Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Calcoli o cabale?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/04/1911
Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Calcoli o cabale?
«Corriere della Sera», 13 aprile 1911[1], 14 aprile 1911[2], 4 maggio 1911[3], 5 maggio 1911[4], 4 giugno 1911[5], 6 giugno 1911[6], 15 giugno 1911[7], 22 giugno 1911[8], 1 luglio 1911[9], 5 luglio 1911[10], 11 luglio 1911[11]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 231-307
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Vi sono due maniere di provvedere alle pensioni per gli operai. L’una è quella tenuta da Bismarck in Germania e da Lloyd George in Inghilterra. Fecero costoro il conto del costo del bilancio della pace sociale – questo è il nome con cui si usano chiamare oggi le assicurazioni operaie -; e lo presentarono al parlamento insieme colla proposta di nuovi balzelli sui contribuenti. Questa è finanza onesta. Provocò dibattiti solenni, che in Inghilterra non sono ancora chiusi. I partiti si schierarono l’uno contro l’altro in una feconda e magnifica battaglia di idee. Gli elettori furono chiamati a rispondere al quesito: Volete l’aumento dei dazi, o volete le imposte sulla terra per pagare le pensioni ai vecchi? Decisero dopoché per mesi e per anni ogni giorno con giornali, opuscoli, libri diffusi a diecine di milioni di copie, erano stati addottrinati – di preferire le imposte sulla terra.
Diversa è la finanza demagogica. Questa ha paura del dibattito, della profonda e larga divisione di idee e di partiti. Vuole l’unanimità nel bene; e poiché sa che tutti sono d’accordo nel volere fare il bene al prossimo, finché ciò nulla costi alla propria borsa, scopre, come i ciarlatani sui mercati e nelle fiere campagnuole, lo specifico miracoloso: i poveri avranno nella vecchiaia la pensione; e gli agiati potranno commuoversi a sì consolante spettacolo di solidarietà sociale senza che nessuna nube turbi la serenità della loro gioia; perché il finanziere demagogo ha, con una bacchetta magica, fatto sgorgare dalla rupe le decine di milioni necessarie all’opera di pacificazione. Combes ed i suoi accoliti bloccardi avevano scoperto il miliardo delle congregazioni religiose ed organizzarono la cacciata dei frati e delle monache dal suolo repubblicano di Francia. Giolitti ed i suoi amici socialisti hanno scoperto gli utili dell’assicurazione sulla vita e propongono la cacciata degli assicuratori privati e la creazione di un nuovo monopolio di Stato.
I parlamentari plaudono, commossi, alla scoperta mirabile che li farà apparire, senza spesa e senza l’impopolarità di nuovi tributi, in veste di filantropi nei prossimi comizi dinanzi alle cresciute turbe elettorali.
Benché non speri di persuadere chi ordisce l’illusione e coloro che sono lieti di essere illusi, sento il dovere, in questo momento decisivo della vita politica italiana, di denunciare la triste commedia giocata da coloro i quali vorrebbero dal nulla assoluto ritrarre i mezzi per compiere una delle più grandi e costose tra le opere della pace sociale. Da una illusione e da una viltà nacque in Italia l’esercizio di Stato delle ferrovie: l’illusione in pochi che lo Stato fosse in grado di gerire le ferrovie meglio di un’impresa delegata privata, la viltà in molti, i quali, consapevoli del contrario, tacquero per paura si dicesse che essi erano venduti alle compagnie private. È doveroso, ora che si vuol ripetere il medesimo errore, smascherare l’illusione ed avere il coraggio delle proprie opinioni, anche se queste, nell’interesse generale, son contrarie all’esercizio di Stato e favorevoli alle imprese private di assicurazione.
Quanto costeranno le pensioni operaie al tesoro? La risposta è impossibile, innanzitutto perché il ministero non ha dichiarato di voler proporre l’obbligatorietà dell’assicurazione degli operai contro l’invalidità e la vecchiaia, ma solo di voler «dare maggior energia d’azione e maggiori mezzi finanziari» alla esistente libera assicurazione presso la Cassa nazionale; ed in secondo luogo perché mancano troppi dati statistici perché un calcolo ragionevole possa essere istituito. In Germania le pensioni (obbligatorie) di invalidità e di vecchiaia costano circa 90 milioni di lire all’impero all’anno, oltre i contributi a carico degli operai e degli imprenditori. In Francia, ove l’assistenza ai vecchi già costa, per la legge del 1901, più di 100 milioni allo Stato ed agli enti locali, la nuovissima assicurazione obbligatoria contro la vecchiaia e la invalidità costerà inoltre, al solo Stato, non meno di 120-130 milioni fin dal bel principio, invece degli 80-90 che erano iscritti nei primitivi progetti governativi. In Italia, a voler fare un’ipotesi benignissima, non potremmo discendere al disotto di 60 milioni e più probabilmente andremmo verso i 100, dato che la popolazione italiana è di appena 4 milioni inferiore a quella francese, che gli italiani sono in media più poveri e quindi più numerosi in proporzione i vecchi aventi diritto alla pensione, meno diffusa la proprietà e meno numerosi coloro ai quali la pensione potrà essere negata. Ciò nel caso dell’assicurazione obbligatoria. Né le cifre potranno cambiare molto nel caso dell’assicurazione libera ove si voglia accettare come sincera ed effettiva la promessa del governo di dare sul serio «maggior energia d’azione» alla cassa nazionale. Che se anche questa fosse un’illusione, ogni discorso potrebbe essere troncato qui, in sul bel principio, come vano ed inutile.
Per far fronte a sì ingente spesa che cosa si propone? L’assunzione da parte dello Stato del monopolio delle assicurazioni sulla vita. E cioè lo Stato esproprierebbe (non indugiamoci per ora sui particolari della espropriazione) le attuali società d’assicurazione sulla vita operanti in Italia, incamerandone le riserve matematiche e surrogandosi negli obblighi e nei diritti verso gli assicurati; e per l’avvenire eserciterebbe da solo, in monopolio, questo ramo di assicurazione. Chiunque vorrà in avvenire assicurarsi sulla vita dovrà ricorrere al monopolio di Stato. Gli utili delle assicurazioni sulla vita volontariamente stipulate dai proprietari, industriali, capitalisti, commercianti, professionisti, impiegati, ecc. presso il monopolio di Stato dovrebbero essere versati alla cassa nazionale per far fronte all’onere delle pensioni di invalidità e di vecchiaia a favore degli operai. Il reddito delle operazioni fatte coi ricchi servirebbe a pagare il deficit delle pensioni date agli operai. È semplice e meraviglioso. Il guaio si è che si tratta di una illusione.
Nei discorsi privati v’ha della gente che farnetica di utili enormi ottenuti dalle imprese di assicurazione sulla vita: persino son cifre che mi capitò di sentir citare seriamente – di 500 milioni di lire all’anno. Altri si contenta di 100 milioni; l’on. Gino Incontri sulla Nuova antologia dell’1 febbraio favoleggiò di 40 milioni di lire; il prof. Attilio Cabiati sul Secolo e sulla «Stampa» reputa di potersi fermare con sicurezza sui 25-30 milioni di lire all’anno.
Sembra incredibile che il fanatismo possa spingere persone esperte del mestiere e ragionevoli negli affari ordinari della vita, economisti peritissimi nella previsione esatta dei disastrosi effetti delle statizzazioni (leggasi il profetico studio di Attilio Cabiati su La nazionalizzazione dei mezzi di trasporto ne «La Critica Sociale» del 16 ottobre 1903) a cotali estremi. Nulla o quasi nulla si conosce dei profitti attuali dell’industria delle assicurazioni sulla vita in Italia. Le notizie più fresche sono quelle che si leggono in appendice al disegno di legge sulle imprese di assicurazione sulla vita presentato dal Raineri nella seduta del 27 febbraio 1911 e che si riferiscono alla fine del 1909. Eccole riassunte:
Società nazionali | Società estere | Totale | |
Numero delle società | 36 | 23 | 59 |
Numero polizze in vigore | 158.647 | 108.273 | 266.920 |
Capitali assicurati | L. 667.492.233 | 930.125.684 | I.597.617.917 |
Rendite assicurate | 5.200.642 | 1.306.689 | 6.507.331 |
Riserve matematiche | 54.181.203 | 245.312.222 | 399.493.425 |
Premi incassati nell’anno | 25.937.634 | 36.295.395 | 62.233.029 |
Sono, purtroppo, cifre minime in confronto ai 27 miliardi di capitale assicurato e di 1 miliardo e 100 milioni di premi incassati nello stesso anno in Inghilterra ed alle somme, pure vistose, della Svizzera, della Germania e degli Stati uniti. Ma non è in poter nostro di ingrossarle; né di calcolare i profitti delle imprese di assicurazione su altre, fantastiche basi. Date quelle cifre, bisognerebbe, per dare i 40 milioni di profitti immaginati dall’on. Incontri, che il coefficiente di guadagno sui premi incassati arrivasse al 65% circa; o, per dare i 25/30 milioni del Cabiati, giungesse al 40-50%. Ammettendo che il coefficiente delle spese di amministrazione e di commissioni ai produttori sia solo del 20% (in Inghilterra nel 1909 fu in media del 24%), bisognerebbe concludere che, su ogni 100 lire pagate dagli assicurati, 85 lire, secondo l’onorevole Incontri, e 60-70 lire secondo il Cabiati, vadano devolute a profitti, spese e commissioni; e che soltanto dal 15 al 40% dei premi fosse restituito agli assicurati all’epoca della morte o del raggiungimento di una data età o col decorrere della vecchiaia. Tutto ciò è troppo grottesco per essere serio. Io non so, ripeto, e non lo sa nessuno, nemmeno l’on. Nitti – il quale deve certamente, mentre scrivo, far appello a tutte le arguzie del suo fervido ingegno per almanaccare una sopportabile dimostrazione statistica del progetto che scetticamente è in procinto di presentare alla camera – quanto guadagnino coll’industria dell’assicurazione le società esistenti. Ma supporre un margine del 10% di utile netto medio sui premi incassati è fare un’ipotesi che a me par ragionevole; perché se vi si aggiunge un coefficiente di spesa del 20%, arriviamo ad un carico lordo del 30% di profitti e spese sui premi incassati. Poiché il capitale nelle società di assicurazione ha sovratutto una funzione di garanzia ed è già remunerato a parte, bisognerebbe supporre, per rendere legittima l’ipotesi di un lucro più elevato, una assenza completa di concorrenza e l’impero di un monopolio assoluto. Il che non è; poiché, per quanto siano poche le compagnie potenti, tante istituzioni piccole e medie sono sorte e sorgono ancora in questo campo, che se davvero il margine di utile fosse superiore al 10% sugli incassi, ben presto sarebbe ricondotto a questo limite dalla concorrenza. Due ordini di considerazioni confermano l’ipotesi: 1) la cassa nazionale per la invalidità e vecchiaia degli operai, la quale lavora a costi minimi, perché in parte i suoi costi sono sopportati dallo Stato e da benemerite istituzioni locali, e non ha dividendi da ripartire ad azionisti, quando ha dovuto formare le tariffe per le assicurazioni popolari di rendita vitalizia ha dovuto stabilire tariffe non dissimili dalle tariffe delle società private. Che cosa vuol dire ciò? Che, pur rinunciando ad ogni profitto, pur lavorando, anzi, sotto costo, la cassa di Stato deve far pagare quanto le società private. Se queste lucrassero somme enormi, la cosa sarebbe inesplicabile; 2) gli utili delle società di assicurazioni risultano, dal bollettino delle società per azioni, in una cifra oscillante dagli 8 ai 10 milioni di lire. E più del 10% che dicevo sopra; ma la cifra conferma l’ipotesi fatta e ne dimostra anzi la larghezza eccessiva. Poiché utili delle società di assicurazioni non sono la stessa cosa degli utili attuali dell’industria dell’assicurazione. Una notevole parte degli utili delle società proviene dagli investimenti del capitale proprio di esse, e delle riserve sapientemente accumulate in passato, investimenti che spesso furono fatti con avvedutezza e con perspicacia, investimenti che sono una proprietà privata delle società, le quali ne potrebbero essere espropriate solo dietro un congruo indennizzo, i cui interessi farebbero svanire ogni lucro per lo Stato. Anche questo dovrebbe avere un capitale proprio e potrebbe ricavarne un utile; ma è sicuro di ottenerne quel 3,50% che pur converrà pagare ai portatori del prestito che converrà di emettere per dotare il futuro monopolio?
È vero che il Cabiati ha aggiunto agli 8-10 milioni di lucri palesi altri 10 almeno nascosti nelle pieghe dei bilanci a causa dei criteri prudenziali con cui le società confezionano i loro bilanci. Confesso di non saperlo seguire su questo terreno. La cifra di 10 milioni di utili nascosti è completamente arbitraria, non dimostrata e non dimostrabile. Assegnazioni a riserva devono essere fatte – e in misura cospicua – per ovvie ragioni di prudenza; né potrebbe esimersene lo Stato. Leggevo poche settimane fa, sull’«Economist», degl’imbarazzi a cui la tendenza odierna al rialzo nel saggio dell’interesse ha posto le compagnie inglesi di assicurazione sulla vita. Il rialzo avvantaggia da un lato le compagnie che vedono aumentare il reddito dei loro nuovi investimenti (4% invece del 3 o 2,50% a cui dal 1880 al 1900 s’erano dovute adattare); ma le danneggia d’altro canto ben più gravemente, perché i vecchi titoli del reddito di 2,50-3 lire acquistati a 100, quando il saggio dell’interesse era al 2,50-3%, adesso sono ribassati a 90, ad 80 ed anche a meno, essendo il reddito rimasto immutato, mentre il saggio dell’interesse ribassava.
Contro rischi di ribasso nel valor capitale degli investimenti è necessario accumulare riserve. Le dovremo noi perciò chiamare utili? Sarebbe opera di imprevidenza degna dello Stato italiano, il quale, per non avere saputo premunirsi contro le variazioni del saggio dell’interesse e contro altri rischi inerenti all’industria delle assicurazioni, ha lasciato cadere le vecchie casse pensioni del personale ferroviario nel baratro di un disavanzo di non si sa quante centinaia di milioni.
Dunque, ove non si voglia fare della finanza fantastica, ove non si voglia cadere nel grottesco, contentiamoci di dire che oggi le imprese esistenti in Italia dall’industria delle assicurazioni ritraggono una somma, che è ignoto quale sia, ma nell’ammontare della quale non si deve tener conto di quel tanto che serve a remunerare gli investimenti fatti, in occasioni talvolta superbe di rendimento, col capitale e colle riserve proprie delle società. Ho azzardato l’ipotesi che l’utile netto industriale non superasse il 10% dei premi incassati. È un’ipotesi che parmi fin troppo larga. Se fosse vera, gli utili si aggirerebbero sui 6 milioni di lire all’anno. Utili, ripeto ancora una volta, dell’industria assicurativa, che sono i soli che ci interessano. Perché degli altri utili che sono ottenuti dalle società di assicurazione con i capitali propri o con le proprie riserve, lo Stato non potrebbe impadronirsi senza espropriare capitali e riserve. Forse le società non desiderano niente di meglio. Perché pagando al valore corrente gli immobili e i titoli di proprietà delle società, queste smobilizzerebbero il loro patrimonio a prezzi sicuramente vantaggiosi. Il danno sarebbe tutto per lo Stato, che dovrebbe emettere parecchie centinaia di milioni di titoli di debito pubblico e non sarebbe sicuro di riprendere coi redditi del patrimonio espropriato gli interessi da pagarsi ai portatori dei titoli. Chi può, salvo nel farnetico di sogni avveniristici, supporre che lo Stato riesca ad impiegare i suoi capitali con un reddito – netto da spese – maggiore dal 3,50% di interesse da pagarsi ai creditori? Ed allora dove sono i redditi non industriali?
L’inanità dei discorsi sui benefici sperabili dal monopolio delle assicurazioni sulla vita può anche dimostrarsi in altro modo. In Francia una commissione parlamentare, composta di radico socialisti e desiderosa quindi di inventare pretesti per legittimare il feticcio del monopolio, si è trovata dinanzi a tali difficoltà che si è dovuta limitare a proclamare la bontà del principio, rimandandone all’avvenire l’attuazione. Orbene, nella relazione si leggono dei dati interessanti intorno ai lucri delle compagnie di assicurazione, che si distinguono, come di ragione, inutili dell’industria assicurativa, utili derivanti dagli impieghi di capitale ed utili diversi. Ecco i dati sommari dell’esercizio 1906:
Capitali assicurati | L. 5.202.457.147 |
Rendite assicurate | 118.733.923 |
Utili industriali | 13.528.367 |
» di impieghi | 13.761.356 |
» diversi | 829.180 |
In tutto, le società francesi, anonime e mutue, e le straniere operanti in Francia guadagnano dunque 28 milioni, la cifra all’incirca che si pretenderebbe far guadagnare in Italia al monopolio! Ma di questi 28 milioni appena 13 e mezzo sono utili industriali e sono i soli su cui un eventuale monopolio potrebbe fare assegnamento, perché gli altri sono il reddito delle case e dei titoli che sono proprietà privata degli azionisti, reddito che lo Stato farebbe un pessimo affare ad espropriare. Se in Francia, con 5 miliardi e 202 milioni di capitale assicurato e i 118 milioni di rendite a pagare, le società hanno un lucro industriale di 13 milioni e mezzo, quanto guadagneranno in proporzione le società operanti in Italia con 1 miliardo e 597 milioni di capitale assicurato e 6 milioni e mezzo di rendite promesse? Meno di un terzo di 13 milioni e mezzo, forse un 4 milioni e mezzo. È ancor di meno dei 6 milioni che, per abbondanza, avevo supposto argomentando dalle cifre dei premi.
Comunque sia, una cosa pero è certa: che questi utili, si tratti di 4 o 6 o 10 milioni, non durerebbero a lungo qualora lo Stato assumesse il monopolio delle assicurazioni. Poiché questa è un’industria che crediamo mal si presti ad essere statizzata.
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Quella delle assicurazioni, è un’industria che ad essere statizzata nulla potrebbe guadagnare e molto perdere: poiché il monopolio sarebbe per essa la forma di esercizio meno adatta, la più infida, la più finanziariamente pericolosa.
Nulla guadagnerebbe. Nessun argomento fu addotto a dimostrare che le assicurazioni sulla vita possano essere gerite dallo Stato con maggiore economia ed a costo più basso che dall’impresa privata. O, se qualche argomento fu addotto, è risibile. Tale l’allegazione che lo Stato, operando su un campo più vasto, assicurando tutti i rischi sulla vita che sono assicurabili in Italia potrà commettere meno errori di previsione, avrà bisogno di una minor riserva matematica e potrà stabilire delle tariffe più basse. Come se la verità non fosse invece questa: che le imprese private hanno nel momento presente già superato persino i limiti del mercato nazionale. Quella che per gli statizzatori appare come l’ultima Thule del progresso, come la conquista futura del nuovissimo monopolio, è, come tante altre invenzioni statali, da lungo tempo stata superata dall’iniziativa privata. Le maggiori e minori società, quando assicurano un rischio, a cui non basta il proprio capitale di garanzia, usano tutte riassicurarsi, almeno in parte. In tal guisa i rischi non gravano più su una sola impresa, ma su un complesso di imprese, talvolta su una rete di imprese che abbraccia il mondo intero degli assicuratori. Già ora la più piccola società può praticare – e dalla concorrenza è costretta a praticare – le tariffe che rispondono non ai suoi costi, che possono essere alti, bensì ai costi delle imprese meglio costituite che dominano il mercato mondiale delle assicurazioni, e può praticare quelle tariffe perché essa può sempre riassicurare i rischi che eccedono le sue forze. Il monopolio di Stato non opererebbe su un mercato più ampio, ma su un mercato più ristretto delle imprese private, e quindi – sotto questo rispetto – dovrebbe, se è vero l’argomento degli statizzatori, applicare tariffe più elevate. A meno che si decida a riassicurarsi, per una parte dei rischi assunti, presso le compagnie estere: cosa che sarebbe probabilmente resa difficile dal clamore della burocrazia nazionalista, gridante all’esportazione dei capitali ed all’arricchimento delle società straniere riassicuratrici.
Né più vale l’altro argomento, l’unico addotto dall’on. Giolitti, che il futuro monopolio guadagnerà di più perché «la garanzia sicura dello Stato provocherà un incremento della previdenza». Qui siamo di fronte al mistero. Come e perché una persona ragionevole debba avere più fiducia nello Stato assicuratore che nelle intraprese private, di cui egli può valutare il credito e studiare i bilanci, non si vede. L’esperienza proverebbe il contrario. Lo stato è riuscito a crescere il culto della previdenza solo colla forza dell’obbligatorietà. Quando lo Stato obbligherà tutti i cittadini ad assicurarsi, allora i suoi clienti si novereranno a milioni. Prima mi si consenta di rimanere scettico. Pur facendo pagare premi eguali alla metà, al terzo ed anche meno del costo, quanti operai e riuscito ad assicurare a 6 lire all’anno alla sua cassa di previdenza? Reclute individuali ne ottenne pochissime. Quasi tutte furono arruolate da municipi, enti morali, industriali, ecc. Dove sono i filantropi appartenenti alle classi ricche ed agiate pronti ad arruolare assicurati per il monopolio di Stato? Né si dimentichi che lo Stato è sempre più preso in sospetto dalle classi ricche ed agiate che dovrebbero costituire la clientela redditizia, del futuro monopolio. Chi riuscirà a togliere di testa al professionista il sospetto che, assicurandosi per un premio di 1000 lire all’anno presso il monopolio di Stato, l’agente delle imposte non ne tragga argomento per illazioni, più o meno giustificate, intorno al suo reddito od al patrimonio dei suoi eredi e per crescere a lui o ai suoi figli l’imposta di ricchezza mobile o di famiglia o di successione? Sono così facili adesso le maniere di assicurarsi all’estero che, ove appena un simile sospetto prendesse piede, subito le società di assicurazione estere avrebbero interesse ad attirare con accorta propaganda, simile a quella che riuscì con tanto successo a togliere alle banche italiane la custodia dei titoli forestieri posseduti da italiani per affidarla alle banche svizzere, la clientela migliore, più ricca e più colta, presso i loro stabilimenti francesi, svizzeri, triestini. Rimarranno al monopolio i rischi peggiori della minuta borghesia, quella a cui la sicurezza di compiere un’operazione vantaggiosa riuscirà a far superare l’istintiva repugnanza a far sapere i fatti propri allo Stato. Che cosa potrebbe fare il monopolio contro la emigrazione degli assicurati? Altra via di scampo non gli rimarrà fuorché imporre la fiducia.
