Sono nuove le vie del socialismo?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/03/1911
Sono nuove le vie del socialismo?
«Corriere della Sera», 29 marzo 1911
Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 121-128
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 215-220.
Dicono che l’on. Giolitti sia uomo di poche letture. Del che si deve dargli molta lode perché i grandi pensatori ed i grandi statisti mai sempre si curarono poco di inutili ed ingombranti letture, remora al pensiero ed impedimento all’azione. Talvolta però lo scarso leggere induce lo statista, assai più del pensatore, a credere d’aver fatto cosa che sarà giudicata mirabile dagli storici dell’avvenire come quella che precorreva i tempi nuovi ed incanalava su nuove vie la politica ed il movimento sociale del tempo.
Oggi si proclama grande «fatto storico» la chiamata di un socialista in Quirinale a dar parere sulla situazione politica; e molti sono che, pur dissentendo profondamente nel giudizio sul fatto, pensano che davvero un «nuovo e moderno» pensiero, un «nuovo» indirizzo sarebbe prevalso nel governo d’Italia, se il «selvaggio» Bissolati avesse consentito o qualche più domestico suo compagno consentisse ancora a coprire il capo colla feluca di ministro.
Si consenta ad un dottrinario di confessare candidamente il suo smarrimento mentale a sentir dire che quello dell’on. Giolitti fu un atto od un desiderio destinato a rimanere nella storia. Poiché fatto storico pare che sia soltanto quello dello statista grande, che figge lo sguardo nel futuro e chiama a sé i rappresentanti delle idee nuove destinate a rivoluzionare il mondo, a gittare un germe di rinnovamento in una società in dissoluzione. Invece l’on. Giolitti ha guardato indietro, verso il passato, ed ha chiamato o desiderato di poter chiamare a sé il rappresentante di idee, che ignoro se siano mai esistite, ma che adesso sono ben morte. La borghesia italiana è così assente, così pavida, così poco consapevole delle sue forze che non si è ancora accorta che, almeno nel mondo delle idee, il suo nemico, il socialismo, è scomparso senza lasciare traccia di sé. Non dico che l’annientamento di una dottrina sia subito destinato ad avere nella vita vissuta una azione profonda. Ognuno di noi vive, ed è bene che viva, di tradizioni, di ricordi, di memorie gloriose; e nessuno perciò può contestare ai socialisti il diritto di vivere dei ricordi di un vangelo oramai scolorito e freddo. Non viviamo forse noi tutti dei dogmi che la rivoluzione francese ci ha tramandato: la sovranità popolare, il suffragio universale, i diritti innati ed altrettali sostituti di quelli che erano stati i dogmi delle monarchie assolute? Qui si vuol affermare soltanto che guardando al socialismo si guarda al passato, alla reazione e che le vie dell’avvenire portano gli uomini ad altra meta.
La morte del socialismo nel mondo delle idee è ben certa. Il Capitale di Carlo Marx è un vangelo su cui più nessuno giura, una fortezza le cui mura furono ad una ad una smantellate.
La teoria del valore, la dottrina del sopralavoro sono concezioni erronee, che non hanno trovato accoglienza in nessun libro elementare della scienza economica, concezioni che nessun economista si cura oggimai nonché di confutare, nemmeno di ricordare. Le previsioni catastrofiche di Marx ed Engels, secondo cui, al principio del secolo ventesimo, la società capitalistica, per il crescere mostruoso delle più grosse intraprese e la proletarizzazione progressiva di tutta l’umanità, si sarebbe alfine suicidata, per lasciar sorgere dalle sue ceneri radiosa la nuova società collettivistica, queste previsioni comiche fanno ridere persino i socialisti. Le piccole intraprese si sono moltiplicate accanto alle grandi, la piccola proprietà terriera resiste, anzi conquista nuovo terreno, la divisione della società in due sole classi, irreconciliabili nemiche, la capitalista e la proletaria, appare un sogno di mente inferma dinanzi al miracoloso affittirsi e complicarsi odierno dei rapporti e delle classi sociali, di cui l’una nell’altra digrada per lente variazioni ed i cui membri assumono figure miste di proletari che evolvono verso il capitalismo e di capitalisti lavoratori.
