbe dovuto essere fatto dal ministro d’agricoltura per dimostrare la necessità di spendere altri molti milioni nello stesso malo modo. Quando si sente asserire che «la distruzione di tutte le nostre rinomate razze di cavalli si deve ai meccanismi di governo», che «il sistema dei depositi stalloni toglie al produttore la libertà di dirigere la propria industria e sopprime nel modo più prepotente ogni mezzo che tenda alla selezione dei riproduttori», quando si legge che nel Belgio la soppressione dei regi depositi «determinò la fortuna della produzione cavallina da tiro», l’incoercibile difensore dei contribuenti, che è in me, insorge e grida: Per questi ideali avete accresciute le tasse di registro e bollo, le imposte sugli spiriti e sui tabacchi, e vi apprestate ad inacerbire le tasse sulla giustizia?

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