Se nulla guadagna, molto perde l’industria assicurativa ad essere statizzata. Gli statizzatori, i quali vedono che nella incapacità organica dello Stato alle imprese industriali sta la massima ragione di sconfitta del nuovo monopolio, si danno un gran da fare a dimostrare che l’industria assicurativa è semplice, semplicissima senza quasi alcun carattere di industrialità, molto dissimile dall’industria ferroviaria, della cui statizzazione essi medesimi previdero il fallimento, dolorosamente e fatalmente verificatosi.
Unico elemento commerciale industriale è la ricerca degli iscritti, essi proclamano. Si lascino da questo lato le cose come sono. Paghinsi gli ispettori a provvigione, così come sono pagati ora; ed essi seguiteranno ad andare alla caccia di clienti per il monopolio di Stato, così come oggi vanno per le compagnie private.
Siamo ogni giorno spettatori di quello che lo Stato è capace di esigere dai suoi impiegati, della minima forza di resistenza dinanzi alle esigenze dei suoi funzionari riuniti in leghe, per potere rimanere un solo istante ingannati da una promessa così fragile. Il medesimo Stato che non è stato buono ad interessare, con una provvigione, i segretari comunali e gli ufficiali postali a cercar clienti per la cassa nazionale, che ha abolito la forma di pagamento ad aggio sugli incassi in pressoché tutte le pubbliche amministrazioni, che la sta abolendo, come contraria alla dignità umana, nelle ricevitorie del registro, che ha nelle ferrovie quasi distrutta l’efficienza di quei metodi di salari a premio, incerti e variabili, che potentemente servivano a stimolare la produttività del lavoro, lo Stato dovrebbe saper fare eccezione per i soli ispettori di assicurazione! Come si può ammettere che la burocrazia statale venga meno ai principii essenziali, fondamentali della sua vita: che sono la gerarchia, l’anzianità, l’eguaglianza di trattamento? Come si può credere, sul serio, che un direttore generale del monopolio di Stato pagato (lo vogliamo mettere a paro col direttore generale delle ferrovie?) 24000 lire all’anno, tolleri l’abuso, – son parole consuete nel gergo dell’invidia burocratica – di un produttore abile, intraprendente di assicurazione che ne guadagni, in provvigioni, 100 o 200 mila? Come tollereranno i commessi degli ispettori più abili di essere alla loro mercé; non vorranno essi – come vogliono ed ottengono od otterranno i commessi dei ricevitori del registro – diventare impiegati diretti dello Stato, con diritti di promozioni e di pensioni? Il giorno dopo che sul «Secolo» era stato pubblicato il programma del futuro monopolio, non si è forse domandato un ispettore d’assicurazioni: «chi può dire quale impulso meraviglioso verrebbe dato a questo ramo di operazioni dallo stuolo dei funzionari attivi che tutte le compagnie posseggono sino nei più lontani paesi quando si sapesse tranquillo nella posizione, sicuro della solidità dell’istituto, ed orgoglioso di rappresentarlo?».
Oggi gli ispettori producono e cercano clienti perché sono malsicuri, perché se non trovano il cliente, non hanno la provvigione e non vivono. È questa la forza delle imprese private, è questo l’aculeo, lo stimolo fecondo della gente che produce, lavora e crea: l’incertezza della vita, il timore perenne di essere travolti. Come sarà possibile persuadere gli ispettori di assicurazioni, passati alle dipendenze dello Stato, che essi debbono continuare a menar vita randagia ed incerta, mentre gli altri impiegati dello Stato al 27 del mese ricevono tranquillamente la loro paga senza preoccupazioni per l’avvenire? Come impedire a costoro di associarsi per redimersi dall’abbietta schiavitù della provvigione e per giungere all’ideale supremo della “posizione sicura”? La camera cederà; perché nessuna camera elettiva è capace di resistere alla pressione organizzata dei funzionari. Mi si dica per quali ignote vie, per mezzo di quali miracolose ed ora inesistenti forze si possa sperare di impedire la trasformazione graduale del libero ed attivo ed assillante ispettore di assicurazioni in un impiegato ugualitario, studioso della tabella di avanzamento, cospirante all’aumento degli stipendi, all’acceleramento delle carriere ed allo svecchiamento dei ruoli; ed io mi darò per vinto.
Le difficoltà dell’industria assicurativa non si restringono alla ricerca del cliente. Anche se questa fosse l’unica difficoltà, basterebbe a sconsigliare lo sperimento. Ma non è la sola. Un’altra difficoltà, e somma difficoltà, vi è: l’impiego dei capitali raccolti. I tedeschi, che hanno studiato tutto lo studiabile, hanno scritto libri per mettere in chiaro come gli istituti di assicurazione siano diventati oramai veri e propri istituti bancari. Sono banche che ricevono depositi di natura speciale, restituibili non a volontà del depositante, ma a date future prevedibili (morte, sopravvivenza ad una certa età, ecc.); e devono investire questi depositi in modo da averli a disposizione alla data indicata. Ciò può parere semplice e non è. Gli istituti di assicurazione debbono cercare impieghi che: 1) diano un rendimento relativamente alto, a pena di dover fare pagare agli assicurati un premio eccessivo; 2) siano assolutamente sicuri, perché si tratta di depositi spettanti a gente che ha voluto fare opera di previdenza; 3) non siano soggetti a deprezzamenti nel tempo, che può essere talora di 20, 30 e più anni, il quale rimane a decorrere tra l’epoca della riscossione del premio e quello del pagamento della somma assicurata. Creda chi vuole nella somma facilità e semplicità dei buoni investimenti rispondenti a questi requisiti. Forse è più difficile del far correre locomotive e treni su una rete ferroviaria, del fabbricare una corazzata in un cantiere militare, dell’esercire una rete telefonica, tutte cose nelle quali sappiamo benissimo quanto eccella lo Stato italiano. Perché bastano tecnici esperti e conoscitori delle correnti commerciali attuali per esercire una ferrovia, basta un ingegnere navale di genio per costruire una buona corazzata, basterebbe un buon organizzatore per far andare passabilmente i telefoni. Tutto ciò non basta per fare degli investimenti buoni non solo nel momento attuale, ma in un tempo futuro. Entra in giuoco una delle più preziose e più rare facoltà umane: la previsione degli avvenimenti futuri. Quanti amministratori prudentissimi delle società inglesi di assicurazione più potenti non si erano illusi che il consolidato del loro paese non potesse ribassare e l’ebbero a comperare a 110, 115 lire! E poi ribassò a 78 e convenne far fronte a perdite rilevanti. Così si spiega perché poche società sopravvivano di tante che si fondarono tra molte illusioni. Non sanno scegliere gli impieghi e lucrano il 3, il 2, il zero, il meno 2 o il meno 10%, laddove speravano d’aver collocati i capitali ad un frutto almeno del 4%!
Dicasi, se si osa, che lo Stato assicuratore saprà impiegare meglio dei privati i capitali che gli saranno affidati. Già li conosciamo gli impieghi preferiti dallo Stato. Sono quelli che egli in parte impone, col pretesto della sicurezza, alle società d’assicurazione per la riserva matematica: rendita, e titoli garantiti dallo Stato. Adesso si aggiungono gli impieghi sociali: mutui a case popolari, a cooperative, a compagne di redenzione delle terre incolte, e simili. Qui sta uno dei pericoli maggiori di questa pazzesca impresa: 1) da un lato agire come una pompa aspirante dei risparmi nazionali, tolti dagli impieghi liberi delle industrie e destinati a fornire i mezzi onde tappare le falle del bilancio statale e fare allegramente opere improduttive che, senza il denaro, a buon mercato, artatamente ottenuto, mai si sarebbero pensate; 2) sussidiare ogni fatta di intraprese artificiose, che da sé morirebbero, a favore di gruppi privilegiati, sapienti nell’imporsi ai governi. Il monopolio delle assicurazioni si palesa così come una nuova macchina di sprechi finanziari, di corruzione politica, aggiunta alle altre macchine di che lo Stato italiano già fruisce e che bisognerebbe ad una ad una abbattere, invece di moltiplicare insanamente.
Oggi le imprese di assicurazione hanno il senso della classificazione dei rischi, e cioè hanno vivo interesse a scortare i rischi troppo gravi, per non incorrere in perdite. Le visite mediche sono una assoluta necessità quando non si voglia mettere in forse la possibilità dell’impresa di far fronte agli impegni presi. L’interesse dell’impresa costituisce così un rimedio efficace contro la tendenza dei produttori di proporre ogni sorta di candidati, pur di lucrare la provvigione. Nel monopolio di Stato chi avrà questo interesse? Se i produttori saranno divenuti funzionari a stipendio, ad essi nulla importerà che i rischi siano buoni o cattivi, omogenei o no; tanto lo stipendio correrà ugualmente. Se ai produttori sarà ancora data una provvigione, essi non avranno alcuno scrupolo a proporre assicurazioni di persone poco adatte, ammalate o di costituzione poco resistente.
Ripeto: chi avrà interesse ad evitare il pericolo? Oggi sono i dirigenti delle imprese, che hanno interesse ad essere prudenti per salvare l’azienda. Domani, quando il disavanzo dovrà essere coperto dallo Stato, chi se ne curerà? Il direttore generale del monopolio non vorrà essere da meno di un qualunque altro direttore generale; e porrà il suo punto d’onore nel pubblicare statistiche di rilevanti crescenti somme di premi riscossi. Che cosa importerà che il coefficiente del costo cresca a poco a poco e faccia scomparire, convertendoli in una perdita, i 6 o gli 8 o i 10 milioni, che dovrebbero essere versati a pro delle pensioni operaie?
Ad ogni malanno la burocrazia sa trovare un rimedio. Il direttore generale del monopolio non avrà che da rivolgersi al collega direttore generale delle ferrovie per sapere come far apparire utili dove utili non vi sono. Vi saranno sempre attuari, che, con qualche leggero ritocco agli elementi primi del bilancio tecnico, al saggio dell’interesse ed alle tabelle di mortalità, dimostreranno che l’azienda è in perfetto pareggio. Non è abituato lo Stato a trascurare i disavanzi delle sue casse quando sono piccoli e ad accorgersene quando sono divenuti troppo visibili? Si farà tra venti o trent’anni un debito di un miliardo, come si fece per le ferrovie; ed i contribuenti pagheranno lo scotto, senza potersi rivalere contro coloro che oggi assicurano di poter risolvere, costruendo un castello di carta, il problema delle pensioni operaie.
Vi sono ore nella vita in cui il disgusto assale. Vien fatto di chiedere a che cosa abbiano servito gli insegnamenti della storia e della scienza se a distanze di secoli gli stessi spropositi si ripetono e si accarezzano le stesse chimeriche speranze. Duecento anni fa un faccendiere piemontese, il capitano Raviolato, desideroso di entrare nelle grazie del secondo restauratore della potenza di Casa Savoia, proponeva a Vittorio Amedeo II di istituire a Torino un banco reale, al quale voleva si affidasse il compito dell’assicurazione generale ed obbligatoria di tutte le case del Piemonte contro gli incendi. Prometteva premi bassissimi e redditi cospicui per il banco, il quale in pochi anni «si farà il banco più forte di tutta l’Europa», ed avrebbe dato un reddito netto siffattamente grande da poter far sorgere «manifatture non ancora praticate» negli Stati piemontesi. Vittorio Amedeo II vide che il progetto era una cabala, architettata per far guadagnare cariche ed onori all’inventore, e mandò a spasso il capitano Raviolato. Saprà l’opinione pubblica, erede della «volontà del principe» d’allora, vedere che la cabala odierna nulla darà allo Stato e gioverà solo ai burocrati anelanti a nuovi stipendi ed agli aspiranti alle future cattedre della previdenza?
3
Che vi siano cabalisti i quali, dopo le discussioni avvenute nella stampa, ritengano ancora di cavare molti milioni dalla invenzione delle assicurazioni di Stato non può essere cagione di stupore, perché ogni cabalista ha l’anima del giuocatore al lotto e suppone sempre che il tenitore del banco (non è forse un banco da giuoco per costoro l’alternativa tra la vita e la morte?) guadagni almeno il 50% sulle giocate.
Ciò che meraviglia non è che i cabalisti architettino piani grandiosi e farnetichino ridde di milioni; ma che agli utili del 40-50% sui premi incassati si ostinino a credere economisti e tecnici, come il prof. Attilio Cabiati, il quale persiste a credere, in articoli pubblicati sulla Stampa, che sussistono i 25-30 milioni di utili che a me e ad altri erano parsi grottescamente esagerati.
Importa dunque che la cabala sia ancora una volta smontata. Essa non poteva decentemente presentarsi al grande pubblico senza che fosse preceduta dall’argomento che sul grosso pubblico fa più grande presa: delle azioni emesse dalle società di assicurazione ad 800, 1.000, 2.000 lire e che ora valgono le 3.000, le 7.000, le 10.000, le 25.000 e le 36.000. Probabilmente a studiare con più calma si sarebbero potuti addurre esempi di aumento ancor più spettacolosi e tali da disgradare i voli più sublimi delle azioni automobilistiche nel 1905-906 a Torino o delle azioni del caucciù a Londra nel 1909-10. Voglio anche ammettere, per abbondanza, che gli aumenti citati, i quali sono tutti di società straniere, non siano i soli; voglio persino concedere che sia corretto citare, come prova di larghi utili ottenuti in Italia, il fatto di aumenti avvenuti nei titoli di società straniere che da poco tempo operano in Italia; che esistano alcune pochissime società italiane i cui titoli sono molto aumentati di valore in confronto al corso di emissione. Anche tutto ciò ammesso, quale ne è il significato vero, non quello che può far colpo sul volgo, quel volgo non sempre analfabeta, il quale considera le società anonime come delinquenti e le borse come luoghi di perdizione? Semplicemente questo: che vi sono alcune poche società, fondate da molti anni, alcune da 80 o 90 anni, parecchie nella prima metà del secolo XIX, sopravviventi nella lotta di concorrenza dall’eccidio delle moltissime scomparse, i cui amministratori hanno, nel lungo corso di una vita prudente, accantonato utili, non distribuendoli agli azionisti, od hanno comprato, magari al corso di 40 o 50 lire, titoli di Stato che ora ne valgono 103, od hanno acquistato in passato case il cui reddito e valore ora si sono raddoppiati o triplicati.
Il patrimonio proprio di queste società ora è di gran lunga superiore al valore nominale delle azioni; spesso non risulta nemmeno dalle cifre iscritte nel bilancio, le quali talvolta corrispondono ai prezzi d’acquisto e non ai prezzi correnti; ed è naturale perciò che i titoli siano negoziati ad un prezzo superiore al nominale. Tanto più naturale in quanto i capitali di queste vecchie società erano in origine di solito piccolissimi, talché con non rilevanti redditi assoluti si riesce a pagare dividendi proporzionatamente elevatissimi. Ma ciò non vuol dire che siano elevati gli utili industriali correnti: significa soltanto ed esclusivamente che alcune poche società (la minoranza, badiamo bene, delle società esistenti) possono distribuire alti dividendi coi redditi del proprio patrimonio, accumulato con gli utili del passato e coi fortunati investimenti di essi. I redditi patrimoniali, per chi non voglia far vedere la luna nel pozzo agli operai desiderosi della pensione, sono una cosa completamente diversa dagli utili industriali attuali dell’esercizio dell’impresa di assicurazione sulla vita, i soli che ci interessino.
Tant’è vero che i corsi alti dei titoli di talune (poche) compagnie fortunate non sono una prova – la quale abbia anche un minimo valore – dell’esistenza di cospicui utili industriali, che i nuovissimi invasati dalla frenesia statale hanno dovuto architettare una prova diretta, meglio probante, di quegli utili colossali di 25-30 milioni che essi illudono di voler dare agli operai. Senonché la prova è fallita.
Diceva lord Beaconsfield, il grande primo ministro d’Inghilterra più noto sotto il nome di Beniamino Disraeli, che vi sono tre specie di bugie: bugie semplici, bugie qualificate e statistiche. Era un giudizio ingiusto contro le statistiche in genere, ma ben meritato contro le statistiche che non siano correttamente interpretate. Purtroppo, in questa faccenda delle assicurazioni, il nuovo e, perché nuovo, fervidissimo e cieco amore verso le statizzazioni ha indotto uomini, nel maneggio delle statistiche sapienti, a raccontare storie in cifre, atte soltanto a far venir meno qualunque fede nella storia e nelle cifre statistiche.
A dimostrare l’esistenza degli incredibili utili dell’”industria assicurativa”, si cita il caso – chiedo venia di dover, non per mia volontà, far nomi di compagnie singole – delle Assicurazioni generali di Venezia le quali nel 1910 avrebbero guadagnato lire 9.128.365,05, deducendo dalle quali lire 1.612.934,72 di utili distribuiti agli assicurati, sarebbero rimaste disponibili lire 7.515.430,33 da distribuire agli azionisti. Se una sola compagnia guadagna tanto, quanto non dovranno guadagnare le 60 compagnie operanti in Italia?
Il guaio si è che troppe avvertenze si erano passate sotto silenzio fra le quali principalissime le seguenti: 1) che quella compagnia è fra tutte le compagnie operanti in Italia, quella che trae dal nostro paese gli utili di gran lunga più cospicui e che quindi dai suoi utili non è possibile trarre legittimamente nessuna conclusione sugli utili ottenuti dal complesso delle imprese assicuratrici; 2) che, delle lire 9.128.365 guadagnate nel 1910, una piccola frazione (31.214,82 lire) è un riporto dall’anno precedente, il quale non va conteggiato per non far nascere doppi; ed una ben più gran parte, ossia lire 4.205.772,65 è ricavata dall’esercizio dell’assicurazione incendi, trasporti e furti. Di questi quattro milioni ed un quarto non è lecito discorrere, ora che si parla della convenienza di monopolizzare le assicurazioni sulla vita. Tanto varrebbe mettere in conto anche gli utili ricavabili dall’industria del trarre del fondo del mare i tesori d’oro e d’argento sepolti nei secoli XVII e XVIII nelle stive degli affondati galeoni di Spagna. Se ne parlerà, caso mai, il giorno in che ad un qualche altro frenetico salterà in mente, del che già si vedono i segni ammonitori, di proporre la statizzazione delle sicurtà contro gli incendi, trasporti e furti; 3) che, quindi, gli utili delle assicurazioni sulla vita sono non di 9 milioni e più, ma di lire 4.891.372,58. Dalle quali occorre dedurre lire 1.600.334,72 restituite agli assicurati e non costituenti quindi utile della compagnia. Salvo errore, l’utile del ramo vita riducesi perciò a lire 3.291.042,86, un terzo della cifra originaria; 4) che questi 3.291.042,86 di lire sono l’utile netto dell’industria assicurativa, ed insieme del patrimonio della società e che quindi gli utili industriali sono soltanto una frazione ignota di questa cifra; 5) che, finalmente, l’utile fu ottenuto col lavoro compiuto in Austria, Ungheria, Italia, Paesi balcanici, Impero Ottomano, Egitto, Germania ed in quant’altri paesi le “generali” estendono la loro influenza. Quale sia la parte spettante all’Italia ignoro, perché mi sono limitato alle avvertenze che saltano all’occhio anche da una affrettata lettura del bilancio. Se si pon mente che i premi incassati in Italia sono da un terzo a un quarto del totale incassi in tutti i paesi, si sarebbe tentati di concludere che gli utilizzi realizzati in Italia dalla compagnia stanno sotto al milione. Sarebbe calcolo avventato, per molte considerazioni tecniche che qui sarebbe troppo lungo dire. Basti concludere che, analizzata, la cifra dei 9 milioni riducesi ad una realtà di gran lunga meno consistente dell’apparenza. Almeno quella realtà la quale a noi, che discutiamo delle assicurazioni sulla vita e non delle assicurazioni incendi o furti, del monopolio italiano e non di quello austro ungherese o francese, unicamente interessa.
