Di alcuni aspetti economici della guerra europea
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1915
Di alcuni aspetti economici della guerra europea
«La Riforma Sociale», gennaio 1915, pp. 865-899
«I Georgofili», Firenze, serie V, vol. XII, disp. 1, 1915, pp. 1-47
Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, Torino,1916, pp. 61-97
(Lettura tenuta alla R. Accademia dei Georgofili di Firenze nella tornata del 6 dicembre 1914).
Fra i molti, la guerra europea avrebbe prodotto un effetto – significantissimo per noi che, fino al momento in cui rimaniamo in quest’aula sacra alla scienza economica ed alle sue applicazioni, dobbiamo sforzarci di considerare i fatti come se potessero essere soltanto oggetto di indagine oggettiva – e sarebbe, questo effetto, la mutazione dei valori scientifici normali. Più non varrebbero le leggi, le quali trovavano largo se non unanime consenso nei tempi di pace; e si dovrebbero scartare quelle opinioni o quei convincimenti scientifici che s’erano prima accolti.
L’esperienza nuova, mettendo dinanzi ai nostri occhi fatti nuovi, distruggerebbe il valore delle teorie ricevute, divenute improvvisamente vecchie, farebbe sembrare utili e ragionevoli provvedimenti di governo economico che prima si reputavano dannosi ed assurdi; e fornirebbe nuovi argomenti a coloro che hanno sempre irriso, ereticamente, ai principii insegnati dagli scrittori classici ed applicati da quegli uomini di governo, i quali ancor non si vergognavano di avere appreso sui libri le conseguenze degli errori commessi dai loro antecessori e le maniere di evitarli. Così si lesse su di una rivista la lettera di un egregio studioso, il quale confessava che la guerra aveva scosso i suoi convincimenti liberisti, incitandolo a passare nello stuolo, ahi! quanto folto, dei teorizzatori del protezionismo. Così si videro uomini, i quali pure affermavano di avere in passato plaudito agli sforzi perseveranti compiuti in Italia per restringere e quindi risanare la circolazione cartacea, farsi paladini fervidi di emissioni cartacee per somme di centinaia di milioni e di miliardi di lire, irridendo alle sterili e scolastiche proteste di quelli che consigliavano prudenza, quasi che l’ora turbinosa odierna potesse sospendere l’efficacia delle regole che in passato esperienza e scienza avevano concordemente poste come vere. E passo sopra al ricordo degli articoli accesi che si lessero durante il mese di agosto sui giornali quotidiani contro gli accaparratori e dei provvedimenti con cui a gara i Comuni attesero in quel memorabile mese ad imporre calmieri, o ad invocare perquisizioni e requisizioni forzate. Sono, questi ultimi, i frutti delle stagioni di orgasmo; e di essi aveva già fatta giustizia Alessandro Manzoni in quel capitolo della carestia a Milano, che ogni studioso di cose economiche dovrebbe considerare come una pagina classica della nostra letteratura scientifica.
Se non queste naturali risurrezioni di stati d’animo, che nessuno si era illuso fossero tramontati per sempre, essendo essi invece probabilmente eterni, come eterna l’impressionabile natura umana, sono invece degne di attento esame quelle manifestazioni più serie del pensiero contemporaneo, le quali fanno quasi pensare al crollo della scienza antica ed alla instaurazione di nuovi principii inspirati alla esperienza bellica odierna.
Non tanto perché questi siano tempi opportuni per impensierirsi della sorte più o meno lacrimevole di una qualsiasi disciplina scientifica; quanto perché la nostra è una disciplina la quale inspira o dovrebbe inspirare la condotta pratica degli uomini e può quindi diventare, pure nelle competizioni internazionali e nelle conquiste di ideali nazionali, un fattore di insuccesso, se essa si fa seminatrice di errori, o di vittoria, se essa sa indicare la via della verità.
Orbene, sembra a me che questa, la quale, come non è stata la prima così non sarà l’ultima guerra combattuta tra uomini, non abbia affatto avuto la virtù miracolosa di mutare in errori le verità scientifiche e di distruggere il valore di una disciplina faticosamente formatasi in parecchi secoli di elaborazione. Tanto varrebbe affermare che coloro che nelle sale di questa Accademia dei Georgofili disputarono nei secoli XVIII e XIX intorno alle leggi della ricchezza, precorrendo le scoperte di scienziati stranieri, che gli Adamo Smith, i Ricardo, i Mill, i Say, i Ferrara e gli altri fondatori e perfezionatori della scienza economica, non avessero mai saputo l’esistenza del fatto bellico; mentre essi non solo ne trattarono ma ne furono talvolta attori e ministri.
È illogico diventare protezionisti solo perché la guerra odierna sembra aver tramutati in campi chiusi quelle che erano finora economie aperte alle importazioni straniere. Coloro i quali additano ancora una volta la posizione della Germania e dell’Inghilterra rispetto all’approvvigionamento dei cereali e delle altre derrate alimentari ed affermano che la guerra ha provato l’errore commesso dagli inglesi per aver trascurato di erigere ai confini un’alta barriera doganale atta a proteggere l’impero dal pericolo della fame così come ha fatto la Germania, e reputano questa osservazione sufficiente a far traboccare il peso dalla parte del protezionismo nella lotta tra i due opposti principii, si rendono colpevoli di parecchie strane dimenticanze:
- in primo luogo scordano che non esiste una scienza liberista o protezionista; ma soltanto una scienza economica la quale fa il calcolo dei costi e dei vantaggi delle diverse maniere di agire degli uomini e cerca di scegliere, con larga approssimazione pratica, quella maniera la quale, col minimo coste, conduca al massimo risultato possibile;
- scordano ancora come da lunga pezza gli economisti scrivano e predichino che il modo più economico di produrre materiali bellici può essere la produzione interna sussidiata da dazi doganali; poiché è ben vero che il costo diretto e proprio può in tal modo riuscire più alto che all’estero, ma questa maggior spesa controbilanciata dal risparmio che si fa del ben maggior dispendio che si dovrebbe sostenere facendo venire affannosamente dall’estero i materiali bellici a guerra già scoppiata e della gravissima iattura nazionale e quindi anche economica da cui si sarebbe afflitti se riuscisse impossibile provvedersene;
- che se gli economisti per lo più si sono rifiutati di assimilare il caso del frumento e delle derrate alimentari a quello dei materiali bellici, ciò accade perché essi non si erano persuasi finora che la bilancia della convenienza pendesse a favore della protezione doganale, pure rispetto al problema dell’approvvigionamento della popolazione in tempo di guerra;
- che non è probabile che essi abbiano a persuadersi di siffatta opportunità al lume della odierna esperienza guerresca[1]; poiché non bisogna dimenticare, ad esempio, che in Germania quegli stessi giornali, che oggi esaltano gli approvvigionamenti tedeschi in confronto alla carestia inglese imminente, alcuni mesi fa, quando non avevano smarrita la loro bella e lucida capacità raziocinativa, esponevano i risultati di una serena inchiesta scientifica condotta nel seminario economico dell’Università di Monaco sotto la guida del professore Lujo Brentano, la quale principalmente persuadeva che gli alti dazi doganali avevano avuto come effetto di aumentare i prezzi della terra e sovratutto i prezzi della grande proprietà terriera, dove è minima la cultura mista, e massima la superficie destinata alla cerealicultura (cfr. il riassunto dell’inchiesta nella Frankfurter Zeitung del 23 giugno 1914). Ora, se questi risultati rispondono al vero, è manifesto che non l’alta protezione doganale, ma altre cause, assicurano l’approvvigionamento della Germania in tempo di guerra; poiché la protezione, innalzando il prezzo delle terre, e quindi affitti e quindi uno degli elementi del costo di produzione, fa sì che il coltivatore non abbia maggior convenienza a coltivar grano a 25 lire che a 20 lire, poiché il vantaggio delle 5 lire in più è eliminato spesso dal maggior fitto che occorre pagare per i terreni. Le preoccupazioni, che pare siano vive in Germania ed in Austria rispetto all’approvvigionamento proprio, dimostrano come la protezione doganale non sia riuscita a dare la sicurezza che essa prometteva ai popoli dell’Europa centrale in tempo di guerra;
- che dall’esempio germanico, comunque esso possa essere giudicato, non è logico dedurre la conseguenza che anche l’Inghilterra dovesse cingersi di una forte barriera doganale per assicurarsi l’approvvigionamento dei cereali. Dopo le guerre napoleoniche il cannone non aveva più fatto sentire la sua voce nelle vicinanze delle coste britanniche, sebbene dall’abolizione delle leggi sui cereali in poi gli allarmisti avessero diuturnamente segnalato il pericolo imminente della carestia. Il problema si riduce a questo: sarebbe stato conveniente distruggere con una politica protettiva, continuata per altri 70 anni, centinaia, di milioni e forse miliardi di lire sterline di ricchezza per assicurare le necessarie provviste cerealicole agli inglesi del 1914 e del 1915? Se nessun altro mezzo più economico, più efficace fosse esistito per raggiungere cotal fine, altissimo poiché connesso col mantenimento dell’impero, nessun economista inglese avrebbe negato che le generazioni, le quali volsero dal 1840 al 1914, avevano il dovere ed anzi, ragionando a lunga scadenza, come è d’uopo fare agli uomini di stato, avevano interesse di promuovere la cerealicultura nazionale con adeguati dazi protettori. Se essi negarono e tuttora negano siffatta convenienza, fanno ciò perché ritengono che il mezzo sia inadeguato ed anzi contrario alla consecuzione del fine; e sanno che un altro mezzo è invece il solo possibile e conveniente. Quest’altro mezzo è l’esistenza di una flotta capace di serbare agli inglesi il dominio del mare; ed il dilemma non è tra: Dazi protettivi o carestia?; bensì tra Carestia malgrado i dazi doganali ovvero Dominio del mare mercé la flotta?
Se gli inglesi sono abbastanza ricchi e saldi d’animo da poter costruire e da voler possedere una flotta capace di serbar loro il dominio del mare essi non hanno da temere la carestia in patria. Come oggi accade, il dominio del mare, finché venga mantenuto, garantisce le provviste delle quantità sufficienti di frumento: nei due mesi di settembre ed ottobre 1914 la quantità di frumento importata nel Regno Unito fu di 5.004.683 quarters contro 3.929.081 nello stesso periodo del 1913 e 5.050.430 negli stessi mesi del 1912. Senza il dominio del mare, l’alta protezione doganale a nulla gioverebbe; poiché la deficienza o la distruzione della flotta vorrebbe dire per l’Inghilterra fiacchezza d’animo, incapacità di resistenza, e quindi pericolo imminente di invasione dell’isola da parte del nemico e scomparsa possibile dell’impero. Quindi il mezzo unicamente efficace per garantire l’alimentazione e, quel che più monta, la conservazione dell’impero, è per gli inglesi il dominio del mare. A questo scopo debbono gli inglesi tendere con tutte le loro forze; poiché, serbato quello, è sicura anche l’alimentazione del popolo; e quello distrutto, a nulla giovano le grosse provviste di cereali esistenti all’interno. Distrar le forze tra i due fini; aggiungere al sacrificio di 50 milioni di lire sterline annualmente sostenuto per la marina da guerra un altro sacrificio di 20 milioni per assicurare la produzione interna di una bastevole quantità di cereali, sarebbe stato un calcolo sbagliato. Poiché se gli altri 20 milioni si vogliono spendere, ciò significa che si ritiene la flotta impari all’ufficio suo di tener libere le vie dei mari; ché se si possono spendere, meglio sarebbe destinarli senz’altro all’aumento della flotta, unico mezzo, ripetasi, con cui l’impero può essere conservato.
Non solo inadeguati, ma benanco contrari al fine della conservazione dell’impero si appalesano inoltre i dazi protettori cerealicoli. Un impero non vive solo di fiducia – vedemmo quanto mal riposta – di possedere il cibo necessario a vivere. Vive sovratutto di vincoli ideali e morali. E chi non vede come il rincaro dei mezzi di sussistenza per le masse operaie e la consapevolezza che il rincaro è dovuto all’asserita necessità di conservare la grande posizione dell’Inghilterra nel mondo siano circostanze atte a fiaccare i sentimenti imperiali nelle masse, a far odiare l’impero come procacciatore di illeciti profitti ai proprietari di terre a grano, a far vedere quasi con segreta gioia la dissoluzione dei vincoli fra la madrepatria e le colonie, a considerare come un ideale di vita il tranquillo possesso dell’isola, senza ambizioni mondiali e senza rischi di gelosie da parte delle nuove politiche egemoniche, ben liete di non interessarsi dei casi di un’isola contenta della propria solitudine?