Dove son le balde schiere dei giovani che, quando la mia generazione un vent’anni fa usciva dal liceo, si immergevano frementi nella lettura delle pagine del Capitale e vedevano un nuovo mondo nascere dinanzi ai loro occhi di veggenti? Disperse, almeno tra coloro che studiano. Verso altri soli si volgono i giovani; e coloro che, pur rinnegando intiera la sostanza del verbo collettivistico, pure schernendo come tirannici e medioevali e reazionari gli ideali socialisti di irreggimentazione governativa, di intraprese collettive dello Stato, hanno voluto serbar fede all’ideale e dedicar la loro vita alle classi operaie, hanno inventato il sindacalismo. E che altro è il sindacalismo se non la vecchia dottrina economica liberale, rimessa a nuovo con altre parole più imprecise e violente ed adattata ai bisogni di quelli delle classi operaie che vogliono elevarsi per virtù propria e nulla aspettano anzi molto paventano dallo Stato socialista? Dove sono i socialisti della cattedra, i quali, quando il socialismo sembrava forte, avevano invaso le università? Persino nella Germania – la patria della democrazia sociale e dei riformisti sociali di governo – una reazione si disegna contro i Wagner e gli Schmoller che per tanti anni avevano dominato nella scienza e l’avevano ridotta allo stato miserando in che lassù parve dovesse per sempre giacere. Non certo nella scienza economica si trovano oggi pensatori che possono essere considerati segnacolo in vessillo al partito socialista; od almeno non sicuramente tra i pensatori che hanno seguito nelle giovani generazioni ed affascinano le menti desiderose di apprendere. Contro di essi i socialisti son ridotti alla taccia di «scribi prezzolati della borghesia»; volgare argomento che dimostra l’ira di non averli complici nella difesa dei nuovissimi privilegi a pro di ristrette combriccole proletarie.
Né pare che i fasti della azione pratica socialista – sia diretta, sia a traverso alle schiere dei politici – nella vita pratica siano siffatti da farla considerare come ben viva di vita nuova e promettente. Quali sono invero i frutti fecondi di che può vantarsi l’avvicinarsi o l’avvento del socialismo al potere? Non certo l’elevarsi dei salari e del tenor di vita delle masse lavoratrici. Bisogna pure gridarlo ben alto: il meraviglioso progresso che nelle condizioni di vita delle classi operaie si vide nel secolo XIX fu il frutto in primo luogo dei progressi dell’industria, dello spirito d’intrapresa, della libertà ed iniziative individuali, che i socialisti tentano ora distruggere colla loro azione specifica. Sono i principii liberali, sono le maniere di agire e di lavorare della borghesia le cagioni prime e vere del risveglio economico e dell’elevarsi di tutte le classi sociali e, primissima tra queste, della classe operaia. Timida e sconcertata, la borghesia imprenditrice non sa nemmeno riconoscere negli operai che costrussero le famose trade-unions inglesi, le leghe operaie i suoi fratelli di sangue, immagina che sia frutto del socialismo quella vasta e feconda e benefica tendenza all’associazione ed alla difesa di classe che è invece il risultato dei principii veramente grandi della rivoluzione dell’89: la libertà di lavoro e di associazione.
I socialisti sono venuti al mondo con un ben altro programma specifico; con il programma, ben netto e ben reazionario, di distruggere le conquiste di secoli di sforzi compiuti contro la tirannide dei governi assoluti, delle corporazioni medioevali, dei privilegi e delle immunità di classe. Sono i socialisti che vogliono ristabilire nelle Romagne i monopolistici medioevali diritti all’uso esclusivo delle macchine; sono i socialisti che nel porto di Genova instaurano le corporazioni d’arte e mestieri, coi turni di lavoro; sono i socialisti che, dovunque sono andati od hanno sperato di andare al potere, hanno risuscitato gli editti di Diocleziano e lo statuto inglese dei lavoratori, facendo fissare dai giudici i salari; sono i socialisti che invocano, dove possono, che agli uomini sia proibito di lavorare dove ad una maggioranza qualsiasi piaccia sospendere il lavoro (Millerand); sono i governi socialisti dell’Australia che ributtano dal loro territorio vasto e deserto i giapponesi, i cinesi, gli italiani colpevoli soltanto di voler mettere in pericolo l’egoistico monopolio delle privilegiate corporazioni di operai indigeni. Sono i socialisti che hanno abbandonato, ogni qualvolta credettero di fare il tornaconto di ristretti gruppi di loro elettori operai, a taluni pochi rappresentanti delle classi imprenditrici la difesa degli interessi generali dei consumatori oppressi da dazi troppo alti.