Poiché un bilancio, fantasticamente interpretato, aveva fatto balenare le decine di milioni di utili, bisognava spiegare da qual fonte gli utili provenissero. Le fonti sarebbero le seguenti:
1) Il cosidetto caricamento dei premi puri per le spese generali. Ogni compagnia deve farsi pagare dagli assicurati un premio corrispondente al rischio di morte (od all’altro rischio assicurato) che essa si accolla. Evidentemente però il premio puro non basta, perché la compagnia in tal caso percepirebbe un premio di 100 per restituire 100 come somma assicurata. Come qualsiasi altro commerciante, l’assicuratore deve aggiungere o caricare sul prezzo di costo (il premio puro è un vero prezzo di costo) una percentuale per le spese generali, provvigioni agli agenti, ecc. Le compagnie, dicesi caricano il 25%; e poiché in realtà spendono soltanto dal 12 al 15%, ottengono un primo guadagno uguale alla differenza del 10-13%. Si cita, in prova della affermazione, il libro di Tito Molinari sull’Ordinamento tecnico ed amministrativo delle imprese di assicurazione sulla vita.
Sono andato a leggere il libro del Molinari e nel capitolo del «caricamento» non ho visto far parola di un 25%, bensì di un 20%. È già un 5% che sfuma. Sull’esistenza del resto vi è anche molta incertezza; poiché a me risulta che compagnie mutue ed anonime, le quali hanno tariffe suppergiù uguali a quelle delle altre, caricano solo il 16% e sembra indiscutibile che il caricamento sul premio puro varii, a seconda delle specie di assicurazione, dal 10 al 20% con tendenza ad oscillare intorno alla media del 17-18%. Viceversa le spese effettive non sono limitate al 12-15%; ma salgono spesso bene al di là. Il Bario nel suo annuario delle assicurazioni dà per il 1909 e in Italia una media del 18%. Vi è una compagnia che non lavora più in Italia e, pur limitandosi agli incassi, spende il 7% dei premi; le altre vanno dal 10 al 70%. Sono calcoli difficilissimi a farsi, perché non si sa come calcolano le spese italiane le compagnie straniere, o le spese vita le compagnie esercitanti anche i rami degli incendi, ecc. La mia impressione è che le compagnie in media nulla risparmino su quanto si fanno pagare dagli assicurati a titolo di rimborso spese. Come si può immaginare, sia detto di passata e con sopportazione, che riesca in tale impresa lo stato?
2) La differenza tra la mortalità calcolata e la mortalità effettiva. Le compagnie, dicesi, calcolano i premi sulla base di determinate tabelle di mortalità; e poiché in realtà i morti sono in minor numero (appena il 50-60%), dei calcolati, è evidente che le compagnie guadagnano un altro 40%.
In prova il Cabiati cita il bilancio 1909 di una compagnia olandese, la Dordrecht. Mi sono procurato questo bilancio, ho rifatto i calcoli (mi si perdoni questa esposizione fastidiosa di spulciamenti e di contatti immondi – almeno li diranno tali quei giornali socialisti i quali gridano che io voglio togliere ai proletari i milioni che essi affermano esistere citando bilanci che agli economisti dovrebbe essere vietato di leggere – con le compagnie assicuratrici) ed ho trovato che nel 1909 la mortalità effettiva fu, per quella compagnia olandese, del 70,05% della mortalità presunta per il calcolo delle riserve, e dell’84,03 % della mortalità presunta per il calcolo dei premi. La differenza non è dunque del 40% ma del 29,95 % nell’un caso e del 15,97% nell’altro caso. La perdita degli assicurati meglio pare misurata dalla seconda cifra, la quale fa vedere quanto di meno avrebbero dovuto pagare in premi gli assicurati se la mortalità effettiva fosse stata uguale alla calcolata. Ma anche ammettendo – ciò che non risulta chiaro dai bilanci esaminati – che negli anni precedenti la Dordrecht abbia guadagnato il 40%, vi è una osservazione capitale da fare, di cui i tecnici comprenderanno subito la straordinaria importanza, la quale spero verrà intesa anche dai profani. La Dordrecht, a detta del rapporto del suo attuario, ha adottato una tabella di mortalità compilata sui risultati del censimento olandese del 1869. Se non ho stranamente frainteso, questa è dunque una tabella della mortalità generale degli abitanti di uno stato, sani e ammalati, assicurabili o no. È evidente perciò che lo scarto tra la mortalità calcolata in questa maniera e la mortalità effettiva delle teste scelte selezionate dagli assicurati possa essere rilevante, e che quindi quella compagnia possa avere per questo motivo un lucro rilevante, lucro che deve essere in notevole parte eliso, nel suo caso, dall’alto saggio dell’interesse (4%) adottato per il calcolo delle riserve.
Si può ritenere che questa differenza esista per tutte le compagnie? La cosa è inverosimile per una considerazione semplicissima: che le compagnie calcolano la mortalità sulla base della loro medesima esperienza passata, della mortalità cioè dei loro antichi assicurati, tutte persone scelte e sane. La celebre tariffa Hm generalmente adottata da noi, chiamasi così essendo le lettere Hm le iniziali del titolo Healthy males mortality table (tabella della mortalità delle persone sane), fu compilata da 20 compagnie inglesi. La mortalità è andata diminuendo, è vero, dopoché quelle tariffe furono compilate; ma è diminuita sovratutto nella massa della popolazione, che non si assicura, e meno nelle classi ricche ed agiate, le quali morivano già poco prima e le quali soltanto danno in Italia un contributo all’assicurazione. Una differenza fra la mortalità effettiva e la mortalità calcolata esiste senza dubbio, ma è, per il motivo sovradetto, minore del 40% immaginato. Per avere qualche lume positivo al riguardo ho esaminato numerosi bilanci di compagnie operanti in Italia; e, oltrecché in quello della Dordrecht, solo nei bilanci delle Generali Venezia, della Riunione adriatica di sicurtà e della Fenice austriaca ho trovato alcuni dati al riguardo. Do i risultati da me ottenuti, nella speranza che i tecnici possano fornire notizie più ampie e meglio criticate. Per le Generali Venezia la mortalità fu nel 1908 dell’84,88% di quella prevista, nel 1909 dell’87,17%, nel 1910 dell’81,32%. Quanto alle somme assicurate, la compagnia pagò nel 1908 il 16,60% di meno delle somme previste, nel 1909 il 21,24% e nel 1910 il 19,34%. La Riunione adriatica di sicurtà nel 1909 ebbe una mortalità uguale al 93,18% di quella calcolata e pagò il 9,26% di meno delle somme assicurate previste. La Fenice austriaca ebbe nel 1909 una mortalità uguale al 99,02% della calcolata e pagò il 7,89% di meno delle somme previste.
Siamo lontani da un lucro del 40%, e non ci sarebbe da meravigliarsi che, per talune compagnie, le quali spinte dalla concorrenza che è tra di loro rabbiosissima (anche gli accordi tra gli assicuratori sulla vita ho dovuto persuadermi essere una leggenda creata per mistificare il pubblico: l’accordo esiste, parziale, nel ramo incendio). Nel ramo vita le compagnie non vanno certo a spifferare nei bilanci le prove della loro inabilità; ma questo lascia sicure tracce nelle perdite di esercizio. Che se anche noi vogliamo ammettere che le compagnie abbiano un vantaggio nelle somme pagate rispetto a quelle calcolate da pagarsi, dal 59,89 al 21,24%, possiamo da ciò dedurre che sui premi pagati dagli assicurati vi sia per questo motivo un ugual margine di utile?
Le compagnie possono considerare come lucro solo il risparmio che fanno sul rischio che avevano gli assicurati di morire nell’anno medesimo in cui essi, contrariamente ai calcoli, non si decidono a morire. Ma le compagnie debbono pur sempre mandare a riserva una somma sufficiente, insieme coi nuovi premi versati poi dagli assicurati, a pagare le indennità promesse negli anni futuri in cui pure gli assicurati dovranno morire. Nelle assicurazioni miste, le quali tendono a diventare le predominanti, siccome la compagnia deve pagare la somma assicurata dopo 15, 20, 25 anni, anche se l’assicurato è in vita, l’utile ricavato dalla minor mortalità è, proporzionatamente al premio pagato, minore. Né si dimentichi infine che nelle assicurazioni di vitalizi od in caso di sopravvivenza le compagnie perdono, e non guadagnano, se gli assicurati hanno la ventura di vivere più a lungo di quanto calcolassero le tabelle. Nei resoconti della Dordrecht si leggono interessanti dati al riguardo.
3) Gli abbandoni di polizza ed i riscatti di essa per cui gli assicurati, rinunciando al contratto, perdono tutto il versato se la rinuncia avviene nei primi tre anni di polizza o, in ogni modo, una parte considerevole di quanto hanno sborsato, sarebbero la terza fonte di utili “importanti” per le società.
Anche qui pare vi sia della grossa esagerazione. Basterebbe a persuadercene la circostanza che questo è un utile non desiderato anzi aborrito dalle compagnie, alle quali assai di più conviene la prosecuzione che la rottura del contratto. I motivi sono evidenti. Se l’assicurato abbandona la polizza nei primi anni, la compagnia ha corso il rischio di morte, che è una spesa vera, ha dovuto pagare le spese generali e sovratutto non ha avuto tempo di ammortizzare le spese di provvigione agli agenti, le quali a questi si pagano tutte sul primo premio e giungono dal 50 al 70% di questo. Quindi l’abbandono di polizza spesso significa una perdita secca per la compagnia. Nei riscatti dopo i tre anni, è vero che le compagnie pagano solo una parte, circa l’80%, della riserva spettante agli assicurati, ma è vero anche che esse devono sovente finire di ammortizzare le sovradette spese di acquisizione del contratto e che esse devono garantirsi contro i prevedibili maggiori rischi futuri di coloro che continuano nel contratto. Si può infatti ritenere come probabile che riscattino le polizze i sani, i quali reputano di vivere a lungo, e non hanno più urgente bisogno di assicurarsi, cosicché il residuo gruppo di assicurati resti composto di sani e malsani, ma di questi in misura maggiore di quanto accadrebbe se non fosse assottigliato il gruppo dei sani a causa dei riscatti.
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Ho cercato di dimostrare, nel precedente articolo, che sono fantastiche esagerazioni quelle di chi pretende che le compagnie di assicurazione ricavino grossi utili del 10, 40 e non so quanto per cento – percentuali che si lascia credere potersi sommare tra di loro – dai tre elementi: a) del maggior caricamento di spese in confronto a quelle che sono spese effettivamente sostenute; b) della minore mortalità effettiva in confronto della calcolata; c) degli abbandoni e riscatti di polizze. Questi tre elementi non è certo lascino, dopo aver pagato le spese di acquisizione dei contratti e di esercizio, un lucro netto alle compagnie.
Aggiungo che il lucro lordo tenderà a diminuire a mano a mano che, ad esempio, le tabelle di mortalità andranno via via perfezionandosi sulla base della mortalità effettiva delle teste scelte assicurate dalle medesime compagnie.
In Italia le Assicurazioni generali di Venezia nel 1907 hanno già variato le tariffe sulla base della loro esperienza; e quindi è probabile che per l’avvenire lo scarto tra la mortalità calcolata e la mortalità effettiva abbia ad essere minore che per il passato. È noto altresì che le società italiane stanno apparecchiando i dati per una nuova tabella di mortalità italiana, la quale viemmeglio raggiungerà l’intento di avvicinare la mortalità effettiva alla calcolata.
Notisi bene che, pur non essendo i tre elementi fin qui discussi fonte in media di lucri netti rilevanti per le compagnie, non ne segue che nessuna compagnia ne tragga un utile, ma che le compagnie prese insieme non se ne avvantaggiano. Le compagnie che sono rigidamente amministrate, con parsimonia ed audacia nello stesso tempo, che esercitano una selezione severa sugli assicurandi, rifiutando tutti i rischi pericolosi, guadagneranno; ed invece perdono quelle in cui le spese non vengono ridotte al minimo e quelle in cui le visite mediche non sono severe. Chi può illudersi che lo stato abbia proprio ad essere un economicissimo amministratore e che i suoi medici non abbiano a chiudere gli occhi sui difetti di salute degli assicurandi bene raccomandati da qualche deputato o grande elettore del futuro blocco rosso o nero?
Rimane l’ultima fonte di guadagno delle compagnie, l’unica importante secondo me: la differenza fra il saggio di interesse pagato agli assicurati e quello lucrato dalle compagnie. Le compagnie calcolano i premi supponendo di impiegare i capitali al 3,50%, mentre invece «le società più solide ed antiche» – dice il Cabiati ne traggono un reddito medio del 4,50%. Pagano agli assicurati in ragione del 3,50% e guadagnano il 4,50%.
Ebbene sia. Voglio ammettere che le società tutte, e non solo le più solide ed antiche, lucrino il 4,50% sulle riserve spettanti agli assicurati, di cui hanno la libera disponibilità. Nessuno ignora invero come le società siano obbligate a depositare presso il tesoro in rendita pubblica una parte (che è di un quarto dei premi, oltre ad un quarto dei relativi interessi, per le compagnie nazionali e di una metà per le compagnie estere) dei premi a garanzia degli assicurati. Il reddito che da questa parte è conosciuto ed io l’ho supposto essere del 3,75%, meno il 0,10% di diritto di custodia, ossia del 3,65%. È un’esagerazione, perché si sa che la rendita oggi è al disopra della pari e rende meno del 3,75% ed ancora meno renderà nel 1912 colla automatica riduzione al 3,50%. Ed è una esagerazione credere che tutti gli altri capitali, liberamente disponibili, rendano in media il 4,50% all’anno. Ma è una esagerazione a cui si può consentire nell’intento di fare le supposizioni più benigne, le più favorevoli a ingrossare gli utili di cui verrebbe ad impadronirsi il futuro monopolio.
Supponiamo dunque che le riserve depositate presso il tesoro rendano il 3,65% e quelle libere il 4,50%. Si vuol sapere quanto, in questa ipotesi, guadagnano le compagnie? Il calcolo non l’ho fatto io; l’ha fatto, con accurato metodo e con lunga fatica, l’attuario della Società di assicurazione di Milano, il prof. Sestilli, che nel mondo scientifico attuariale è meritamente apprezzato ed insegna scienza attuariale alla Università commerciale Bocconi. Le tabelle preparate dal mio egregiocollega sono troppo complesse ed ampie per poter essere presentate integralmente qui. Basti accennare al criterio fondamentale con cui il calcolo è stato condotto ed alle risultanze che se ne sono ottenute. Il criterio si può schematizzare così, in un conto dei profitti e perdite:
Introiti | Spese |
1. Incasso premi al netto dalle riassicurazioni. | 1. Indennizzi, riscatti ed utili pagati agli assicurati a netto dai rimborsi dei riassicuratori. |
2. Interessi attivi sulle riserve matematiche. | 2. Spese generali, provvigioni, onorari ai medici, ecc. |
3. Tasse a carico della compagnia. | |
4. Aumento avvenuto nell’anno nella riserva matematica. |
A me sembra questo il solo modo corretto di calcolare gli utili dell’esercizio dell’industria assicurativa. All’attivo gli incassi netti e il reddito delle riserve ed al passivo gli indennizzi ed altri pagamenti fatti agli assicurati, le spese e tasse e l’incremento della riserva matematica, il quale ultimo sta a rappresentare l’aumento nel debito della società verso gli assicurati. Se utili ci sono, di qualunque specie, derivanti dalla minore mortalità, dalle minori spese, dagli abbandoni di polizze e dal cospicuo reddito delle attività sociali, devono venir fuori da un conto impiantato in questa maniera. Rimangono fuori soltanto i redditi del patrimonio proprio (azionario e riserve patrimoniali) delle società; e rimangono fuori a giusta ragione, perché di questi redditi lo stato non potrebbe impadronirsi, a meno di macchiarsi di una scandalosa rapina della roba altrui, senza pagare una giusta indennità al prezzo corrente delle attività espropriate. E gli utili del patrimonio proprio delle società non hanno nessun legame logico con l’industria assicurativa, essendoché questa può teoricamente esercitarsi anche senza capitale, limitandosi essa a ripartire rischi; ed il capitale serve soltanto, sugli inizi, a garanzia degli assicurati e, se dà reddito, questo proviene dagli impieghi particolari suoi.
Quanto alle risultanze del calcolo, non sono certo quali le avrebbero desiderate i monopolisti. Notiamo che sono trascurate soltanto le società, i cui bilanci non offrono nessun lume o che hanno cessato di lavorare in Italia o che riassicurano integralmente i loro rischi. Le società trascurate incassarono nel 1909 (anno a cui i calcoli attengono) soltanto 1.793.212 lire di premi su un incasso totale di 62.237.032 lire. Ecco ora l’elenco dei lucri e delle perdite nette delle società assicuratrici esercenti in Italia.
Società che guadagnano | Società che perdono |
Nazionali | Nazionali |
L. 234.390,43 | L. 112.838,64 |
145.548, 32 | 102.405,21 |
36.653,10 | 45.521,97 |
30.441,97 | 34.222,48 |
30.268,73 | ————————- |
23.598,47 22.622,38 | L. 294.988,30 |
18.167,74 12.025,74 | Estere |
11.866,79 | L. 505.245,79 |
2.959,12 | 407.997,01 |
————————– | 357.827,48 |
L. 568.542,79 | 250.320,22 |
126.575,74 | |
84.013,22 | |
59.892,04 | |
58.964,76 | |
Estere | 55.269,59 |
18.216,03 | |
L. 1.064.922,33 | 17.620,21 |
189.966,38 | 13.495,58 |
116.613,38 | 10.431,16 |
100.777,34 | 9.974,13 |
71.385,12 | 8.955,84 |
30.207,71 | 7.933,41 |
20.594,91 | 221,68 |
————————- | ————————- |
L. 1.594.467,17 | L. 1.992.953,89 |
Queste cifre sono il risultato di calcoli accurati fatti sui dati ufficiali. Io non mi nascondo che talvolta i dati pubblicati sul bollettino delle società per azioni sono complessi e di difficile interpretazione e che quindi i risultati dei calcoli istituiti su di essi sono suscettibili di qualche variazione. E bisogna aggiungere che gli utili effettivi potranno scostarsi, in più od in meno, da quelli sopra calcolati, a seconda che le diverse compagnie lucreranno di fatto, di più o di meno del 4,50% sulle riserve libere. E mi auguro perciò che gli attuari delle compagnie o, meglio, l’associazione italiana degli attuari faccia uno studio analitico, dimostrativo per un decennio od un quinquennio, e lo renda di pubblica ragione. Mi auguro che altrettanto faccia il ministro Nitti e non in blocco con ipotesi approssimative, ma caso per caso, compagnia per compagnia, e ne presenti i risultati analitici al parlamento, in appendice al suo disegno di legge. Solo così, dal contrasto degli opposti calcoli analitici e documentati, sarà dato di formarsi un giudizio obiettivo sull’entità dei lucri dell’industria assicurativa.
Frattanto, il quadro sopra presentato ha bene una fisionomia familiare all’occhio dello studioso di scienze economiche. In tutte le industrie, accanto alle imprese che guadagnano vi sono le imprese perdenti; e sarebbe strano che le cose andassero diversamente nell’industria assicurativa. Quelle che perdono, colmano la perdita con i redditi del patrimonio proprio e talvolta nemmeno questi bastano. Né se ne rammaricano troppo le perdenti, perché è noto che nella industria assicurativa si può riuscire a guadagnare normalmente dopo una ventina d’anni di sforzi perseveranti, di esperienze ammaestratrici riguardo alla selezione degli assicurandi, alle spese generali, alle provvigioni agli agenti, di impieghi fortunati ed accorti, di valorizzazioni a lunga scadenza degli stabili comperati in momenti opportuni. Le compagnie estere perdenti perdono più di quanto guadagnano le fortunate; e ciò dipende sovratutto dal fatto che esse sono tenute ad investire una metà (invece del quarto per le compagnie nazionali) dei premi in rendita italiana poco produttiva. Qualcuna delle compagnie estere che nel quadro risultano perdere maggiormente, ha già infatti deliberato di non lavorare più in Italia e liquida solo le operazioni passate. Le altre seguitano, perché colmano le perdite italiane con i lucri esteri e considerano le prime come una spesa di pubblicità e di avviamento.
Per valutare quale potrebbe essere il guadagno del futuro monopolio ho voluto fare un altro calcolo. Ho calcolato cioè quanto, per ogni 100 lire di premio pagato dagli assicurati, guadagnano le imprese di assicurazione. Non è un criterio perfetto dell’importanza relativa degli utili; ma è il meno imperfetto che io conosca. Ecco dunque quanto, per cento lire di premio, guadagnano o perdono le società (anonime, mutue e cooperative), secondo i dati già citati:
Società che guadagnano | Società che perdono |
Nazionali | Nazionali |
14,09 % | 650,00 % |
5,18 | 37,11 |
4,36 | 15,81 |
4,07 | 12,52 |
3,96 | |
3,25 | Estere |
3,15 | |
2,72 | 110,89 % |
1,01 | 101,54 |
0,89 | 88,92 |
0,73 | 82,33 |
40,27 | |
38,01 | |
35,77 | |
Estere | 30,66 |
30,35 | |
9,98 % | 30,01 |
8,26 | 19,85 |
8,09 | 19,65 |
6,51 | 9,01 |
6,51 | 1,49 |
2,31 | 0,21 |
1,76 | 0,16 |
Si vede come, proporzionatamente ai premi versati dagli assicurati, il margine di lucro – quando lucro vi è – è tenuto assai basso dalla rabbiosa concorrenza esistente fra le compagnie. Una sola società arriva a lucrare il 14,09% dei premi; ed è un caso che non conta, perché trattasi di società piccolissima, con un incasso di meno di 90.000 lire di premi all’anno, ed in cui l’alto margine è affatto accidentale. La società che in realtà guadagna di più è il n. I delle estere, col 9,98% dei premi; ed è caso che conta assai, trattandosi di una impresa primaria. Tutte le altre stanno al disotto, sino a guadagnare solo il 0,73% dei premi. E tra quelle che meno guadagnano vi sono compagnie reputate ed antiche. Invece la perdita, quando si perde, può essere rilevantissima. Trascurando il caso estremo di una perdita del 650%, dei premi, che è quello di una piccola società ai suoi inizi, le perdite annue possono andare dal 0,16 al 110,89% dei premi annualmente incassati.