Dal che si vede che i veri rassodatori dell’impero inglese furono coloro che vollero la libertà degli scambi, mentre gli imperialisti fautori dei dazi e della politica preferenziale coloniale ponevano i germi del malcontento, della discordia e della dissoluzione dell’impero.
Ed ove si voglia anche tener conto di quell’elemento imponderabile di forza e di sicurezza che è la certezza di possedere in paese il frumento necessario per far vivere il popolo per 6 mesi, per 9, per un anno intero, perché non si ricorre al metodo delle riserve frumentarie, tenendo in pace sempre pronte un ammasso sufficiente di grani, così come si rafforza la riserva aurea degli istituti di emissione? L’interesse e l’ammortamento anche di un miliardo di lire immobilizzato nei magazzini alimentari non uguaglierebbe mai la collettività, della protezione cerealicola. E sarebbe un maschio guardare in faccia al pericolo; sarebbe un miliardo impiegato esclusivamente per scopo supremo della conservazione nazionale; né al costo suo si accompagnerebbe mai l’insidioso ed odioso vantaggio o sospetto del vantaggio per una classe privilegiata di produttori interni protetti.
Vedesi dunque che la guerra odierna non può avere per effetto di svalutare le ordinarie maniere del ragionare economico. Può dirsi invece che essa, per le sue caratteristiche di singolare vastità e quasi universalità, per la grandezza delle masse umane lottanti, per la grandiosità delle massime migrazioni armate di uomini, che mai siano state viste nella storia, per la copia dei mezzi finanziari che la sua condotta richiede, sottoponga alcuni dati nuovi all’indagine scientifica e costringa gli studiosi ad esaminarli con mente ingenua e candida lontana così dalla preoccupazione di accasellare i fatti nelle vecchie buche, le quali potrà darsi siano troppo strette per riceverli, come dalla mania frettolosa di buttare a terra l’antico edificio, col pretesto che esso è troppo angustamente costrutto per potere in sé accogliere la nuova esperienza. In verità la scienza economica, è in continua trasformazione; e come tutte le altre discipline, e forse più di molte altre, essa viene col tempo via via perfezionandosi, ed adattandosi alle nuove manifestazioni di vita della pur sempre eternamente simile a se stessa natura umana. Ciò accade già per molti aspetti della vita economica: cinquant’anni fa a stento i trattati di economia discorrevano di coalizioni tra commercianti ed industriali per tenere alti i prezzi; mentre nei trattati moderni si leggono capitoli e teoremi assai eleganti intorno ai consorzi industriali, volgarmente conosciuti sotto il nome di trusts o sindacati. Se farà d’uopo e se la guerra avrà messo in risalto fatti nuovi e principii modificatori dei vecchi, non v’è dubbio che di quei fatti e di quei principii risentiranno le trattazioni dell’avvenire. Per ora ogni tentativo di ricostruzione sarebbe prematuro; poiché le conseguenze economiche della guerra stanno ancora svolgendosi e si può dire che siano appena al principio delle loro vicende.
Potrà darsi che i teorizzatori dell’avvenire riconnettano questo grandioso fenomeno bellico al periodo di rivulsione economica incominciato da alcuni anni dopo il grande periodo di prosperità e di ascensione che si ebbe dal 1895 al 1910; e potrà darsi che la guerra debba aggravare la depressione che pareva essersi già iniziata in questi ultimissimi anni. Ma, se anche si potranno trovare i legami ideali fra le variazioni economiche od il succedersi dei periodi di pace e di guerra, sarà ben difficile che il rapporto abbia ad esser quello semplicista, che discenderebbe dalla cosidetta teoria del materialismo economico, intorno alla quale questo di interessante si può forse ancora dire: ed è che si adopera una locuzione imprecisa, dicendo quella essere una teoria «economica» quasi che l’essersi gli economisti, per necessità di divisione del lavoro e di rigore nelle indagini, limitati allo studio dei fatti economici, avesse voluto significare che essi considerassero il fatto economico come il più importante di tutti, ed il primigenio od il determinatore degli altri fatti umani. No. Questa non è una teoria economica; e forse non è neppure una teoria; è un modo di riscrivere la storia, mettendo prima certi fatti, affermati economici, e dopo certi altri, detti politici, religiosi, militari, giuridici ed affermando, in guisa affatto gratuita e non provata, che i secondi discendono dai primi e che l’interesse delle classi dominanti od altri simili moventi economici spiegano gli avvenimenti della storia umana. Teoria, sul cui fondamento sarebbe un fuor di luogo discorrere qui; ma che in ogni modo non fa certamente parte di quel complesso di verità che si sogliono designare col titolo di «scienza economica» e che, essendovi affatto estranea questa, non può quindi pretendere alla dignità di teoria economica della storia. È solo un nuovo modo di scrivere la storia, utile forse, di fronte al pubblico grande dei lettori, a scopo di reazione contro altre maniere antistoriche di narrare i fatti umani ed a cui aderirono taluni storici di professione o sedicenti tali, per lo più perfettamente digiuni di nozioni economiche, ai quali non parve vero di conquistare una facile superiorità sui loro colleghi, adoperando delle parole apparentemente difficili, come «interesse economico» «sostrato economico» «capitalismo» «borghesia» «proletariato» e via dicendo, parole per lo più prive di qualunque precisa significazione economica; modo però, dal quale profondamente dissentono appunto molti degli economisti, che con amore e candore cercano di penetrare dentro nei più riposti moventi dell’azione economica degli uomini.
Le quali cose dette intorno ad una dottrina, vecchia appena di alcuni decenni ed oggi già così remota dal nostro spirito, spiegano la mia avversione verso quei sapienti, i quali, indugiandosi a ricercare le cause economiche della odierna guerra europea – indagine perfettamente legittima, quando la si compia modestamente persuasi di andare alla scoperta di una parte sola, di una parvenza, forse fuggevole, della complessa verità – affermano senz’altro che essa fu determinata dal bisogno dell’Inghilterra di impedire il crescere rigoglioso dei rivali tedeschi nelle industrie e nei traffici o della Germania di elevare viemmaggiormente la propria fortuna economica sulla rovina dell’economia britannica. Quelli che così discorrono partono, necessariamente, sebbene inconsapevolmente, da una premessa: che gli industriali ed i commercianti dei due paesi avversari siano capaci di ragionare intorno alla utilità ed alla possibilità di conseguire il fine propostosi, che essi sappiano fare i loro conti intorno ai costi ed ai profitti dell’opera desiderata di distruzione dell’economia avversaria e finalmente che essi sappiano distinguere fra effetti immediati ed effetti remoti delle proprie azioni.
Queste son premesse necessarie, ove non vogliasi ammettere che i moventi bellici di distruzione delle economie inglesi o tedesche fossero peculiari a coloro che non sanno fare ragionamenti economici, che non partecipano alla direzione delle imprese industriali e commerciali ed attendono a scrivere spropositi su per le gazzette quotidiane, allo scopo di solleticare le passioni e le ingordigie delle folle analfabete. Può darsi ed è anzi probabile che così sia: che cioè gli unici ad immaginare la convenienza e la possibilità di distruggere, colla guerra, le industrie ed i commerci dei paesi avversari siano precisamente stati coloro che non furono mai a capo di intraprese economiche, che coi teoremi economici ebbero mai sempre scarsissima famigliarità che conobbero unicamente l’industria dello scrivere articoli desiderati e pregiati per la rispondenza momentanea alle mille e mille passioni, nobili e sordide, elevate e basse, ideali e materiali, tumultuanti nel cuore degli uomini. Ma è chiaro che così non si scrive la teoria delle cause economiche
della guerra; sibbene dalle mille e mille passioni, chiare ed oscure, consapute e subcoscienti le quali concorsero a determinare lo scoppio della guerra e ad acuire le quali può aver contribuito la idea, circonfusa di vaga nebbia, che la distruzione della economia avversaria fosse economicamente utile e possibile.
In verità, la guerra odierna ancora una volta ha dimostrato che gli uomini sono mossi ad agire da idee, da sentimenti, da passioni, non certo da ragionamenti economici puri. Perché ben si sapeva e lo sapevano gli inglesi ed i tedeschi più colti delle classi industriali, bancarie e commerciali che essi non avevano nulla da guadagnare da una distruzione rapida delle economie rivali, quale poteva essere prodotta dalla guerra, che la guerra non avrebbe tolto le ragioni profonde le quali avevano prodotto la grandezza economica del rivale e che il mezzo più economico e più efficace per giungere alle desiderate conquiste era il continuo perfezionamento di se stessi e la sperata spontanea decadenza dell’avversario.
Sapevano i tedeschi:
- che le cagioni della propria mirabile ascensione economica erano riposte nella ricchezza del proprio sottosuolo, nella conformazione del proprio territorio tutto intersecato da vie d’acqua navigabili, e sovratutto nel proprio sforzo perseverante, organizzato, fornito di tutti i sussidi più moderni della scienza, sforzo che strappa grida di ammirazione, quando se ne leggono i fasti nei libri degli inglesi e dei francesi, additanti ai propri connazionali l’esempio di tanta energia feconda;
- che essi, per crescere vieppiù, avevano bisogno di vendere maggiormente i prodotti delle proprie industrie agli stranieri ed avevano necessità perciò di avere attorno a sé popoli ricchi, laboriosi, non impoveriti da guerre o costretti a disperdere le proprie energie in continui sforzi di rivolta contro il dominio straniero;
- che in particolar modo avevano bisogno del mercato britannico, metropolitano coloniale, il più vasto, il più ricco mercato del mondo, l’unico aperto agevolmente a tutte le provenienze;
- che essi avevano d’uopo di non rinfocolare con una guerra, il cui esito era perlomeno incerto, in Inghilterra e nelle colonie quel sentimento di ostilità verso lo straniero, che finora aveva soltanto prodotto in alcune colonie alcuni timidi ed inefficaci saggi di dazi preferenziali contro i prodotti esteri ed aveva contro di sé, quasi invincibile, il solido buon senso delle masse britanniche;
- che una guerra anche fortunata avrebbe costato tali e così colossali sacrifici, avrebbe prodotto tale arresto nella vita economica della Germania da mettere grandemente in dubbio la possibilità di trovare un adeguato compenso in un futuro anche lontano dall’impossessarsi, ancor più incerto, di colonie che l’Inghilterra conserva solo perché non ne trae alcun tributo né diretto né indiretto – neppure l’India paga alcun tributo alla madre patria, neanche sotto forma di dazi preferenziali – e verso cui la Germania sarebbe stata incapace, per l’inaridimento oramai ventennale delle sue correnti emigratorie, di inviare fiotti di emigranti atti a sommergere il fondo britannico della popolazione.