Quali sono, infine, i frutti che in Italia, in Francia, nella stessa Inghilterra si ritrassero dalle statizzazioni e dalle municipalizzazioni che sono l’essenza medesima dell’azione socialistica? Frutti di amaro tosco; rovine finanziarie e degenerazione crescente della vita pubblica, ridotta al quadro dei ricatti che i ferrovieri di Stato, i tramvieri municipali e gli altri impiegati delle imprese pubbliche muovono ai loro rappresentanti, colla minaccia di dare ad altri il voto politico. In dieci anni di governo il blocco radico socialista francese non seppe fare altro che regalare inutilmente 400 milioni alla propria clientela, più pericolosa delle vecchie clientele, perché più affamata, compiere il riscatto della rete ferroviaria dell’ovest, accumulando un disavanzo crescente alle finanze dello Stato, ed apprestare un vasto sistema di elemosine e di pensioni di Stato.
Noi saremo costretti ad assistere a nuove imprese di coloro che, chiamando sé gli uomini dell’avvenire, vivono racimolando brandelli di idee e di propositi tra i fantasmi sopravvissuti delle aberrazioni scientifiche di mezzo secolo addietro. In Francia, dopo avere volatilizzato in parcelle di avvocati e di periti bloccardi il miliardo delle congregazioni, già hanno cominciato a sperperare malamente i 600 milioni all’anno di reddito gratuito delle ferrovie che la sapienza della borghesia di Luigi Filippo e di Napoleone III aveva garantito all’erario verso il 1850 allo scadere delle vecchie convenzioni. In Italia si ode parlare del monopolio delle assicurazioni, della navigazione di Stato e di altri delitti contro il paese. Purtroppo verranno, perché un paese il quale non ha saputo trarre i doverosi ammaestramenti dal fallimento dell’esercizio di Stato delle ferrovie, merita che la sua bandiera sia ridotta a sventolare su navi viaggianti a pro della federazione dei marinai di Stato ed a spese dei contribuenti e merita che l’opera faticosa della previdenza a pro delle generazioni venture, appena ora iniziata in Italia, sia mandata in rovina dalla nuovissima falange di impiegati pubblici: gli assicuratori di Stato.
Eppure no: nonostante tutto, nonostante la reazione socialista e la dedizione borghese, è doveroso aver fiducia nell’avvenire d’Italia. Se in passato sorsero e giganteggiarono gli uomini «selvaggi» che fecero grandi le loro patrie pericolanti, perché non dovranno sorgere nuovamente nell’avvenire?
I «selvaggi» che hanno davvero la visione precisa dell’uomo di Stato, non guardano all’abito che devono vestire nelle cerimonie ufficiali, quando sanno che la loro parola è destinata a vincere ogni ostacolo ed a trascinare le moltitudini. Era un «selvaggio» vero e grande Ottone di Bismarck quando trascinava violentemente re e parlamento alle guerre redentrici per la fondazione dell’impero. Era un «selvaggio» Camillo di Cavour quando, dopo avere avidamente appreso l’arte politica nell’Inghilterra, a Parigi ed a Ginevra, aspettava per lunghi anni, tacito, nella solitudine di Leri il giorno in cui la sua azione avrebbe posto sul capo del suo re la corona d’Italia. Bisogna augurare al paese che la borghesia imprenditrice, che le classi lavoratrici del nord industriale e le nuove classi sociali sorte nel mezzogiorno dalla rivoluzione migratoria sappiano sprigionare dai loro fianchi fecondi i nuovi capi da mettere al posto dell’attuale classe politica. Lo potrebbero purché avessero coscienza di sé.