Si può perciò concludere:
- che, se lo stato amministrerà con tanta parsimonia, sceglierà i suoi assicurati con tanto rigore di visita medica, impiegherà i suoi capitali con tanta avvedutezza, come si usa dalla compagnia che maggiormente lucri, potrà ottenere un utile del 9,98% sui premi, ossia, su 62 milioni di premi, di circa 6 milioni di lire all’anno.
- che, se lo stato gerirà il monopolio coi criteri di compagnie ottime che lucrano largamente, potrà ottenere un utile del 5% sui premi, ossia di 3 milioni di lire all’anno.
- che, ove appena appena lo stato non usi di diligenze singolari e non sappia impiegare i suoi capitali a più del 3,50%, i suoi utili si ridurranno a zero e si potranno convertire in una perdita di 6, 10, 20 e forse più milioni di lire all’anno.
Le supposizioni prima e seconda siano probabilmente escluse per lo stato, e la meno improbabile (per la impossibilità di resistere alle pressioni degli agenti, che fin d’ora si organizzano per reclamare maggior decoro di vita, per i pericoli di rilassatezze elettorali e politiche nella selezione medica, per la accertata impossibilità di far rendere ai capitali nemmeno il 3,50%) è la terza ipotesi. Onde nell’interesse pubblico e nell’interesse dei lavoratori a cui si fa balenare la speranza di una pensione, ripeto – fino a dimostrazione contraria tuttora non data – i voti affinché il mostro del monopolio delle assicurazioni venga strozzato nelle fasce. E mi auguro, per l’affetto e la stima grandissimi che ho per lui, che lo strozzatore sia Francesco Nitti.
5
Coloro i quali speravano dall’on. Nitti l’annuncio di una nuova e geniale maniera di risolvere il problema del monopolio delle assicurazioni, debbono essere rimasti fortemente disillusi. Il disegno non contiene alcuna novità né pone su nuove vie l’industria assicurativa. Era del resto una stravagante pretesa quella di chi voleva che un ministro, sia pure d’ingegno grande, riuscisse a scoprire qualche cosa di nuovo in un campo che da un secolo è stato percorso e ripercorso in tutti i sensi da abilissimi uomini di affari, da tecnici di prim’ordine e da scienziati valorosi. L’unico discorso che poteva fare il ministro, era questo: lo stato d’ora innanzi eserciterà in Italia quella industria assicurativa che sinora era esercitata dai privati. Il succo del disegno di legge governativo sta tutto lì: nella proclamazione del monopolio di stato. Naturalmente, siccome in Italia l’opinione pubblica guarda con diffidenza lo stato, si è usata l’avvertenza di dichiarare che il monopolio non è governativo in senso stretto, ma spetta ad un ente autonomo, chiamato “Istituto nazionale di assicurazioni”, con proprio consiglio, sindaci suoi e direttore inamovibile. Sono le parole solite, oggidì messe di moda; ma sono una maschera la quale non nasconde a nessuno la realtà, che è la creazione di una nuova amministrazione governativa.
Il disegno di legge si può adunque riassumere tutto nella proclamazione del monopolio di stato? No. Qualche cosa di più vi è; ma questo qualcosa ha un’indole curiosa, davvero insolita in un disegno di legge.
Sfrondato dai suoi elementi formali, direi quasi procedurali, il disegno di legge si può decomporre in due parti. In una, brevissima, che avrebbe potuto stare in poche righe, si proclama il principio del monopolio. Questa prima parte era, nella mente degli ideatori del monopolio, l’unica cosa che essi volevano dire quando primamente la cabala si affacciò, ad opera degli on. Bissolati e Bonomi, all’orizzonte della vita politica italiana. Essi erano convinti che nessuna critica seria, apprezzabile, scientifica, potesse farsi al monopolio: ignorando le polemiche in passato combattute in Italia, le trattazioni estere, erano persuasi che l’unica opposizione prevedibile fosse quella delle compagnie private; ed erano deliberati a passarvi sopra, come quello che veniva dagli interessati. Sarebbe bastato proclamare il principio, perché ogni discorso dovesse aver termine.
Vennero invece la critica e le polemiche vivacissime; e sebbene se ne dicesse lietissimo, è evidente che il ministro se ne è preoccupato assai. Fin troppo; sino al punto da indurlo ad aggiungere al primitivo progetto, che poteva constare di pochissimi articoli, una seconda parte, che è una vera e propria polemica contro i nemici del monopolio. Sicuro, questa è la sola e curiosa novità del disegno Nitti; esso non è un disegno di legge, è una polemica giornalistica, scritta nella forma apparente di articoli di legge.
Avevano detto taluni che l’assunzione del monopolio sarebbe stata onerosa per lo stato, per le cospicue indennità che questo avrebbe dovuto pagare alle compagnie di assicurazione? Subito il governo risponde che non pagherà alcun compenso o indennità per qualsiasi titolo o causa. E poiché gli oppositori avrebbero potuto ribattere che non è ufficio del legislatore, ma del magistrato di stabilire i compensi e le indennità dovute in caso di espropriazione per pubblica utilità, e che contro a questo supremo principio di diritto e a questa alta ragione del viver civile non valgono difese, il ministro senz’altro replica dichiarando l’incompetenza del magistrato e costringendolo – d’ordine del principe – a non tener conto delle domande di indennizzi che contro lo stato fossero presentate.
Erasi affermato che gli assicuratori seguiteranno a stipulare contratti e gli assicurati ad assicurarsi, sia in segreto nel regno stesso, sia, e meglio, all’estero? Ed era stata preveduta dai maligni nemici del monopolio l’istituzione di sedi, filiali o succursali delle compagnie d’assicurazione a Chiasso, Lugano o Trieste? Ed eccoti il compilatore rispondere che i contratti conchiusi nel regno saranno nulli, che quelli conclusi all’estero saranno considerati fraudolenti; e i contravventori puniti con multe dal 5 al 20 % della somma assicurata, e, in caso di recidiva, anche col carcere da uno a sei mesi.
Ecco dunque come si è risolto il problema: non solo gli assicuratori, ma anche gli assicurati multati e incarcerati ove essi si ostinino a commettere il nuovissimo delitto di non aver fiducia nello stato assicuratore (e tassatore) e di preferire una compagnia di assicurazione straniera o italiana domiciliata a Chiasso! Sono enormità, che possono aver corso in un comizio o in una polemica giornalistica; ma essendo minacce inapplicabili non crescono certo il rispetto verso la maestà della legge. Viene in mente, irresistibile, il ricordo del dott. Azzeccagarbugli che legge a Renzo attonito le minacce della grida dei governatori di Milano. A quando la berlina e l’impiccagione in effige, come usavasi contro i contravventori dei monopoli sotto gli antichi regimi?
Continuiamo. Avevano detto gli oppositori che la nuova burocrazia assicuratrice avrebbe preteso ben presto stabilità di carica, organici regolari, pensioni, ecc. ecc., e avrebbe dato perciò un rendimento meschino di fronte all’odierno personale privato, agile, vivo perché assillato dalla continua paura di perdere posto e guadagno? Al solito il ministro risponde che non è vero niente: che gli impiegati dell’istituto non sono né potranno essere equiparati agli impiegati dello stato; sono assunti con contratti a termine determinato, rescindibili e rinnovabili; la loro retribuzione potrà essere commisurata al tempo o al lavoro compiuto, non avranno diritto a pensione, ma solo a una assicurazione sulla vita. Anche gli agenti produttori saranno retribuiti esclusivamente con una provvigione proporzionata al numero e all’entità degli affari per mezzo di essi conclusi, ecc. ecc.
Chi abbia una certa consuetudine di archivi e di vecchie carte dei secoli XVII e XVIII, riconosce subito una parentela spirituale di stile e di contenuto. Quei vecchi principi avevano anch’essi il vezzo di promettere a nome dei loro più lontani successori; e con giuramenti solennissimi promettevano ogni sorta di cose; che sarebbe stato l’ultimo aumento di imposta, che presto le avrebbero diminuite, che mai più avrebbero recato offesa ai diritti dei loro creditori. Promettevano sempre, quei cari vecchi principi, e regolarmente si dimenticavano delle promesse. Anche oggi Nitti giura solennemente, a nome dei suoi successori, che essi mai non commetteranno nessuno di quegli errori abominevoli che egli implicitamente riconosce sarebbero la morte del monopolio di stato. Una delle due: o gli impiegati del monopolio finiranno per diventare uguali agli altri impiegati dello stato, e allora le perdite del monopolio giungeranno a cifre alte; o voi avete scoperto qualche magica maniera, qualche forza ignota con cui impedire che l’inevitabile avvenga, impedire che gli impiegati del monopolio chiedano di essere equiparati agli altri impiegati pubblici, impedire che essi si coalizzino in leghe e che queste premano sui pubblici poteri, e voi avete l’obbligo preciso di esporre questa vostra miracolosa scoperta. Ma fare invece promesse ipotecate sul futuro non è nemmeno un molto elegante accorgimento di politica spicciola.
Ancora una osservazione delle tante che si potrebbero fare. Erasi affermato dagli oppositori che lo stato perderà dove le compagnie guadagnano, perché sarebbero disagevoli quei modi di impiego proficui che la snellezza dei movimenti e l’iniziativa individuale consentono a un privato. Qui il disegno di legge non risponde, perché la risposta era impossibile. Anzi fa un breve elenco degli impieghi di capitale consentiti al futuro istituto nazionale, elenco dal quale salta fuori evidentissima la angustia dei limiti entro i quali dovrà forzatamente muoversi lo stato. Sarà un miracolo se il monopolio riuscirà, dati quei vincoli, a cavare fuori un 3,50% netto in media dai capitali affidatigli; il che significa che l’istituto non guadagnerà.
Però gli utili che non potranno esistere spontaneamente, converrà figurino nei bilanci. Il disegno di legge appresta già alcuni mezzi atti a creare utili fittizi simili a quelli che già ben conosciamo per il bilancio delle ferrovie di stato:
- Concedendo all’istituto l’esenzione dall’imposta di ricchezza mobile per i suoi utili;
- Concedendo la franchigia postale e telegrafica;
- Incaricando in esenzione di spesa del servizio delle riscossioni dei premi e del pagamento delle indennità gli uffici postali ed i ricevitori del registro;
- Autorizzando i notai, i ricevitori del registro, gli agenti delle imposte, i segretari ed agenti comunali, gli ufficiali ed agenti postali a perdere il loro tempo, pagato dallo stato o dai comuni, nel procurare contratti di assicurazione al futuro monopolio.
La autorizzazione non servirà a niente, perché assicuratori si nasce e non si diventa, e il tipo dell’impiegato pubblico è quanto mai lontano dal tipo dell’assicuratore. Tutt’al più scoraggerà con la concorrenza illecita di un personale altrimenti pagato e lavorante sotto costo, i veri assicuratori di mestiere e li indurrà a non curarsi delle cabale governative.
È evidente in ogni caso l’artificio contabile con cui fino ad ora si progetta di far figurare utili inesistenti; sarà l’erario dello stato, il quale rinuncerà a talune imposte e tasse che oggi percepisce, farà a sue spese certi servizi che ora sono costosi per le compagnie, pagherà, sul bilancio generale, gli impiegati addetti al monopolio. Tutto questo scompiglio avverrà per far figurare un guadagno a favore del monopolio. O non sarebbe più semplice far versare addirittura un sussidio dal tesoro alla Cassa nazionale di previdenza?
6
Nel disegno di legge governativo per il monopolio delle assicurazioni quasi tutti gli articoli suscitano la critica. Ve n’è uno che in un paese, sacro ad alte tradizioni, fa venire il rossore alla fronte, ripensando che l’Italia fu la culla del diritto. Giova citarlo per disteso:
Articolo 2. – Le società, associazioni, compagnie, imprese ed i privati che comunque esercitano nel regno l’assicurazione sulla durata della vita umana non potranno mai pretendere dallo stato o dall’istituto nazionale di assicurazioni garanzie, compensi od indennità per qualsi voglia titolo o causa, in relazione alle conseguenze che dipendano, anche in via indiretta, dal monopolio stabilito con questa legge, di qualunque specie esse siano e non saranno ammesse azioni in giudizio per siffatti scopi. Continueranno i suddetti assicuratori ad eseguire i contratti in corso e a riscuoterne i premi, a norma dell’articolo 19. Ma gli assicurati nulla potranno mai pretendere o reclamare, a loro volta, contro lo stato o contro l’istituto nazionale di assicurazioni in qualsiasi caso di inadempimento, o non regolare adempimento, delle rispettive obbligazioni dei loro assicuratori.
E giova ancora citare, subito dopo, l’articolo dello statuto fondamentale del regno, il quale recita:
Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia quando l’interesse pubblico, legalmente accertato, lo esiga, si può esser tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.
E rincalza il codice civile all’articolo 438:
Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà od a permettere che altri ne faccia uso, se non per causa di utilità pubblica legalmente riconosciuta o dichiarata e premesso il pagamento di una giusta indennità. Le norme relative alla espropriazione per pubblica utilità sono determinate da leggi speciali.
Lo statuto e il codice civile non esprimevano una formula transitoria, soggetta a facili violazioni ed a dimenticanze innocue. Ricordavano i compilatori i tempi in cui la volontà del principe bastava ad espropriare senza indennità i privati a beneficio del pubblico erario; e vollero solennemente dichiarare che ogni proprietà era inviolabile e poteva essere espropriata soltanto in seguito ad equo indennizzo. Ha cioè lo stato il diritto di far sua la proprietà dei privati per motivo di pubblica utilità; ma il vantaggio di tutti non può ottenersi recando un ingiusto danno a taluni pochi. È la collettività che nel suo insieme deve sopportare le spese necessarie a raggiungere il fine comune. Lo stato non può, arbitrariamente, scegliere in mezzo ai cittadini alcuni pochi e costringerli a pagare essi soli il costo di un’opera voluta dallo stato a beneficio di tutti. Agendo altrimenti si risuscitano i metodi di governo del basso impero o la spiccia procedura dei Medici per arricchire l’erario, abbattendo singolarmente i capi delle grandi famiglie fiorentine avverse al loro dominio.
Il disegno di legge nega, invece, ogni diritto a garanzie, compensi od indennità per qualsiasi causa o titolo alle società, associazioni, compagnie e privati che esercitano nel regno l’assicurazione sulla vita. Forseché mancava in questo caso la ragione stessa della indennità, ossia l’espropriazione della cosa privata nell’interesse pubblico? Il diniego proclamato nel disegno di legge avrebbe l’intento, non di negare una indennità dovuta secondo le regole della onestà e della giustizia, ma soltanto quello più modesto e legittimo di evitare liti temerarie? Questa è la tesi che evidentemente vorrà sostenere il ministro: non esistere cioè alcun fondamento per l’indennità ed essersi voluto soltanto porre un argine al moltiplicarsi di liti infondate.
Ma bastano poche ovvie considerazioni per dimostrare quanto sia erronea la tesi governativa e quanto perciò siano inique le conseguenze che se ne sono volute trarre. Qui basti esaminare la tesi nei limiti, apparentemente ristretti, in cui l’ha posta il ministro. Pare che egli abbia avuto paura di affrontare il problema della espropriazione delle imprese assicuratrici, problema irto di dubbi e di difficoltà rispetto alla valutazione del capitale, delle riserve matematiche e degli impegni verso gli assicurati; talché, per non suscitare opposizioni e sospetti, preferì di non impacciarsi delle imprese esistenti e di ignorarle addirittura, limitandosi a dichiarare che esse non potranno più operare in futuro, pur essendo obbligate ad osservare ed a mano a mano liquidare, giusta la loro scadenza, i contratti del passato. Ignorandole ed inibendo di lavorare per il futuro, non vi è dunque soppressione di imprese, né riscatto delle loro attività; e limitandosi lo stato a dichiarare di sua spettanza certe operazioni che prima erano libere, non vi è luogo ad indennità.
Illusione grave, procedente da un ragionamento troppo semplicista. È certo che lo stato, lasciando vivere le imprese e non incamerando né capitale, né riserve, né affari in corso, non espropria alcuna ricchezza per così dire visibile, tangibile, materiale. Esso espropria una ricchezza, un patrimonio immateriale, il quale per essere immateriale non è però meno reale ed effettivo. Il patrimonio espropriato è l’organizzazione, ossia la capacità di acquistare una clientela, è l’avviamento, il nome, i quali sono arra, sicura per alcune imprese, più incerta per altre, che la clientela nel futuro verrà e si accrescerà. L’organizzazione, l’avviamento, il nome sono beni non materiali come i terreni e le case; ma sono beni che hanno un valore nello stesso preciso modo come l’hanno i terreni, le case, ecc. ecc. L’industriale che possiede un’azienda industriale, oltre alla ricchezza consistente in fabbricati, in macchinari, in scorte di magazzino, ha un’altra ricchezza, talvolta di maggior valore della prima, consistente nella clientela, nel nome, nella organizzazione. Se egli venda la sua azienda, si farà pagare, ad esempio, oltre alle 100.000 di valore materiale dello stabilimento, altre 50.000 lire per la cessione dell’avviamento.
È un fatto comunissimo, quotidiano, il quale dimostra come tutti considerino alla stessa stregua, come parti amendue integranti del patrimonio, l’impianto materiale e l’avviamento immateriale. Per lo passato, non mai si sognò lo stato di negare l’esistenza dell’avviamento come parte integrante del valore dei patrimoni privati. Dettò norme per la sua espropriazione nel caso dell’assunzione dei pubblici servizi da parte dei comuni; lo tassò coll’imposta di ricchezza mobile presso il cedente nel caso della vendita dell’azienda; lo proclamò capitale quando si rifiutò di considerarlo spesa presso il cessionario.
Nel caso nostro, proibire alle imprese di assicurazione di lavorare vuol dire proibire di utilizzare la ricchezza consistente nell’avviamento, nell’organizzazione, nel nome, vuol dire cioè annullare il valore della ricchezza medesima. Né è un fatto naturale o lecito, come una invenzione nuova, una concorrenza prima inesistente, una epidemia, un trasporto di una stazione, quello che distrugge l’organizzazione, la clientela delle imprese assicuratrici. Se lo stato si limitasse ad istituire, come del resto già l’istituì in parte con la Cassa nazionale di previdenza (ramo assicurazioni popolari), una propria impresa di assicurazione in concorrenza con quelle esistenti, di nulla avrebbero potuto queste lamentarsi. La concorrenza e lecitissima; né può essere riprovata solo perché reca danno alle imprese esistenti. Il monopolio, invece, è il fatto volontario del principe, del sovrano, il quale toglie ai privati la facoltà di lavorare in un determinato campo, prima aperto a tutti coloro che osservavano le norme poste dalla legge nell’interesse generale. Lo stato annulla l’organizzazione creata da altri; e sostituendovi d’un colpo la sua, attira a sé la clientela che la prima s’era procacciata.
Sarebbe come se lo stato d’un tratto proibisse a tutti gli editori di pubblicare nuovi libri e nuove edizioni e solo consentisse la vendita delle vecchie edizioni fino al loro esaurimento, arrogandosi il monopolio della vendita dei nuovi libri. Editori ed autori non avrebbero ragione di pretendere un compenso per l’espropriazione del loro organismo librario, della clientela da essi acquistata e da essi creata, la quale, come comprò libri in passato, così ne avrebbe acquistati in avvenire? Non sarebbe forse dovuto un indennizzo al fabbricante di vino, di liquori a cui si consentisse la vendita delle bottiglie già messe in cantina, inibendo la fabbricazione e la vendita per l’avvenire?
Il proposito della espropriazione, senza indennità, dell’avviamento non appare biasimevole (come è) solo perché i danneggiati sono pochi. Apparirebbe in tutte le sue gravissime conseguenze se esso fosse applicato, ad esempio, ai medici, agli ingegneri, ai negozianti al minuto. Se lo stato dicesse: «a partire dall’1 gennaio 1912 nessun medico potrà esercitare la professione, nessun ingegnere far progetti, nessun negoziante tener bottega aperta; provvederò io con medici, ingegneri, rivenditori miei, scelti e pagati da me»; se ne starebbero quieti i medici, gli ingegneri, i negozianti espropriati senza indennità del loro diritto di lavorare, della clientela faticosamente acquistata, del nome che essi forse speravano, insieme con lo studio o con la bottega, di poter trasmettere ai figli? Evidentemente no. Farebbero un baccano indiavolato; e ne avrebbero grandissima ragione. Governo e deputati si accorgerebbero subito, poiché gli urlanti sarebbero molti, di aver violata la ragione della giustizia e non darebbero ascolto ai pochi poltroni, medici ed ingegneri senza clienti, negozianti disertati dal pubblico, perché venditori di roba cattiva o cara, i quali si profferissero di passare ai servigi dello stato. Or dunque mutano le ragioni della giustizia solo perché le imprese assicuratrici, a cui vuolsi togliere senza indennità l’avviamento, sono poche? Ed essendo poche, diventano perciò taillables et corvéables à merci dalla nuovissima tirannia?