Sapevano d’altro canto gli inglesi:
- che l’ascensione economica germanica non aveva tolto ad essi alcun mercato; anzi ne aveva cresciuto uno, quello germanico, prima povero ed oggi crescente di ricchezza e di capacità di assorbimento;
- che mai fortuna maggiore all’industria inglese era capitata della cosidetta invasione del made in Germany nella loro isola, nelle loro colonie e nei mercati prima monopolizzati dall’Inghilterra. Prima che l’invasione del made in Germany fosse avvertita e si gridasse all’allarme contro la rovina dell’industria inglese, questa decadeva sul serio. Si era addormentata sugli allori. I capi tecnici inglesi più non studiavano. Forse non avevano mai studiato a fondo i principii della scienza tecnica; ed era poco male finché l’abilità pratica serviva a tutto. Divenne un pericolo gravissimo quando i tedeschi dimostrarono al mondo quali vittorie meravigliose si possono conseguire con le applicazioni industriali dei principii teorici. Quando gli inglesi scopersero che essi decadevano e che i tedeschi crescevano, vi fu chi predicò il verbo decadente della muraglia cinese, consigliando di circondare il proprio paese e le proprie colonie di dazi protettori, per impedire colla forza alle merci tedesche di invadere il mercato britannico. Ma, per fortuna dell’Inghilterra, la parola di Chamberlain fu ascoltata solo in quanto essa era maschia ed incitatrice, non in quanto avrebbe finito per addormentare. Gli inglesi videro che colla forza non si conservano le ricchezze e la potenza, che furono create dal lavoro, dallo sforzo; e memori di ciò che essi avevano saputo compiere in passato, fondarono scuole tecniche, istituirono facoltà di commercio, si persuasero che un culto maggiore della scienza avrebbe giovato anche ai loro industriali troppo invecchiati nelle pratiche isolane. I frutti già si vedono nelle cifre del commercio internazionale:
Importazioni | Riesportazioni | Import. nette | Esportazioni | |||||
Amm. Totale | per abitante | Amm. Totale | per abitante | Amm. Totale | per abitante | Amm. totale | per abitante | |
ANNI | ||||||||
1855/59 | 169 | 6. 0.3 | 23 | 0.16. 7 | 146 | 5. 8. 7 | 116 | 4. 2. 4 |
1870/74 | 346 | 10.17.2 | 55 | 1.14.10 | 291 | 9. 2. 4 | 235 | 7. 7. 3 |
1895/99 | 453 | 11. 6.5 | 60 | 1.10. 2 | 393 | 9.16. 4 | 239 | 5.19.10 |
1900/04 | 533 | 12.14.8 | 67 | 1.12. 2 | 466 | 11. 2. 6 | 290 | 6.18. 1 |
1905/09 | 607 | 13.17.8 | 85 | 1.18.11 | 522 | 11.18. 9 | 377 | 8.12. 6 |
1910 | 678 | 15. 2.1 | 104 | 2. 9. 1 | 574 | 12.15.10 | 430 | 9.11. 8 |
1911 | 680 | 15. 0.4 | 103 | 2. 8 | 577 | 12.15. 0 | 454 | 10. 0. 7 |
1912 | 745 | 16. 6.8 | 112 | 2. 6. 3 | 633 | 13.17. 7 | 487 | 10.13. 6 |
1913 | 769 | 16.14.1 | 110 | 2. 5. 4 | 659 | 14. 6. 5 | 525 | 11. 8. 2 |
Dopo l’espansione grandiosa che dal 1855/59 al 1870/74 portò le importazioni lorde da 169 a 346 milioni di lire sterline, le importazioni nette da 146 a 291, e le esportazioni da 116 a 235, era parso si verificasse davvero una stasi nell’economia britannica. Limitandoci soltanto alle importazioni al netto dalle riesportazioni ed alle esportazioni di prodotti britannici, gli statisti, gli economisti, gli industriali britannici avevano osservato con melanconia che, mentre la Germania progrediva vertiginosamente, l’Inghilterra rimaneva stazionaria, anzi regrediva, dopo l’acme raggiunto nel 1873. Le due cifre estreme sono date dai quinquenni 1870/74 e 1895/99. Le importazioni nette erano appena cresciute da 291 a 393 milioni di lire sterline e da L. 9.2.4 a L. 9.16.4 per abitante; e, se le esportazioni erano cresciute di una quantità minima in cifre assolute da 235 a 239 milioni di lire sterline, erano però diminuite relativamente da L. 7.7.3 a L. 5.19.10 per abitante. In questo regresso aveva parte il gioco dei prezzi calanti nell’ultimo quarto del secolo XIX, ma restava sempre un nucleo solido di verità amara e sconfortante.
Fu quello il momento psicologico dell’imperialismo chamberlainiano; il quale predicò la necessità di chiudere l’impero all’invasione dei prodotti stranieri, principalmente tedeschi, e di trovare nella coltivazione intensiva ed esclusiva del proprio giardino un compenso alle perdite subite sui contrastati mercati del mondo esteriore. L’attuazione della parola imperialista sarebbe stata l’inizio ella dissoluzione ed avrebbe giustificato le rampogne acerbe degli scrittori tedeschi, i quali rimproverano all’impero inglese di essere sorto e di conservarsi con la menzogna, con la frode e con la maschera vuota di una forza che interiormente non esiste. L’impero aveva ed ha ancora in se stesso le ragioni della sua vita; e ne è prova il fatto che la parola dello Chamberlain, non ascoltata in quanto predicava il vincolismo mortifero delle tariffe doganali, scosse, eccitò, fece riflettere e spinse all’azione le dormienti forze britanniche.
Quante volte i sogni degli uomini rappresentativi si avverano in modo diverso da quello che essi avevano immaginato!
Il principio del secolo ventesimo segna una ripresa nel commercio internazionale inglese. Le importazioni nette da 393 milioni di lire sterline nel 1895/99 salgono in cifre assolute a 466 nel 1900/904, a 522 nel 1905/909 e a 659 nel 1913, mentre passano – cito solo le cifre estreme – da L. 9.16.4 per abitante nel 1895/99 a L. 14.6.5 nel 1913. Le esportazioni, rimaste per un quarto di secolo stazionarie in cifre assolute, da 239 milioni nel 1895/99 salgono a 290 nel 1900/904, balzano a 377 nel 1905/909, e si portano a 525 nel 1913, mentre in cifre relative i due estremi sono L. 5.19.10 per abitante nel 1895/99 e L. 11.8.2 nel 1913. Anche qui influisce, come del resto in tutti i paesi del mondo, il gioco dei prezzi crescenti dopo il 1894/95; ma quanto innegabile fervore di rinnovata giovinezza e di nuovo slancio industriale!
Ora, è indubbio che di questo risveglio gli inglesi sono debitori in gran parte al pungolo della concorrenza tedesca. Se la Germania non avesse minacciato davvicino la loro supremazia industriale, se anzi in molti campi essa non si fosse indubitatamente messa alla testa di tutti i paesi del mondo, gli inglesi potrebbero ancora vantarsi di essere i primi. Ma sarebbe ben misero vanto, conservato a prezzo della propria decadenza.
Come si può affermare che gli uomini rappresentativi dei due paesi, dotati di vigor di pensiero e di azione, potessero sul serio pensare di avvantaggiare il proprio paese, costruendo, sulle rovine di una guerra, un monopolio tedesco od un monopolio britannico? Che in questa guisa si raggiunga la ricchezza e la forza lasciamolo pensare agli scribi della stampa gialla, moltiplicatisi in guisa abominevole anche a Londra ed a Berlino; che la cupidigia cieca di arricchirsi spogliando e rovinando e dominando altrui sia stato uno degli argomenti a cui i ceti dirigenti credettero opportuno di ricorrere per rendere simpatica alle folle incapaci di ragionare una volontà di guerra che già preesisteva in essi per altre ragioni, forse sbagliate, ma in ogni caso ben diverse ed, in molti uomini, più ideali od elevate, è facile ammettere; che la diffusione di una letteratura libellistica di quart’ordine, pullulante di sofismi economici le mille volte confutati, di statistiche artefatte, di incitamenti grossolani ad arricchirsi sulle spoglie altrui sia stata un’arte di governo usata per rendere popolare una causa a menti incapaci di comprenderne le giustificazioni – reali od immaginarie che queste fossero – più profonde e più umane, si può riconoscere. Ma che da questi miseri argomenti siano state indirizzate sulla via della guerra due grandi nazioni, le cui classi dirigenti si formarono pure alla scuola dei maggiori pensatori che il mondo odierno ammiri, è un assurdo inconcepibile.
Purtroppo, ora che la guerra è scoppiata, la stampa britannica e quella tedesca vanno a gara, quasi senza eccezione, nel discorrere in modo da far ritenere agli spettatori neutrali che i due grandi paesi siano stati davvero mossi alla guerra da motivi sordidi e, quel che è peggio, impossibili a raggiungersi in guisa apprezzabile e permanente. Risuona in quasi tutta la stampa inglese, col Times alla testa, un grido che sembra di riscossa ed è di odio: capturing the german trade, impadroniamoci del commercio tedesco!
Pochissimi giornali conservano la capacità di esaminare, a mente fredda, la difficoltà enorme e forse, nei più dei casi, la inanità dell’impresa; e fra questi mi piace ricordare l’Economist, il quale dallo studio accurato dei fatti economici del suo paese trae sempre nuovi argomenti a serbar fede alle sue gloriose tradizioni cobdenite. E risponde in Germania il grido di guerra: für die Ausschaltung London’s als Clearinghaus der Welt, spogliamo Londra della sua posizione di stanza di compensazione mondiale! Persino la Frankfurter Zeitung, per solito, in tempi normali, dotata di tanto spirito critico verso gli errori commessi od immaginati nel suo proprio paese, si unisce al coro di quelli che, mentre il marco deprezza e perde più del 10% in confronto all’oro, farneticano di sostituirlo alla lira sterlina; ed appena alcune riviste speciali (ad es. Die Bank) osano in Germania additare le difficoltà grandissime dell’assunto.
Trattasi, finora, in gran parte di vittorie e di distruzioni operate sulla carta. Gli industriali inglesi, in ben altre faccende affaccendati, si ostinano a non vedere la convenienza di fare impianti atti a sostituire le produzioni tedesche; e ben pochi d’altro canto sono coloro che ricorrono oggi ad Amburgo od a Francoforte per eseguire i proprii pagamenti all’estero. Formidabili sono invero le difficoltà che si frappongono ad ambi i paesi in questi tentativi di rovinare l’avversario.
Può essere facile autorizzare con una legge d’occasione l’industriale inglese ad utilizzare il brevetto di una invenzione tedesca mercé il semplice pagamento di un equo canone da fissarsi dalle corti giudiziarie britanniche. Ma è legittimo il dubbio se non fosse assai più conveniente all’industriale inglese pagare un alto canone, liberamente convenuto, in tempo di pace piuttostoché un equo, ossia basso canone, estorto colla violenza, in tempo di guerra; e forse è anche dubbio se non convenisse di più all’industriale inglese fare a meno del brevetto tedesco e tentare di raggiungere, con mezzi indipendenti di ricerca e di esperimento, la possibilità di produrre la merce venduta a buon mercato dal produttore tedesco.
Perché, l’acquisto in tempo di pace, ad alto canone, del diritto di usare il brevetto tedesco, avrebbe significato per l’industriale inglese:
- la possibilità di accordi per la vendita dei prodotti in determinate zone;
- l’aiuto di un personale scelto, tecnicamente capace di collaborare alla formazione degli impianti ed all’uso dei processi industriali brevettati; senza di che la semplice conoscenza del brevetto molte volte può essere vana.
L’impossibilità eventuale dell’acquisto del brevetto tedesco sarebbe stato uno stimolo a sperimentare, a cercare il modo di resistere alla concorrenza del brevetto altrui. Quanti progressi industriali non si sono compiuti appunto perché uomini energici, laboriosi, tenaci si trovarono di fronte alla concorrenza di produttori venuti prima e ne ricevettero stimolo ad emularli, tentando vie nuove, sperimentando nuovi processi e vincendo così le posizioni avversarie acquisite! Solo per tal via vinsero i tedeschi; ed alcune delle più segnalate vittorie industriali britanniche sono dovute al medesimo spirito di iniziativa. Testimone del primo processo l’industria delle calzature, la quale dieci anni fa languiva e sembrava dovesse rimanere sommersa sotto il fiotto crescente delle scarpe nordamericane, svizzere e tedesche. Oggi i fabbricanti inglesi di calzatura, avendo pagato a caro prezzo il diritto di servirsi dei brevetti stranieri ed avendone ottenuti dei proprii, hanno riconquistato il mercato nazionale e sono ridivenuti un fattore non trascurabile nelle competizioni internazionali. Tutta l’industria irlandese delle costruzioni marittime fu creata a Belfast da un uomo, il quale seppe dal nulla far sorgere un gran centro industriale, il quale vince spesso i più famosi cantieri dell’Inghilterra; né io so perché, mentre si ricorda sempre, ed a ragione, Amburgo e se ne pronosticano le vittorie sui cantieri inglesi, non si ricordino le vittorie, non meno gloriose, di Belfast città inglese in terra irlandese, contro i più antichi costruttori del suo stesso paese.
Mentre non si vedono dunque insormontabili difficoltà ad usufruire dei brevetti tedeschi in tempo di pace, od almeno non ci sono difficoltà insormontabili dall’ingegno, dall’energia, dalla capacità organizzatrice – e senza queste qualità come si può sperare di catturare alcunché ed anzi di non perdere il già acquisito? – paiono davvero gravissimi gli ostacoli ad usare i brevetti medesimi, divenuti accessibili in tempo di guerra a mite canone. Se non vi è quasi nessun industriale serio inglese, il quale segua a questo riguardo le ammonizioni della stampa quotidiana, ciò dipende:
- dal fatto che in tempo di guerra i capitali privati non si dirigono volontieri alle industrie, neppure a quelle che i giornali descrivono come feconde di profitti illimitati. La diffidenza è lo stato d’animo normale dei lettori di tutti i giornali in tutti i paesi del mondo in tempo di guerra; e la diffidenza cresce a mille doppi quando si sente dire che il paese non deve consacrare tutti i suoi sforzi al dovere di difendere o far più grande la patria sui campi di battaglia. L’appello ai risparmiatori riesce quando è rivolto, a nome della patria, da chi la rappresenta, allo scopo di apprestare i mezzi materiali della condotta della guerra. Ma non si sente e lascia freddi quando l’appello proviene da un industriale, il quale crede essere quello di guerra il momento opportuno per allargare i proprii impianti ed accrescere i proprii profitti;
- dalla circostanza che le banche hanno interesse ed obbligo di limitare i proprii fidi all’industria. In un momento, in cui le banche hanno strettissimo dovere di pensare alla liquidità dei proprii investimenti, non è ragionevole, né sarebbe conveniente nell’interesse generale, che le banche fornissero fondi per l’impianto di nuove imprese industriali;
- dalla incertezza intorno alla possibilità di potere conservare dopo la guerra il godimento delle invenzioni altrui ai canoni equi o bassi fissati dalle corti giudiziarie. Ciò sarebbe contrario all’equità ed alla convenienza stessa dei paesi ritornati in amichevoli relazioni di pace. Chi osa iniziare una intrapresa sulla fragile base della ingiustizia e del latrocinio?
- dalla quasi impossibilità di poter adunare, in tempo di guerra, i fattori umani necessari al successo dell’intrapresa. Gli uomini migliori, i più validi, anche laddove non esiste la coscrizione obbligatoria, e sono tenuti ben cari dai loro vecchi principali, ovvero sono sotto le bandiere. Non si può impiantare una industria nuova, servendosi della gente disoccupata, che non ha voluto o non ha potuto arruolarsi. Né si improvvisano le maestranze; non si imparano d’un tratto i delicati e segreti processi industriali altrui; non si gittano somme colossali, capaci di fruttare un alto tasso di interesse, in sperimenti che forse saranno svalutati dalla pace.
Non meno formidabili sono le difficoltà che si frappongono ai tedeschi nell’opposta impresa con cui essi ritorcono il grido economico di guerra degli inglesi. È certo che Londra, in conseguenza della guerra, perde centinaia di milioni e, forse miliardi di compensazioni che prima si effettuavano attraverso alle sue banche, alle sue case di accettazione, alle sue borse. Già al 25 novembre le compensazioni della City di Londra erano scemate in confronto all’anno scorso di 1.249.202.000 L.st.; più di 31 miliardi di lire nostre; ed alla fine della guerra la perdita avrà toccato altezze vertiginose. È certo che le draconiane norme di sequestro contro i nemici del Re d’Inghilterra non giovano a procacciare popolarità a Londra e saranno considerate in avvenire come un rischio delle compensazioni eseguite attraverso quella piazza. Ma le perdite di Londra non vogliono dire guadagni di Amburgo. Perché una città possa assurgere al posto di stanza internazionale delle compensazioni, non basta che alcune banche di quella città, sia pure tra essa compresa la banca di emissione, si mettano in rapporto con le banche degli altri paesi e si industriino a compensare i pagamenti che il paese deve fare all’estero con i pagamenti che esso dall’estero deve ricevere. Tutto ciò è troppo elementare e fin dalle scuole secondarie gli studenti imparano il diagramma che serve a spiegare il meccanismo delle compensazioni. Non furono però le lezioni dei professori o gli articoli di riviste che crearono le città di compensazione. Venezia prima e Londra oggi sono state il frutto di una lunga e delicatissima formazione storica, compiutasi a traverso secoli di sforzi, di adattamenti, di abilità, mercé un complesso singolare di attività industriali, commerciali, marittime, bancarie, che finora nella storia forse si realizzò solo a Venezia ed a Londra. Non a caso, e non per astuzia propria e dabbenaggine altrui Londra è oggi il centro delle compensazioni mondiali. Perché quell’antro potesse formarsi fu necessario che Londra diventasse e continuasse ad essere un grandissimo centro di affari, dove fanno capo numerose linee di navigazione, da cui si diramano ed a cui giungono i fasci più spessi dei cavi transmarini, e da cui attendono un cenno per proseguire i loro viaggi o cambiar rotta masse grandiose di merci.
Fu d’uopo che si formasse a Londra un centro bancario di primissim’ordine dotato di una liquidità non avente la pari in nessun altro paese, senza immobilizzazioni industriali tipo germanico, con miliardi di risparmio ognora disponibili per consentire appunto il funzionamento regolare della macchina delle compensazioni; che in questo centro bancario le funzioni fossero specializzate in guisa da consentire la vita a numerose case di accettazione, per lunga tradizione di decenni divenute abilissime nell’unica funzione di accettare tratte estere e presentarle allo sconto alle banche propriamente dette.
Fu d’uopo, che, grazie all’opera specializzata delle case di accettazione ed all’aiuto dei fondi disponibili delle banche, si potesse passar sopra all’ostacolo che, nei piani ingenui di stanze di compensazione, i quali vanno pullulando un po’ dappertutto, in Germania, in Italia, negli Stati Uniti, nella Svizzera è spesso insormontabile, ossia la mancanza della unicità:
- del tempo;
- del luogo;
- della valuta.
Non basta invero che l’Italia debba all’estero 1 milione e sia in credito di 1 milione per potere compensare le due partite. La compensazione non è possibile se la scadenza delle due partite non si verifica nello stesso giorno. Il che basta a spiegare come tutti tendano ad effettuare le proprie compensazioni attraverso Londra, dove, appunto perché essa è la piazza universale dei pagamenti, sempre accade che il requisito della unicità del tempo possa raggiungersi, e dove, se per caso in un dato giorno non si ha, esiste una massa di mezzi creditizi grandiosa, specializzata appunto nel compiere la funzione di fornire all’uno la divisa estera richiesta, mentre se ne attende l’arrivo da altra parte.
Non basta ancora che il debito ed il credito si eguaglino nello stesso momento, quando il debito dell’Italia è verso la Russia ed il credito verso l’Argentina. Occorre una piazza unica dove affluisca il commercio delle divise di tutto il mondo, affine di effettuare le compensazioni colla minima fatica, al minimo costo. Due o tre grandi piazze potrebbero compiere ugualmente questo lavoro; ma ad un costo cresciuto. Il che non può durare in un commercio, in cui, in tempi normali, si lavora su margini minimi, talvolta di pochi centesimi.
Ed infine non basta che i debiti ed i crediti si uguaglino per ragion di tempo e di luogo; facendo d’uopo che si eguaglino altresì per ragione di valuta. Le compensazioni non si fanno, senza stento, tra lire e franchi, fra pesos e dollari, fra marchi e corone. Occorre che le divise siano espresse in un’unica moneta, se si vogliono ridurre i costi e facilitare le compensazioni. E sta di fatto nel momento presente che la lira sterlina è l’unica moneta la quale sia accettata da tutti, in tutti i paesi, da popoli civili e da popoli barbari, da europei e da americani, da inglesi orgogliosi della propria superiorità e da tedeschi ardenti dal desiderio di distruggere quella superiorità.
Non a caso. Anche la lira sterlina è una formazione storica posteriore alle guerre napoleoniche. È passato ormai un secolo, da quando gli uomini si sono persuasi che la lira sterlina era l’unica moneta la quale sempre, in qualunque momento, di pace e di guerra, di tranquillità o di torbidi interni, qualunque partito fosse al potere, qualunque fossero le fantasie legislative del giorno, era permutabile, a richiesta e subito, in un dato peso d’oro; d’oro e non d’argento non di carta. Ancora nella guerra odierna, il signor Lloyd George, il quale pure troppe volte ha peccato indulgendo alla mania del colossale, dei bei colpi, delle deliberazioni tragiche, dei piani geniali e complicati, si è arrestato ossequente dinanzi a questa grande formazione storica britannica che è la lira sterlina. La rinuncia alle tradizioni paesane, che è così dolorosa nella condotta di taluni uomini politici inglesi e che ha fatto dubitare molti della loro capacità di conservazione dell’impero, non ha toccato questa che la più paesana ed insieme la più universale tradizione della City: la convertibilità della lira sterlina in oro. Se Londra conserva oggi e conserverà per degli anni ancora la posizione di stanza di compensazione mondiale, essa deve cotal privilegio inapprezzabile alla persuasione che gli uomini hanno essere Londra l’unica piazza dove si può in ogni istante sapere quanta sia la quantità di oro che le varie divise estere possono comprare.
Non vuolsi dire con ciò che il privilegio di Londra debba essere eterno ma solo che quel privilegio non lo si scalza con i gridi di guerra stampati contro l’egoismo e il monopolio britannici. Quando Amburgo o quando Milano o New York avranno saputo creare attorno a sé tale un complesso di organizzazioni commerciali marittime, bancarie, creditizie, che le compensazioni internazionali si potranno operare con risparmio di qualche ora o di qualche frazione di centesimo eseguendole presso di loro invece che presso Londra; quando da alcuni decenni gli uomini dell’America e della Cina, dell’Africa del Sud e del Canadà, dell’India e dell’Australia, dell’Asia Minore e del Giappone si saranno persuasi, e volontariamente persuasi, che il marco tedesco, la lira italiana ed il dollaro americano sono monete altrettanto e forse più universali della lira sterlina, allora sarà suonata l’ultima ora della supremazia di Londra come stanza delle compensazioni internazionali. Ma sarà suonata perché i tedeschi ad Amburgo, ovvero gli italiani a Milano, ovvero i nord americani a New York, avranno saputo dar vita ad una formazione storica più bella, più economica di quel che non sia oggi la londinese sterlina. In quel giorno la sconfitta della lira sterlina sarà un vanto per i tedeschi o gli italiani od i nord americani, ed un vantaggio per gli altri popoli. Oggi è forse una impossibilità e sarebbe certo un danno per tutti.
Consentitemi che io mi indugi ancora su questi fatti monetari. La guerra europea, fra i suoi parecchi interessantissimi effetti, ha avuto questo: di ridare nell’opinione comune ai diversi fatti economici quello stesso valore di prospettiva che essi avevano fin da prima nella mente dello studioso professionale. È certo che, per questi, i problemi più belli, più affascinanti, i problemi che hanno più genuino e schietto sapore economico non sono quelli che, per distinguerli approssimativamente, si possono chiamare problemi sociali, sibbene quegli altri che hanno tratto ai prezzi, alla moneta, alle banche, al tasso dell’interesse, dello sconto e del cambio, al commercio ed ai pagamenti internazionali. I problemi sociali hanno questo di caratteristico per l’economista: che essi affogano nel mare infinito delle chiacchiere, danno luogo al succedersi di teorie variopinte, tutte uguali per la loro imprecisione, la loro inafferrabilità e la loro inconcludenza. È una folla quella che ragiona e discute e si accapiglia per le diverse soluzioni dei problemi sociali; e l’economista rimane confuso, con suo scorno e mortificazione grandi, nella folla degli uomini qualunque, perché egli poco ha da dire che suppergiù non sia sentito dagli altri. Quando invece il discorso volge alla moneta, allo sconto, all’aggio, ai pagamenti internazionali, l’economista vede d’un subito diradarsi le turbe attorno a lui, ed i mercanti lasciarsi docilmente cacciar fuori dal tempio, perché egli possa, nella sua vastità nuda, lietamente discettare con proprietà di linguaggio e rigore di metodo insieme con i pari suoi, che hanno durato lunghe veglie per penetrare a fondo nei problemi più momentosi del mondo economico. Ma in questa solitudine un rimpianto acerbo lo affanna: che le moltitudini non comprendano l’importanza dei fatti che a lui interessano tanto, che le masse non vedano che un buon regime monetario vale per la loro prosperità economica, per il miglioramento dei loro salari, per la regolarità della loro occupazione ben più che non una legislazione sociale anche governata da una sapiente burocrazia tipo germanico; che i risultati possibili ad ottenersi a serie fortunata di scioperi e di agitazioni sono una misera cosa in confronto ai vantaggi che si possono ottenere con l’abolizione del corso forzoso, con un perfetto ordinamento degli istituti di emissione, con l’abolizione dei dazi protettivi e la conservazione di semplici dazi fiscali. Ignorati dalla borghesia, fatti oggetto di scherno, come una diabolica invenzione capitalistica, dai missionari del socialismo, rispettati, per la loro impenetrabilità, dalla maggioranza degli uomini politici, i problemi monetari e bancari sono abbandonati agli specialisti, teorici e pratici, i quali ne fanno oggetto di dominio esclusivo e geloso, in cui alle turbe profane non è lecito di penetrare, così come non è lecito discutere i piani segreti della diplomazia e degli Stati maggiori.