Certo la valutazione dell’indennità per l’avviamento espropriato non è cosa facile. Vuolsi tener conto di molti fattori. Oltre al lucro cessante, vi è il danno emergente. Le imprese assicuratrici lavorarono ad un dato costo, per esempio, del 20% dell’incasso premi, perché esse erano imprese in sviluppo continuo. Domani, quando non potranno più avere nuova materia assicurabile, le spese in proporzione aumenteranno, e potranno diventare rovinose. La mortalità effettiva che oggi può lasciare alle società meglio amministrate un breve margine, inferiore di molto a quello che da taluno si favoleggia, ma pur sempre un margine in confronto alla mortalità calcolata, tenderà, per causa del divieto di assumere nuove assicurazioni, a diventare maggiore della calcolata. È noto invero come la mortalità per due assicurati, amendue di 40 anni, non sia la medesima, ma sia minore per quello che si è assicurato nel medesimo 40esimo anno che per l’altro che si è assicurato 5 anni prima. E ciò perché la visita medica, recentissima nel primo caso, ha consentito di fare una selezione accurata rispetto alle sue condizioni fisiche nel 40esimo anno di età, mentre invece per il secondo, essendo la visita medica stata fatta nel 35esimo anno, dal 35esimo al 40esimo anno si possono essere accumulati nel suo organismo germi di decadenza fisica, che l’avrebbero fatto scartare se la visita si fosse compiuta al 40esimo anno. Col divieto di nuovi assicurati, le compagnie non avranno più assicurati di 40 anni, con visita medica fatta al 40esimo anno di età: ma tenderanno ad avere solo assicurati di 40 anni con visita fatta al 39esimo, 38esimo, 37esimo, 36esimo, ecc. anno, ossia assicurati con mortalità in media più elevata di quella media su cui i calcoli sono fondati. È lecito allo stato, solo perché si chiama stato e può fare le leggi, recare un siffatto ingiusto danno ad imprese, che non hanno scopo immorale, anzi l’hanno, sebbene di ciò esse non abbiano né merito, né colpa, moralissimo; che sono sorte conformandosi alle leggi e sotto l’egida concessa da un governo civile, come si suppone essere il nostro, a tutti coloro che lecitamente lavorano e rischiano?
Troppo andrei in lungo se volessi enumerare tutti i casi di danno emergente che la semplice proibizione di lavorare può infliggere alle imprese assicuratrici. Ne ricorderò ancora uno.
Vi sono in Italia imprese assicurative non ancora giunte allo stadio redditizio. Hanno seminato, spendendo tutto il capitale in spese di organizzazione e di conquista della clientela, in perdite di esercizio dei premi annui. L’impresa ha fiducia di ricuperare queste somme, perché sa che prima si semina e poi si raccoglie, e sa che nell’industria assicurativa il periodo della seminagione dura da 10 a 20 anni. Quel capitale – e talvolta la somma spesa può essere anche superiore al capitale medesimo proprio dell’impresa – non è perduto; è una spesa da ammortizzare in seguito cogli utili degli anni successivi, precisamente come farà il monopolio di stato coi 5 milioni anticipati dal tesoro per le spese di impianto e dei primi esercizi.
L’assunzione del monopolio da parte dello stato che effetto produce? Che quelle 500.000 lire o quel milione di lire che non erano finora una perdita, ch’erano un capitale investito in una certa necessaria ed utile maniera, che erano, secondo previsioni fondate, trattandosi di imprese bene amministrate, ricuperabili, diventano senz’altro una perdita. Non potendo più lavorare in futuro, l’impresa non ha modo di ricuperare il capitale impiegato e lo deve passare a perdita. Anche qui si chiede: quale delitto hanno commesso le imprese assicuratrici perché a loro sia negato quell’indennizzo che subito si riconoscerebbe dovuto, secondo il buon senso e le norme universalmente accolte di giustizia, a quegli ingegneri, quei medici, quei negozianti appena avviati, i quali non ebbero ancora il tempo di ammortizzare le ingenti spese del loro lanciamento, qualora fosse ad essi proibito, per pubblica utilità, di lavorare in futuro?
Né dicasi che si tratta di supposizioni immaginarie non fondate sulla realtà. Traggo da una odierna pubblicazione del dottor Gino Sestilli, sui cui primi risultati già mi sono intrattenuto alcun tempo fa, i seguenti dati su talune società nazionali che si trovano nel periodo iniziale della loro vita.
Capitale azionario versato o capitale di fondazione | Spese da ammortizzare all’1 gennaio 1910
| |
Compagnia nazionale assicuratrice | 67.030,00 | 196.279,76 |
La mutua italiana | 1.600.000,00 | 1.630.596,35 |
Compagnia italiana di assicurazione | 10.230,59 | 344.717,70 |
Concordia | 250.000,00 | 175.603,16 |
La Roma | 200.000,00 | 229.887,63 |
L’italiana | 700.000,00 | 717.147,58 |
L’industriale | 191.799,15 | 202.361,06 |
Tutte esercitano il solo ramo vita, salvo l’Italiana che ha anche il ramo infortuni; ma anche per questa le spese da ammortizzare devono, per l’indole stessa della assicurazione, riferirsi prevalentemente al ramo vita. Tutte queste società, salvo la Concordia, hanno già speso più del loro capitale nell’organizzazione, nell’impianto, nelle perdite inevitabili dei primi anni. Speravano di potersene rifare in avvenire. Forse la speranza poteva in parte andar delusa; ma per una parte v’era la sicurezza del ricupero. Ora viene il monopolio ed il brutale scherno del disegno di legge, il quale dice loro: Ah! voi avete lavorato per diffondere la previdenza, avete speso il vostro capitale e talvolta più del vostro capitale, talvolta, come per le mutue, senza nemmeno speranza di lucro! Tanto peggio per voi. Dovevate prevedere che un bel giorno sarebbe venuto lo stato a godere il frutto delle vostre fatiche!
Quando mai, in un paese civile, parve tollerabile un simile discorso?
La negazione dell’esistenza del problema dell’indennità per espropriazione non fa dunque sì che il problema non si imponga a quanti vogliono che lo stato non conculchi, per un preteso interesse pubblico (a parer mio, per un certissimo danno pubblico), le ragioni supreme della giustizia.
Anzi il problema si impone grave. A somiglianza di tutte le imprese industriali, delle imprese di assicurazione alcune guadagnano ed altre perdono. Altri, dai dati da me esposti e riprodotti altresì dall’on. Ancona in un lucido articolo sulla Nuova antologia, trasse, facendo la sottrazione degli utili delle imprese in guadagno dalle perdite delle imprese in perdita, la conseguenza che l’industria assicurativa sarebbe stata, a parer mio, in perdita. Conseguenza che mi guardai bene dal trarre. Non esiste una “industria assicurativa” come ente a sé, la quale guadagni o perda; esistono imprese vecchie e bene amministrate che guadagnano, imprese giovani e bene amministrate che perdono ancora ma sperano di guadagnare in futuro; imprese vecchie e nuove male amministrate che perdono ora e finiranno forse per non potere ricuperare il loro capitale e per dover cedere i contratti cogli assicurati ad altre compagnie. Gli assicurati saranno salvi, ma le compagnie dovranno scomparire. Tutto ciò che avevo detto era che lo stato rassomiglierà più al tipo delle imprese che perdono che al tipo delle imprese che guadagnano.
Secondo la onestà e la giustizia, lo stato, instaurando il monopolio, dovrebbe indennizzare quelle che guadagnano ora o guadagneranno in futuro per la perdita derivante dalla espropriazione di una parte del loro patrimonio (valor d’avviamento); e non dovrebbe dar nulla a quelle che perdono e nemmeno a quelle che guadagnano in apparenza ora e perderanno in avvenire. Impresa difficile e non scevra di pericoli per lo stato; poiché tutte le imprese a quel punto pretenderanno di guadagnare più del vero e quelle in perdita affermeranno che la perdita è temporanea e destinata a convertirsi in un beneficio futuro. Lo stato dovrebbe difendersi contro esagerate pretese e magari stabilire criteri oggettivi per la valutazione delle indennità. Ma queste tutt’al più sono nuove ed ottime ragioni per astenersi dall’imbarcarsi in una cabala rovinosa e pazzesca; non lo sono per negare persino il principio di una indennità, a stretto rigore di logica e di giustizia, dovuta. Non ho dimostrato l’obbligo strettissimo dell’indennità per concludere che lo stato si induca a pagarla davvero. No. Io affermo invece che lo stato si trova di fronte ad un dilemma o non paga nulla agli espropriati e farà cosa forse legale, perché coonestata dalla legge d’eccezione, ma immorale, deleteria per il suo buon nome, dannosa alla pubblica economia, in cui si infiltra così un elemento di rischio e di mala sicurezza, di scoraggiamento per i risparmi e gli investimenti; o si dispone a pagare la giusta indennità dovuta e suscita una infinità di controversie difficili e complicate, prepara lavoro per avvocati e tribunali per qualche decennio; ed aggiunge la certezza di nuove perdite a quelle sicure che nasceranno dal monopolio.
Dal dilemma non si esce che in una sola maniera: con la politica delle mani nette, col rinunciare ad un’impresa folle, proposta da incompetenti e voluta per ostinazione da chi oramai ne vede tutta la colpevole fallacia. So bene che, così parlando, attirerò sul mio capo l’accusa di difendere interessi particolari. Fortunato mi dirò d’aver meritato le accuse degli stolti, se in tal modo mi sarà dato di credermi, per un istante, non indegno seguace di coloro che nel secolo scorso crearono la scienza economica, fondandola sulla granitica base della lotta contro gli idoli cari ai tiranni ed alle folle.
Di uscire dal dilemma in modo degno e nel tempo stesso utile alla collettività non si cura il governo; ché anzi sembra si diletti persino a schernire gli offesi dalla violazione del diritto comune. Le imprese assicuratrici saranno costrette a sopportare spese crescenti ed a perdere così parte del loro capitale. Prese col laccio al collo, esse dovranno pregare i loro assicurati di voler riscattare i loro contratti ed iscriversi al monopolio. Le imprese nuove che hanno speso tutto il loro capitale nell’organizzazione e nell’impianto, potranno essere costrette a fallire, forse con perdita degli assicurati.
Per coronare la triste impresa, vi è, non la creazione di una magistratura straordinaria, che sarebbe stata poca cosa; ma la soppressione per i danneggiati del diritto di ricorrere alla giustizia. Né le imprese assicuratrici, né gli assicurati, frodati dei loro diritti per un fallimento provocato dal monopolio di stato, potranno trovare in terra d’Italia un giudice. Così, semplicemente, il governo crede di sbarazzarsi delle grosse difficoltà che una malaugurata promessa gli ha fatto sorgere intorno.
Purtroppo, ho poca speranza che sorgano in Italia forze sociali atte a contrastare efficacemente la risurrezione dei peggiori arnesi di governo dei regimi tirannici. Dovrebbero essere le prime ad insorgere le classi lavoratrici, le quali più di ogni altra sono danneggiate dai provvedimenti di governo che turbino la sicurezza dell’industria, la fiducia negli imprenditori di non essere defraudati dei frutti del lavoro perseverante e delle iniziative ardimentose. Ma le classi lavoratrici corrono dietro all’illusione delle pensioni (illusione finché le pensioni dovranno essere date coi lucri del monopolio); e vogliono asservirsi alla tirannia burocratica, paghe di diventare serve, quando sperino di divenire anche tiranne.
Le classi industriali ed imprenditrici, le classi commerciali non sentono l’avvicinarsi dell’uragano che le minaccia. Affaccendati a lavorare, a produrre, ad arricchire e ad impoverire, ciascuno per proprio conto, gli industriali ed i mercanti non si accorgono della sapiente tattica adottata dalla moderna tirannia, la burocrazia governativa, per crescere le sue schiere già fin troppo folte e diminuire il numero degli uomini liberi che vivono indipendenti dal banchetto governativo. È cieca la burocrazia; perché come vivrà dessa quando avrà tutto assorbito e mancheranno i contribuenti su cui assidere le imposte? Ma più ciechi sono gli appartenenti alle classi spogliate, i quali finora hanno forse plaudito ai bei colpi ed agli eleganti artifici degli espropriatori senza indennità. Ieri era la volta dei proprietari di aree fabbricabili espropriati da una leggina speciale, che non ha riscontro in nessuna legislazione tributaria, salvoché, forse, in una legge borbonica; oggi è la volta delle imprese di assicurazione sulla vita. Domani, poiché il monopolio non frutterà nulla, la burocrazia non mai sazia penserà alle assicurazioni incendio e poi a quelle grandine; e in seguito passerà ai fiammiferi, alla navigazione, alle imprese elettriche, a quelle edilizie; e così via via, per tappare le falle cagionate dai vecchi e nuovi spropositi, ne commetterà dei peggiori, assorbendo di volta in volta, ed uccidendo col suo mortifero alito, le imprese meglio organizzate, quelle che il genio dell’individuo avrà saputo portare a più alto grado di potenza, di espansione, di gloria.
Lo spettacolo più doloroso, che si vegga in occasione della cabala assicurativa, non è forse questo delle classi attive, laboriose, sane del paese che assistono impassibili e sorridenti alla propria distruzione graduale ad opera di parassiti, inutili a sé e dannosi agli altri?
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Delle 30 pagine della relazione che precede il disegno di legge sul monopolio delle assicurazioni, 15 sono consacrate ad una narrazione di ciò che in passato si legiferò all’interno ed all’estero. Non si preoccupa però il ministro del fatto che il racconto prova solo che tutti i legislatori italiani e stranieri fecero il contrario di quel che divisa far lui. Rimanda al secondo anno dopo l’attuazione del monopolio il riordinamento della Cassa pensioni operaie, ossia alla fine del 1914, se utili vi saranno; e poiché gli utili verranno solo dopo i ricuperi delle perdite iniziali e queste perdite finiranno verso il 1922, assicura al governo attuale ed a parecchi futuri la immunità dal noioso fastidio di pensare alle pensioni operaie.
Così il monopolio si riduce a un bel gioco da dilettanti; a fare il monopolio, bello o brutto che sia, pur che sia fatto. La relazione vede tutto facile, roseo, promettente; non vede i triboli seminati sulla sua via. Non rende forse il monopolio dei tabacchi più di 200 milioni netti allo stato; ed il lotto 40 ed il sale 70? Perché non dovrebbe il monopolio delle assicurazioni vita rendere il 20 od il 10% almeno degli incassi annui, e perché lo stato, colla fiducia che inspira a tutti e di cui è prova lampante il miliardo e mezzo depositato alle casse postali di risparmio, non potrà spingere in due o tre anni l’incasso dai 70 milioni circa ottenuti dalle pigre compagnie private ai 150 o 200 milioni di lire? E perché lo stato non potrà guadagnare almeno 15 20 milioni all’anno, buon avviamento alla soluzione delle pensioni ai vecchi poveri?
Così parla il ministro. Il quale dimentica quali sono i motivi che hanno reso facilmente copiosi i redditi dei tre monopoli italiani. Mi voglio per un istante spogliare dei miei profondi convincimenti intorno alla incapacità dello stato a gerire imprese industriali. Pur dal punto di vista di un apostolo dell’allargamento delle funzioni statali, il monopolio delle assicurazioni vita è l’ultima delle imprese da assumersi dallo stato allo scopo di cavarne un reddito. Il monopolio del sale rende perché il sale è un alimento di prima necessità, del quale nessuna famiglia può fare a meno. Quello del tabacco frutta, poiché il fumare è un abito oramai quasi universale, che lo stato non dura alcuna fatica a generalizzare sempre più, e per cui non gli è d’uopo d’andar cercando clientela, essendo questa spontaneamente tratta a lui dalle vaporose fantasticherie connesse con le nuvole del fumo. Anche il lotto è redditizio, perché la gente ama, per sei giorni della settimana e magari tutte le settimane dell’anno, illudersi di diventare nel settimo ricca. Tratta dalla necessità o dal piacere o dal sogno la clientela va allo stato e gli paga un tributo di imposta. Tributo, che a me, – ove si eccettuino il sale e talune particolarità non essenziali nel lotto, – pare ragionevolmente distribuito e così abbondante da rendere bene accetto e compiutamente approvabile, pure all’economista più indurito nel cosidetto pregiudizio liberista, il metodo del monopolio con cui quegli opimi risultati finanziari sono ottenuti.
Qual mai forza spingerà il cittadino a gittarsi nelle braccia dello stato assicuratore? Non la necessità, perché pochissimi, a ragione od a torto, reputano in Italia necessario assicurarsi sulla vita, e quei pochi sono commercianti, industriali, capitalisti che le leggi fiscali già inducono a diffidare dello stato ed a consegnare i propri risparmi a tutti fuorché alle casse governative. Le casse postali di risparmio ricevono bensì un miliardo e mezzo di depositi; e, per questo rispetto (non per l’altro verso dell’impiego che esse fanno di quel miliardo e mezzo) sono benemerite del risparmio popolare. Ma coloro che si assicurano sulla vita (parlo, s’intende, delle assicurazioni che nelle speranze dei dilettanti dovrebbero essere redditizie, non di quelle che tutti concordemente reputano passive a favore delle classi popolari e degli operai vecchi) appartengono a classi che certamente non forniscono una clientela apprezzabile alle casse postali di risparmio. L’industriale, il commerciante, il professionista già fin d’ora tiene il suo conto corrente presso le banche o le casse di risparmio locali, non presso le casse postali. Dunque non la necessità potrà spingere i cittadini ad assicurarsi presso lo stato; a meno che lo stato non li costringa ad assicurarsi. Per ora i monopolizzatori hanno assicurato che ciò non era nelle loro intenzioni, e che questa era una calunnia sparsa dai loro nemici. Prendiamone atto, augurandoci che in futuro ad altri governanti, visto l’insuccesso del monopolio, non venga in mente di attenuarlo rendendo obbligatoria l’assicurazione e trasformandola così in una imposta, pessima fra le imposte perché gravante sui previdenti e sui bisognosi di previdenza a sgravio dei ricchi che non hanno bisogno di previdenza ed a vantaggio degli imprevidenti.
Se non dalla necessità, saranno forse gli uomini indotti ad assicurarsi dal piacere o dal sogno di acquistar ricchezza? Ohibo!; ché anzi l’assicurazione è connessa con le tristi immagini della morte, della vecchiaia, degli acciacchi! Ben lo sanno i produttori delle imprese assicurative, che devono torturare, spaventare i futuri clienti con orribili quadri di morti improvvise, di infortuni, di scontri di treni, di malattie incurabili che tolgono la capacità di lavorare, di mogli e di figli ridotti sul lastrico, cenciosi ed affamati. Queste sono le corde che nell’animo della clientela devono far vibrare gli odierni assicuratori; questo spiega la loro impopolarità; e, congiunto con l’ira di dovere ogni anno, ogni semestre, forse ogni mese sborsare un premio per premunirsi da un pericolo, la morte, che dovrebbe verificarsi presto per rendere lucrosa l’assicurazione e che nel tempo stesso, per amor della vita, si desidera lontanissima, spiega come in generale l’opinione pubblica abbia oggi in dispetto le compagnie di assicurazione; e spiega come in futuro lo stato assicuratore non potrà certo essere desiderato, cercato, amato.
I clienti lo cercheranno anche meno di quello che oggi cerchino le società di assicurazione. Oggi essi sono assillati da un nugolo di agenti, di diverse compagnie, ognuno dei quali si sforza di dimostrargli che la sua tariffa è la migliore, che il suo contratto presenta una variante utile ed adatta al suo caso individuale, che la sua compagnia è quella che possiede riserve più vistose, palazzi più splendidi e redditizi ed a tutti visibili. Il cliente ha una certa libertà di scelta; e, pur pagando una tariffa sostanzialmente non dissimile dalle altre (ed è la concorrenza che le ha adeguate al costo di produzione), ha la convinzione di aver fatto il miglior contratto possibile. Il che è spessissimo un potente stimolo a stipulare ogni sorta di contratti.
Domani, quando lo stato sarà l’unico assicuratore, il cliente avrà la sensazione sicura di essere defraudato. Perché lo stato istituirebbe un monopolio se non per guadagnarvi sopra grosse somme? Così fa per il sale, così per i tabacchi, così per il lotto. Ma il sale lo si compra perché non se ne può fare a meno, il tabacco perché non si vuole rinunciare ad un vizio, lo scontrino del lotto perché si accarezza la speranza della vincita. Si paga l’imposta spesso senza saperlo; e, quando lo si sa, ci si passa sopra perché la necessità, il vizio, la speranza sono più forti della repugnanza a pagar l’imposta. Col monopolio delle assicurazioni vita la persuasione di pagare il tributo, di doversi assoggettare ad una tariffa più alta del necessario agirà da freno ad impedire le assicurazioni. Ricordiamoci che le assicurazioni sulla vita – quelle redditizie, il cui provento dovrebbe servire a colmare, in tutto od in parte, il deficit delle assicurazioni popolari – fanno appello alla media e minuta borghesia, ai commercianti, agli industriali, agli impiegati privati e pubblici, ai professionisti. Il ricco, il capitalista, il proprietario ha minor urgenza di assicurarsi. Ora gli assicurandi direbbero: perché noi soli dobbiamo volontariamente sobbarcarci ad una imposta per consentire allo stato di pagar le pensioni agli operai? Perché lo stato vuole speculare su una nostra operazione di previdenza, sul bisogno nostro di provvedere un pane alla nostra famiglia od alla nostra vecchiaia per colpirci di imposta a favore di altre persone? Metta lo stato, se crede, un’imposta su tutti per raggiungere l’intento; e non su noi, che con l’assicurazione sulla vita dimostriamo di essere, nei limiti imposti dall’ambiente sociale in cui siamo stati educati, altrettanto bisognosi quanto gli operai oggetto delle tenerezze governative.