A me sembra che i danni di un siffatto atteggiamento di indifferenza dell’opinione pubblica siano maggiori dei benefici. I quali – a parte la soddisfazione trascurabile degli economisti di vedere riconosciuta con ossequio la loro competenza, che nei problemi sociali è ogni giorno schernita dalle moltitudini occupate a plaudire i diversi vangeli e ricettari promettitori di ricchezze, di felicità – si riducono alla speranza che, grazie al volontario dileguarsi dei cerretani e degli empirici, i governanti seguano le buone norme che la scienza dedusse dall’esperienza passata ed ognora sono raffinate sulla base delle esperienze nuove. Ma è vantaggio che si acquista a prezzo di grandi sacrifici; poiché se si dileguano i dilettanti, dal disinteressamento universale traggono spesso partito i governanti deboli od incerti sulla bontà dei propri ideali o privi di ideali per ricavare da una inavvertita mutazione dei congegni monetari i mezzi per condurre una politica che all’universale, chiamato in tempo a pagare imposte od a concedere prestiti, non sarebbe gradita; ed a queste inavvertite mutazioni plaudono gli interessati, i quali da esse traggono ricchezze ed opimi profitti.
Perciò si deve affermare che questo prorompere alla ribalta dei problemi monetari è un fatto utile. Gioverà, alla lunga, all’educazione dell’opinione pubblica; e dall’errore nascerà il bene. L’Inghilterra deve la grandezza, finora incrollabile, della lira sterlina, agli errori commessi durante la guerra napoleonica; ed alla convinzione radicata nell’animo di ogni inglese divenuta oramai sangue del suo sangue, senza che ad ogni generazione si debbano ripetere i ragionamenti e sovratutto rifare le esperienze delle generazioni precedenti, per cui la Banca d’Inghilterra è il palladio della grandezza nazionale, è l’arca santa, cui i profani debbono venerare ma non toccare. La impossibilità dei pagamenti internazionali, la chiusura delle fabbriche, la disoccupazione operaia, il rialzo del prezzo di molte materie prime e di alcune derrate alimentari, lo sconquasso prodotto nel mondo economico dalla tesaurizzazione dell’oro, dimostrarono anche ai ciechi che l’essenza della società moderna non si può ridurre ad una lotta fra sfruttati e sfruttatori, ad una cronaca grottesca delle gesta del capitalismo asserragliato nelle banche e nelle borse a danno dell’umanità. Oggi si vede che questi erano fatti superficiali e che il fatto profondo, sostanziale era l’esistenza di un meccanismo delicatissimo degli scambi e dei contratti fra uomo e uomo, fra classe e classe, fra nazione e nazione; meccanismo spinto dalla concorrenza dei singoli e delle classi e delle nazioni fra di loro, ma avente per risultato la solidarietà più stretta fra uomini, classi e nazioni. L’urto della guerra ruppe il meccanismo, che era creazione superba di sforzi secolari, di adattamenti finissimi; e questa rottura mise in chiaro che senza moneta, senza credito, senza banche, senza borse non si può vivere od almeno non si può vivere con quella pienezza di vita, alla quale oggi siamo abituati. Gli spregiatori della civiltà capitalistica e gli assertori di schemi dell’avvenire hanno avuto campo di convincersi – alla luce dei fatti avvenuti dall’agosto in qua – che i loro schemi erano giocattoli infantili in confronto del movimento complesso di orologeria che governa la vita economica moderna; e dovrebbero modestamente confessare di dover molto andare a scuola da quello che con grandissima improprietà di linguaggio è detto «capitalismo», prima di poter aspirare a surrogarlo in quelli che sono i servigi inestimabili che esso rende agli uomini.
Non di tutti i problemi monetari suscitati dalla guerra mi è possibile tener discorso in questo momento. Dovendo, per ragion di tempo, fare una scelta, mi sforzerò a rispondere ad un quesito in apparenza assai semplice: come furono materialmente pagati nelle casse dello Stato i 5 miliardi e mezzo di lire italiane del prestito tedesco, e gli 11 miliardi dei varii prestiti inglesi, che si dovettero emettere affinché i due Stati potessero far fronte alle spese della guerra? Notisi che il problema, così come viene posto, è ristrettissimo. Non si vuol risolvere l’arduo e forse insolubile quesito se in questi 5,5 od 11 miliardi consista il costo della guerra per i due paesi e se essi bastino all’uopo. Il calcolo del costo della guerra è relativamente facile se ci si limita a fare il conto delle somme erogate dallo Stato per la condotta della guerra, le quali dovranno risultare dai bilanci pubblici e dalle somme perdute dalle economie private durante, la guerra, delle quali si potrà avere un’idea dai reclami per raccolti, case, macchine, strumenti distrutti, dai minori guadagni delle società anonime, ecc. Diventa invece difficilissimo quando si veda che più che di perdite, converrebbe discorrere di un diverso indirizzo dato alla vita del paese, per cui ai bisogni sentiti in tempo di pace dagli uomini (vitto, vestito, casa, divertimento, ecc.), ed agli atti normalmente intesi a soddisfarli si sostituiscono altri bisogni – difesa del territorio nazionale o conquista di territori nuovi o di colonie – ed altri atti intesi a soddisfare i nuovi bisogni; per cui gli uomini, in pace operosi per la produzione di oggetti di consumo o di servizi, si risolvono a produrre il servizio della difesa o della maggior grandezza del paese ed il loro posto è preso, in parte, nella produzione agricola, manifatturiera e commerciale, da altri uomini o donne o fanciulli, prima inoperosi od occupati nel produrre servizi intellettuali o personali, la cui domanda improvvisamente è cessata. È chiaro dunque che il calcolo economico dei costi della guerra ha un significato puramente convenzionale, od almeno l’affermare che una guerra costa 10 miliardi di lire vuol soltanto dire che i cittadini dei paesi belligeranti vollero sopportare un costo di 10 miliardi di lire per raggiungere un fine che essi reputavano di pregio più alto. Nella qual affermazione si ripete per la guerra un concetto comune ad ogni operazione economica; e come non si dice che chi ha speso 100 per tenere 150 ha subito una perdita di 100, ma anzi che ha lucrato 50; così si dovrebbe dire, che il paese, spendendo 10 miliardi per ottenere un fine valutato 15, non ha subito una perdita di 10 sibbene un vantaggio di 5 miliardi. La perdita potendosi affermare solo nel caso che il fine non si raggiunga o fosse un fine che la collettività, dopo ottenutolo, considera inutile o fors’anco dannoso.
Ancora: si può affermare che sia una perdita economica la avvenuta proibizione dalle bevande alcooliche in Russia e della distruzione dei capitali impiegati in quell’industria? Si può affermare che costituisca una perdita economica il passaggio di migliaia di vetture automobili dall’uso di passeggiate di diletto all’uso di trasporti di materiale da guerra?
Il problema, sul quale in questo momento richiamo la vostra attenzione non è questo vasto problema economico e psicologico, è un problema monetario, che molti sarebbero portati a trascurare per la sua insignificanza. Esso può così esprimersi dato che i risparmiatori tedeschi e gli inglesi avevano la capacità economica di mutuare allo Stato i 5,5 e gli 11 miliardi del prestito della guerra, come si effettuò materialmente il trapasso delle somme sottoscritte dai risparmiatori allo Stato?
Che il problema sia perlomeno curioso, è chiaro subito ove si rifletta che la sua risoluzione a prima vista costituisce un assurdo ed una impossibilità. A prima vista, invero, il versamento da parte del capitalista delle somme sottoscritte si concepisce come il fatto di chi avendo in cassa od avendo ritirato dalle casse di risparmio o dalla banca 100.000 lire, ad es., si reca con esse allo sportello del tesoro, e le versa, ricevendo in cambio un certificato provvisorio di debito dello Stato.
Orbene, è evidente che se noi concepiamo unicamente in tal maniera il meccanismo del pagamento delle somme sottoscritte, il prestito diventa un impossibile. In qual paese del mondo i risparmiatori possono avere a loro disposizione, anche se il versamento viene ripartito su alcune settimane o mesi di tempo, i miliardi di oro o di biglietti necessari ad effettuare i versamenti? Se si riflette che oro e biglietti erano, prima del prestito, nella quantità necessaria per effettuare gli scambi e le contrattazioni, che non è possibile sospendere per molti od anche solo per alcuni giorni, quanti sarebbero d’uopo perché i biglietti versati nelle casse del tesoro rifluissero nella circolazione, la vita economica del paese, che un siffatto assorbimento del medio circolante da parte del tesoro pubblico non può essere scisso dall’immagine di imbarazzi indicibili, di fallimenti innumerevoli e di un panico generale, se si pon mente che in momenti di panico non si sottoscrivono prestiti di miliardi, si deve forzatamente concludere che non esistono e non possono esistere in nessun paese disponibilità monetarie sufficienti a coprire, neppure lontanamente, colossali prestiti di guerra odierni.
Il che non vuol dire che i prestiti siano un mistero od un inganno; significa soltanto che il quadro del risparmiatore, buon padre di famiglia, il quale col suo gruzzolo si reca ad effettuare il versamento della somma da lui sottoscritta, è una rappresentazione di tempi che furono ed un assurdo nei tempi nostri. Un prestito di 5,5 o di 11 miliardi non si concepisce senza tutta una preparazione o meglio senza l’esistenza di un congegno creditizio e bancario che lo renda possibile.
Il pagamento di un grande prestito di guerra si può immaginare avvenuto secondo due schemi teorici; l’uno dei quali presuppone l’emissione di biglietti normalmente, sebbene non necessariamente, in regime di corso forzoso; mentre l’altro si fonda su un sistema sviluppato di assegni bancari e di compensazioni bancarie. I fatti reali si sono, è vero, sviluppati nei singoli paesi con divergenze talvolta notevoli dai due schemi, ovvero con l’uso simultaneo di amendue; ma essi giovano a rappresentarci dinanzi alla mente con una certa approssimazione il meccanismo del pagamento dei prestiti.
Un primo schema parte dalla premessa che, trovandosi nel paese soltanto quella quantità di biglietti od oro circolante che, ai prezzi correnti, è sufficiente ad effettuare le negoziazioni, e non potendosi né distrarre dal suo ufficio la massa esistente di biglietti, senza provocare una crisi commerciale, né aumentarla, senza stimolare un ritorno dei biglietti alla banca emittente in cambio di oro, che sarebbe tesoreggiato in momenti di panico, si proclama il corso forzoso allo scopo di mettere in salvo la riserva metallica.