Tanto più crescerà la convinzione negli assicurandi di essere defraudati dall’unico assicuratore, provvisto di un’unica tariffa, quando rifletteranno alla qualità delle persone che li solleciteranno a stipulare il contratto. Notai, che redigono i testamenti, ricevitori del registro, con cui si è avuto forse a che fare in occasione del pagamento di tasse di bollo, di registro, di successione, agenti delle imposte che, pur essendo degnissime persone e da me reputate anzi degne di essere messe nella condizione di magistrati indipendenti ed imparziali, non sono dall’opinione pubblica guardati di solito con molto affetto. Si aggiungano i segretari ed agenti comunali, mescolati tuttodì con la ripartizione delle tasse di famiglia, sul valor locativo, sugli esercizi e rivendite, ecc. ecc. Questi assicuratori pubblici odoreranno di tasse e di imposte lontano un miglio e la gente li fuggirà come la peste, più che ora non si fuggano le persecuzioni insistenti, sebbene amabili e cortesi, degli assicuratori privati.
Anche quando gli assicuratori pubblici saranno gli stessi che ora sono al servizio delle compagnie, saranno però colleghi di quei tali agenti delle imposte ricevitori del registro, notai, segretari comunali di cui si disse sopra. Un po’ della popolarità al rovescio del percettore di imposte aleggerà su di loro e ne renderà, come ognun vede, agevoli le operazioni.
L’assicurando oggi si induce talvolta al contratto di previdenza in quanto l’assicuratore gli fa vedere come, designando, in caso di sua premorienza, una persona cara, moglie, figli, genitori, come beneficiaria dell’assicurazione, sulla somma assicurata non si pagheranno tasse di successione. Né è facile togliere ora l’esenzione, ove non si vogliano far domiciliare all’estero molti contratti e perché in realtà non si è aperta una vera successione quando il beneficiario era una persona diversa dall’assicurato fin dall’inizio del contratto.
Col monopolio di stato, nulla per il momento sarà mutato. Col tempo, il ministero delle finanze, che già grida adesso, strillerà però contro le immunità dall’imposta di successione; e strillerà perché lo stato assicuratore avrà in mano le prove palmari che si tratta di una vera donazione o legato od eredità mascherata sotto le forme di una assicurazione sulla vita a beneficio di terzi. Quale incoraggiamento a stipulare contratti di assicurazione collo stato! Il timore delle tasse, in un paese a tributi elevati come l’Italia, è, bisogna riconoscerlo, una delle molle fondamentali della condotta umana; e credere che il pubblico sia pronto a portar denari ad un istituto, quando quel pubblico paventerà che in tal modo lo stato venga a conoscere gli affari suoi, e una illusione.
Tanto più grossa l’illusione, quanto più benigni e graziosi i mezzi di cui si serviranno gli assicuratori pubblici per indurre il futuro cliente a preferire lo stato alle imprese private domiciliate all’estero. L’assicuratore vedrà un contrabbandiere nel cliente, che a parer suo dovrebbe assicurarsi, che si trova nelle condizioni economiche e familiari che più richieggono l’assicurazione, e tuttavia si ostina a non volerne sapere; ed, a sua volta, il cliente vedrà la spia nell’assicuratore. Una spia che ha a sua disposizione multe oscillanti dal 5 al 20% della somma assicurata, ossia da 500 a 2.000 lire per un contratto di assicurazione di 10.000 lire, aggravate, in caso di recidiva, dal carcere da uno a sei mesi. Come questi poteri inquisitori (il regolamento dovrà pure, se voglionsi rendere efficaci queste minacce di pena, stabilire una congrua interessenza per i delatori) abbiano a rendere vieppiù simpatici i rapporti degli assicuratori con i clienti non è chi non veda.
Né queste sono particolarità emendabili, che potranno essere tolte nel disegno di legge. Tolgansi le multe e le minacce di carcere contro gli assicurati e tutto il monopolio cade a terra. Chi comprerebbe più sigari dallo stato se a comprarli non si andasse incontro a nessun inconveniente? Nessun monopolio di stato può reggersi senza minacce agli averi ed alla libertà personale dei contravventori.
Il monopolio delle assicurazioni vita dovrà anzi essere più rigido e più severo del monopolio dei tabacchi o del lotto. A nessuno è vietato di consumare sigari esteri mentre si è in viaggio all’estero e la posta italiana recapita spesso offerte di biglietti di lotterie straniere. Ma la stipulazione all’estero di un contratto di assicurazione da parte di un italiano dimorante o viaggiante fuori della patria dovrà per forza essere considerata come fatta in contrabbando. Altrimenti, chi non vorrebbe fare un piccolo viaggio sino a Chiasso od a Lugano non foss’altro per non far sapere i fatti propri allo stato, per non avere a che fare con quei tali simpaticissimi ricevitori del registro, agenti delle imposte, ecc. ecc.
Tutto ciò è logico, è inevitabile, ma dovrebbe far riflettere coloro i quali leggermente asseriscono che lo stato inspirerà a tutti una grandissima fiducia ed intanto si apprestano a rinforzare questa spontanea fiducia con lo spionaggio, le multe ed il carcere!
Il progetto di monopolio è in questi ed altri punti essenziali, inemendabile e l’attuazione non potrà non essere peggiore degli odierni propositi. Si discorre di punire i contravventori dichiarando i loro contratti nulli dinanzi alla legge italiana. E cosa importerà questa minaccia, per chi sa che le compagnie estere potranno essere condannate, in caso di non osservanza dei contratti, dai tribunali stranieri? Le compagnie avranno tutto l’interesse, tranne nei casi di frode sicura a loro danno, a dare esecuzione al contratto per sottrarre clientela al monopolio. Quanti contratti cosidetti differenziali di borsa non si fanno e sono scrupolosamente osservati, in grandissima maggioranza, sebbene i tribunali si ostinino a dichiararli nulli!
I dubbi si affollano pensando alla situazione futura dell’assicurato. Dove andranno a farsi assicurare i rifiutati dell’unico assicuratore? Oggi hanno sempre la speranza di essere accettati da qualche altra compagnia. Errare è umano, ed anche i medici fiscali potranno errare. Almeno per i rifiutati la legge dovrebbe riconoscere la validità del contratto che essi riuscissero a stipulare con qualche compagnia estera.
Che spinta avrà il monopolio a pagare prontamente le somme assicurate, a non far liti, dato che avrà il privilegio di non perdere la clientela per la concorrenza altrui? Quando un contribuente stipulerà un contratto per mezzo di un agente delle imposte od un ricevitore del registro chi toglierà il sospetto che si sia voluto corrompere un pubblico ufficiale dandogli, in cambio di una diminuzione d’imposta, la provvigione sul contratto? E che bisogno v’è di far sospettare una classe di funzionari, non gradita al pubblico, ma degnissima per rettitudine di vita e per abnegazione nell’adempimento del proprio dovere?
Almeno, l’assicurato trovasse nella legge qualche motivo intrinseco di fiducia nello stato! Quali garanzie, invece avranno gli assicurati, che l’istituto di stato potrà far fronte ai suoi impegni? La domanda può parere assurda ed è invece serissima. Nel disegno di legge non c’è una parola che assicuri i clienti a questo riguardo. Anzi tutto lo sforzo del compilatore fu riposto nel mettere bene in chiaro che lo stato, come tale, non risponde di nulla, non assume nessun obbligo. Si capisce che finirà per pagare pantalone; ma intanto gli assicurandi non hanno nessun affidamento scritto che ciò debba accadere, anzi hanno parecchi giuramenti, sia pur vani, che lo stato non vuol pagare nulla di quel che pur dovrebbe pagare. Le compagnie private hanno un capitale versato, uno, maggiore, sottoscritto, che sono, nei primi tempi, la necessaria garanzia rispetto agli assicurati. L’istituto nazionale di assicurazioni che garanzia offrirà agli assicurati? In tutto e per tutto un conto corrente di 5 milioni di lire apertogli dal tesoro dello stato. Ora, per quanto i soliti dilettanti pretendano che l’industria assicurativa può esercitarsi senza versamento di alcun capitale, la realtà vera è che il capitale è necessario e deve essere consumato nel primo decennio di vita della impresa, salvo a ricuperarlo in seguito. Per un’impresa come quella statale che pretende di raddoppiare il lavoro delle compagnie private, cinque milioni di lire sono un fondo insignificante, assolutamente insufficiente. Secondo calcoli attendibili, supponendo pure che lo stato nel primo anno lavori non più delle compagnie private, e impieghi al 3,50% le somme incassate, adottando la tabella Hm, ed applicando premi uguali ai presenti, in un anno solo perderà netti i 5 milioni del suo capitale. Come farà nel secondo anno quando la perdita di esercizio arriverà a 4 milioni e mezzo di lire? E così via fino al decimo anno? Dovrà intervenire di nuovo lo stato; ma gli assicurandi possono ragionevolmente temere che non voglia intervenire. Si vuole inspirare fiducia agli assicurandi: raccontando frottole al parlamento, per fargli credere che basteranno 5 milioni come capitale d’impianto, mentre sarà necessario perdere in dieci anni circa venticinque milioni prima di avere un esercizio attivo. Attivo, si intende, nel senso che potrà, secondo i calcoli fatti sulla carta, incominciare a restituire al tesoro le anticipazioni ricevute; non secondo la realtà vera di un esercizio di stato.
Ad attirar clientela il progettista governativo, come ogni progettista che si rispetta, non manca di fare le migliori promesse: sicurezza assoluta a prezzi non superiori ai prezzi attuali delle compagnie esercenti l’assicurazione. Afferma il progettista di potere ciò nonostante guadagnare moltissimo: dal 25 al 55% dei premi pagati dagli assicurati al lordo: e poiché le spese non saranno superiori a forse il 15%, rimarrà pur sempre un guadagno netto dal 10 al 40%, che, al minimo e «nelle ipotesi più dannate», non potrà discendere al disotto del 7 od 8% dei premi incassati. A veder tanta sicurezza c’è da rimanere sbalorditi. Ma apriamo bene gli occhi. Nella parte attuariale dell’industria assicurativa il problema poggia su due elementi: il tasso di interesse adottato e la tabella di mortalità. Il saggio d’interesse è stabilito non da criteri tecnici ma dalle condizioni prevedibili del mercato per una lunga serie di anni. Il progettista ha fatto i suoi calcoli sulla base del 3,25, del 3,50 e del 4% e rispetto a questo punto non vi sono critiche a fare. La critica muove dalla scelta della tabella di mortalità, scelta della quale non vogliamo credere responsabile il ministro, premuto dalle faccende della sua carica, ma chi lo ha aiutato a compilare il progetto. Questi è andato a scegliere la tabella di mortalità della popolazione italiana del 1901, che già prima che si discorresse di monopolio era apparsa misteriosa; e che ad un esame appena appena superficiale presenta tali incongruenze da renderla affatto inattendibile, senza un esame critico minuzioso e spassionato, che il progettista non si sogna nemmeno di fare. Il mistero sta in questo che la tabella italiana si riferisce alla popolazione totale, sani e malati, dell’Italia e pur tuttavia presenta una mortalità inferiore, nella maggior parte delle singole età, alla mortalità risultante dalle tabelle speciali di teste scelte, compilate in Francia, in Inghilterra, negli Stati uniti da associazioni di attuari e da compagnie potenti sulla esperienza reale della mortalità dei loro assicurati. V’è di più. La tabella della mortalità italiana è basata su una mortalità complessiva del 22,44 per ogni mille abitanti. Vi sono altre tabelle che sono basate su una mortalità complessiva uguale o minore, e che danno risultati, nei singoli anni, differentissimi dai risultati della tabella italiana. C’è, per esempio, la tabella di Farrar (inglese del 1841-51) la quale si basa su una epoca vecchia, ma su una mortalità uguale in complesso a quella italiana (22,45%.) C’è la tabella della mortalità svizzera (1881-88) basata su una mortalità del 19,92%. ossia minore dell’italiana. C’è la tabella Hm delle 20 compagnie inglesi, di teste scelte, assoggettate a visita medica, che dovrebbero avere una mortalità minore della popolazione generale italiana. Ecco confrontate le diverse tabelle:
Tassi annui di mortalità per mille secondo la tavola | ||||
Età | Inglese | Svizzera | Italiana | 1901 |
anni | di Farrar | di Durrer | Hm | |
(maschi) | (maschi) | (maschi) | (maschi) | |
0 | 183,26 | 182,61 | – | 175,19 |
5 | 13,69 | 7,01 | – | 8,66 |
10 | 5,63 | 3,30 | 4,90 | 3,55 |
15 | 5,19 | 3,41 | 2,87 | 3,46 |
20 | 8,32 | 6,35 | 6,32 | 6,38 |
25 | 9,20 | 7,42 | 6,63 | 6,78 |
30 | 10,13 | 8,58 | 7,72 | 6,67 |
35 | 11,33 | 10,57 | 8,77 | 7,02 |
40 | 13,06 | 12,55 | 10,30 | 8,59 |
45 | 15,54 | 15,24 | 12,19 | 10,43 |
50 | 19,02 | 19,84 | 15,95 | 13,50 |
55 | 24,85 | 25,74 | 21,08 | 17,66 |
60 | 33,05 | 37,01 | 29,67 | 27,85 |
65 | 46,98 | 52,64 | 43,43 | 41,68 |
70 | 62,62 | 78,14 | 62,19 | 66,87 |
75 | 103,91 | 119,25 | 98,36 | 105,41 |
80 | 152,90 | 173,96 | 144,65 | 163,61 |
85 | 219,66 | 232,57 | 209,88 | 240,40 |
90 | 307,17 | 317,79 | 279,45 | 318,32 |
95 | 420,35 | 486,49 | 637,03 | 358,44 |
100 | 550 | – | – | – |
Dinanzi ai misteri rivelati da questo confronto c’è da rimanere incerti. Ricordiamo bene che in Italia si muore in complesso il 22,44% ossia precisamente come in Inghilterra all’epoca di Farrar (22,45%). Eppure mentre in complesso si muore ugualmente, in tutte le età, salvo che nei bambini appena nati (o anni) e nei vecchi da 75 a 90 anni si muore di meno, enormemente di meno. Nella Svizzera, dove in complesso si muore solo il 19,92%, si muore viceversa di più a tutte le età, salvo che dal quinto al ventesimo anno e dall’80esimo al 90esimo anno. Non parliamo della tabella inglese, secondo cui le teste scelte morirebbero di più dal 20esimo al 35esimo anno di tutte le teste italiane. Dinanzi a queste divergenze allo studioso non rimanevano che due vie: o star zitto, aspettando dai miglioramenti della statistica italiana, o trarre dal censimento del 1911 una conferma od una smentita dei risultati del 1901; ovvero intraprendere un esame critico per vedere quale delle diverse tabelle corrisponda meglio a realtà.
Invece, chi compilò, per ordine ministeriale, le cinque pagine, che sono tutto il succo della relazione, vide una cosa sola: che la tabella italiana dava per le singole età una mortalità bassa; ne concluse che, se i morti erano pochi, il monopolio futuro avrebbe dovuto pagare poco od almeno più tardi e quindi guadagnare di più e disse: «Questa è la tabella che fa per la mia tesi. Non voglio io forse dimostrare che il monopolio guadagnerà molto? Dunque bisogna scegliere la tabella che fa morir meno gente. Che importa esaminare se e fino a questo punto la tabella sia attendibile? Queste sono ubbie da pedante. Ora non si tratta di fare opera di scienza, ma di ottenere il voto dai deputati».
Il risultato dimostrò che il compilatore, sia pure con alquanta fretta, vedeva politicamente giusto. I guai nasceranno se quella tabella funzionerà male in pratica. Io non dico che essa sia erronea, affermo soltanto che è misteriosa e che può dar luogo a sorprese. Ora le sorprese, nelle faccende economiche, si chiamano insuccessi.
Quante banche – e qui si tratta dell’istituzione di una vera e propria banca di stato – pubbliche e private non sono fallite in Italia! Oggi il ricordo di quei fallimenti è un po’ svanito, e perciò si progetta a cuor leggero di rifare ciò che a tutti vent’anni fa sarebbe parso una follia. Ricordo di avere assistito, assai anni fa, all’inaugurazione di uno stabilimento industriale. L’oratore parlava di industria facile, di smercio assicurato, moltiplicava i quintali di prodotto venduto per il prezzo di vendita, ne detraeva il costo di produzione, otteneva l’utile netto, assegnava le partecipazioni a chi di diritto e pronosticava dividendi largamente soddisfacenti agli azionisti. In un angolo, alcuni vecchi industriali sogghignavano. Io, che ero tra gli spettatori disinteressati ed ammirati del biancore dei saloni, dalle macchine lucenti e dal rinfresco, non capivo il perché di quel sogghigno. Capii quando, anni dopo, lessi sui giornali che lo stabilimento era fallito.
Chi impianta una azienda solida, non fa grossi programmi, né calcoli precisi di lucri su formule matematiche; non dice che l’impresa è facile, anzi sa che dapprima avrà solo la soddisfazione di vincere difficoltà ed intoppi d’ogni sorta. Il monopolio assicurativo nasce tra calcoli attuariali, basati su fondamenti, se non erronei certo finora non esplicati; e tra assicurazioni ingenue che gli altri elementi – ed i più importanti – di successo, organizzazione, personale, conquista della clientela, difesa contro le frodi, sono niente per lo stato. Se un’impresa privata sorgesse sotto questi auspici – e molte ne sorgono di gente vana – non me ne rammaricherei gran fatto perché del suo inevitabile fallimento dovrebbe sopportare le conseguenze – ad ammaestramento suo e degli altri – l’imprenditore balordo. Del sorgere invece di una pubblica intrapresa, insanamente concepita, molto mi rammarico perché nulla impareranno coloro che l’hanno votata a cuor leggero sapendo che del fallimento suo non essi saranno chiamati a rispondere ma i contribuenti.
8
I perfezionamenti veri, introdotti dalla commissione nel disegno di legge governativo, sono due: uno relativo alle società di mutuo soccorso e l’altro alla Cassa mutua di Torino. Il primo è un miglioramento perché, bene o male, equivale a una restrizione dei poteri del monopolio. È un residuo di concorrenza al mostro burocratico, sia pure debolissima concorrenza. Secondo il progetto governativo erano salve soltanto le società di mutuo soccorso che assicuravano un capitale non superiore alle lire 500 e una rendita non superiore alle lire 200 annue. La commissione ha portato i limiti a lire 1.000 di capitale e lire 400 di rendita. Sarebbe preferibile innalzare ancora più i limiti, perché questa concorrenza delle società di mutuo soccorso non può far male al monopolio, essendo la loro azione rivolta a speciali categorie di persone, che sono avvinte da molteplici legami di mestiere, di località, di altri svariati benefici. Se il monopolio fosse suscettibile di bene, ciò che non è, la concorrenza delle società di mutuo soccorso, e in generale qualsiasi concorrenza, dovrebbe essergli gradita, come quella che diffonde l’abitudine di quella previdenza, la quale dovrebbe essere il fondamento delle vittorie future del monopolio. Notisi ancora che il limite di lire 1.000 di capitale appare troppo basso in confronto a quello di lire 400 di rendita; onde se questo vuolsi tenere fermo, converrebbe aumentare il primo almeno a 2.000 lire.
L’altro perfezionamento si riferisce alla Cassa mutua pensioni di Torino. Come ognuno sa, questa cassa dovrebbe essere assorbita da un lato dalla Cassa nazionale di previdenza (soci operai) e dall’altro dal monopolio (soci non operai). Io che ho vagheggiato la trasformazione della Cassa mutua di Torino in una prima società italiana di assicurazione popolare, non posso non dolermi della sua fine ingloriosa. Affidato al monopolio, l’ideale delle assicurazioni popolari diventa ideale irraggiungibile. Per far mostra, però, di avere saputo almeno conservare la vecchia clientela della Cassa pensioni, il governo aveva escogitato un artificio assai elegante permetteva il diritto di recesso soltanto entro un mese dalla nomina del commissario regio, la quale nomina doveva avvenire entro un mese dalla promulgazione della legge. Poiché i soci avrebbero dovuto dichiarare il recesso entro un termine brevissimo e non avrebbero saputo per giunta quale somma sarebbe a essi spettata in tale caso, tutto rimanendo nell’arbitrio del governo, il quale poteva magari dare meno del versato, era evidente che ben pochi avrebbero receduto. La commissione giustamente volle che prima il regio commissario procedesse all’accertamento della situazione patrimoniale della cassa e alla determinazione e pubblicazione delle quote a cui i soci hanno diritto; e poi diede due mesi di tempo ai soci per esercitare il loro diritto di recesso.