Possono a questo punto cominciare le emissioni illimitate di biglietti, preordinate allo scopo di rendere possibile e nello stesso tempo di anticipare la riscossione del prestito futuro. Lo Stato, a poco a poco, spende 5 miliardi di lire, pagando le spese con 5 miliardi di lire di biglietti appositamente stampati ed anticipati al Tesoro dalla Banca di emissione. Dallo Stato i biglietti passano così ai suoi fornitori, alle truppe, agli impiegati, ai creditori pubblici. Costoro non avendo nessun bisogno di tenere presso di sé quei biglietti li danno a loro volta in pagamento ai proprii creditori, operai, fornitori e via dicendo. Né può tardare molto tempo che questi biglietti avranno trovato la via del ritorno presso le banche ordinarie e la banca di emissione, dove saranno stati versati in saldo di cambiali venute alla scadenza, in estinzione di altri debiti, od in depositi a risparmio od in conto corrente. Se, materialmente, una parte dei nuovi biglietti rimarrà in circolazione perché i fornitori dello Stato, ad esempio, hanno bisogno di una maggior quantità di moneta legale in riserva nel cassetto, una parte dei vecchi biglietti diventerà inutile, perché gli industriali ed i commercianti che lavorano per opere di pace, vedendo diminuiti i proprii affari, hanno minor bisogno di medio circolante e lo depositeranno alle banche. Giunge un momento, un mese o due mesi dopo lo scoppio della guerra, in cui, esauritisi altresì i primi e più clamorosi effetti del panico e della tesaurizzazione monetaria, le casse delle banche posseggono forti masse, forse la totalità dei 5 miliardi di lire di biglietti originariamente emessi dallo Stato, contro cui hanno dato credito alle proprie clientele, per minori debiti e per maggiori depositi o conti correnti. Questo è il momento psicologico dell’emissione del prestito. Il quale è adesso anche materialmente possibile; perché i sottoscrittori sono coloro che hanno disponibilità liquide o in biglietti tenuti nel cassetto e facenti parte dei 5 miliardi esuberanti alla circolazione o in depositi e conti correnti alle banche o in aperture di credito presso le banche stesse, ridiventate disponibili dopoché essi hanno estinto i loro debiti cambiari e per la mancanza di nuovi affari non li hanno sostituiti con nuovi debiti.
Essi inviano le loro schede di sottoscrizione alle proprie banche e casse, le quali, mentre li addebitano dell’importo, accreditano di altrettanto lo Stato, o versano addirittura nelle casse pubbliche i biglietti che esse tengono presso di sé. In tal modo il pagamento del prestito si può fare, perché consiste nel ritorno allo Stato dei 5 miliardi di biglietti che questo dianzi aveva emesso. In sostanza l’operazione si riduce a sostituire ad un prestito forzoso ed infruttifero, come erano i 5 miliardi di biglietti, un prestito volontario e fruttifero, come sono i 5 miliardi di titoli di debito pubblico. Già con l’emissione dei 5 miliardi di biglietti a corso forzoso lo Stato aveva raggiunto l’intento del prestito, che era quello di creare a proprio favore un diritto di usare una certa quantità di derrate, merci, munizioni o di giovarsi dei servizi e del lavoro della popolazione fino all’ammontare dei 5 miliardi; ed aveva creato un corrispondente diritto di credito verso se stesso in coloro che avevano venduto le merci od i servizi. Il diritto di credito era però rappresentato da un titolo, il biglietto a corso forzoso che per il singolo creditore ha l’inconveniente di dover essere accettato per forza, di non portare una scadenza certa e di essere fruttifero, e per la collettività di essere cagione di deprezzamento nel medio circolante; laonde è opportuno sostituirlo con un titolo di debito pubblico, ripartito fra coloro che hanno disponibilità di risparmio e volontariamente vogliono far credito allo Stato.
Se la guerra continua, l’operazione si può ripetere una o due volte, facendo ogni volta precedere al prestito volontario e fruttifero il prestito forzato nella forma delle emissioni di biglietti, il quale crea altresì lo strumento per il versamento dell’importo del prestito. Finita la guerra lo Stato si trova con un carico di 5, 10 o 15 miliardi di debito propriamente detto; ma può abolire il corso forzoso, perché ha già ritirato tutti i biglietti emessi in quantità esuberante, durante la guerra, oltre il quantitativo sufficiente perché la carta possa circolare a parità con la moneta d’oro.
Di fatto accadrà che il fenomeno non si sviluppi con quei tagli netti fra un periodo e l’altro che qui si sono detti; poiché si dovranno bensì emettere a giorni fissi i prestiti fruttiferi e volontari, ad ipotesi di 5 miliardi l’uno; ma potrà darsi che in quel giorno non ancora tutti i 5 miliardi di biglietti della prima fase siano tornati alle banche; o meglio, potrà darsi che già, mentre si emette il prestito per liquidare ed estinguere i primi 5 miliardi di biglietti, si stiano emettendo i 5 nuovi miliardi del secondo periodo per provvedere alle spese impellenti della guerra. Il concetto essenziale è che i prestiti vengano conchiusi nel tempo più opportuno, quando si sono formate nel pubblico o per esso, nelle banche, dei grandi ammassi di biglietti, che rimarrebbero oziosi o finirebbero di essere impiegati a gonfiare artificialmente affari malsani, in guisa che in nessun momento il quantitativo dei biglietti emessi cresca oltre misura.
Questo pare sia stato il concetto seguito in Germania, dove si è avuta una applicazione parziale del metodo ora delineato. Dico parziale, perché trattasi di un metodo che non è necessario applicare da solo, potendo essere impiegato contemporaneamente all’altro, di cui si dirà sotto, dei giri di scritturazioni cambiarie. In Germania, dove l’uso degli assegni sta acclimatandosi, ma non è abbastanza diffuso, si dovette ricorrere, oltreché a questo, su vasta scala al metodo ora descritto, delle emissioni preventive di biglietti. Ed invero, – mentre la quantità dei biglietti emessi, che era di 1891 milioni di marchi il 23 luglio, cresce durante l’agosto ed il settembre in maniera quasi ininterrotta giungendo il 30 settembre a 4491 milioni di marchi, con un più di 2600 milioni, – in ottobre, quando rientrano i biglietti in pagamento del prestito dei 4460 milioni di marchi, si avverte una flessione ed al 23 ottobre scendiamo a 3968 milioni, battendo poi in novembre la cifra sui 4 miliardi.
Probabilmente la stazionarietà di questa cifra è il frutto di due forze: da un lato i versamenti scalari in conto del prestito che fanno rientrare i biglietti emessi prima della fine settembre; e dall’altro le nuove emissioni di altri biglietti, fatte allo scopo di far fronte alle spese ognora rinnovantisi della guerra. E già si vide il Parlamento tedesco votare un nuovo credito di 5 miliardi e sui giornali si discorre di un altro grandioso prestito a primavera che avrà per scopo sovratutto di arginare il crescere, che sarebbe ineluttabile e deleterio, dei biglietti a corso forzoso.
Ma la Germania ha perfezionato per un altro verso questo metodo di innestare il prestito sulle emissioni a corso forzoso, che sono forse inevitabili nell’urgenza del pericolo, ma non bisogna dimenticare mai essere pericolosissimi. Supponiamo invero che lo Stato belligerante non attenda ad emettere il prestito dei 5 miliardi, il momento in cui si siano emessi tutti i 5 miliardi di lire di biglietti e questi si siano già raccolti nelle mani di coloro che hanno altrettanto risparmio disponibile, ma ritenga opportuno, per ragioni psicologiche o politiche, di emettere il prestito in un momento in cui la massa di risparmio attualmente disponibile è di soli 4 miliardi di lire e può quindi comandar l’azione di soli 4 miliardi di lire di biglietti.
Ma lo Stato vuole garantirsi una disponibilità ulteriore, ad esempio di 1 miliardo in più. Ciò urterebbe contro un ostacolo gravissimo: esistono bensì nel paese 4 miliardi di risparmio già formatosi ed esistono gli strumenti corrispondenti di pagamento, che sono i 4 miliardi di biglietti inutili alla circolazione; ma non esiste ancora il miliardo in più di risparmio che lo Stato vorrebbe accaparrare e non esistono gli strumenti di pagamento che sarebbero necessari. A sormontare le difficoltà interviene lo Stato, a mezzo della Banca d’emissione o di un’apposita Cassa di prestiti.
Lo Stato provvede innanzitutto gli strumenti del pagamento, stampando 1 miliardo di lire di biglietti o di buoni di cassa; e li anticipa ai capitalisti, i quali depositano in garanzia titoli antichi di debito pubblico, cartelle, obbligazioni, azioni, merci. Ed i capitalisti con il miliardo di biglietti così avuto in prestito sottoscrivono 1 miliardo del prestito, portando la cifra totale di 4 a 5 miliardi. A prima vista questo sembra uno scherzo, poiché le Stato, il quale ha bisogno di farsi imprestare 1 miliardo, stampa i biglietti necessari, li mutua ai capitalisti, i quali poi a lui li restituiscono, ricevendo in cambio 1 miliardo di titoli del prestito; sicché alla fine lo Stato si trova con 1 miliardo di debito al 5% e con in mano 1 miliardo di biglietti che egli stesso ha creato. O non era meglio, si può osservare, che, senza compiere questo giro vizioso, lo Stato se li stampasse per conto suo questi biglietti, poiché in ogni caso, se vorrà trarre frutto dal prestito, dovrà pur spenderli e crescere di altrettanto la circolazione a corso forzoso?
No. Emettendo questo miliardo di biglietti, dopo avergli fatto subire il salutare lavacro di un mutuo ai capitalisti contro pegno e di un ritorno nel tesoro in cambio di un titolo di debito pubblico lo Stato ha raggiunto due intenti:
- in primo luogo ha creato una forza la quale necessariamente porterà, anche all’infuori di eventuali errori od impossibilità dei governanti, all’estinzione del miliardo di lire di biglietti. Poiché il capitalista ha bensì il titolo nuovo del prestito, che gli frutta il 5%; ma anche il debito corrispondente verso la Cassa di prestiti a cui ha dato in pegno titoli vecchi da lui già posseduti. Per liberarsi dall’onere degli interessi passivi al 6%, il capitalista si sforzerà dunque di risparmiare e di estinguere a poco a poco il suo debito. Ma per estinguerlo dovrà accumulare biglietti e portarli alla Cassa. Ecco dunque raggiunto il primo intento dello Stato, che è di estinguere o e distruggere i biglietti a corso forzoso.
- il secondo intento raggiunto è il comando che lo Stato per tal modo acquista sul risparmio futuro. Normalmente lo Stato può, coi prestiti volontari, comandare solo al risparmio attuale di procacciargli beni e servizi attuali. Ma se il risparmio attuale disponibile è in quantità inferiore ai beni e servizi esistenti, come potrà lo Stato ottenere la disponibilità su di questi? Ove non si voglia ricorrere semplicemente al torchio a gitto continuo, per vari rispetti pericoloso, il metodo germanico della fornitura di biglietti ai capitalisti desiderosi di imprestare anticipatamente allo Stato anche i proprii risparmi futuri, è certo raffinato ed elegante. E poiché esso crea la spinta alla restituzione e distruzione dei biglietti, si deve dire che esso presenta il minimum di pericoli collettivi. L’impero germanico usò largamente di questo spediente: al 23 settembre i buoni della cassa di prestiti posseduti dalla Banca imperiale giungevano appena a 149.2 milioni di marchi; ed al 7 ottobre, all’indomani dei primi versamenti del prestito di guerra, giungevano a 949 milioni. Erano 800 milioni circa di buoni che la Cassa aveva prestato contro pegno ai sottoscrittori del prestito e con cui questi avevano fatto i pagamenti della prima rata versandoli alla Banca imperiale.
Questa poi in rappresentanza di essi poté consegnare allo Stato altrettanti suoi biglietti da spendere. Ma già si vede che i capitalisti stanno formando del nuovo risparmio, con cui rimborsano le anticipazioni ottenute contro pegno dalla Cassa di prestiti; poiché al 23 novembre i buoni di cassa posseduti dalla Banca imperiale sono diminuiti da 949 a 599.8 milioni di marchi; il che vuol dire che i capitalisti poterono fare in queste 6 settimane circa 350 milioni di marchi di nuovo risparmio e ridurre di altrettanto il proprio debito verso la Cassa di prestiti, la quale, alla sua volta, poté rimborsare la Banca imperiale, ottenendone la restituzione dei 350 milioni di buoni di cassa, finalmente scomparsi dalla circolazione.
Io non so se sono riuscito a rendere in modo abbastanza chiaro questo meccanismo, in fondo semplice, del versamento dei prestiti per mezzo dei biglietti a corso forzoso, che bene si potrebbero chiamare l’anticipazione e la condizione necessaria di uno dei due schemi tecnici di pagamento dell’ammontare dei grandi prestiti moderni.
Ma forse ancor più meraviglioso e perciò più semplice è l’altro meccanismo, non ignoto in Germania, ma che ha indubbiamente il suo prototipo nelle successive emissioni dei buoni del tesoro per 2/3 miliardi di lire e nel prestito recentissimo degli 8 miliardi ed 827 milioni di lire italiane in Inghilterra. Qui non corso forzoso, non emissione di biglietti di banca o di Stato o di buoni delle casse di prestiti. La circolazione in biglietti di banca che al 30 luglio era di 29.7 milioni di lire sterline, al 19 novembre era ancora di 35.3; ed i nuovi biglietti di Stato battevano sui 27.3 milioni di lire sterline; in tutto una quantità di biglietti emessa in più dopo la guerra di forse un 33 milioni di lire sterline, circa 820 milioni di lire italiane, appena sufficienti a prendere il posto nella circolazione ordinaria dell’oro che dai privati passò nelle casse della Banca, dove crebbe da 38 ad 85 milioni circa. Dunque non con questo strumento impercettibile dei biglietti si poté effettuare prima il versamento nelle casse dello Stato dei 91 milioni lire sterline di buoni del tesoro e si può effettuare ora il versamento dei 350 milioni del prestito di guerra: in tutto 11 miliardi circa di lire italiane.
Lo strumento dei pagamenti è quello degli assegni bancari. Che è semplice; ma più si medita e più appare una veramente superba creazione della mente e sovratutto della fiducia umana.
Lo schema teorico iniziale è il seguente. Esistono in un dato paese e disponibili durante un certo flusso di tempo, ad esempio gli 11 mesi dallo scoppio della guerra (1 agosto 1914) all’1 luglio 1915 circa 11 miliardi di beni materiali e di servizi, che in tempo di pace sarebbero stati, insieme con altri parecchi, forse 35, miliardi destinati al soddisfacimento di bisogni privati, compreso il bisogno del risparmio. Scoppiata la guerra, importa che lo Stato possa disporre di tutti questi 11 miliardi per i supremi scopi nazionali.
In quel paese è usanza generale, quasi sempre eccezione, che tutti depositino i proprii fondi disponibili per il consumo ed il risparmio presso le banche; ordinando poi a queste gli opportuni pagamenti per mezzo di assegni bancari. Perché avvenga il passaggio degli 11 miliardi dalla disponibilità dei privati alla disponibilità dello Stato, i seguenti atti devono verificarsi:
- in un primo momento devono gli 11 miliardi essere iscritti a favore dei privati nei conti correnti e depositi delle banche;
- nel momento della sottoscrizione od in parecchi momenti durante il decorso della guerra, debbono i privati consegnare al Tesoro tanti assegni tratti sulle proprie banche per un ammontare di 11 miliardi;
- il Tesoro presenta gli assegni alle banche, le quali, prese in massa, addebitano i privati ed accreditano il Tesoro della somma totale del prestito;
- il Tesoro, dotato così della capacità di trarre ordini fino alla cifra di 11 miliardi sulla massa di beni materiali e di servizi personali esistenti nel paese, fa acquisto di derrate, di vestiti, di munizioni, paga le truppe consegnando a tutti i proprii fornitori, creditori, soldati, ufficiali, assegni sulle banche, dove egli è accreditato per 11 miliardi;
- a poco a poco il conto corrente del Tesoro presso le banche del paese che si sarebbe gonfiato fino alla cifra di 11 miliardi, se il versamento dei prestiti si fosse fatto in un momento unico e che di fatto si gonfia a punte variabili di altezza nei successivi versamenti delle rate del prestito, torna a sgonfiarsi, a mano a mano che il Tesoro, per fare i pagamenti, trae assegni bancari; e d’altrettanto crescono nuovamente i conti correnti dei privati, poiché, supponendo finita la guerra all’1 luglio 1915, a quella data il conto corrente del Tesoro, partito da zero, giunto al culmine degli 11 miliardi ritorna a zero ed il conto corrente dei privati ritorna a riacquistare i suoi 11 miliardi.
Così, pianamente, senza smuovere una lira in oro od in biglietti, teoricamente si può concepire il versamento e la spesa di questa immane somma. E così di fatto tende a compiersi l’operazione del prestito o meglio dei successivi prestiti bellici in Inghilterra: come un giro di scritturazioni sui libri delle banche e delle stanze di compensazione.
Tende dico: perché in realtà lo schema teorico deve abbandonare alquanto della propria forma iniziale per superare gli attriti che sono opposti a questo meraviglioso meccanismo delle compensazioni bancarie dalle esigenze diverse dello Stato e dei risparmiatori rispetto alla massa dei risparmi posseduti e desiderati ed al tempo dell’investimento.
Appare inverosimile innanzi tutto che i capitalisti inglesi dispongano davvero, durante questi 11 mesi, di un flusso di risparmio di 11 miliardi di lire. Per quanto scemino gli altri investimenti, non pare si possano ridurre a zero, come dimostrato dalle richieste, soddisfatte, che sul mercato di Londra stanno facendo Russia e Francia, Canadà ed Australia, ed insieme numerose imprese private. Ciò spiega come una parte, forse notevole, non certo misurabile, di questi 11 miliardi debba essere stata procacciata non dal risparmio, ma dal credito creato dalle banche. È noto, sebbene ogni volta che ci si pensa la cosa prenda l’aspetto di un mistero affascinante, che forse i tre quarti dei cosidetti 25 miliardi di lire italiane di depositi e conti correnti esistenti presso le banche inglesi non sono veri depositi di risparmio, sibbene conseguenze di un’apertura di credito fatta dalla banca alla sua clientela. Sia una banca in una piccola città, e per mezzo di quella banca tutti i cittadini transigano i propri affari. Essa ha in cassa in contanti 100.000 lire fornite dai suoi azionisti e 100.000 lire fornite dai depositanti. Con queste sole 200.000 lire la Banca può fare affari di milioni, purché osservi la prudenza bastevole a non esagerare i propri impegni in confronto al proprio fondo contante di cassa. La banca può cioè aprire un credito, contro sconto di cambiali o pegno di titoli, per 1 milione di lire. Ciò fa nascere nella parte attiva del suo bilancio una partita di 1 milione di lire per cambiali o titoli di portafoglio. Ma ciò fa nascere altresì – ed è qui il punto essenziale e quasi taumaturgico – un deposito di 1 milione di lire al passivo dello stesso bilancio. Perché i commercianti e gli industriali, i quali, avendo scontato cambiali ed impegnato titoli, hanno ottenuto un’apertura di credito per 1 milione di lire, hanno acquistato diritto – e se ne servono – di trarre per questa somma assegni sulla banca. Questi assegni i clienti della banca li consegnano ai propri fornitori, creditori, azionisti, obbligazionisti, impiegati; i quali potrebbero, quindi, volendo, presentarli all’incasso alla banca per esigerne il valsente in contanti. Se questo facessero, la banca dovrebbe fallire perché essa ha appena 200.000 lire di denaro contante in riserva. Ma poiché in Inghilterra non si usa tenere denari contanti in cassa, poiché tutti eseguono le proprie transazioni attraverso alle banche, i fornitori, creditori, azionisti, di cui sopra, trasmetteranno gli assegni ricevuti alla banca – noi abbiamo supposto, per semplicità, che in quella piccola cittadina esistesse una sola banca – e questa ne darà loro credito in conto corrente con una scritturazione sui proprii libri. Ecco dunque come la banca crei essa stessa i propri depositi. Si potrebbe persino immaginare il caso di una banca, priva assolutamente di capitale proprio e di depositi effettivi e cioè venuti prima dell’inizio delle operazioni bancarie, dotata però di un forte capitale immateriale in «fiducia«.
Niente vieterebbe a questa banca di aprire crediti per 1 milione di lire; ossia di dare alla propria clientela il diritto di trarre assegni a vista su di essa per 1 milione di lire. Per il processo già descritto il milione di assegni sarebbe trasmesso dalla clientela della banca ai propri creditori e questi li presenterebbero alla banca per la registrazione a loro credito in conto corrente. Ecco, quasi per un tocco di bacchetta magica, create aperture di credito per 1 milione e depositi in conti correnti per 1 milione.
Si estenda il caso ipotetico da una banca sola a tutte le banche inglesi, da 1 milione a molti miliardi, si consideri che le aperture di credito della Banca A alla propria clientela provocano consegne di assegni a clienti della Banca B e quindi creazione di depositi nella Banca B; mentre per converso le aperture di credito della Banca B alla propria clientela provocano consegne di assegni ai clienti della Banca A e quindi creazione di depositi presso questa Banca; si complichi il quadro aumentando le banche a 10, a 20 e più, con le rispettive filiali; e si rimarrà persuasi della verità delle affermazioni di competentissimi scrittori e pratici inglesi[2] essere i tre quarti, forse 18 sui 25 miliardi di depositi e conti correnti delle banche inglesi, non depositi veri proprii, iniziali, nella maniera in cui comunemente si intendono i depositi da noi; bensì depositi consequenziali posteriori in tempo e derivanti dalle aperture di credito fatte dalle banche alla propria clientela commerciale, industriale e speculatrice.
È un edificio meraviglioso, che dà le vertigini al pensare che esso riposa tutto sul fondamento fragilissimo della capacità di aprir credito che le banche posseggono, in seguito alla fiducia acquistata, per una lunga tradizione onorata, presso la clientela, fiducia che fa persuasa questa che le banche sarebbero in grado di far onore agli assegni tratti su di esse.
Ed il perno di questa fiducia sono i pochi biglietti e lo scarso oro che le banche hanno in cassa; e la non grande massa di biglietti che esse sanno di potersi procacciare dalla Banca d’Inghilterra.
Ora si comprende come sia possibile l’emissione di prestiti per 91 milioni di lire sterline in buoni del tesoro prima e per 350 milioni adesso. V’è una parte che fu sottoscritta, come sopra si disse, da coloro che possedevano depositi, come li intendiamo noi, presso le banche. Ma un’altra parte dovette essere certamente sottoscritta grazie al meccanismo delle aperture di credito. Giova ricordare che la guerra ha cagionato non solo una forte disoccupazione di imprenditori e di operai, ma altresì una disoccupazione, forse più intensa, della capacità di fornir credito delle banche. Chiuse le borse, a mano mano che si liquidano le vecchie operazioni, nuove non se ne fanno; il commercio internazionale è ridotto di volume; né l’attività frenetica di talune industrie belliche è compenso sufficiente al languore delle industrie di pace. È probabile dunque che, in conseguenza della guerra, la capacità di fornir credito delle banche non siasi potuta, dall’agosto in qua, sfruttare sino al limite estremo consigliato dalla prudenza.
Il qual limite da un lato si è ridotto, poiché la guerra consiglia ad essere cauti nelle operazioni di credito; ma si è d’altro canto allargato, perché:
- fu sospeso l’atto di Peel, e quindi le banche non hanno timore che venga a mancare troppo presto la provvista di biglietti a corso legale, che è il perno intorno a cui gira la loro possibilità di aprir crediti e di far fronte agli assegni tratti a vista su di esse. Se il fondo di cassa in biglietti è di 10, le banche possono aprir crediti sino a 100; se il fondo di cassa può crescere a 15, le aperture di credito possono del pari salire non forse a 150, ma probabilmente a 120 o 125;
- le banche sono incoraggiate ad aprir credito allo Stato dall’impegno assunto dalla Banca d’Inghilterra di essere sempre disposta sino al 31 marzo 1918 a scontare i titoli del prestito di guerra, come se fossero cambiali, alla pari del prezzo di emissione ed a un tasso dell’1 per cento inferiore al tasso ufficiale dello sconto.
Si combinino insieme questi elementi: la esistenza di una enorme capacità di fornir credito da parte delle banche; la impossibilità di utilizzare in pieno questa capacità nel momento attuale per il languore delle borse e dei traffici; la sicurezza di avere, aprendo credito allo Stato, delle attività facilmente mobilizzabili mercé il risconto alla Banca d’Inghilterra; e si avrà compreso la ragione delle forti sottoscrizioni delle Banche inglesi al prestito di guerra.