Era stretta giustizia agire in tal modo dal momento che col monopolio si volle lo scioglimento e non la trasformazione della cassa. Non sembra invece sia osservata la giustizia quando, oltre ad aver sospeso le decadenze per causa di morosità, si dichiarò che la morte dei soci della Cassa di Torino non importerà più alcuna perdita dei loro diritti acquisiti. Questa è una delle tante violazioni dei patti contrattuali e dei diritti acquisiti di cui formicola questo disegno di legge. Tizio paga una somma per assicurarsi una pensione vitalizia. Egli perciò paga un tanto in proporzione al beneficio che si è voluto garantire. Se egli avesse inoltre voluto assicurare ai propri eredi una somma in caso di morte, avrebbe dovuto pagare di più. Tanto è vero che la Cassa mutua di Torino aveva istituito una Cassa rimborsi, la quale garantiva, grazie al pagamento di un premio supplementare, il rimborso, al momento della morte, delle quote versate. Vengono ora freschi freschi i commissari a dire che agli eredi di coloro che premoriranno all’acquisto del diritto a pensione spetterà anche un certo capitale. Siccome i denari non si inventano dal nulla (in verità il monopolio promette questo miracolo mai visto) così saranno gli altri soci che dovranno perdere, contrariamente agli statuti e ai patti sociali. Tanto che cosa valgono oramai le leggi e i contratti?
Le altre modificazioni – e sono quelle sostanziali relative al monopolio vero e proprio – devono essere diversamente giudicate. Le considererò in rapporto allo stato, alle società assicuratrici, al personale assicuratore, agli assicurati.
Quanto allo stato non pare che questo si sia voluto assumere alcuna maggiore responsabilità oltre quella già nota di fornire cinque milioni all’istituto. Quindi rimane intera la critica che gli assicurati futuri non avranno alcuna garanzia che l’istituto potrà far fronte ai suoi impegni: e che mancandovi questo ultimo, nei suoi obblighi sottentrerà lo stato. E allora, se lo stato non sarà responsabile verso i futuri assicurati, come mai si può permettere che le tariffe dei premi siano fissate, arbitrariamente, dal potere esecutivo? Quando mai si è consentito al governo di fissare da solo le tariffe ferroviarie, le tasse scolastiche, le tasse per i permessi di caccia, il prezzo del sale, dei tabacchi, ecc. ecc.? Perché questa abdicazione del potere legislativo a una sua gelosissima podestà, quella tributaria?
Quanto alle società o imprese assicuratrici si torna a consacrare il principio dell’articolo 2: nessun obbligo di indennizzo per le perdite che esse soffriranno in seguito al monopolio. E cancellato solo l’inciso che negava alle società il diritto di ricorrere al giudice; ma è cancellato, spiega sarcasticamente il relatore, non perché si sia voluto riconoscere alle società il diritto di stare in giudizio, bensì perché quell’inciso era una vera superfluità pleonastica, dal momento che la legge toglie esplicitamente ogni diritto a compensi, indennità, ecc. ecc. Le società potranno andare dinanzi al giudice, ma per sentirsi dire che esse non vantano nessun diritto di nessun genere a indennità. Non è ancora più elegante? La commissione pare si sia persuasa della bontà della tesi governativa dal nessun obbligo di pagare indennità qualsiansi, passando sopra alle evidenti e inconfutate ragioni con le quali qui e altrove si dimostrò che l’articolo 2 consacrava il principio grave e pericoloso della confisca senza indennità della proprietà privata. Contro quelle ragioni furono addotti solo meschini sofismi, sia ciò detto con sopportazione degli altissimi magistrati cui furono a ragione o a torto attribuiti. Con questi sofismi si aggravò, come era naturale, l’enormità della tesi governativa. La quale porta a questo: tutte le volte che lo stato in avvenire vorrà privare un gruppo di industriali o commercianti, senza indennità, del diritto di esercitare la loro industria e il loro commercio, non avrà che a ripetere il ragionamento dell’odierno relatore hanno forse gli industriali e i commercianti un diritto acquisito ai profitti futuri? No; essi hanno solo una speranza di profitto. Lo stato tronca la speranza e non dà nulla per questa stroncatura, come insegnano i moderni maestri del diritto. Quando mai si sono indennizzate le speranze? Il ragionamento Giovanelli potrà essere applicato con successo altresì ai proprietari di terreni, di case, di opifici, di macchine, ecc. Ha il proprietario di un fondo un diritto acquisito ai redditi futuri del fondo? No. Egli ha un diritto acquisito al fondo; ma non ai redditi futuri del fondo. Questi sono future speranze, che lo stato ha diritto di troncare senza indennità, appropriandosi tutti i redditi futuri e lasciando ai proprietari il fondo. Quando mai questi maestri del diritto vorranno imparare che il fondo, la casa, l’industria, l’avviamento sono egualmente nomi vani, senza contenuto, se si tolgano le speranze di redditi e utili futuri?
Dissi che alle società nulla volle concedere la commissione; ma erravo. Qualcosa ad alcune di esse fu dato, in apparenza di poco, in realtà di grandissima importanza. Ricordano tutti lo scalpore avutosi quando si seppe delle gravi pene sancite contro assicuratori e assicurati che in avvenire contravverranno alla legge nel regno e all’estero. Pare che le pene siano rimaste solo per gli assicuratori che assumano o procurino contratti all’interno per imprese clandestine italiane o per imprese estere od operanti all’estero alla luce del sole. Dico pare perché tante furono le tramutazioni verbali di questo articolo di legge che sarà necessaria una dizione più esplicita per mettere in chiaro che gli assicurati non saranno sottoposti ad alcuna pena, fuorché alla nullità del contratto, se conchiuso in Italia. Da quanto si può capire, i principali casi che si potranno presentare in futuro saranno i seguenti:
- L’assicurato si assicura nel regno con una impresa assicuratrice privata. Contratto nullo, perché fraudolento, nei riguardi degli assicurati, e pene pecuniarie e personali per l’assicuratore.
- L’assicurato conduce le trattative nel regno con l’assicuratore e va a stipulare all’estero il contratto. Contratto valido – a meno che poi la giurisprudenza ritenga irrilevante la semplice stipulazione all’estero – e pene come sopra per gli assicuratori.
- L’assicurato conduce le trattative, stipula il contratto all’estero. L’assicuratore non è minacciato naturalmente da alcuna pena; e il contratto è validissimo anche di fronte ai tribunali italiani. L’articolo 4 dichiara infatti nulli soltanto i contratti conclusi nel regno in frode alla legge, onde è legittima la deduzione che i contratti anche fraudolenti conclusi all’estero siano validi.
La situazione quale risulta dal disegno di legge è dunque ben diversa da quella originaria. Il monopolio non è più un vero monopolio, logico e coerente in tutte le parti; ma è una esclusività dell’esercizio di un’industria entro il territorio del regno, limitata da una concorrenza che si eserciterà più o meno viva ai margini di questo territorio. I contratti con le imprese concorrenti estere potranno essere preparati in Italia dagli attuali produttori, salvo a stipularli a Trieste o a Lugano. Unico freno, evanescente, la minaccia di multe e carcere contro gli agenti assicuratori. Minaccia della quale le compagnie assicuratrici estere si rideranno, perché avranno cura di scegliere un personale che non sia in grado di pagare le multe. Chi potrà dare le prove della preparazione avvenuta in Italia, quando il contratto risulti concluso all’estero dall’assicurato in persona? I monopolisti puri che cosa dicono di questa degenerazione del loro ideale?
Il personale ha ottenuto qualche piccola cosa nella lettera della legge; e qualche poco di più nello spirito di essa. Secondo la nuova dizione della legge, il personale attuale delle compagnie godrà di una preferenza non solo all’atto della costituzione del nuovo ente, ma anche successivamente. Non so quanto valga la promessa; poiché i buoni impiegati e produttori troveranno qualche cosa di meglio da fare dell’aspettare per un tempo indefinito un impiego problematico presso il monopolio. Chi non sarà assunto subito cercherà qualche altra occupazione; e solo chi non l’avrà trovata aspirerà ad impiegarsi successivamente col monopolio. Comunque sia, la preferenza potrà provvedere a qualche pietoso caso di impiegati anziani, a cui fosse impossibile trovare un altro pane.
L’agitazione, già vivissima del personale, non cesserà per questa e per l’altra promessa di deferire al regolamento la modalità delle retribuzioni e degli stipendi. È la solita scappatoia di rinviare le questioni spinose. Da questo rinvio e da questa mezza promessa, nascerà una serie infinita di agitazioni della nuova schiera di burocrati, sulle quali è inutile dilungarsi, perché troppo sono noti a tutti gli effetti e le vicende delle rivendicazioni burocratiche.
Restano gli assicurati. Il governo ha fatto dichiarazioni solenni di essere tutto compreso della sorte dei 300 o 400 mila assicurati italiani, e questi si saranno consolati leggendo che la commissione aveva introdotto, oltre a minori correzioni, nientemeno che due nuovi articoli, il 24bis e il 24ter, per provvedere a garantire i risparmi degli assicurati attuali. Ma i due nuovi articoli garantiscono quelli tra gli assicurati che anche senza di essi sarebbero già stati altrimenti garantiti, e non danno un soldo a quelli che sono in pericolo o che dal monopolio potranno essere danneggiati. L’affermazione è grave, e merita di essere sviluppata.
1) L’articolo 24bis dà diritto al governo di fare le opportune indagini, e quando da queste risulti un deficit nelle riserve matematiche, dà diritto di ordinare alle compagnie gli eventuali reintegri. Tutto ciò è perfettamente inutile quando si tratta di compagnie solide e antiche, aventi integri il proprio capitale e la propria riserva. Non c’era bisogno di questo intervento governativo perché esse fossero obbligate a reintegrare col proprio patrimonio le eventuali deficienze alle riserve matematiche. Il codice di commercio provvedeva ampiamente all’uopo. Ma se il capitale proprio non ci fosse, con che cosa le compagnie provvederanno al reintegro? Il governo avrà un bel dare ordini; ma fino a che non darà denari, le riserve non saranno reintegrate. Ho dimostrato altra volta che ci sono compagnie che hanno speso il proprio capitale, e talune più del proprio capitale, nell’impianto e nella organizzazione. Se per casi, che io mi auguro non abbiano a verificarsi, le riserve si dimostreranno insufficienti, con che cosa le compagnie reintegreranno queste riserve, dal momento che il loro capitale l’hanno speso, e lo stato col monopolio impedisce loro di ricuperarlo coi benefici venturi? Quindi gli assicurati, i quali sarebbero sicuri, senza il monopolio, che dal monopolio sono messi in una posizione mal sicura, non sono dal cerotto dell’articolo 24 bis niente affatto garantiti.
2) L’articolo 24 ter dice che lo stato potrà riscattare il portafoglio delle compagnie che gli cederanno l’opportuna riserva matematica. Ciò potrà alleviare a talune compagnie il disturbo e la spesa di una liquidazione. Ma non era necessario scrivere un articolo apposito solo per dichiarare che l’ente monopolio potrà fare ciò che è nella sua convenienza di fare, ossia assumere un contratto contro il relativo pagamento del premio. Sovratutto, ciò non costituisce la menoma garanzia aggiunta a quelle che già hanno gli assicurati. Quelli di costoro che sono inquieti, lo sono perché temono che alle loro compagnie venga a mancare, per colpa del monopolio, il mezzo per far fronte ai propri impegni. Se davvero questo caso verrà a verificarsi, sarà segno che le compagnie non avranno più la necessaria riserva matematica; è in questo caso appunto che il governo se ne laverà le mani.
3) Se nulla promette per rassicurare coloro che temono di perdere, il disegno di legge nulla dice per rassicurare i numerosissimi che hanno un contratto d’assicurazione sulla vita con partecipazione agli utili. Sono, queste, forme abbastanza diffuse; e in esse l’assicurato si obbliga a pagare premi più elevati di quelli che si pagano per le assicurazioni senza utili appunto per la speranza di ottenere una ripartizione agli utili. Spesso si paga il 10, il 20 e più per cento oltre la tariffa normale. In passato, costoro traevano un beneficio dai maggiori pagamenti perché la compagnia si era obbligata a distribuire loro il 50, il 70, talora l’80% degli utili derivanti dalla minore mortalità o dal maggior reddito delle riserve matematiche o da entrambi. Col monopolio, che cosa succederà di costoro? Molti temono – ed io ho ricevuto parecchie lettere al riguardo – che il monopolio danneggiando le compagnie danneggerà anche essi; aumentando le spese delle compagnie, rimarrà assorbito l’utile di cui parte veniva loro distribuito. Essi avranno pagato un premio assai più elevato degli altri e alla fine riceveranno una somma eguale.
Gridano costoro all’iniquità. Si confortino, pensando che la commissione ha giudicato, d’accordo con insigni maestri del diritto, che le «speranze troncate di utili futuri» non danno diritto ad alcun indennizzo. Se la prendano con la propria ignoranza, la quale non li ha ancor fatti persuasi delle ascose bellezze dei nuovi orizzonti del moderno diritto pubblico.
9
Tra gli ordini del giorno che sono stati presentati alla camera ce ne sono alcuni caratteristici. Saranno ritirati o saranno respinti, per ora. Ma sono la riprova caratteristica delle critiche che sono state fatte al monopolio e dimostrano che questo ha una logica sua, logica ferrea, contro cui è vano cozzare. Se il monopolio dovrà impiantarsi e durare, quegli ordini del giorno finiranno per trasformarsi in disegni di legge e per essere approvati.
Uno è presentato dagli on. Casalini, Cabrini, Turati, Treves e dice che l’istituto assicuratore potrà impiegare i suoi fondi «in mutui per abitazioni popolari, secondo le disposizioni della legge sulle abitazioni popolari od economiche ed in misura non superiore al quinto della riserva matematica e di ogni altra attività patrimoniale». Ecco realizzarsi, nei voti di coloro che forse diventeranno i governanti ed i padroni perciò del monopolio di domani, la funzione sociale della cabala assicurativa: impiegare i fondi degli assicurati in investimenti poco redditizi, ma simpatici alle idee sociali, alle ubbie umanitarie dei governanti del momento. Inutile riaprire qui la discussione sul problema delle case popolari, discussione ardua, complessa, di cui su queste colonne ripetutamente mi sono occupato. Una cosa però è certissima: che le case popolari od economiche rendono poco; le case dell’istituto autonomo di Milano, pure con la ottima e vigile amministrazione dell’ing. Pugno e del dott. Schiavi, rendono il 2,75%; altre renderanno il 3% e ve ne saranno di quelle che renderanno il 2%. Si può credere che sia un danno sociale l’impiego dei capitali ad un basso interesse; si può dimostrare che molto male all’industria ed agli operai stanno facendo quei legislatori i quali vogliono dare il capitale a buon mercato, in un momento economico in cui converrebbe lasciare liberamente svilupparsi la tendenza contemporanea al rialzo nel saggio dell’interesse; ma non ho la minima illusione che si possa togliere dalla testa dei legislatori l’ubbia che l’interesse basso sia oggi desiderabile. Onde gli impieghi in case popolari od economiche continueranno ad avere il significato di impieghi a bassissimo rendimento. Alcune volte potrà sembrare utile che l’interesse sia un po’ più elevato, del 4 o 4,50%; ma sarà a tutto scapito della sicurezza. È evidente perciò che, se l’interesse sarà basso per le cooperative costruttrici di case popolari, il monopolio ricaverà un rendimento bassissimo dall’impiego dei fondi degli assicurati ed è evidente del pari che: 1) le tariffe di assicurazione saranno elevate col monopolio più che in regime di libera concorrenza, in cui le imprese assicuratrici a ragione trascurano gli impieghi “popolari” al 3% e preferiscono gli impieghi “capitalistici” al 4,50, 5 e più per cento; e 2) ovvero i redditi netti del monopolio saranno nulli o si convertiranno in una perdita.
Dal dilemma non si esce: o impieghi buoni, ad interessi correnti industriali o tariffe alte senza guadagni netti. Ma poiché gli impieghi buoni, ad interessi rimuneratori, sono odiosissimi ai politici, giuocoforza è acconciarsi al secondo corno del dilemma: tariffe alte e perdite per il monopolio. Il che non vuol dire che il monopolio non sia un buon affare per qualcuno: per la burocrazia, per i socialisti, per i politici, i quali troveranno nel monopolio una nuova banca di stato, uno strumento di dominio atto ad assorbir capitali dalle classi borghesi, risparmiatrici, lavoratrici per distribuirlo in mutui a mite, mitissimo, evanescente interesse agli impiegati, alle cooperative edificatrici, ecc. ecc. Non sarà la prima volta che la gente che lavora avrà colle proprie mani foggiato lo strumento con cui la gente burocratica oziosa saprà inferirle colpi mortali. E non sarà l’ultima.
Un altro ordine del giorno caratteristico è quello dell’on. Coris (i cattolici spesso sono vicinissimi ai socialisti, nella politica sociale, salvo il colore della bandiera) il quale, tra l’altro, vuole che «al personale da assumersi dall’istituto nazionale sia fatta una condizione di diritti e di doveri analoga a quella dell’altro personale alle dipendenze dello stato», e aggiunge che si debba «provvedere equamente alla condizione transitoria del personale licenziato dalle compagnie per effetto del monopolio, riservandogli in ogni caso, a carico dello stato o dell’istituto, quegli stessi diritti che sarebbero ad esso spettati verso le società per il caso e per il titolo di licenziamento arbitrario». Lasciamo da parte quest’ultima eleganza giuridica. Si troverà certamente un giurista, anzi molti giuristi prontissimi a fabbricare una teoria elegante (quanti professori o magistrati non ambiscono ardentemente di fabbricare teorie eleganti in servizio del governo, senza preoccuparsi menomamente di sapere se siano teorie vere!) per dimostrare che le società, costrette dal monopolio a licenziare il personale per mancanza di lavoro, fanno atto arbitrario. Ma queste sono, in paragone, piccolezze. Il grave è che l’ordine del giorno Coris fa vedere pittorescamente la marea burocratica che monta. L’on. Carlo Ferraris, nella sua bellissima relazione di minoranza che l’urgenza del tempo mi ha impedito di commentare come meritava, ha stupendamente dimostrato che era follia sperare di poter porre un freno allo sfrenato dilagare della burocrazia assicurativa. L’ordine del giorno Coris, che sarà forse respinto oggi, per imporsi fra un anno, che cosa dice? Organico, stabilità, carriera, diritti di pensione agli impiegati assunti in servizio; indennità o pensione di grazia ai licenziati o disoccupati provvisori. Qui dentro c’e tutto. Non rimane che da aspettare la presentazione, da parte dei successori di Nitti, degli organici per la sistemazione del benemerito personale delle assicurazioni di stato, ecc. ecc. Ha un bel dire Nitti che si assumeranno solo i più degni. Ma come si prova la degnità agli occhi dello stato? Coi titoli, licenza tecnica, ginnasiale, liceale, laurea; e con le raccomandazioni dei deputati. Ora coloro che hanno i titoli saranno forse i degni impiegati dello stato, ma solo per caso saranno buoni assicuratori. Gli abili produttori odierni spesso non hanno titoli; è gran mercé talvolta se abbiano la licenza elementare. Poi si sono formati; hanno studiato; hanno magari acquistato i titoli. Ma dopo; non prima. Penseranno i degni di ottenere il sacro crisma del perfetto burocratico a far razza. Non passerà tempo che avranno distrutto fin l’ultima vestigia dell’assicuratore classico, avventuriero, fastidioso, elegante, propagandista che tutti abbiamo conosciuto. Quella sarà la degna fine del monopolio.
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Le proposte dell’on. Bertolini, accettate, pare, dal governo, provano come il progetto del monopolio fosse ormai insostenibile per i maggiori uomini del parlamento, anche per quelli che sono devoti alla politica e alla persona dell’on. Giolitti. Per correggerlo, non v’è che un rimedio: ucciderlo, stroncarlo sino a renderlo irriconoscibile. Aveva già cominciato la commissione a proclamare la libertà di concorrenza da parte delle compagnie estere, sotto l’osservanza della piccola formalità di datare le polizze di assicurazione da una città di confine. Era iniquo uccidere le compagnie italiane e lasciare vivere le estere; ma era sempre meglio del monopolio. Adesso l’on. Bertolini fa un altro grande passo sulla via della ragionevolezza e propone che la concorrenza venga conservata per tutte le assicurazioni superiori a un capitale di lire 15.000 e a una rendita annua di lire 1.500. Il monopolio ci sarà solo per le assicurazioni inferiori alle cifre sopradette, e cioè alle assicurazioni che si chiamano popolari o quasi popolari. La libertà nel primo caso e il monopolio nel secondo, sono però concessi a mezzo. Liberi cioè gli assicurati, dirò così, ricchi e agiati di assicurarsi per l’avvenire presso le compagnie private; ma paghino in tal caso l’imposta non più in ragione dell’uno per cento dei premi, ma del cinque per cento e il ricavo ne sia devoluto alla Cassa di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia, quasi a titolo di multa o di penalità per non avere voluto recare il proprio contributo all’istituto di stato, nel qual caso continuerebbero a pagare solo l’attuale imposta dell’uno per cento. Siano costretti gli assicurati piccoli e medi a iscriversi all’istituto di stato; ma abbiano un periodo transitorio di libertà, in cui potranno iscriversi ancora presso quelle imprese nuove, le quali, pure essendo rigidamente amministrate e avendo le riserve in regola, hanno bisogno di ammortizzare le spese d’impianto.
Il regime Bertolini sarebbe certo preferibile al regime Nitti perché la mezza libertà, la mezza luce, sono preferibili alla tirannia assoluta e alla oscurità.