Per la parte per cui il prestito fu sottoscritto dalle banche, noi non abbiamo dunque più d’uopo di partire dalla premessa dei depositi di un risparmio preesistente. Possiamo partire dall’unica premessa della fiducia acquistata dalle banche. Queste allora, sottoscrivendo per 200 milioni di lire sterline tra buoni del tesoro già emessi e nuovo prestito di guerra, aprono un credito allo Stato, ossia danno diritto allo Stato di trarre assegni su di esse fino a concorrenza di 200 milioni di lire sterline. E lo Stato a poco a poco trae gli assegni, consegnandoli ai proprii fornitori e creditori, e questi se li fanno accreditare in conto corrente presso le banche medesime. Le banche, creditrici dello Stato per l’ammontare dei titoli sottoscritti, diventano debitrici della stessa somma verso i fornitori, creditori, ecc. I quali non incassano i loro crediti, ma a loro volta li girano alla propria clientela. A grado a grado tra i possessori dei diritti di trarre assegni sulle banche cresce il numero di coloro che possono risparmiare una parte dei loro diritti, ossia non servirsene più per pagare materie prime, operai, debiti, sibbene consacrarli all’acquisto di titoli del prestito di guerra. Il nuovo risparmio, allettato dal buon tasso di interesse, si rivolge ai titoli del prestito di guerra; ed arriverà un momento, dopo conchiusa la pace, nel quale le banche avranno venduto tutti i titoli direttamente sottoscritti alla propria clientela.
Ciò vorrà dire che esse, consegnando titoli a coloro che avevano un conto corrente presso di loro, potranno cancellare una quota corrispondente dei conti correnti passivi. L’operazione, iniziatasi con un’apertura di credito allo Stato, ossia con la concessione allo Stato, mercé consegna di titoli, del diritto di trarre assegni sulla banca, si sarà conchiusa quando la clientela, avendo formato sufficiente risparmio, avrà potuto rinunciare al proprio diritto di trarre assegni a vista, ricevendone in cambio il titolo. In quel momento sarà compiuto il classamento del titolo tra la clientela dei risparmiatori; ed il meccanismo delle scritturazioni bancarie delle aperture di credito e dei passaggi successivi del diritto di trarre assegni sulla banca dallo Stato sino al risparmiatore definitivo avrà dimostrato quanto grande sia la sua virtù nell’anticipare nel tempo le potenzialità future di risparmio del paese.
Tutto ciò, ripeto, ogni qualvolta vi ripenso, mi dà le vertigini. È semplice, finisce alla lunga di diventar chiaro; ma tien sempre del miracoloso. Io credo che forse mai nella storia del mondo si sia veduto uno spettacolo di forza e di fiducia quale ci è oggi fornito dai due grandi paesi rivali: Germania ed Inghilterra. Più meditato, organizzato in maniera più sistematica, più scendente dall’alto, dal comando del governo e dal consiglio degli scienziati il metodo tedesco delle successive emissioni di biglietti a corso forzoso e dei successivi riassorbimenti dei biglietti per mezzo dei prestiti di guerra; più spontaneo, più sciolto, agente per virtù propria ed attraverso al meccanismo quasi impalpabile di scritturazioni bancarie il metodo inglese. Nell’un caso, quello germanico, abbiamo una applicazione degli insegnamenti di quella curiosa scienza economica tedesca, la quale riesce così ostica al palato di chi ha studiato sui libri dei veri grandi maestri della scienza economica, degli Adamo Smith, dei Ricardo, dei Ferrara; e, che, se ben si guarda, e fatte salve le onorevoli eccezioni dei Roscher, dei Gossen, dei Thunen, dei Bohm Bawerk, dei Menger ed altri non molti[3], non è la scienza delle azioni che farebbero gli uomini se fossero lasciati alla propria iniziativa individuale; ma delle azioni che gli uomini compiono sotto la guida di una burocrazia infallibile e retta e dietro consiglio dei professori d’università. È la scienza dell’imperatore.
Mentre, dall’altro lato, abbiamo una creazione spontanea, sorta da sé, per la necessità in cui si trovarono i banchieri ed i mercanti della city di Londra di sfuggire alle strettoie del comando del legislatore. L’atto di Peel ordinò nel 1844 che neppure un biglietto potesse essere emesso senza essere coperto da altrettanto oro. E gli inglesi si ribellarono a quest’ordine rigido, mentre forse i tedeschi avrebbero obbedito, e crearono lo cheque, l’assegno bancario, in masse crescenti, fluidissime, mobilissime, sfuggenti a qualunque sanzione legislativa; ma utili alle opere di pace ed alle imprese di guerra. I teorizzatori vengono di poi e narrano in capolavori stupendi, come Lombard Street di Bagehot, come gli uomini si siano da sé sbrogliati degli impacci tesi dai professori e dai legislatori.
Sono due metodi i quali caratterizzano la diversa mentalità dei due popoli.
Ma sono testimoni amendue di un grande fatto: che nessuna guerra si può condurre finanziariamente senza il perdurare della fiducia del popolo nella propria forza ed il profondo sentimento che bisogna subordinare ogni altro interesse alla consecuzione dei fini supremi della salvezza nazionale.
Immaginiamo un po’ che mentre le banche inglesi devono utilizzare tutto il margine divenuto libero della propria capacità di fornire credito per concedere allo Stato ingenti diritti di trarre assegni su se stesse, alto sorgesse il clamore degli industriali, dei commercianti, degli speculatori costretti all’inerzia dalla guerra; e pretendessero di continuare ad ottenere credito nella stessa misura in cui l’ottenevano prima. Supponiamo, cosa non inverosimile in un popolo in cui non fosse così viva la coscienza della subordinazione degli interessi individuali agli interessi collettivi, che essi riuscissero, con influenze politiche, con dimostrazioni operaie, ad esercitare siffatta pressione sulle banche da indurle a continuar loro le antiche aperture di credito. Quali gli effetti? Da un lato, il danno economico della continuazione di una produzione non chiesta, di un lavoro fatto per accumular merci in magazzino e della preparazione di una grave crisi a breve scadenza. Dall’altro lato l’impossibilità nelle banche di utilizzare a favore dello Stato il proprio margine, non più libero, di capacità di trarre assegni sulla fiducia del pubblico. Quindi l’impossibilità di coprire il prestito di guerra.
Non dunque soltanto, come corre la leggenda su per le bocche del volgo, la ricchezza materiale, i tesori accumulati, frutto di ingordigie e di male arti capitalistiche, sono la fonte viva a cui attinge l’opera feconda di produzione in pace o l’impeto della difesa in guerra. La sorgente inesausta da cui zampillano i rivi d’oro ed anzi di biglietti e di assegni che mettono in moto le tremende macchine della guerra d’oggi è anche un’altra: è la fiducia che i popoli hanno in se stessi, la fiducia che hanno nell’onestà altrui nell’adempiere ai propri impegni, la persuasione profonda che i meccanismi creati dall’abilità e precipuamente dalla rettitudine di parecchie generazioni successive seguiteranno a funzionare correttamente e dolcemente anche durante la terribile crisi odierna. Una forza morale è il motore nascosto dalle grandi opere di pace ed è il motore nascosto della grande tragedia storica in mezzo a cui noi viviamo. La contemplazione quasi esclusiva, che siamo portati a fare in tempo di pace, dei problemi sociali, ci porta talvolta a conclusioni disperate sull’avidità e sull’egoismo gretto umano. La visione invece che nei giorni presenti ci si impone dal movimento complicatissimo di orologeria monetaria e bancaria da cui in sostanza è regolata la vita economica dei popoli, ci ammaestra quanto grande sia stato per fortuna il cammino compiuto dagli uomini sulla via dell’onestà, del fedele adempimento ai propri impegni, della fiducia reciproca e della rinuncia ai più gretti interessi particolari sull’altare della necessità collettiva. È doloroso che tanta energia di volontà e tanta forza di solidarietà sociale siano state spese per conseguire scopi che non a tutti appaiono nobili e grandi. Ma un insegnamento elevato possiamo ciononostante ricavare dallo studio dei metodi fragilissimi e quasi spirituali con cui si poté procedere alla adunata del nerbo pecuniario della guerra: che nel conseguimento dei nostri ideali nazionali più che la forza bruta dell’oro gioveranno la volontà determinata di ognuno di fare il proprio dovere, la decisione di avere fiducia in noi stessi, la solidarietà di tutti contro coloro che antepongono il proprio interesse all’interesse generale. In Italia, per la giovinezza della nostra formazione nazionale e per inevitabili errori commessi, abbiamo a nostra disposizione un meccanismo finanziario assai delicato e fragile; ma poiché da mezzi modesti si ottennero spesso nella storia risultati magnifici, ho ferma convinzione che, se saremo mossi dallo spirito di sacrificio, se saremo deliberati a non dare ascolto ai clamori di chi osa chiedere oggi aiuto allo Stato per sé, per i proprii affari e le proprie piccole cose, noi italiani riusciremo a trarre un rendimento apprezzabile dalla nostra ancor giovane macchina economica.
Se verrà l’ora del cimento supremo, e con questo augurio concludo, sappiano gli italiani anch’essi dar prova di quei sentimenti di fiducia in sé e negli altri e di tranquillo, sereno sacrificio che sono le sole, le vive, le fresche sorgenti del diritto alla vita ed alla espansione dei popoli consapevoli e forti.
[1] Né è probabile che i liberisti italiani rimangano persuasi di avere avuto torto nel combattere la fabbricazione in Italia della ghisa, o, meglio, la fabbricazione della ghisa a spese dei contribuenti, solo al leggere nella Rivista delle Società commerciali (31 ottobre 1914, p. 285) il commento che l’egregio ingegnere Lorenzo Allievi fa ai versetti 19/22 del capitolo VIII del libro I di Samuele. Sarebbe occorso invero che l’ing. Allievi dimostrasse che è più facile preparare in pace ammassi di 2 tonn. di minerale di ferro e di 1,5 tonn. di carbone – fatti venire dall’estero – che ammassi di 1 tonn. di ghisa, pure estera; ovvero dimostrasse che è più facile far venire in tempo di guerra per vie pacifiche o contrabbandare 3,5 tonn. della roba detta di sopra piuttostoché 1 tonn. sola di ghisa. Dimostrazione finora non data, e che si attende con curiosità dalla penna, per fermo maneggiata da un abile loico, dell’ing. Allievi. Quando egli l’avrà data per iscritto e quando altri l’avrà confermata coi fatti, gli economisti subito riconosceranno che la fabbricazione della ghisa è naturalissima all’Italia, l’unico criterio per dimostrare la naturalità di un’industria in un paese essendo il fabbricarla a proprio rischio e pericolo, senza chiedere il sussidio dei contribuenti.
[2] Cfr. Hartley Withers, The meaning of money. London, Smith, Elder, 1909, p. 63.
[3] Accenno, s’intende, nel testo soltanto agli scrittori di teorie economiche generali, dei quali la Germania, sovratutto la Germania contemporanea, è singolarmente povera; mentre può vantare specialisti insigni, e citerò per le cose monetarie solo lo Helfferich ed il Riesser, i quali si sono occupati, con molto successo, di qualche problema particolare. Noterò però essere mia impressione, forse erronea per manchevole conoscenza della sterminata letteratura economica, che il maggiore interesse è dato a questi ultimi scrittori di economia applicata dalla circostanza che essi sono, come lo Helfferich, invece di professori, direttori di banca o dirigono, come il Riesser, grandi organizzazioni economiche (Hansa Bund). Lo stuolo dei professori od aspiranti professori è serio, dotto; ma soporifero ed annegante, nella sistematicità e nel sussiego, ogni scintilla di pensiero creatore. Le monografie per concorso, di cui ognuno di noi si è reso colpevole sono la peste d’Italia; ma i Wagner e gli Schmoller ed i loro discepoli all’infinito sono forse qualcosa di peggio ed hanno impedito alla scienza economica tedesca contemporanea di prendere un posto paragonabile a quello dell’Inghilterra, degli Stati Uniti ed, oserò dire, dell’Olanda.