Consolazione un po’ magra. Sarà un errore a metà, ma pure sempre un errore. Senza ritornare su cose già dette, basti accennare alle obiezioni che si possono muovere a quelle proposte in se stesse considerate. Innanzi tutto le assicurazioni importanti verrebbero multate con imposta del cinque, invece dell’attuale 1 per cento sui premi. Il fatto che l’imposta andrebbe devoluta alla Cassa di previdenza per gli operai non muta natura all’imposta. Neppure è dimostrato, né è dimostrabile, che vi sia un qualsiasi legame logico fra le pensioni operaie e una imposta sulla previdenza. Le pensioni operaie saranno una bella o una brutta cosa: ma se dovranno essere istituite, non dovranno essere poggiate su una imposta sulla previdenza.
Due sole sono le vie possibili: o pagare coi fondi del bilancio, ossia con imposte generali, ovvero con i contributi misti degli imprenditori, degli operai e dello stato. Altre vie non si vedono. Volerne far gravare l’onere sui previdenti è una iniquità; perché si costringono a provvedere alle sorti degli operai, coloro che, col sacrificio dell’assicurazione, dimostrano d’avere bisogna urgente essi medesimi di premunirsi contro i pericoli della morte, della miseria, della invalidità. Il monopolio era sotto questo aspetto detestabile. L’on. Bertolini attenua il male, non lo toglie.
Devesi dire di più: che con questa imposta si andrebbe a ritroso della legislazione moderna tributaria. Una caratteristica delle più perfezionate imposte sul reddito, è di esentare in tutto o in parte i premi o somme pagate per le assicurazioni sulla vita. In Inghilterra si può dedicare a questo scopo un sesto del proprio reddito acquistando il diritto alla esenzione dalla imposta relativa. In Prussia, il medesimo concetto è seguito. In Italia, l’ultimo disegno di legge (Sonnino), per la riforma della tassa di famiglia e la sua avocazione allo stato, concedeva l’esenzione per tutte le somme destinate alla assicurazione sulla vita. È un principio destinato a trionfare, perché corrisponde alla più stretta giustizia. Le imposte si devono pagare per i redditi che si possono godere, non per i redditi a cui è giuocoforza rinunziare per provvedere ad avvenimenti dolorosi, come la morte, la vecchiaia, la invalidità. Se l’imposta Bertolini sulle assicurazioni più alte contraddice a tutto il movimento di idee moderne intorno alla legislazione tributaria, la sorte riservata alle assicurazioni piccole e medie è poco chiara. Il monopolio sarebbe proclamato in teoria; ma per un periodo variabile fino ad un massimo di sei anni, dovrebbe sottostare alla concorrenza di alcune compagnie private e precisamente di quelle che, avendo le riserve in regola, hanno ancora da ammortizzare le spese di impianto. Nobile è certo il fine voluto raggiungere dall’on. Bertolini, il quale si è preoccupato di concedere, sotto la forma speciale di continuazione di esercizio, una indennità alle compagnie che essendo sul principio della loro vita, sarebbero particolarmente ed iniquamente danneggiate da una espropriazione senza indennità. Ma i dubbi sorgono ugualmente numerosi. Poiché si riconosce che una indennità è dovuta, perché limitarla a talune compagnie e non estenderla a tutte? Il determinare quale sia o se vi sia danno non è compito del legislatore, ma del magistrato.
Non si dà un eccessivo arbitrio al potere esecutivo quando gli si dà facoltà di scegliere le compagnie meritevoli di pietà scartando le altre? Non si griderà al favoritismo? Una compagnia a cui la continuazione sarà stata negata perché il ministero non ha riscontrato l’esistenza delle necessarie riserve matematiche, non avrà modo di lamentarsi di denegata giustizia? In sostanza, si può trattare di apprezzamenti soggettivi, potendo il ministero calcolare le riserve secondo un sistema e le società secondo un altro. Non c’è il metodo Zillmer che sembra inventato apposta per diminuire le riserve matematiche delle imprese giovani e non l’ha già citato il relatore della minoranza Ferraris?
La licenza di vivere largita a talune compagnie, non potrà essere interpretata male dal pubblico? Gli assicurati avrebbero del tutto torto nel riflettere che se il governo ha concesso ad una compagnia di vivere per sei anni, ciò fu per pietà, ossia perché quella compagnia aveva delle spese di impianto da ammortizzare? Ciò potrebbe danneggiare le società presso le persone poco abituate alla lettura dei bilanci, e scemare la clientela invece di crescerla.
Né si vede a che scopo sarebbe, durante il periodo transitorio, creato l’istituto di stato. Non potrebbe fare concorrenza alle società private per le assicurazioni superiori a 15.000 lire, perché la clientela non accorrerebbe certamente ad esso, malgrado che l’aumento dell’imposta dall’1 al 5% non lo colpisca. Questo strumento di concorrenza sleale, aggiunto alle altre ingiuste immunità tributarie già contenute nel progetto Nitti, non sarebbe bastevole a raggiungere l’intento. Per le assicurazioni piccole e medie, l’istituto dovrebbe avere un certo scrupolo a portar via la clientela alle compagnie giovani, a cui il legislatore aveva desiderato di dare un mezzo di ricuperare in fretta le spese d’impianto. Sarebbe un istituto di coltura di bacilli burocratici in aspettativa di lavoro dopo sei anni. Vale la pena di creare una nuova macchina a questo scopo, quando già esiste la Cassa nazionale di previdenza, e quando tra gli scopi di essa già vi è l’esercizio delle assicurazioni popolari?
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Mi sia consentito un breve commento sull’esito della discussione parlamentare sul monopolio. Io non so se al rinvio a novembre susseguirà di fatto una nuova discussione o se invece il progetto verrà seppellito. Tutto ciò non entra nel campo dei fatti che possono essere studiati oggettivamente, ma in quello delle combinazioni politiche, le quali sfuggono ad un apprezzamento scientifico. Comunque sia di ciò, una verità è sicura: che il vecchio, classico disegno di monopolio assoluto ed immediato è morto. Al posto suo verrà un nuovo disegno, migliore o peggiore, che non si sa ancora quale potrà essere e che sarà discusso a suo tempo. Frattanto alcune osservazioni si impongono. È sorta in Italia una coscienza pubblica, la quale esige che ogni proposta, la quale tocchi interessi profondi e provochi innovazioni sostanziali negli ordini sociali, debba essere largamente, severamente studiata e criticata. Il parlamento e la stampa italiana hanno dato nell’anno del cinquantenario uno spettacolo degno al paese; ed il paese li ha seguiti ed ha mostrato di apprezzare l’elevatezza degli intendimenti di coloro che vollero la discussione. Qui si vide da qual parte stessero i liberali veri, amici del progresso economico ed i reazionari veri. Il suon delle parole spesso è lontano dalla realtà delle cose; e di parole sonanti e vuote se ne sentirono a dovizia di questi giorni. Ma il paese capì che:
- era reazionario il governo il quale pretendeva che una legge di tanto momento fosse approvata in pochi giorni da camera e da senato; ed erano liberali quelli i quali virilmente pretesero ed ottennero che fosse assoggettata ad un esame profondo e minuto. O che la discussione non è forse l’essenza stessa della democrazia e dei regimi parlamentari? E perché si deve tollerare che chiamino se stessi democratici e liberali coloro che di fatto vogliono le strozzature tiranniche del dibattito solenne e la fiducia cieca nella misteriosa sapienza di un uomo, solo perché quest’uomo è investito della dignità di ministro?
- erano reazionari coloro i quali, come i socialisti, tuttodì difendono gli interessi di classi particolari, vogliono favori alle cooperative, appalti ai braccianti, premi ai cantieri dove sono impiegate maestranze socialiste, ecc. ecc., e negano poi il diritto ad altre classi sociali di trovare difensori, solo perché hanno il torto di vestire panni borghesi, di chiamarsi assicuratori e di distinguersi dagli operai perché mentre questi ora chieggono denari e favori allo stato, essi si contenterebbero di non essere rovinati dallo stato e neppure aspirano ad ottenere – anzi lo detestano – un posto governativo. Se le parole avessero un significato rispondente alle cose, si dovrebbe dire che erano liberali quei socialisti del 1900 che difendevano la libertà di sciopero e di organizzazione operaia; ed ora sono divenuti reazionari, “forcaioli” veri e maggiori, perché vogliono creare armi di sopraffazione contro classi sociali ad essi invise perché non asservite al governo. Oggi sono liberali e camminano sulla via luminosa dell’avvenire coloro che hanno difeso il diritto di qualche migliaio o di qualche diecina di migliaia di persone a vivere del proprio lavoro indipendente dalla tirannia burocratica. Il paese ha capito che, in certi momenti, la reazione era all’estrema sinistra, era in coloro che si dicono radicali e democratici; mentre il sentimento della libertà e delle forze che fanno vivo e grande un paese si era rifugiato all’estrema destra;
- fu nuovo e bene augurante lo spettacolo di coloro i quali osarono incorrere nella taccia di difensori di interessi privati quando la loro coscienza li spronava a difendere un grande interesse pubblico. Forse, alcun tempo fa, cotale audacia non si sarebbe avuta. Non si ebbe nel 1905 quando si discusse l’assunzione delle ferrovie da parte dello stato. Allora molti, i quali temevano si commettesse un errore grave, tacquero per paura di essere denunciati come mancipi di società private. Tacquero contro il ricatto dei pubblici accusatori che speravano, essi, di soddisfare meglio agli interessi privati degli addetti al servizio ferroviario, quando questo fosse venuto direttamente in mano dello stato. Oggi più non giova discutere se e come si sarebbe potuto far meglio nel caso delle ferrovie. Ma bisogna rallegrarci che le minacce degli energumeni, le accuse dei reazionari (i reazionari per definizione sono ora i socialisti e coloro che in ispirito vi sono prossimi), la difesa disperata di coloro che avevano clientele da collocare non siano prevalse contro quelli i quali difendevano la causa della libertà e della iniziativa individuale. Certo, costoro difesero in tal modo in parlamento, e noi difendemmo sulla stampa, gli interessi delle compagnie e delle mutue assicuratrici. Ma li difendemmo non perché a noi premano i loro guadagni; ma perché siamo profondamente convinti che solo la coesistenza di compagnie e di mutue concorrenti, solo la libertà lasciata a nuove imprese di svilupparsi può garantire ai previdenti un servizio al costo minimo possibile e può essere stimolo potente al diffondersi della previdenza. Certo le casse postali di risparmio fecero molto bene e provocarono il risparmio e lo assicurarono contro pericoli molteplici. Ma quel bene lo fecero in concorrenza con potenti casse regionali e cittadine pubbliche, con banche popolari, con banche ordinarie per azioni e con banche private. Benemerite le une e le altre. Vorremmo noi creare il monopolio della banca solo perché le casse di risparmio seppero radunare un miliardo e mezzo? Sarebbe un pericolo grave di tirannia economica, a petto di cui la tirannia politica, che ne sarebbe rinsaldata, apparirebbe un gioco da ragazzi. I nemici del monopolio non sono amici delle attuali imprese di assicurazioni. Tutt’altro. Essi anzi le vorrebbero morte, purché non a tradimento, colla forza violenta della legge. Le vorrebbero morte dalla concorrenza di nuove imprese migliori, mutue o private o magari semi-pubbliche, purché la morte avvenisse in seguito a servizi resi dalle nuove imprese più a buon mercato ed a propaganda più viva nelle classi previdenti. Più che vederle morire, sarebbe augurabile che esse fossero costrette a trasformarsi continuamente, a lottare ogni giorno per sopravvivere, ad escogitare ogni giorno nuovi mezzi per non cadere sotto i colpi degli avversari. Questo è lo spettacolo che ci offrono le imprese assicuratrici in Inghilterra, negli Stati uniti ed anche in quella Nuova Zelanda, ove vive e fiorisce un istituto di stato in concorrenza con le compagnie private. Sopravvivono le più antiche, le più forti; ma difficilmente possono abusare della loro forza, perché hanno sempre alle calcagna una muta rabbiosa di nuove società pronte a portar via la clientela, ad agitare l’opinione pubblica, ad invocare luce sulle tariffe, sulle tabelle, sui metodi amministrativi, a chiedere inchieste parlamentari, ove appena le vecchie compagnie minaccino di diventare sopraffattrici. In quei paesi ed anche in Germania il metodo dei premi naturali lotta contro il metodo dei premi medi o normali, il metodo Zillmer di calcolo delle riserve lotta contro il metodo dei premi puri. Ed ogni giorno si compie un passo avanti, ogni giorno si tentano nuove vie per scuotere gli indifferenti, per profittare di quelli che a prima vista parevano ostacoli. Le pensioni obbligatorie in Germania ed in Inghilterra parevano un ostacolo al diffondersi della previdenza libera nelle classi popolari. Non ne fu nulla. Le imprese assicuratrici ne trassero stimolo a far meglio e più.
In Italia ancor molto è da fare in questo campo e non poco può fare il governo, sopprimendo vincoli assurdi e perniciosi intorno al modo d’impiego dei capitali degli assicurati, vincoli che nulla garentiscono e intanto scemano il rendimento dei capitali stessi e crescono perciò i premi; ed imponendo invece norme severe di pubblicità e di controllo sui bilanci, sulla formazione delle tariffe ecc. ecc.; smascherando abusi ed estorsioni, ove se ne dimostri l’esistenza. Il monopolio è il pantano, la morta gora burocratica, la reazione medievale. La concorrenza, sottoposta alla pubblicità ed alla critica persistente e continua e severissima dell’opinione pubblica e dell’ufficio governativo di controllo è la leva del progresso, è la spinta alle opere grandi. Le vie dell’avvenire sono con noi; e possiamo guardare con pietà e con orgoglio agli illusi ed ai frenetici che si fecero paladini di oscurantismo e di tirannia, pur avendo a fior di labbra la democrazia e le vie nuove del socialismo. La discussione avvenuta fu ancora un esempio mirabile di solidarietà: solidarietà nazionale tra gli uomini che lavorano. Anche qui l’Italia ha progredito. Alcuni anni or sono le forze della reazione burocratica e monopolistica mossero un assalto contro talune modeste industrie (affissioni, pompe funebri, ecc.), che si proclamò potessero essere municipalizzate in monopolio dai comuni. Poiché si trattava di piccole cose, il monopolio passò inosservato; né sarebbe stato forse troppo pernicioso in taluni casi od inutile in altri, se non fosse venuta poi la magistratura colla famigerata sentenza Tommaso Mosca ad affermare che nulla era dovuto agli espropriati. Altra volta accadde che, con una balorda applicazione d’una legge cosidetta di Napoli, si sancisse il principio che le ferrovie di stato, nel proprio interesse patrimoniale privato, potessero espropriare i terreni dei privati a circa metà del prezzo corrente. La magistratura qui talvolta recalcitrò; ma pure alcuni magistrati annuirono. Accadde infine che camera e senato, in giorni di canicola, ed in mezzo a vociferazioni di inquilini ed a grida incomposte contro i padroni di casa e a menzognere statistiche sugli accaparratori di terreni, votassero una legge che espropriava violentemente, senza indennità, i proprietari di aree fabbricabili. Vi fu chi gridò; e sono orgoglioso di avere una volta in queste colonne gridato anch’io. Ma le grida caddero nel deserto. Oggi invece le grida contro la violenza della espropriazione senza indennità ebbero un’eco nel paese. Si comprese che non è nell’interesse di nessuno che simiglianti violenze si commettano. Si capì che espropriare senza indennità (se non piace la parola espropriazione, i giuristi governativi, i giuristi dell’”imperatore” come li chiamò l’on. Salandra, ne inventino un’altra; ma riconoscano il fatto della violenza), fa danno all’espropriato, ma fa sovratutto danno alla collettività. Perché nel Venezuela, nel Nicaragua, nel medioevo l’interesse è od era caro? Per molti motivi, fra cui primeggia e primeggiava la poca sicurezza dei risparmiatori, dei proprietari contro le sopraffazioni governative e i latrocini pubblici. Dove c’è un rischio, bisogna garantirsene; e la garanzia e immediata ed automatica: ha nome rialzo dell’interesse. Invece che il 4, si paga il 5 od il 6 od il 10% per aver l’uso del capitale soggetto a rischio. E che cosa vuol dire interesse alto? Vuol dire che gli imprenditori, per iniziare le loro industrie, devono pagare il capitale caro e quindi lo debbono iniziare su scala più ristretta. Vuol dire produzione più bassa, occupazione minore, salari depressi. Tutti soffrono per l’interesse caro; ma più di tutti soffrono coloro che vivono del proprio lavoro. Dico che tutti soffrono dell’interesse caro; ma importa notare che si parla dell’interesse artificiosamente rincarato dalla mala sicurezza della proprietà contro i latrocini, privati e pubblici. Quest’interesse caro non giova a nessuno; è pagato in pura perdita da coloro che hanno bisogno dei capitali.
Questa verità così chiara e semplice fu compresa dalle classi imprenditrici italiane; e ne sia data loro la meritata lode. Un augurio è da aggiungere che il senso della solidarietà contro le violenze burocratiche e reazionarie deve essere tanto più squisito e deve vibrare tanto più vivacemente quanto più i danneggiati dalla violenza sono pochi e poco potenti. Se i danneggiati sono molti, non vi è bisogno che gli altri accorrano a difenderli.
Li difende il loro numero stesso, contro cui la burocrazia ed i politici non ardiscono cimentarsi. La solidarietà nella difesa contro l’idra della reazione deve applicarsi sovratutto in difesa dei pochi, in difesa di quelli che, per motivi sentimentali, sebbene a torto, sono invisi ad una parte dell’opinione pubblica. Occorre per fermo che i danneggiati non siano essi stessi dei sopraffattori. Non scriverei una parola in difesa dei proprietari di terreni a grano, dei zuccherieri, dei siderurgici, dei cotonieri, quando l’on. Giolitti proponesse di ridurre (di un terzo, di una metà, di una frazione attentamente studiata per non far sorgere squilibri troppo gravi) la protezione di cui godono e li privasse, senza indennità, di una parte dei redditi di cui godono. Qui non vi sarebbe espropriazione, perché la protezione non fu data a costoro se non per un periodo determinato, fu data coll’intesa che cessasse, non poteva logicamente esser data se non con quell’intesa; e non fu data neppure perché essi si procacciassero un reddito, ma perché potessero agguerrirsi e fortificarsi nel periodo iniziale della loro vita o della loro trasformazione industriale. Si videro o si sentirono, finalmente, gli effetti, oltreché della solidarietà interna, della solidarietà internazionale. Argomento delicato, per cui può essere opportuno non indugiarci dal punto di vista politico. È doveroso però riconoscere che la solidarietà internazionale sta diventando una delle più benefiche forze di progresso del mondo. I vincoli derivanti dalle correnti di capitali e di lavoro tra i diversi stati del mondo sono fattori potenti di giustizia e di pace. Se il Council of Foreign Boudholders (Consiglio dei portatori di obbligazioni di stati stranieri) non li avesse iscritti sul suo libro nero e non li avesse fulminati con la moderna forma di interdizione dall’acqua e dal fuoco, ossia con la interdizione dalla borsa di Londra, quanti stati dell’America latina, che oggi hanno preso posto nel novero degli stati civili, onesti e ricchi, non sarebbero ancora in preda all’anarchia ed ai briganti? Qual forza diplomatica ed economica non potrebbe essere per l’Italia la esistenza di correnti migratorie umane, preziosissime per i paesi che le ricevono? Non punimmo noi in passato un paese reo di mali trattamenti verso i nostri connazionali, col segnarne il nome sul libro nero dei paesi, verso cui l’immigrazione italiana va sconsigliata, ed, entro i limiti del possibile, impedita?
Se gli altri paesi non possono fare a meno dell’emigrazione italiana, l’Italia non può ancora fare a meno dell’immigrazione di capitali e di elementi dirigenti stranieri. O meglio: talune classi di italiani potrebbero cominciare con vantaggio ad esportare capitale italiano all’estero – e già lo fanno in Argentina ed altrove – e talune industrie italiane hanno ancora sete di capitale straniero. Sono rapporti destinati a diventare più stretti e che sarebbe follia rompere. Per non romperli, noi abbiamo interesse a non prestare il fianco ad alcuna critica; noi abbiamo interesse a che nessuno straniero, venendo in Italia coi suoi capitali e colla sua perizia, possa avere nemmeno un vago dubbio che egli potrà essere spossessato dei frutti del suo capitale e del suo lavoro senza indennità. L’alto principio fu proclamato al mondo in codici mirabili dagli italiani. Il paese ha compreso che un così prezioso retaggio non poteva essere di un tratto e con leggerezza distrutto per sempre.
[1] Con il titolo Il monopolio delle assicurazioni sulla vita [Ndr].
[2] Con il titolo Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. I pericoli e i danni [Ndr].
[3] Con il titolo La cabala dei milioni dell’assicurazione sulla vita. Come si costruiscono e come si smontano i calcoli dei monopoli [Ndr].
[4] Con il titolo Le possibili perdite della cabala assicurativa [Ndr].
[5] Con il titolo Come non è risolto il problema dell’industria assicurativa di stato [Ndr].
[6] Con il titolo L’indennità alle imprese assicuratrici. La soluzione governativa e i suoi pericoli per tutte le imprese industriali e commerciali [Ndr].
[7] Con il titolo Monopolio e assicurati [Ndr].
[8] Con il titolo Le trasmutazioni del monopolio [Ndr].
[9] Con il titolo Diventando, degenera. A proposito di alcuni ordini del giorno sul monopolio [Ndr].
[10] Con il titolo La portata delle proposte Bertolini [Ndr].
[11] Con il titolo Gli ammaestramenti di una lotta [Ndr].